Salutando Paolo Fadda, galantuomo e amico, di Gianfranco Murtas

Caro Salvatore,

abbiamo perduto, come comunità cagliaritana e sarda, come collega di studi, scrittura ed offerta civica, anche come compagno di indimenticate battaglie di rimando coscienziale (ed ecclesiale), il nostro Paolo Fadda. Per una volta, associandone il nome e la memoria al nome e alla memoria di un altro amico sfuggito anche lui, da pochi giorni soltanto, alla nostra consuetudine come Gianni Filippini, tengo in me i sentimenti e giro alla tua disponibilità, magari alleggeriti di gran parte del centinaio di fotografie che impaginai allora a corredo, quei quattro corposi articoli che ebbi modo di dedicargli: già nel sito di Fondazione Sardinia nel 2016, nella piattaforma di Giornalia.com nell’ultimo triennio 2020-2021-2022, sempre prendendo lo spunto dal suo compleanno… in verticale crescendo.

Non tocco nulla di quegli scritti-testimonianza, sforzo biografico, richiamo bibliografico, e soprattutto sentimento. Erano, quelli, articoli canalizzati, all’inizio di ogni primavera, in un puntuale ideale incontro per il rinnovo degli auguri, a cui ogni volta faceva seguito qualche riga di ringraziamento del commendatore. E anzi, recuperandole quelle righe, adesso, dalla memoria del computer, mi pare giusto donarle alla pubblica conoscenza: tutte esprimevano una rara signorilità, la signorilità di Paolo Fadda.

Abbracci, gianfranco murtas

 

(29 marzo 2016) Caro Gianfranco, anch’io da un po’ di tempo conto gli anni all’indietro, ma quel traguardo che lei indica gioiosamente (a zent’anni) francamente mi spaventa. Dico questo prima di ringraziare, con particolare affetto, per gli auguri che mi rinfrancano e mi rafforzano in quell’amicizia che ho, per lei, particolarmente cara. Non so quanto ancora Domineddio mi lascerà in questo mondo, ma finché la testa funzionerà bene (le gambe sono un po’ malferme) continuerò a “lavorare”, o – ancor meglio – a seminare conoscenze e ricordi, sperando che possano essere utili alle nuove generazioni. Un fortissimo grazie quindi e… a presto PAOLO FADDA

 

(31 marzo 2016) CARO GFM, ho avuto modo ieri di leggere sul sito della Fondazione Sardinia il suo scritto per festeggiare il mio 86° compleanno. Non tanto per quel che ha scritto con tanta generosità di apprezzamenti, ma per la profonda affettuosa amicizia che ne ha pervaso tutta la scrittura, le debbo un ringraziamento particolare, a cui le parole non danno l’intera pienezza. Neppure io sarei stato di me stesso un biografo così attento e preciso, per cui ho pensato di – violando un po’ della mia discrezione – di far avere ai nipoti il suo scritto, perché ricordino il loro nonno per quel che ha fatto, e disfatto, nella vita. Che è stato certamente tanto, ma non sempre con esiti positivi (ricorderà di certo le cattiverie che su di me riversò un uomo col piviale). Ancora grazie, quindi, e se mi permette un abbraccio fraterno fortissimo PAOLO FADDA

(29 marzo 2020, lockdown) MILLE MILLE GRAZIE PER GLI AUGURI, GRADITISSIMI, CON L’IMPEGNO DI DAR SEGUITO A BREVE CON UN ABBRACCIO RICONOSCENTE NON PIU’ VIRTUALE COME QUESTO. CON TANTE AFFETTUOSITA’ DA PAOLO90 FADDA

 

(28 marzo 2021) Buona domenica innanzitutto! grazie, mille grazie, carissimo gfm, del dono di compleanno e soprattutto di una rinnovata preziosissima testimonianza d’amicizia. Affettuosamente Paolo F.

 

(30 marzo 2022) Carissimo, con un forte abbraccio desidero rafforzare il mio affettuosissimo grazie per gli auguri che ho molto molto gradito perché rafforzano ancor più la nostra amicizia. Debbo però aggiungervi un altro affettuoso ringraziamento per avermi riaperto, con il suo articolo, un dimenticato cassetto della memoria: ed il mio grazie si moltiplica quindi per mille! (i vecchi d’altra parte vivono del passato che è il tempo a loro consentito da Domineddio). Affettuosamente Paolo Fadda

P.S. grazie al buon Dio la mia salute è (abbastanza) buona, anche se non mi consente altro che una clausura casalinga

 

Paolo Fadda, l’86° compleanno di un patriarca civico

Lunga e serena vita a Paolo Fadda, dotto galantuomo giunto oggi a contare le 86 primavere, circondato dagli affetti di casa e dalle manifestazioni d’amicizia che sono il rimbalzo di quanto egli ha seminato lungo le molte stagioni di vita che Domineddio gli ha regalato. Non sono mancati a lui, come a molti di noi, i dolori, taluni acutissimi, che ancora lasciano tracce non da poco. La testimonianza che i più gli tributano vorrebbe però assorbire e cancellare ogni segno di sgradevolezza che, all’ineluttabile, può aver aggiunto, talvolta, la piccineria degli uomini. Categoria, quest’ultima, in cui ebbe a rifugiarsi, nell’estate di sei anni fa – al tempo della vicenda della presidenza parrocchiale di Sant’Eulalia – perfino un vescovo che, scalciando e poco amando, ci parve incapace di superare la propria infelicità.

Incontrai il commendator Paolo Fadda trentacinque anni fa. Nel 1981 egli era ancora presidente della SAIA, e come tale aveva promosso l’esordio come scrittore di Antonio Romagnino, il professore da me amatissimo e sempre frequentato. Uscì allora, pubblicato dalla Electa, il volume Cagliari, Marina. Memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere, con le foto di Gianni Berengo Gardin ed un testo d’accompagno di Magda Arduino. E se poteva essere vero, ed era vero, che la SAIA puntava allora, anche con gli studi dei propri uffici tecnici, ad indirizzare i suoi investimenti di capitale al risanamento e recupero dei centri storici di Cagliari – candidato primo in agenda Stampace alto – non azzannando però il cuore urbano con una vieta speculazione, non meno vero era che quella committenza privata, con lungimiranza, offriva alla città capitale della Sardegna nuove fonti di conoscenza della sua storia. E un narratore sopraffino che aveva allora i cassetti, fisici e morali, colmi di memorie civiche, letterarie e religiose, di vita, che avrebbe da allora in poi riversato sulla carta stampata e donato alla sua e mia e nostra città. Un libro fuori circolazione, quello di Romagnino, che chiesi direttamente a Fadda, prontissimo a soddisfare l’istanza. Ricordo: allora in quell’ufficio (a palazzo Tirso) che sarebbe presto diventato del mio capo Bachisio Zizi, e a latere anche mio per vent’anni e più.

La conoscenza reciproca andava allora soltanto ai rispettivi scritti, poi si allargò lungo i filoni di studio della massoneria bacareddiana – si passi questa espressione – quando egli, il commendatore di fede cattolica, che aveva nelle sue ascendenze fior di liberi muratori come Giorgio Asproni jr. e Dionigi Scano, con spirito liberale e comprensiva signorilità sempre mi consigliò e anche indirizzò.

Per trent’anni circa fu così. E alle ragioni di studio si aggiunsero poi quelle della colleganza attorno alla testata periodica della locale Camera di Commercio, quella Sardegna Economica che proprio la direzione di Paolo Fadda seppe rendere, per un decennio circa e fino all’assalto censore della trascorsa presidenza camerale, forse la più brillante delle riviste di analisi e narrazione del presente e del passato della economia e della società dell’Isola.

Ancora, dal 2010, le nostre strade si incrociarono nella difesa della causa di un parrocato d’eccellenza come fu quello quasi trentennale di don Mario Cugusi in Sant’Eulalia. L’incapacità di ascolto di un vescovo in udienza soltanto di se stesso e l’eco mostruoso che taluno fece dei suoi strilli ferirono ben più che la comunità strettamente ecclesiale della Marina, la città intera ne fu colpita. Ferirono anche, ovviamente, la missione personale del parroco rimosso per colpa di parresia, nel mezzo dello sgoverno perpetrato da quel vescovo con la deportazione a Roma di tutti i chierici in studio al Regionale, con una gestione delle tariffe per gli atti di ministero (da manuale la vicenda testimoniata dall’altare della parrocchiale di Serri), con il disconoscimento dei deliberati del Concilio Plenario Sardo ed altri trenta capitoli.

Al commendatore, presidente del Consiglio pastorale, che con pazienza e rispetto invocava confronto di argomenti e di giudizio nel solo interesse della comunità, giunsero insulti stupidi sulla bocca di chiunque, indefinibili quando provenienti da un cosiddetto successore degli apostoli. Da quel macellato rispetto delle persone così come era servito – pietanza avvelenata – vennero reazioni. Una di queste fu la costituzione di un gruppo di sensibilità ecclesiale, denominato Cresia, con le sue assemblee ed il suo sito internet. Esperienza di cinque anni che anch’io, pur estraneo alla associazione, ho seguito con simpatia e prossimità, all’inizio anche collaborando (con un commento in venti puntate dei deliberati conciliari , una rassegna della stampa diocesana sarda e altri articoli, e già in esordio, fra le censure banali e poverette di qualcuno più papalino del papa, come il vescovo d’Oristano Ignazio Sanna, la relazione al convegno sul decennale della conclusione del Concilio Plenario Sardo: paradossalmente, decennale al quale gli stessi vescovi si erano impegnati, dissuasi infine dai fulmini minacciosi della curia cagliaritana. Se ne infischiarono – dei fulmini – uomini come l’arcivescovo Tiddia, come don Efisio Spettu, come padre Raimondo Turtas, come don Antonio Pinna, e molti altri. E se toccò a me di proporre la relazione introduttiva, fu proprio Paolo Fadda a condurre parte della serata intervistando a lungo l’arcivescovo Tiddia, già segretario generale del Concilio).

All’inizio di quest’anno, aderendo all’invito pressante ed amichevole del direttore Vittorio Scano, ho ricordato sull’Almanacco di Cagliari alcuni dei tratti biografici di Paolo Fadda, inquadrando in essi le fatiche poderose, e ponderose, di scrittura di questi ultimi trent’anni. Ma certo è ancora poco: segnalo l’argomento (“Paolo Fadda fra storia economica e storica civica”) a qualche amico professore per l’assegnazione di una prossima tesi di laurea.

Nell’economia la vita sociale e delle idee

Solo in apparenza quelle di Paolo Fadda, prolifico saggista e già esponente politico e manager pubblico, sono state due vite diverse, come i tempi di un film: prima l’operatore economico con crescenti responsabilità nelle istituzioni rappresentative e in quelle finanziarie e gestionali, poi lo studioso e lo scrittore sospeso fra gli amori o interessi prevalenti: la sua città e l’economia regionale vissuta come luogo espressivo di talenti e di diffusione della ricchezza. In realtà, anche nella sua “prima vita”, le attività di ricercatore storico ed interprete “borghese” dei fenomeni economico-sociali sono state un impegno non marginale, se è vero che la firma ha cominciato ad apparire sui giornali già dai primissimi anni ’50. Segno di una nativa vocazione alla scrittura che spiega molto della personalità di questo grande vecchio di una Cagliari che, dopo Francesco Alziator ed Antonio Ballero Pes, Paolo De Magistris ed Antonio Romagnino, soltanto in lui può oggi contare in quanto a biografo civico.

Sono una ventina i corposi saggi che dall’inizio degli anni ’90 egli ha pubblicato con svariate case editrici, segnalandosi come storico dell’economia sarda con una originalità di approccio alla materia, perché attento sempre a valorizzare gli aspetti biografici dei protagonisti delle “avventure” produttive, fra agricoltura e miniere, commerci e finanza, che hanno segnato gli ultimi secoli della vita isolana. E, con i profili biografici, hanno speciale rilievo, negli scritti storico-economici di Paolo Fadda, le relazioni della Sardegna con il continente italiano e il più vasto mondo, individuando egli nelle famiglie della borghesia urbana (cagliaritana e no) del secondo Ottocento e del primo Novecento i maggiori artefici di quegli avanzamenti.

Ma se una ventina sono le monografie, tutte accompagnate da un corredo di recensioni sempre di apprezzamento critico, di certo – come accennato – qualche migliaio sono gli articoli di stampa a firma di Paolo Fadda, disseminati in una gran quantità di testate giornalistiche, così da poterne noi concludere che l’attività pubblicistica costituisce come un filo rosso che collega stagioni di vita personale e professionale in una successione capace di coprire più d’un sessantennio. Se infatti s’è iscritto all’ordine dei giornalisti dal 1963 (nella stessa “infornata” che lo associa a uomini come Michelangelo Pira e Mariano Delogu), è un Fadda appena ventenne quello che inizia a frequentare la redazione de L’Unione SardaL’Informatore del lunedì, a Terrapieno. Dapprincipio egli offre al giornale le sue cronache sportive che, allorché si trasferirà provvisoriamente a Sassari, diventeranno più impegnativi pezzi di cronaca. Una esperienza che si combinerà a quella maturata – come notista politico e ancora articolista sportivo – nelle stanzette de La Gazzetta Sarda, il settimanale che a Sassari copre, negli anni ’50, il vuoto lasciato il lunedì da La Nuova Sardegna.

L’ideale traversata di sei decenni includerebbe invero, a dire soltanto dei quotidiani, anche La Nuova Sardegna, alla cui terza pagina egli collabora con una cinquantina di pezzi negli anni a cavallo fra ’70 e ’80, giusto nel passaggio proprietario dalla SIR a Carlo Caracciolo. Nel novero altresì il grausiano freepress Giornale di Sardegna, di cui è uno degli opinionisti fissi per quasi l’intero corso di uscite, all’inizio del nuovo secolo. Peraltro rimane sempre L’Unione Sarda la testata di maggior riferimento affettivo – non a caso per il suo recente 120° compleanno egli ha scritto un capitolo (Fine Ottocento e svolta sociale a Cagliari) nel collettaneo libro celebrativo –, accompagnando agli articoli estemporanei alcune più continuative analisi del presente sociale e del futuro probabile.

Felice espressione di questa creatività di analista storico dell’economia isolana e metropolitana sono le collaborazioni a riviste o annali di prestigio, a partire (dal 1974) dall’ Almanacco di CagliariSardegna Fieristica ed a proseguire con l’iglesiente Argentaria ed i Quaderni bolotanesi, per arrivare a Sardegna economica (in redazione dal 1997, responsabile dal 2007).

Il periodico della Camera di Commercio – tanto più negli anni della diarchia Romano Mambrini -Paolo Solinas – diviene progressivamente lo strumento nel quale lo studioso, saggista e giornalista insieme, mette a fuoco il suo talento di autentico storico dell’economia, anticipando molte pagine che, integrate, poi riunirà in volume. In queste emerge come egli abbia utilmente valorizzato non soltanto le conoscenze derivanti dalle copiose e sistematiche letture che non s’è mai risparmiato, ma anche quelle maturate nel vivo delle relazioni professionali cui la politica o la funzione di manager ora pubblico ora privato lo hanno indirizzato. Perché pare indubbio che elemento qualificativo della personalità di Paolo Fadda sia la sua abilità a cogliere, nelle diverse realtà della vita, dunque pure dell’economia e dell’impresa, i nessi evolutivi di sviluppo storico, radicamento ed espansione sui territori, delle idee, anzi delle intuizioni fattesi comunità, intrapresa od azienda. Perfetta rappresentazione ed esemplificazione di quanto ora asserito sono i recentissimi saggi biografici su Francesco Zedda Piras (Il Cavaliere del Nasco, 2012) e Franceschino Guiso Gallisai (Il barone delle industrie nuoresi, 2014) nonché, sotto altri aspetti, sull’onorevole “minatore” cagliaritano Alberto Castoldi  (La Montevecchio di Alberto Castoldi: la vita, i successi, i luoghi di un grande imprenditore, 2014), genero e continuatore di quel Giovanni Antonio Sanna patron di immensi asset minerari, bancari, editoriali e fondiari. Personalità eminente della politica e dell’economia nazionale del XIX secolo, anch’essa passata per la lente biografica di Fadda, che anzi col suo nome (L’uomo di Montevecchio, 2010) ha inaugurato la collana I grandi dell’imprenditoria in Sardegna del catalogo di Carlo Delfino.

Certamente a dire della produzione storiografica di Paolo Fadda – che ha l’evidente merito di aver coperto un vuoto di cui incredibilmente l’università non s’è data cura – non può prescindersi dal considerarne il vissuto familiare, nel quale si combinano le solide radici dei filoni paterno e materno, includendo gli Asproni e i Salazar, i Caboni ed i Zedda-Piras – che hanno avuto ruolo non secondario nella vita sociale ed economica dell’Isola fra Ottocento e Novecento.

Stanislao Scano – direttore generale delle Ferrovie Complementari Sarde (al tempo nel controllo della Comit e sotto la presidenza di Giuseppe Menada) e successivamente progettista principe delle bonifiche di Arborea – era suo nonno materno, e già quel solo nome richiama subito gli altri della famiglia a cominciare dall’avv. Antonio, letterato e parlamentare oltre che legale, e dall’ing. Dionigi – multianime professionista e storico dell’arte –, fino a giungere all’ing. Flavio, cui si devono (per citare soltanto due opere nel capoluogo) Palazzo Tirso – sede dell’Unione Industriali e poi della SES, della SAIA, del Banco di Napoli e dell’Istituto Sanpaolo –  e del Comando Legione Carabinieri.

Sul fronte dei Fadda, sarebbe da dire che l’ing. Luigi, padre del Nostro e nipote a sua volta di quel Francesco Zedda-Piras capostipite della omonima società enologica – dopo aver prestato servizio alle Complementari aveva optato negli anni ’30 per una attività in proprio nel settore edilizio facendo società con Valerio Tonini. Ed è proprio al duo Fadda-Tonini che si deve la costruzione di gran parte della città di Carbonia e, dal 1941, quella di importanti edifici nel capoluogo, come il noto palazzo “Vinceremo” (che sarà di uso dell’Aeronautica militare), nonché, dopo la seconda guerra mondiale, l’opera di ricostruzione in specie nel quartiere di San Benedetto.

Appena ventenne il giovane Fadda entra nella nuova società commerciale voluta dal padre associatosi all’ing. Tommaso Fiorelli per affiancare con le forniture elettriche la Fadda-Tonini. Essa assume la concessionaria della Innocenti che, lanciando il motoscooter “Lambretta”, si afferma nel mercato isolano impiantando nel 1954 una filiale anche a Sassari. Facendosi pendolare fra i due capoluoghi, Fadda entra in crescenti rapporti di consuetudine ed amicizia con numerose emergenti personalità della politica e del giornalismo del capo di sopra, collegandosi al gruppo dei “giovani turchi” della DC – da Francesco Cossiga a Nino Giagu, da Paolo Dettori a Pietro Soddu – e cogliendo le occasioni offertegli di passare qualche ora ogni giorno in una redazione: come detto, sarà dapprima, con coetanei come Manlio Brigaglia e Franco Luigi Satta, La Gazzetta Sarda, edita da Sebastiano Pani, titolare di una società di trasporti granturismo, quindi L’Unione Sarda. Con la nuova direzione Crivelli, Il giornale cagliaritano punta, infatti, a regionalizzarsi aprendo uffici di corrispondenza e redazioni in tutte le principali città dell’Isola, Sassari compresa, dove sfida il monopolio de La Nuova Sardegna.

La frequentazione degli ambienti cattolico-democristiani del nord Sardegna ne stimola un impegno personale nella politica al rientro definitivo nella sua città, che lo ha visto, bambino ed adolescente, allievo salesiano, scout, militante del laicato. Assolutamente formativi sono stati per lui gli insegnamenti di don Giulio Reali, parroco fondatore di San Paolo (nell’innesto dei quartieri di San Benedetto e Fonsarda) e di dottor Mario Floris, mitico parroco di Sant’Eulalia nei calamitosi anni della guerra e dell’immediato secondo dopoguerra.

Nel 1964 tenta l’avventura amministrativa ed è eletto al Consiglio comunale, nel quale presiede il gruppo dc per l’intera consigliatura favorendo l’esordio di Paolo De Magistris come sindaco della città, in avvicendamento nel 1967 all’anziano prof.  Brotzu, contro lo strapotere (all’apparenza perfino ingordo) dei dorotei di Raffaele Garzia, presidente del CIS e rappresentante dell’ala più conservatrice e clericale del partito. (Di quest’ultimo sarà, nel 2008, il biografo con C’era una volta in Sardegna la DC).

Nel 1968 viene indicato per il Consiglio d’amministrazione del Banco di Sardegna, ove rimarrà giusto vent’anni ed in rappresentanza del quale avrà un posto anche nel team di comando della SFIRS; per conto dello stesso Banco entra altresì nel CdA dell’Università di Cagliari, sotto i rettorati Aymerich e Casula.

L’anno successivo assume, per un quinquennio, la presidenza dell’Ente Minerario Sardo: è il tempo della fuga dei grandi investitori esteri dal comparto minerario isolano e dei tentativi di riconversione del settore.

Pubblicistica ed amministrazione

Alla fine degli anni ‘70 risalgono i primi incarichi nel gruppo finanziario Bastogi-SAIA, passato poi all’immobiliarista Giuseppe Cabassi, in rappresentanza del quale ha presieduto la Brioschi Finanziaria e l’Alberghiera Costem, entrambe quotate a Piazza Affari. Molte energie sono spese, però senza successo, per un recupero complessivo del quartiere Stampace alto. Proprio in questo quadro, certamente per input dello stesso Fadda, le progettazioni edilizie del gruppo sono accompagnate da iniziative, perfino raffinate, di carattere culturale. Fra esse è da ricordare la promozione editoriale dei due volumi testo-fotografici di Antonio Romagnino dedicati ai quartieri della Marina e di Castello (editi dalla Electa nel 1981 e 1982) che segneranno l’esordio della attività di scrittore dell’indimenticato professore dettorino.

Esauritasi la fase più impegnativa degli incarichi pubblici, tanto più dalla fine degli anni fra ’70 e per due decenni, Fadda riprende le collaborazioni con i giornali: a parte quella con La Nuova Sardegna, che avrà come doppio focus tematico il nesso cultura-economia nelle aree metropolitane  e le vicende fra storia passata e futuro delle industrie mineraria e ferroviaria, entrano nel novero quelle cui si è accennato con alcune testate periodiche regionali (fra esse, a cavallo di decennio fra ’70 e ’80, Agricoltura informazioni, mensile che sembra anticipare, nel taglio redazionale aperto agli approfondimenti ma senza pesantezze di alcun genere e nella vivacità grafica, quanto verrà con la camerale Sardegna Economica).

In tale rilancio del suo impegno pubblicistico acquista progressivamente uno spazio autonomo quello saggistico: dandosi infatti ad avviare una sua attività di consulenza direzionale, che “a rete” si allarga ai vari settori imprenditoriali incrociati negli anni precedenti, egli soddisfa il mai sopito desiderio di portare alla conoscenza dei suoi conterranei i profili degli uomini “del fare” – come anche li avrebbe chiamati Bachisio Zizi –, i virtuosi della storia produttiva isolana: evitando, forse soltanto per timidezza, di proporre i suoi lavori ad un editore già sul campo, si cimenta egli stesso come editore dando vita ad una personalissima etichetta: la Sanderson Craig (evocante il mito di un console inglese che fece della Sardegna la sua patria elettiva lungo quasi l’intero secolo XIX). Ecco quindi andare in stampa, fra 1990 e 1999, tre volumi: Alla ricerca di capitali coraggiosi (con sottotitolo Vicende e personaggi delle intraprese industriali in Sardegna, uscito nel 1990), Sa cittadi avolotara (sottotitolo Borghesi, Majolus, Poeti e Palazzinari nella Cagliari della fine del secolo scorso, uscito nel 1991) e Avanguardisti nella modernità (sottotitolo Alle origini della trasformazione industriale della società agricola sarda, del 1999). Ottocento pagine complessive che sembrano un parterre illuminato dai riflettori di un autore che palesemente gode a dimostrare come i dati biografici dei protagonisti segnino la qualità delle imprese civiche ed economiche, aziendali e sociali di una lunga epoca. Assai più recente, ma degno di speciale menzione è il volume Per una storia dell’industria in Sardegna (del 2008, editore Zonza), con ricchissima appendice bibliografica e un gustoso inserto d’immagini d’epoca. Viaggiando nel tempo a partire dalle prime intraprese capitalistiche, fra treni e gallerie, e passando per l’ascesa dell’agroindustria, ampio spazio è dato alle opzioni, parzialmente fallite, della Rinascita, fra turismo, energia e petrolio, per concludere quindi con i medaglioni dei vari Sanna, Zedda-Piras, Amsicora Capra e Guido Dolcetta.

Una fine e cospicua produzione saggistica

La partecipazione ad uno studio collettaneo (con Lorenzo Del Piano ed Achille Sirchia) celebrativo dei 70 anni dell’Associazione (già Unione) degli industriali della provincia di Cagliari, con ampio utilizzo di materiale cartaceo e fotografico custodito dalla Sovrintendenza archivistica per la Sardegna, da cui verranno, nel 1995, i due volumi Uomini e industrieLa memoria dell’impresa, suggerisce alla diarchia camerale Mambrini-Solinas di proporre allo stesso team di replicare l’impresa. Di ricostruire cioè la storia più che secolare del loro ente in uno con la storia stessa della economia e della società isolana. Verranno così, da tale proposta, e con la collaborazione anche di M. Dolores Dessì, Sergio Serra e Gianfranco Tore, i tre volumi riuniti sotto il titolo di La Camera di Commercio di Cagliari, 1862-1997. Storia Economia e Società in Sardegna dal dominio sabaudo al periodo repubblicano, pubblicati nel 1997.

Per Paolo Fadda s’apre così una nuova stagione della sua vita, che ne marca il talento di studioso e scrittore. Perché, per conto della stessa Camera di Commercio, pubblica presto (nel 1998) la Storia di una Fiera, riferendosi evidentemente alla Campionaria (poi Internazionale) della Sardegna, ed inizia una continuativa e felice collaborazione con la rivista camerale. Sardegna Economica diventa progressivamente una rivista d’eccellenza, aperta alla collaborazione di esperti e docenti universitari, storici e statistici, associando al pregio dei testi il taglio comunque, per il più, informativo e giornalistico. A parte la fatica della complessiva confezione redazionale, Paolo Fadda riversa nel periodico, di fianco ad articoli d’occasione od istituzionali e ad interviste, dei brevi saggi sulla variegata storia dell’imprenditoria isolana che, facendo cumulo, forse supererebbero le mille pagine. Tutto va in preparazione delle monografie alle viste presso le maggiori editrici regionali ed in parallelo ai “quaderni” editati dalla stessa Camera: è il caso di Una difficile affermazione. Spunti per una storia delle borghesie cagliaritane (uscito nel 1997), di Economia e politica negli anni della autonomia. La borghesia industriale sarda tra ricostruzione e rinascita, 1944-1960 (uscito nel 1999) e di Da principessa cenerentola. Per un’interpretazione storico-economica delle vicende dell’agricoltura sarda nel XX secolo (uscito nel 2001).

Eventi e personaggi della storia sarda degli ultimi due secoli emergono, dalla penna dell’autore, con rappresentazioni vivide, secondo quel modulo narrativo che, se rende facile la lettura, non per questo manca dei più puntuali riferimenti alle fonti documentarie, archiviste e testimoniali. Ecco così, per dire del capoluogo, da Karel a Cagliari, due millenni di storia della città (del 2013), ma anche Il porto di Cagliari nella storia: dal Breve pisano al terminal container (in Il porto di Cagliari: la storia e le storie, del 2002), Calaritana. L’università di Cagliari tra storia e domani (con Giorgio Pisano, 2003), Cagliari memories (con Sergio Orani, 2009), la trilogia della Cagliari città di artigiani, id. dei negozianti e id. dei ristoranti (rispettivamente del 2009, 2006 e 2008, con quadri fotografici di Enrico Spanu, Priamo Tolu e Anna Marceddu), Ruolo e meriti degli imprenditori forestieri nella Cagliari sabauda (in Storia della Cagliari multiculturale tra mediterraneo ed Europa: atti della giornata di studi su immigrazione a Cagliari sino al 20° secolo, del 2009), la prefazione a Casteddu a fund’in susu di Giampaolo Lallai (del 2014) ecc. Già in premessa (cronologica) meriterebbe citare anche il capitolo Le economie urbane nella Sardegna contemporanea, uscito in Le città, a cura di Gianni Mura e Antonello Sanna, per la CUEC (committente il Banco di Sardegna) nel 1999.

Di rilievo i saggi riguardanti Arborea e l’economia mineraria: da La Sardegna e l’industrialismo tra Ottocento e Novecento (in L’identità storica di Arborea, 2004) e Il miracolo di Arborea (in Arborea: intrecci con la storia, 2009) a Paesaggi e miniere della Sardegna dall’alto (con Gianni Alvito, 2011), alla densa introduzione a Storia del diritto minerario in Sardegna: il caso Carbonia di Carlo Panio (del 2013), alle diverse relazioni svolte al tempo della presidenza dell’EMSa, disponibili tutte nelle biblioteche pubbliche ed anch’esse ampiamente utilizzate dagli studenti impegnati nelle loro tesi di laurea.

Riportano a consuetudini e relazioni d’amicizia che coinvolsero per lunghi anni anche l’estensore di queste note due ulteriori contributi che qui si vogliono richiamare: Una borghesia prigioniera del passato (in La ricerca come passione: studi in onore di Lorenzo Del Piano, 2012) e Lorenzo Del Piano, storico della contemporaneità (in Corpi liberi. Atti L’identità storica di Arborea 2002, a cura di Erika Pes, 2005).

Credo di avere pressoché tutto quanto Paolo Fadda abbia dato alle stampe, anche quel che non è precisamente schedato dall’OPAC, come La città in fondo alla discesa, un robusto bellissimo saggio uscito in Trent’anni. Cagliari: la Banca, la Città, pubblicato dal Banco di Sardegna nel trentennale della apertura degli sportelli dell’istituto di credito della capitale dell’Isola e in occasione dell’avvio operativo della nuova sede nel viale Bonaria. Fino a Il centenario dei salesiani a Cagliari, altro cospicuo contributo alla storia municipale (oltreché a quella della Famiglia religiosa di don Bosco), in apertura del collettaneo Un secolo con don Bosco a Cagliari, uscito in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria cagliaritana al rettor maggiore dei salesiani.

Credo non sia colpevole una deroga al segreto epistolare se rivelo due righe – due righe soltanto – di una lettera recente del commendatore, per quel tanto che gli avevo anticipato scrivendone sull’Almanacco: «nel leggere il suo scritto – le confesso – mi sono spaventato, oltre che molto arrossito, perché, pur facendo conto sulla memoria che ancora mi assiste, non ritenevo di aver “fatto tanto”. Forse ho ragione di ritenere (come spesso mi capita negli esami di coscienza) che quel “tanto” non vada molto d’accordo con “bene”, per cui  talvolta quei miei impegni siano rimasti, come la sinfonia di Franz Schubert, incompiuti…».

L’assoluzione è piena, perché il peccato non c’è. Il contributo (non ancora esaurito) di Paolo Fadda alla pubblicistica di studio e alla saggistica storica della Sardegna, tanto più fra Ottocento e Novecento, è unanimemente riconosciuto prezioso e di primissima specialità.

 

Paolo Fadda, patriarca 90. Al compleanno del manager e scrittore cagliaritano “amico dei potenti”

 

 

Paolo Fadda commendatore della Repubblica, domani al suo novantesimo compleanno, è molte cose nella vita della società sarda, e cagliaritana in specie, ed è molte cose anche per me che lo stimo moltissimo e gli sono legato da un’affezione pure essa trasversale nelle ragioni che, nel tempo, l’hanno plasmata e resa feconda.

Per fatto personale

Inizio da quest’ultima, per liquidarla ed andare al generale diffondendomi su di esso. La conoscenza è piuttosto remota e passa per i libri prima che per la persona: era presidente della SAIA, il commendatore, nei primissimi anni ’80, quando la società – allora interessata ad un ampio ed articolato piano di recupero di Stampace alto – pubblicò, con la milanese Electa, i primi due volumi “cagliaritani” di Antonio Romagnino: Cagliari, Marina: memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere (1981) e Cagliari, Castello: passato e presente di un centro storico (1982). Libri fuori commercio che, pur essendo in confidenza con lui, non osavo chiedere all’autore, al professore cioè, e che mi risolsi invece a chiedere allo sponsor dell’operazione editoriale. Forse fu allora, a palazzo Tirso – dove, nello stesso piano nobile, avrei poi lavorato anch’io da quello stesso 1982 e per un quarto di secolo circa (fin dopo gli sgradevoli acquisti napoletani del SanPaolo e prima dei più educati acquisti torinesi di Banca Intesa) – che ci incontrammo, il giovane ed il commendatore: ognuno già conoscitore dell’altro per il tanto da essi scritto, allora soltanto sui giornali e quotidiani e periodici – di gran livello evidentemente il suo, assai più modesto ma pure ambizioso (anche per la versione televisiva) il mio -, e con amici da condividere nella politica, maggioritaria democristiana la sua e minoritaria repubblicana la mia, e anche nel mondo ecclesiale. Quel mondo che trent’anni dopo ci avrebbe portato a difendere – con ripetute (e infine vincenti) istanze alla Santa Sede – l’archidiocesi, e i deboli dell’archidiocesi, dal governo canonico e chiamalo pastorale di un vescovo autoritario e non amato in larghi suoi settori.

Nel mezzo, nel cuore di questi quarant’anni tante vicende vissute, per quanto possibile, con tratti di condivisione importanti, con recensioni incrociate dei lavori ora dell’uno ora dell’altro (magari sull’Almanacco, o su Chorus, o in internet), con tribune pubbliche condivise, ora nella casa massonica di piazza Indipendenza (per lumeggiare la figura di Felice Mathieu nella Cagliari bacareddiana) ora nel teatro di Sant’Eulalia (per ripassare la storia del quartiere della Marina e le benemerenze secolari della Congregazione del SS. Sacramento)… E ancora con una collaborazione, la mia, a Sardegna Economica, il periodico della Camera di Commercio di Cagliari che la direzione di Paolo Fadda aveva reso, da subito e poi nell’arco di tre lustri, una rivista di altissima qualità e prestigio riconosciuto negli ambienti universitari così come in quelli imprenditoriali e politici.

In ultimo ci è stata data la possibilità di concorrere entrambi, con contributi per certi versi convergenti, a due volumi collettanei: nel 2006, sotto regia rotariana, a Ritrovarsi nel Largo. Storia e progetti per Cagliari che si rinnova, nel 2014 a Un secolo con don Bosco a Cagliari. Cento anni di cammino insieme. Ma già nel 1996 – dovrei ricordare anche questo, riferendo di libri – potemmo affacciarci insieme in Enrico Serpieri: vita e idee di un imprenditore, inclusivo degli atti (a cura di Paolo Matta) del convegno svoltosi nel dicembre dell’anno precedente, con quel titolo nel salone camerale. Con noi furono allora Lorenzo Del Piano e Maria Dolores Dessì, ospite il presidente Mambrini.

D’altra parte al filone tematico dell’imprenditoria isolana fra Otto e Novecento, in uno al contiguo bacareddiano della Cagliari en marche ed all’altro, invero più autonomo, della condizione ecclesiale sarda tanto più nel XX secolo e alle soglie del XXI, riferendosi ai maggiori interessi di entrambi, le strade dei ricercatori dovevano potersi incrociare. E se è vero che misi a disposizione di Paolo Fadda un certo materiale asproniano che poteva essere utile alla biografia che egli allora andava stendendo, con documenti di prima mano e brillantissima scrittura, di Giovanni Antonio Sanna – l’uomo di Montevecchio per l’edizione appunto di L’uomo di Montevecchio –, è non meno vero che a Paolo Fadda io ho fatto, e ancora faccio ricorso spessissimo per una dritta, una notizia, una interpretazione… nelle fatiche di ricerca su una contemporaneità che sembra essersi già fatta storia. Così, oltre che per lo stesso profilo ideologico di Giovanni Antonio Sanna in vista di un certo convegno sassarese, per l’Arborea bonificata e “lavorata” da Stanislao e Dionigi Scano (nonno e prozio del commendatore), così anche circa le vicende del policlinico Lay passato dal dr. Efisio alla Famiglia salesiana (e da questa girato poi al dr. Paolo Ragazzo), così ancora sulle materie le più varie (dall’Infanzia lieta, in quel tempo – anni ’30 – in via Maddalena e “liberatasi” di una direttrice ebrea, alla società metallurgica Bernard Gioda Martinazzo ed al suo stabilimento del viale Bonaria, da certi assetti di vertice dell’Ente Flumendosa al gazogeno affidato alla triestina Sospizio con direzione Marchioni, da certi passaggi nello sviluppo nella città di Sassari de L’Unione Sarda allora all’esordio della direzione di Fabio Maria Crivelli, e con collaboratori come Manlio Brigaglia e il giovanissimo Vindice Ribichesu, ad altre questioni riguardanti gli interessi sardi della Bastogi, o certe famiglie sardo-cagliaritane, come i Salazar, gli Asproni, i Pernis…).

Fra politica e religione

Forse eravamo nel 1997 quando parlammo a lungo di una sua idea che voleva diventare progetto. Insoddisfatto di entrambi i poli costituitisi attorno a Prodi (l’Ulivo) e a Berlusconi (l’ammasso… direi io, delle libertà, con tutte le sue sgradevolezze iperpadane), Paolo Fadda da ex moroteo che però mi sembrò allora – e comunque potrei sbagliare – più vicino a un Beppe Pisanu (finito in Forza Italia) che a un Pietrino Soddu (saldo nelle posizioni avanzate), pensò a un nuovo soggetto pubblico, maggiormente impegnato sul versante culturale che non su quello politico in senso stretto, aggregante cristiani di matrice democristiana e altri di anima piuttosto liberale o liberaldemocratica. Me ne parlò, il suo riferimento nazionale era Cossiga, da pochi anni fuori dai vincoli del Quirinale (dove le responsabilità apicali erano ormai di Oscar Luigi Scalfaro, fortemente, e santamente, ostile a Berlusconi e alla sua deriva valoriale): anch’egli, Cossiga, nel suo pianeta romano, scontento della dialettica politico-parlamentare e governativa fra quella certa destra e quella certa sinistra, pare fosse interessato allora ad immettere qualche novità sulla scena.

Bisognerebbe ricordare: dopo il primo e (fortunatamente) breve governo Berlusconi era venuto l’esecutivo tecnico di Dini, appoggiato dal PDS e dalla Lega (la Lega di Bossi che in quel tempo aveva scorto nel Cavaliere né più né meno che uno compromesso con la mafia del riciclaggio); le nuove elezioni avevano lanciato, nel 1996, Prodi e il suo Ulivo segnato dalle troppe e conflittuali anime, così fino al ritiro dell’appoggio di Rifondazione Comunista. Il sistema bipolare e maggioritario che avrebbe dovuto superare la paralisi determinatasi per i casi di Tangentopoli mostrava esso stesso, così già da subito, il fiato corto con crescente discredito anche istituzionale e crescente estraneazione di tanta parte della società civile dalla società politica. Il modello cui, in Sardegna, aveva pensato Paolo Fadda teneva conto proprio di queste difficoltà cercando di individuare nella composita area di centro a prevalente presenza cattolica (per valori, cultura ed esperienza) la nuova carta da giocare nel complicato gioco politico nazionale.

Dall’osservatorio regionale, che poteva evolvere in laboratorio, e laboratorio perfino più che regionale, Fadda aveva creduto, con generosità, di scorgere risorse positive attivabili, che alcuni eventi, peraltro, in breve tempo rivelarono o indisponibili o comunque diffidenti e critiche. Il contrasto che aveva opposto, a Cagliari e riguardo alle suore di Madre Teresa allogate al Sepolcro con la loro mensa sociale, il parroco di Sant’Eulalia don Mario Cugusi a taluni “chierici fondamentalisti” – fu una definizione che correva, per il bene e per il male –, una certa distanziata autonomia che intellettuali del valore di Bachisio Bandinu mostrarono di voler preservare nei confronti della gerarchia ecclesiastica – i nessi con le linee del Concilio Plenario Sardo restarono infatti sempre imprecisi o indefiniti –, le strategie che l’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti prospettava con la sua “scuola di fede e di coscienza politica” aperta da diversi anni e piuttosto refrattaria a farsi altro che accademia ecclesiale, queste e altre circostanze misero presto in crisi l’idea-progetto, almeno in sede locale.

D’altra parte bisognerebbe anche ricordare che, nello stesso contesto temporale, quell’idea-progetto pagava un prezzo decisivo all’iniziativa assunta proprio da Francesco Cossiga (dimessosi a suo tempo dalla DC e critico circa una rinnovata unità politica dei cattolici) in chiave di tattico salvamento del centro-sinistra che passava allora a sostenere, poggiandosi sui DS ex-PDS, la presidenza D’Alema. Ciò avveniva promuovendo un raggruppamento parlamentare detto dell’UDR (Unione Democratica per la Repubblica) in cui il presidente emerito aveva coinvolto anche Armando Corona, ex gran maestro della Massoneria di palazzo Giustiniani. L’anima cattolica (di segno liberale) cossighiana – invero appesantita da convergenze o confluenze integriste ex Buttiglione o clientelari ex Mastella, e da altre di radice forzista e addirittura di destra già missina) – cercava di farsi attrattiva di forze minoritarie di trascorsi liberali (De Luca), socialdemocratici (Enrico Ferri) e repubblicani (appunto Corona), in verità centrifugando energie, intelligenze ed esperienze che assai difficilmente avrebbero potuto, con chiara credibilità, assicurare il raggiungimento dell’obiettivo. Come infatti la storia avrebbe dimostrato.

Certo in Paolo Fadda restava vivissimo l’interesse a non rinunciare alla responsabilità di una posizione dichiarata, ma ciò sarebbe avvenuto, da lì in poi, tutto sul piano culturale. Ad iniziare dalla rilettura critica dell’intera esperienza politica dei cattolici, così in sede regionale come evidentemente in sede e con precisi riferimenti nazionali («dal montinismo della FUCI al dossettismo di parte della DC»): una riflessione certamente già in cantiere ma di cui egli si riservava l’offerta al giudizio pubblico in «tempi più sereni e riposati». Sarebbe venuto, quel momento, nel 2008 ed avrebbe accolto C’era una volta in Sardegna la DC: tesi per una storia critica della democrazia cristiana sarda: le quattro stagioni del biancofiore (GIA editrice).

L’argomento sarebbe ritornato, balzando da quel pamphlet (che in verità era più un saggio che un pamphlet, ancorché “guadato” da tutte le soggettive letture dell’autore coprotagonista delle vicende all’esame), in L’amico di uomini potenti, il racconto di mezzo secolo di storia sarda (e non solo) attraverso i suoi protagonisti, dato alle stampe nel 2016 per gli ottimi tipi di Delfino editore, e in cui, in forma ancora più esplicita, l’autore si fa comprimario, interlocutore diretto ed immediato dei “potenti”, da Moro a Cossiga.

Confrontandosi con Fabio Maria Crivelli

Mi sembra particolarmente significativo, a tal riguardo, quanto si riferisce degli incontri con Fabio Maria Crivelli e delle opinioni dello storico direttore de L’Unione Sarda, considerato, ben a ragione, «attento osservatore ed interprete delle vicende politiche isolane». L’io (o il lui) narrante che si presenta come il resocontista delle confidenze di “Paolo”, tanto più in ordine alla «degenerazione dell’assetto politico regionale», negli anni fra ’60 e ’70 e ancor più, forse, verso la metà degli anni ’80 (coincidenti con il ritorno di Crivelli, per un biennio circa, alla testa del quotidiano di Terrapieno), ed al «palese declino del comparto produttivo». Scrive il Fadda narrante: «il parere di Crivelli s’incentrava proprio su quella perdita d’unità in quel partito che era stato per anni l’asse portante della politica sarda. Cinque o sei anni fa – diceva – la classe politica s’impegnava per la creazione d’un cantiere navale o per l’apertura d’un nuovo stabilimento industriale, mentre oggi parla e si divide sull’alleanza con Armandino Corona, con Mario Melis o con Umberto Cardia per varare una nuova giunta, ed anche l’impegno per l’industrializzazione lo si è ridotto ad una cruenta contesa fra i supporters di Girotti dell’Eni, quelli pro Cefis e Montedison ed i “siriani” di Rovelli. Dove la posta in palio non sarebbe – aggiungeva, sconsolato – il successo di quell’industria, ma i favori riscuotibili dal vincitore».

E ancora, adesso riferendosi alla persona di “f.m.c.” ed al più in discussione o in trattativa negli anni dell’attuazione, sempre conflittuale ma pur tuttavia capace di risultati, del Piano di Rinascita: «Crivelli, nel ricordo di Paolo, era un Giornalista ed un Direttore con la sua bella iniziale maiuscola (fatto, questo, non molto consueto nella categoria), e – soprattutto – un galantuomo, nel senso più ampio che si possa dare a questo termine. Mai fazioso, ma sempre rispettoso della verità dei fatti, avrebbe guidato “L’Unione Sarda” con grande equilibrio in anni importanti per la storia isolana, realizzando soprattutto un giornale moderno, attento interprete della società locale ed aperto alle nuove istanze dettate dall’emancipazione culturale e sociale allora in atto. Seppure guardato con sospetto dagli ambienti più estremi della sinistra per via di suoi pretesi eccessi filo-governativi (c’è chi ne avrebbe modificato il nome in Fabio Maxia Crivelli, per via della sua amicizia con quell’esponente democristiano), dette al suo giornale una linea informativa indipendente, lontano da ogni eccesso e da ogni piaggeria di comodo.

«Discorrere con lui nel piccolo studio in cima al corridoio della redazione, allora nel viale Terrapieno, era una ghiotta occasione per analizzare vicende e uomini della politica e dell’economia o per fare il punto su certi fatti accaduti. Non era certamente filo-democristiano, ma fra i democristiani aveva diversi amici, scelti – come amava dire – fra chi amava leggere libri ed ascoltare buona musica e non fra chi andava freneticamente alla ricerca di tessere e di potere. Ed è per questo che a Paolo interessava molto scambiare con lui delle opinioni, per meglio capire le tante incongruenze di un partito dove (era questa l’analisi di Crivelli) le opinioni di due leader dorotei come Raffaele Garzia e Lucio Abis apparivano mille miglia distanti da quelle dei morotei di Sassari e dei forzanovisti di Nuoro.

«Era questo quel che si percepiva all’esterno ed il parere di un osservatore come il direttore del maggior giornale dell’isola non poteva che essere importante». Sarebbe occorso – ecco qui la riflessione critica e autocritica di “Paolo” raccolta dall’io (o il lui) narrante – «mettere un freno a quell’involuzione-frantumazione, rifondando quell’entusiasmo riformistico che aveva animato il partito negli anni “della Rinascita”. Purtroppo, le diverse élite della DC s’erano chiuse nelle loro cittadelle fortificate ed apparivano sorde di fronte ad ogni richiamo e ad ogni appello».

Illuminante, al riguardo, la testimonianza del coprotagonista/comprimario: «Per cercare una via d’uscita a quell’incalzante declino, nell’aprile del 1979 c’eravamo riuniti un centinaio e passa di amici per guardarci negli occhi e per trovare motivazioni e volontà per ridare fiato, partendo proprio da Cagliari, ad un’iniziativa politica rigenerante. Dissi allora che sarebbe stato necessario recuperare, con una rinnovata azione politica, quanto perduto o trascurato, nel campo del lavoro, della scuola, dell’impresa e dei saperi professionali. Ero convinto che, per ritrovare la strada dello sviluppo, fosse urgente ed indispensabile attuare un radicale processo di revisione politica: non basta – precisai – attizzare la rabbia operaia per salvare processi produttivi che hanno sentito troppo presto il peso degli anni e delle insufficienze di progettazione; non è più sufficiente attivare “vertenze e scioperi generali” per correggere un processo di sviluppo che appare, nel contesto generale dell’economia, fuori schema; non vale più gridare slogan ritriti come “vogliamo un nuovo modello di sviluppo” senza saper dire come individuarlo e realizzarlo; non pagano più, ancora, gli atteggiamenti “conservatori” di un certo partito e di un certo sindacato che s’arroccano in difesa, incendiando la rabbia operaia, di situazioni divenute chiaramente indifendibili e dal default segnato.

«Per questo occorrerebbe mettersi insieme, eliminando divisioni e rivalità, per ridare sostanza e strumenti ad un processo di crescita e di sviluppo. Per questo bisognerebbe rielaborare una proposta politica che ci faccia riavvicinare alla nostra gente, ai molti che ci vogliono ancora bene, e che ci chiedono un domani migliore; che ci ridia ancora delle idealità e che ci liberi dalle strettoie delle alleanze difficili e dal tormento di scelte subite e travagliate. Che, infine, ponga termine ad un riflusso che rischia di far scomparire il nostro partito e di consegnare l’isola e la sua gente a chi, fino ad ora, ha remato contro il progresso, la libertà e l’autonomia.

«Furono anche queste parole al vento, inutili e lasciate cadere da un establishment politico che rifuggiva dai dibattiti nelle sedi ufficiali del partito e che prediligeva frequentare le hall dei grandi alberghi…».

La cronaca fattasi ormai storia dice che proprio all’indomani di quelle “prediche inutili” la DC perse per alcuni anni – neppure pochi – la guida della Regione: affidata, nella ottava legislatura, la presidenza del Consiglio regionale al repubblicano Armando Corona e poi al socialdemocratico Alessandro Ghinami, la presidenza della giunta passò per un biennio, dopo che a Ghinami, al socialista Franco Rais e dall’estate 1984 per un lustro intero (la nona legislatura regionale) al sardista Mario Melis, a capo di una giunta di sinistra; e al ritorno della formula di centro-sinistra la presidenza sarebbe andata in mano, per quasi altri tre anni, al socialista Antonello Cabras; e ancora dal 1994, nel quadro della nuova legge maggioritaria, al progressista Federico Palomba… I democristiani uscirono di scena umiliati e se tornarono, e quando tornarono, riciclati in partiti e partitini senza gloria, lo furono per il più nell’aggregato del centro-destra pagano, mischiati ai cosiddetti riformatori (patente datasi da sé) o addirittura intruppati nel nulla valoriale di Forza Italia.

Ancora sulla DC e l’universo mondo, discutendone con Montanelli

Certamente in Paolo Fadda, che come detto meglio aveva rappresentato, con Pinuccio Serra e il giovane Gian Mario Selis, la linea morotea nel Cagliaritano, la questione democristiana continuava a presentarsi con tutte le suggestioni e le sofferenze della parabola, e tanto più, infine, con l’avvilimento per un declino che avrebbe potuto non esserci solo che la spinta ideale che era stata di chi andava a messa e pregava prima di sedersi alla scrivania della Regione o del Municipio, o del Parlamento, fosse migrata, per virtuoso contagio, nei nuovi protagonisti dei congressi e delle gare elettorali, preventivo e consuntivo del servizio della politica alla società.

Confida “Paolo” al suo io (o lui) narrante di un incontro con Indro Montanelli in un resort sulla costa di Santa Margherita di Pula: «Sarà stata l’estate del 2000 o del 2001… gli chiesi ex abrupto di quella sua celeberrima affermazione di “turarsi il naso” prima di votare per il partito di De Gasperi e di Moro… La DC, caro Fadda, era l’unica forza politica disponibile per far fronte al pericolo comunista che ancora nel ’76 incombeva sul nostro Paese. Si temeva, e non poco, che una vittoria del PCI ci avrebbe cooptato, obtorto collo, nella dittatura sovietica, che non era certo quella di Gorbaciov, ma quella di Breznev, oppressiva, illiberale ed armata sino ai denti. E per noi sarebbe stato fare la fine della Polonia o della Cecoslovacchia. In quel momento, a mio giudizio, non c’era altro da fare, anche perché, anni dopo, sarebbe stato proprio Enrico Berlinguer, cioè il numero uno del PCI, a dichiarare che si sentiva più sicuro sotto la protezione della Nato che delle minacciose armate del patto di Varsavia».

L’io (o lui) narrante: «Montanelli, d’altra parte, lo si sapeva molto critico su una certa DC di cui non tollerava certi atteggiamenti e certe posizioni, ma nessuno aveva mai dubitato del suo anticomunismo, incarnato, a suo dire, nella rigida e spietata dittatura d’un regime oppressivo ed ingiusto. Certo, di alcuni leader democristiani aveva anche stima, ma – a suo dire – erano minoranza in un partito che aveva fatto del “doroteismo”, purtroppo, la sua prassi dominante. Dove il potere (di gruppo, di corrente, di persona) veniva prima del servizio allo Stato, alla comunità degli italiani.

«Ma se dovesse trovare dei meriti alla DC – gli avrebbe chiesto Paolo – cosa direbbe? La risposta fu, per dirla tutta, rapida e tranchant: la ricostruzione postbellica ed aver rifatto dell’Italia una grande nazione europea. Ma non è questo il massimo degli elogi?, gli avrebbe aggiunto. Certamente, fu la risposta, ma i nipoti ed i pronipoti di Alcide De Gasperi si sarebbero scordati troppo presto di questa lezione, portando il Paese verso una deriva sempre più stato-centrica, con un potere statuale ingordo ed invadente, che avrebbe sfornato anche panettoni e gelati e costruito automobili, barche e accumulatori.

«Vede, gli avrebbe ancora aggiunto, ho votato anche l’Ulivo di Prodi e D’Alema, perché ritenevo che contenesse più libertà e liberalismo di quel Polo che pure si richiamava alla libertà. Anche allora, però, ho votato per il meno peggio, o almeno per quella parte che mi sembrava meno pericolosa per il futuro del Paese. Che sia stato il meglio, certo non direi, ma a parer mio occorreva mettere un freno alla sete di potere d’un uomo potente e, se vogliamo, anche spregiudicato. Se poi mi chiede se ho una certa nostalgia della DC, e del suo tempo, trovo difficile darle una risposta perché l’imbarazzo, osservando quel che è diventata oggi la politica, è assai grande. Ma è certo che, proprio per quel che si vede in giro, una certa nostalgia può essere di casa. Anche a chi, come me, che, tra i democristiani, ha avuto stima e rispetto soltanto per De Gasperi e pochi altri».

Eccoli confrontarsi, Montanelli e il coprotagonista/comprimario della scena democristiana sarda di lunghi anni, che ora sembra essersi allontanato dalle sue radici morotee: «A Montanelli, Paolo avrebbe obiettato come il meticciato dell’Ulivo, o di quel raggruppamento in cui si sarebbe trasformato, avesse creato molte incongruenze ed altrettante confusioni. Fra gli elettori, innanzitutto. Proprio perché le radici formative dei suoi dirigenti (ex PCI ed ex DC) erano disomogenee e, per certi versi, anche contrapposte. Perché, gli domando, cosa si trova di simile fra Mastella, Fioroni e C. e, poniamo, Fassino, D ‘Alema e C.?».

La risposta dell’ex editorialista del Corriere e fondatore-direttore de Il Giornale nuovo (anteBerlusconi politico) e de La Voce: «pur con tanti dubbi, debbo riconoscere che sono oggi il meglio possibile, quel che di meglio ci passa il convento dell’odierna politica nazionale. Che possano andare d’accordo, almeno sui temi più importanti, è anche possibile o, almeno, augurabile; che poi trovino sintonia con gli umori così bizzarri del nostro elettorato e, soprattutto, dell’apparato corporativo degli interessi di casta, ho più d’un dubbio, tanto da rischiare molto andando alle elezioni, con il pericolo di ridare il bandolo del governo “alla destra televisiva”».

Conclusione montanelliana: «… sin dai tempi della DC, i governi del Paese debbono tenere a bada non l’opposizione ufficiale, ma quella interna: è certamente un’anomalia fastidiosa e dannosa, ma durerà finché dureranno in Italia non solo delle regole imperfette avvolte da una giungla di cavilli, ma un costume politico bizantino, allergico alla chiarezza. Tanto che non possiamo che registrare delle quasi maggioranze, delle quasi crisi, delle quasi riforme. Con buona pace di tutti noi (e dell’Italia)».

Pendant di “Paolo” e dell’io (o lui) narrante: «come nella madeleine proustiana, sarebbero stati in molti ad augurarsi un ritorno della DC, magari con i suoi Prandini, Gava e Bisaglia, ma anche, e soprattutto, con i suoi Moro, Fanfani e Cossiga)»…

Ma la Democrazia Cristiana s’era soffocata da sola. Verrebbe qui da infilare un altro giudizio di “Paolo” o del suo alter ego, circa la «dissoluzione» della DC sul continente e in Sicilia così come in Sardegna: «Una scomparsa provocata non certo (come pure s’è scritto) per via dello shock provocato dalla tragica morte di Aldo Moro o per la caduta del muro di Berlino e la fine dell’URSS, e neppure per via dell’impianto accusatorio degli Ayatollah della procura milanese. Perché la DC non ha avuto né un “25 luglio” con la rivolta dei suoi pretoriani e neppure una cocente sconfitta elettorale. Si sarebbe infatti dissolta… per volontà propria (e per via dei troppi “nani, criceti e omineddus” che erano saliti sul suo ponte di comando)».

Da Moro a Cossiga il lib-lab

Certamente è Francesco Cossiga, dopo la morte di Aldo Moro, il riferimento politico di Paolo Fadda. E L’amico di uomini potenti (titolo e protagonista) dedica infatti molte pagine sì a ricostruire il rapporto personale, ma anche e non di meno a focalizzare le ragioni di un certo (non sempre comprensibile, all’apparenza anche ondivago) comportamento del presidente emerito che era stato ministro dell’Interno quando le Brigate Rosse rapirono e poi assassinarono il leader della DC nella cruciale stagione detta della unità nazionale.

Esso inquadra la personalità politica (e intellettuale) di Cossiga, almeno allo sboccio, nell’ambito delle faticose ricerche di equilibrio fra i due capi territoriali dell’Isola, Cagliari e Sassari cioè, che era una cosa ereditata, da parte della DC, dalle sfide municipaliste che rimontano i secoli. Viene qui spontaneo lasciare per gran parte allo stesso io (o lui) narrante il racconto che è, per la verità, anche assai gradevole…

«Nella gara delle preferenze per l’elezione al primo parlamento repubblicano del 1948 – ecco l’incipit –, si sfidarono alla grande, nella lista della DC, il sassarese Antonio Segni con il cagliaritano Antonio Maxia, quasi che a quel primato fosse legata la sorte dell’isola.

«Anche con la nascita della Regione, la contrapposizione non si attenuerà e Torri e Campanili sarebbe divenuto il refrain polemico d’una campagna elettorale, scontro non certo amichevole fra un DC cagliaritano, Luigi Crespellani, ed un collega di partito sassarese, Nino Campus.

«Non a caso, anni fa, un fine intellettuale come il caro Michelangelo Pira aveva catalogato la rivalità fra le due maggiori città sarde “come un contrasto fra uomini politici che si contendono (per sé e per le loro clientele) i privilegi della rappresentanza e degli incarichi pubblici”.

«D’altra parte, se Cagliari poteva vantare il suo primato nell’economia, con un prodotto interno lordo per il 60 per cento originato dal suo Capo di sotto, in politica con Sassari non ci sarà match, dato che saranno due i presidenti della Repubblica nati e vissuti nella città della cionfra, e sarà anche sassarese doc il capo del maggior partito dell’opposizione comunista negli anni della prima Repubblica.

«Certo è che le due città paiono molto diverse, non solo fisicamente: l’una infatti ha voltato le spalle al mare, tenendosi rispettosamente distante perché ritenuto portatore di guai e di ladronerie, preferendo immergersi nel verde di ubertose campagne, mentre l’altra ha fatto del mare la sua principale risorsa, prostrandosi umilmente alle sue sponde e dando invece le spalle, orgogliosamente, all’entroterra agreste. Se quindi Cagliari ha fatto del mare il suo padre-padrone, a Sassari è la campagna ad avere preso possesso della città, tant’è che la sua struttura civica e civile, con tutti i suoi successi, pare legata a doppio filo con la sua base agricola.

«Ma le diversità non paiono solo dettate dalla geografia: toccano anche la componente sociale. Tanto Cagliari rischia di apparire chiusa e riservata, per certi versi anche ostica al visitatore, Sassari, al contrario, è capace di mostrare verso l’ospite una socievolezza cordialissima, assai più che altrove festaiola e gaudente. Il suo carnevale, ad esempio, come le altre occasioni di pubbliche allegrie, paiono dei segnali, per chi vi sia giunto dalla città dell’altro capo dell’isola, di uno spirito aperto e di una giovialità senza limiti.

«Scrivere questi elogi da Cagliari può anche far meraviglia, ma non vi è dubbio alcuno che Sassari debba essere amata e rispettata, compresa ed ammirata per quel che ha saputo dare, nella politica come nella cultura, alla nostra terra.

«È con questa premessa che si apre il ricordo della fraterna amicizia nata, una cinquantina d’anni or sono, tra un cagliaritano verace ed a prova d’anagrafe, ed un sassarese d’alto lignaggio e con quattro quarti di “sassareseria”. Paolo Fadda e Francesco Cossiga, i loro nomi.

«Fra loro sarebbe nata una sorta di affinità elettiva, fondata – certo – su comuni principi ideali e, ancora, su di una consanguineità virtuale originata da simili arterie culturali. Naturalmente – occorre precisarlo – con una differenza sostanziale nella scala di valori, tutta a favore di quel “grande” sassarese.

«Ed a proposito di quest’aspetto, c’è un piccolo ricordo che lo conferma. Capitò in una sera invernale del 1960, o giù di lì, allorché Francesco – divenuto deputato nelle elezioni di due anni prima e, da subito, inseritosi alla grande nell’establishment politico romano – avendo incontrato l’amico nei pressi della tipografia de “La Nuova” (allora in via Asproni) gli diede un suo biglietto da visita in cui era scritto su due righe in un bel corsivo inglese: “Francesco Cossiga / Amico di uomini potenti”, a conferma della familiarità che aveva con i big del tempo, da Enrico Mattei al generale De Lorenzo, al cardinal Ottaviani ed a quant’altri, allora, detenevano a Roma il “vero” potere…

«Fu poi proprio l’amico, per rispondere allo scherzo provocatorio, a farsi stampare dai Gallizzi dei biglietti da visita con su scritto, sempre su due righe: “Paolo Fadda / Amico di Francesco Cossiga, uomo potente”. Così, incontrandolo qualche giorno dopo, gli volle regalare un libro (il titolo poteva essere “Storia del potere in Italia”; l’autore, forse, Giuseppe Maranini) con dentro, a mo’ di segnalibro, quel biglietto da visita di risposta…; tutto finì in una cena da “Michi”, allora il più elegante e costoso restaurant sassarese.

«I due s’erano conosciuti in un tardo pomeriggio di qualche anno prima, nell’inverno 1954-55, all’ingresso d’un cinema: l’uno, in compagnia d’un giovane magistrato, Antonio Pioletti, e l’altro, il “grande”, insieme ad un amico fraterno, Nino Giagu, allora funzionario dell’ente per la riforma agraria. Sullo schermo davano, pare di ricordare, “Fronte del porto” con Marlon Brando, un film premiatissimo da critica e pubblico.

«Nel dopo cinema, ricorderà, mentre Pioletti e Giagu andarono per i fatti loro, “io e Cossiga decidemmo di mangiare qualcosa insieme, nella trattoria di Bagassedda, in via Canopolo. Ci trattenemmo fin quasi a mezzanotte, parlando di amicizie comuni ma, soprattutto, di politica”.

«S’era scherzato su di una vignetta apparsa su “Il Travaso” (allora il giornale satirico più irridente) in cui, alludendo ai criteri di selezione della classe politica (ed in particolare di quella democristiana), metteva in bocca ad un predicatore quaresimale la frase: qui in terra non è come nel regno dei cieli, perché quaggiù più sono reprobi, più vengono eletti! L’allusione era pertinente a quel che pareva essere, allora, la classe politica regionale, dove s’intravedeva l’esigenza di un profondo rinnovamento. Anche la stessa DC regionale, primo partito dell’isola, pareva essere in mezzo al guado, incapace di abbandonare la sponda dov’erano al comando i reduci di quel popolarismo prefascista, legato a schemi e ad idee passatisti, per andare oltre, affidandosi a quella new generation under thirty con cui avviare una trasformazione della società isolana sulla scia di quel “miracolo” che stava esaltando l’economia delle regioni continentali.

«Il suo pallino intellettuale stava proprio nell’abbracciare una scelta tutta paretiana sulla funzione delle élite dirigenti. Nella sua ipotesi, per far maturare un “miracolo” sardo occorreva cambiare, ringiovanendola, la sua classe dirigente. Ricordava il precedente del primo dopoguerra, dove erano stati i giovani ufficiali under 30 della “Sassari” a divenirne i leader politici, scalzando le passate consorterie e portando avanti le nuove idee dell’autonomismo e del federalismo. Oggi, aggiungeva, si dovrebbe mobilitare una giovane élite che si faccia autrice di un punto di svolta, di un giro di boa, di un vero e proprio new deal alla maniera rooseveltiana. Perché l’avere ottenuto un’autonomia speciale e non avere selezionato una classe dirigente che la sapesse ben utilizzare, risulterebbe colpa grave.

«Con Paolo, che proveniva da una famiglia d’ingegneri e d’industriali (dal nonno che aveva partecipato all’epopea ferroviaria, al padre a capo di uno dei più noti gruppi di costruzioni edili), avrebbe confrontato, in lunghe conversazioni, le sue idee su come promuovere un’industrializzazione che divenisse il volano necessario per avviare quell’atteso “miracolo” in chiave sarda. Era sempre più convinto che per realizzarlo occorresse sostituire l’attuale élite, fossilizzata sulla primazia di un’agricoltura tradizionale, con un gruppo di uomini nuovi, dotati di buoni talenti e di forte volontà.

«In effetti, il problema d’una classe dirigente che fosse attrezzata per il nuovo tempo della rinascita sembrava essere il number one del momento. Allora infatti – s’era a metà degli anni ’50 – la governance politico-economica dell’isola era composta, in larghissima maggioranza, da overfifty, ultracinquantenni, persone, quindi, che avevano vissuto il ventennio fascista, in piena luce od in apparente ombra. Una élite che, per ragioni anagrafiche, era rimasta ancorata in politica ai vecchi format del prefascismo e in economia al mito d’una agricoltura padrona delle attività isolane.

«Non v’è dubbio, però, che dietro di loro incalzava una nuova leva di giovani trentenni che s’erano abbeverati alla fonte dei nuovi saperi europei, superando così l’autarchia culturale della loro formazione studentesca nella scuola fascista, per perseguire gli affascinanti miti delle libertà delle grandi nazioni democratiche. Francesco era uno di questi…

Sassari e Cagliari, l’Isola fra Casmez e Rinascita

«Con Paolo amava discutere soprattutto di questi argomenti, nell’intento di capire se e come lo sviluppo dell’isola potesse essere avviato perseguendo strade similari a quelle messe in campo in USA, in particolare per lo sviluppo del Tennessee, con la costituzione nell’isola di un’analoga “Works Progress Administration”, che, nei suoi proponimenti, altro non doveva essere che una “Casmez” per la sola Sardegna. Quindi, un’Authority speciale, slegata dai canoni e dai vincoli della pubblica amministrazione statale e regionale, a cui affidare la regia e la gestione delle risorse del piano previsto dall’articolo 13 dello Statuto speciale. Perché la Sardegna, amava dire, è ben differente dal Mezzogiorno continentale ed anche dall’altra isola, la Sicilia.

«Di questo suo progetto s’era tanto appassionato da averne discusso a lungo anche con Antonio Segni e non s’era scoraggiato di fronte alle contrarietà di quest’ultimo che gli aveva fatto presente più i pericoli che i vantaggi d’una “cassa solo sarda”. Era, e rimaneva, suo fermo convincimento che, anche attraverso la costituzione di un’authority regionale, si poteva reclutare e formare una “nuova” classe dirigente.

«Anche Paolo, per la verità, ne aveva condiviso i principi, proprio perché la condizione d’insularità in cui si trovava l’isola, ne incrementava l’isolamento, e questo sia in termini di trasporti che di accesso ai mercati. Se in Puglia in Calabria ed anche in Sicilia, infatti, era disponibile un vagone ferroviario su cui caricare i tuoi prodotti per inviarli, senza trasbordi, a Roma, a Milano ed anche a Parigi, e vi era una rete continua di elettrodotti che vi trasportava la forza motrice necessaria dalle centrali alpine, in Sardegna tutto questo finora non era possibile. Per vincere l’insularità-isolamento (era questo il refrain) occorreva, quindi, far sì che anche un produttore sardo fosse messo alla pari d’un suo collega pugliese o siciliano.

«Talvolta queste conversazioni duravano a lungo, ed ai due s’aggiungevano altri amici, dando quindi all’incontro le caratteristiche d’un seminario: per capire e decidere cosa fare nell’isola per “ottenere una vera rinascita”.

«Ed è quell’amicizia che si intende qui fare ricordo, proprio per utilizzarla come un utile passepartout per provare ad entrare nel mondo segreto d’una personalità straordinaria nella sua complessità. Di Francesco Cossiga, d’altra parte, è stato detto e scritto tutto e di tutto, dai suoi pungenti aforismi alle sue studiate pazzie, per cui non pare facile poter aggiungere qualcosa di inedito…

«Charles ed Anna Forte, autorevoli esponenti dell’establishment finanziario londinese e molto amici della famiglia di Paolo oltre che di Francesco, lo avrebbero definito come il più british dei politici italiani del dopoguerra (oltre che il meno provinciale), un affascinante e coinvolgente intellettuale lib-lab, dalle idee modernissime e dalla cultura straordinariamente europea». Analoghi i giudizi di uomini pur fra loro diversissimi come Montanelli («uno dei pochi, o dei pochissimi, politici italiani ad avere, oltre alle mani, anche la mente pulita») e Guido Carli («Gulliver nella Lilliput parlamentare»)…

Naturalmente non mancarono anche diffidenze ed invidie. «Quelle rivalità si sarebbero poi tramutate – ecco ancora la ricostruzione storica e biografica dell’io (o lui) narrante – in isolamento, allorché Francesco, dopo la tragica conclusione del sequestro di Aldo Moro e le sue dimissioni da ministro dell’interno, si prese, per così dire, un anno sabbatico, esiliandosi in un piccolo ufficio in via San Claudio, non lontano da piazza San Silvestro.

«Paolo andò a trovarlo più volte, passando con lui delle intere giornate. Ebbe allora la percezione della sua tristezza ed anche della sua solitudine… Anche per questo le loro furono delle lunghe e amichevoli conversazioni, quasi sempre sintonizzate sui toni della nostalgia e del rimpianto. Voleva che lo accompagnasse a Londra, per trovare i Forte e poi in Irlanda per fargli conoscere quel paese che tanto amava. Ma il tema ricorrente era quello della degenerazione della lotta politica, dello scadimento dell’etica, della mancanza, in tanti dei suoi colleghi parlamentari, del senso dello Stato. Ed anche di come la classe politica sarda avesse vanificato, nelle rivalità di campanile e di fazione, la grande occasione dell’autonomia.

«Ricorda ora che gli trasferì un’osservazione del suo amico Ugo La Malfa, che diceva pressappoco questo: quando l’autonomia regionale non raggiunge il suo scopo, il risultato è che ci si rifugia sul separatismo, come una sorta di esasperazione ribellistica al fallimento, quasi una fuga in avanti ed una definitiva rottura nei confronti di un’ordinata integrazione con lo Stato. Ed in Sardegna, aggiungeva, siamo giunti quasi a questo punto, perché la classe politica non è riuscita ad interpretare finora quel che la gente chiedeva, avendo privilegiato più i caroselli delle alleanze che la progettazione di un nuovo assetto socio-economico.

«Si sentiva anch’egli responsabile di questo fallimento, di quest’incapacità di tradurre in atti concreti di governo i tanti proponimenti di quei lontani anni ’50. Si mostrava convinto della necessità di rielaborare in qualche modo lo stesso concetto d’autonomia regionale, correggendo quelli che gli parevano gli errori allora commessi.

«Paolo non ricorda le parole precise, ma cerca di ricostruirne il senso. Francesco infatti punterà forte il dito sull’insularità-isolamento della Sardegna come il principale problema non risolto. Un isolamento che avrebbe corroso, come ruggine impietosa, i principi ideali dell’autonomia. Credo che si sia sbagliato – sosterrà – non mettere in conto che quella distanza tra l’isola ed il continente non è determinata da un braccio di mare, ma è fatta soprattutto da profonde lontananze culturali ed ambientali.

«Perché le realtà della Sardegna, avrebbe aggiunto, non possono essere assolutamente confuse con quanto presentano, anche in tema di sottosviluppo, le altre regioni della penisola e la stessa Sicilia: le centinaia di miglia marine che ci separano da quelle terre (un fossato che risulta un po’ una tara, più psichica che fisica, preciserà) hanno determinato nel corso dei secoli delle forti e resistenti diseconomie, reali e virtuali, che abbisognano, per superarle, di interventi particolari, mirati ad attenuare quella che chiamerà la deriva mentale e comportamentale dell’essere isolani.

«Avrebbe ripetuto più volte, quasi fosse un ritornello, che a noi sardi c’era stata sì concessa una carta statutaria per l’autonomia, ma ci sarebbe mancata la cultura dell’autonomia. Nel senso che si è rimasti dei sudditi dello Stato, trasformandoci soltanto da degli ubbidienti “senza potere alcuno” a dei replicanti nell’isola, nei comportamenti e nei fatti, di quegli stessi poteri esterni. Cos’era dunque per lui la cultura dell’autonomia? Per dirla in breve, il contrario della cultura dell’isolazionismo autarchico, cioè una chiusura assoluta verso il mondo esterno. Con l’autonomia e la sua cultura – un concentrato di libertà, di autoresponsabilizzazione e di indipendenza – c’era il dovere di aprirsi verso l’esterno, senza soggezioni né puerili imitazioni, ma nell’intento di arricchire l’identità sarda con nuovi ed importanti valori.

L’autonomia fra dogma e responsabilità (secondo Cossiga)

«Francesco riteneva che avesse proprio ragione l’ultimo Lussu, quello che aveva ritenuto di collegare il suo originario sardismo con i grandi movimenti politici europei, proprio per sfuggire a quelle “chiusure” che sono troppo spesso presenti nel Dna degli abitanti di un’isola. Per questo era convinto che il confronto con gli altri fosse portatore di progresso, superando quelle prevenzioni che, per troppo lungo tempo e per ragioni diverse, hanno reso difficile quel confronto, quelle integrazioni e quelle contaminazioni.

«Nel suo giudizio, la responsabilità andava attribuita alla fragilità della classe dirigente, per via di una maturazione culturale mancata o abortita, ed alla debolezza di un governo regionale più interessato a consolidare il proprio potere (molto spesso fine a se stesso) che a predispone interventi per un migliore e più diffuso progresso.

«Eppure non intendeva cedere in alcun modo al pessimismo. Era sicuro che in Sardegna ci fossero gli anticorpi giusti per uscir fuori dall’impasse e per ricuperare il tempo perduto. Meditava di tornare a far politica nell’isola, di mobilitare nuovamente energie e risorse per dare all’autonomia tutte le valenze necessarie perché divenisse strumento di progresso. Forse non era del tutto sincero, o forse aveva lasciato troppo spazio a quel pessimismo della ragione che era poi una specie di schermo per il suo carattere tra l’empatico e l’umbratile, o – ancora – poteva essere una sorta di alibi intellettuale, perché in cuor suo già meditava la grande rivincita, un ritorno fra i big della politica nazionale.

«D’altra parte, dopo la tragica fine di Aldo Moro i primi a rovesciargli addosso le più pesanti responsabilità erano stati non pochi dei suoi “amici” di partito, quasi che la scelta della “fermezza” (cioè il divieto a trattare con i rapitori) non fosse stata la linea dell’intero governo e dei due grandi partiti che lo sostenevano, la DC ed il PCI. Ed è di quest’argomento che in quei lunghi pomeriggi passati insieme in quell’ufficetto romano si sarebbe parlato a lungo, racconterà Paolo. Proprio perché s’andava affermando la voce, fatta circolare anche da uno stretto collaboratore dello statista di Maglie, Corrado Guerzoni, che “fu fatto di tutto perché non si giungesse alla liberazione di Moro”. Nell’intento di “non farlo parlare”, perché non svelasse molte malefatte di suoi presunti “amici di partito”. Cossiga era molto amareggiato per queste “voci”, quasi che fosse stato lui l’architetto di quest’imbroglio. Anche per questo, l’amarezza gli era divenuta ancor più pesante, così come molto gli pesava il “rancore” che sentiva provenire da casa Moro».

Al contrario! Importanti, qui, erano le confidenze del presidente emerito ed ex titolare del Viminale, circa i tentativi esperiti per salvare davvero Aldo Moro e circa anche le inframmettenze di chi, all’apparenza amico, quella salvezza non voleva… «Senza Moro, dirà, la DC non sarà più la stessa, perché le è venuto a mancare quel collante cultural-politico che aveva fin qui permesso al partito di De Gasperi di essere un fedele interprete dei tempi nuovi e di quel che il paese, uscito dalle difficoltà del dopoguerra e dagli scontri ideologico-politici, richiedeva».

Il Quirinale e il dopoQuirinale, a discettare di capitalismo

Ecco poi l’insperata rimonta di Cossiga, dopo i tormenti del 1978: presidente del Consiglio di due governi, presidente del Senato, presidente della Repubblica. Il mestiere finale di “picconatore”… la ripresa di contatto con la Sardegna e gli amici… in parcheggio. Con “Paolo” un incontro a metà aprile del 1997, a Roma, nella hall del “de Russie” in via del Babuino e poi, a cena al “Toulà”.

«Si parlò e si discusse a lungo sul testo di una lunga intervista che Francesco aveva concesso a Massimo De Angelis del mensile “Liberal”. Ad animare il nostro discutere fu, in particolare, il confronto fra l’affermazione cossighiana, come ricavata dall’intervista, sull’incompatibilità (o qualcosa del genere) fra l’etica capitalistica e la visione cristiana e cattolica della società e, per converso, su quanto scritto dall’americano Michael Novak in un suo saggio (“L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo”), pubblicato dalle edizioni di Comunità. Due opinioni che apparivano contrapposte, ma che la collaborazione che Novak aveva dato al Pontefice polacco per le sue encicliche sociali, metteva un po’ in discussione.

«In effetti, se per etica del capitalismo s’intenda la ricerca del solo benessere materiale individuale e del primato dell’avere sull’essere…, il contrasto con la visione cristiana non può che essere profondo, inconciliabile. Ma la parte peculiare dello spirito del capitalismo – affermerà Novak – non è però l’individuo, ed il suo personale benessere, ma il convergere di più individui in iniziative creative come le società di capitali e finanche lo stesso mercato che obbliga ad interagire fra più individui. In modo da realizzare un benessere sociale.

«Per Cossiga, ricorda Paolo, la contrapposizione aveva una sua ragione, per dir così, geografica, in quanto c’era un forte differenza fra il capitalismo “nord-americano” e quello “sud-europeo”. Perché il primo avrebbe primeggiato nella filantropia, nella difesa delle libertà, nello spirito civico e nella costruzione di un welfare sociale, mentre il secondo si sarebbe arroccato in difesa del profitto e del suo esclusivo godimento individuale (o, al massimo, interfamigliare).

«In effetti, nel giudizio sul capitalismo mediterraneo pesava enormemente quell’etichetta calvinista teorizzata da Max Weber, rendendolo così antagonista al pensiero del cattolicesimo romano. Era stato proprio Amintore Fanfani, allora giovane professore alla “Cattolica”, a mettere insieme, in un suo saggio, quest’incompatibilità “religiosa” ed a ricercare quella che sarebbe stata quella “terza via” che avrebbe portato all’ideazione e alla diffusione, in Italia e per mano dei “professorini” della DC, della scelta premiante per il capitalismo “pubblico”. La si era intesa come mediazione fra l’iniziativa privata e le esigenze sociali, o – meglio – fra liberalismo economico e statalismo sovietico.

«Per Cossiga non era poi questo il senso della sua affermazione, anche perché il testo dell’intervista aveva “bruciato” in parte il suo ragionamento. Di fronte a quel che era accaduto di negativo nell’economia italiana nell’ultimo trentennio – era questa la sua premessa – si imponeva un radicale cambiamento, con il passaggio da un’economia capitalistica (come da noi s’era manifestata) ad un’economia di libero mercato. Perché – aggiungeva – qui in Italia non siamo mai riusciti a liberarci dal protezionismo dell’ancien régime e dall’autarchia fascista, tanto da aver teorizzato il primato di un capitalismo assistito e protetto che è l’antitesi di quei principi ideologici da cui ha tratto origine.

«Per questo occorre far riferimento al mercato, alla competizione sui mercati, per liberarsi dalle scorie di un assistenzialismo che ha come freezerato il nostro sistema industriale, rendendolo immune da ogni insuccesso gestionale e, quindi, suddito del potere politico (ricorderà, come esempio, alcuni interventi pro Fiat e pro Olivetti). Si è riusciti così a creare un ibrido capitalistico con delle imprese che sono private per gli utili e pubbliche per le perdite.

«Francesco sosteneva che anche l’economia di mercato avrebbe potuto creare delle disfunzioni e delle ingiustizie ed era perciò necessario non solo imporre delle regole legislative, ma soprattutto diffondere quella che chiamava la cultura delle libertà. E fra queste, come prime, la libertà di coscienza e, quella “controllata dalla ragione”. Per lui, quindi, era necessario rifondare il capitalismo italiano attraverso l’innesto di un’economia di mercato che riducesse gli spazi alle demagogie delle pubbliche assistenze e, insieme, agli straripamenti del laissez-faire. Solo agendo così gli si potrà dare, sosteneva, un volto cristiano e cattolico.

«Per Paolo quella serata romana rimarrà indimenticabile, proprio per l’acutezza intellettuale e la serenità storica con cui Cossiga aveva “riletto” le ultime vicende del Paese. Perché quel 1997 non era un anno felice per l’Italia, in cui – dopo il tornado di tangentopoli – la politica aveva perso definitivamente la sua iniziale maiuscola ed era andata in mano a degli yuppie, a dei carrieristi spesso senz’arte né parte. Era, il nostro, un Paese che destava molto sconforto ed altrettanta apprensione, ed a cui mancava quell’establishment virtuoso che era riuscita a risollevarla dai disastri della guerra perduta.

«Aveva molta ragione Elio a cantare così a San Remo: “Parcheggi abusivi, / applausi abusivi, / villette abusive, / abusi sessuali abusivi; / tanta voglia di ricominciare abusiva. / Appalti truccati, / trapianti truccati, / motorini truccati / che scippano donne truccate; / il visagista delle dive / è truccatissimo. / Italia sì! Italia no! Italia bum! / La strage impunita”».

1928-1930, quasi gemelli, fra affinità elettive

A leggere, o rileggere, la vita pubblica di Paolo Fadda oggi giunto, con fervore ancora eccellente di pensiero ed azione, di relazioni e studio, di scrittura e cuore buono, sempre nella riservatezza piena, al suo novantesimo compleanno, dico a rileggere la sua vita pubblica certamente questo rapporto con Francesco Cossiga «affabulatore straordinario» costituisce un elemento che spiega molto di lui per tratti di umanità (e moralità) prima ancora che per indirizzi intellettuali od opzioni politiche. Un sodalizio amicale di mezzo secolo nel quale, a recuperarne ogni parte, potresti trovare il meglio di quanto la classe dirigente nazionale e regionale, sassarese e cagliaritana, avrebbe riversato, anzi, potuto riversare, a pro della società governata. Nelle confidenze che Fadda ha voluto lasciarci, ovviamente schermando in assoluto i più riposti spazi del privato, si sono affacciate le infinite scene dei loro incontri nei momenti i più diversi – all’hotel di via Cavour, verso villa Borghese ed il Pincio, alla casina Valadier tra il cancello di villa Medici e l’obelisco di Pio VII, da Rosati in piazza del Popolo…, ma anche fuori Roma, e Cagliari e Sassari, a Londra e in Irlanda, a Bonn perfino, «quand’era Presidente della Repubblica, in visita ufficiale in Germania».

Grandi discussioni, importanti discussioni, confronti di idee ed analisi… come quelli sulla magistratura, il suo ruolo entro i perimetri della Costituzione repubblicana. Un tema bruciante per molti aspetti, perché il “tema” era ed è anche contenitore di una responsabile vautazione dei possibili errori e di più, dei possibili abusi da parte di «ayatollah della Repubblica» o «unti del Signore», cui allude lo stesso Fadda – richiamando definizioni attribuite all’ex ambasciatore Romano e a qualche giornalista di grido – nel suo L’amico di uomini potenti. Sono alcune delle pagine più pregnanti del libro, quelle dedicate alle discussioni con Francesco Cossiga (occasionalmente allargate coinvolgendo anche Francesco Pintus, al tempo procuratore generale a Cagliari) sulla magistratura inquirente e le funzioni del CSM («M’aveva chiamato di prima mattina al cellulare: sono a Cagliari, al “Regina Margherita”, a due passi da casa tua, mi disse; raggiungimi così facciamo colazione insieme. Lo raggiunsi dopo una quindicina di minuti, mentre era ancora intento a farsi la barba nella suite di quell’albergo. Cominciammo a parlare di qualcosa che l’aveva molto colpito, ed era il suicidio del povero giudice Luigi Lombardini, perché ingiustamente coinvolto dai magistrati palermitani nell’inquietante vicenda del sequestro d’una giovane donna ogliastrina…»). Convergenti alcune analisi: «Cossiga avrebbe ancora aggiunto che, nel ruolo assunto da certi PM, c’è un equivoco di fondo: perché essi si sentono e si atteggiano, non solo nominalmente, a giudici: “in qualunque altro paese del mondo a sentire che un attorney (cioè un pubblico accusatore) venga considerato un judge (cioè un elaboratore di sentenze), si griderebbe allo scandalo. Questo capita da noi in Italia perché non abbiamo mai inteso distinguere, come negli altri paesi d’alta cultura giuridica, fra pubblica accusa e collegio giudicante. Tanto che il parlare dell’esigenza di procedere alla divisione dei ruoli viene fortemente impedita da certa sinistra integralista, perché ritenuta opinione … filoberlusconiana. Così come occorrerà capire che l’obbligatorietà dell’azione penale, di cui si fa forte molta cultura giustizialista, non è altro che una finzione: di fatto non esiste. Sarebbe meglio parlare, più onestamente, d’una… incontrollata ed incontrollabile arbitrarietà ad uso dei PM…”. Anche Pintus, d’altra parte, faceva parte di quei magistrati, come Falcone, che erano per la separazione dei ruoli…».

Dico qui una mia impressione. Credo che per comprendere il giudizio politico di Paolo Fadda in questa lunga stagione post-democristiana il tema “giustizia” abbia avuto la parte preponderante. Lo ripeto con qualche inciso. Credo che per comprendere il giudizio politico di Paolo Fadda in questa lunga stagione post-democristiana – la stagione del maggioritario e anche, per gran parte, del berlusconismo (e oggi, ahimè, della volgare demagogia leghista in confezione sovranista) – e per farsi una ragione del suo distacco dalle ragioni ideali morotee fino ad accostarsi, se non con simpatia almeno nella logica ipotetica del “male minore”, al fronte cosiddetto moderato (in realtà, secondo me, estremista nel rozzo populismo coltivato ormai da venti e più anni dai sudditi del Cavaliere ed assolutamente devastante la pedagogia civile) il tema “giustizia” abbia avuto la parte preponderante: più che la politica estera e del concerto nell’Unione Europea, più che la politica economica post-PP.SS., più che la politica scolastica e sanitaria e delle infrastrutture, più che la politica – diremmo oggi – dell’accoglienza ai disgraziati dell’Africa nera… Per questo la vicinanza a Francesco Cossiga («che fu dei pochi che seppe sempre guardar lontano, dando alla politica la dimensione d’essere una grande ed importante palestra»), così netto su questo specifico campo, avrà avuto la sua influenza… confermativa: «Per Cossiga la sinistra italiana (erede del PCI togliattiano) avrebbe mostrato anche in questo caso quel suo atteggiamento saccente, supponente ed anche imperativo che è nel Dna di chi è stato educato alle Frattocchie. Nel senso che, machiavellicamente, i suoi leader avrebbero cavalcato il giustizialismo di quegli ayatollah come strumento per sconfiggere o, meglio, per far fuori gli avversari politici, “mettendoli dentro”. Perché avrebbe aggiunto Cossiga…, l’uso politico della giustizia è tipico dei regimi autoritari, ed ancor oggi da noi in Sardegna c’è una ricca raccolta di detti popolari che condannano la giustizia ingiusta come praticata dal dispotismo dei viceré spagnoli o sabaudi!».

Aggiungendo altro, e dichiarando apertis verbis la sua opinione fattasi ormai lontana e perfino contraria alle sensibilità morotee di un tempo: «Certo, quegli atteggiamenti fuori del coro dell’ex presidente della Repubblica gli avrebbero alienato simpatie e consensi, soprattutto da parte di quell’establishment che oggi tiene le redini politiche del Paese. E che continua ad opporsi a qualsiasi cambiamento, difendendo a denti stretti anche l’indifendibile (come nel caso d’una magistratura inquirente amante più del palcoscenico dei media che della vera giustizia)…».

Nella biografia di un «grande amico di Francesco Cossiga, uomo buono e potente»

Il quasi mezzo secolo di militanza democristiana coincidente per gran parte anche con l’assunzione di uffici importanti in enti pubblici ed istituzioni così come in compagnie private, talvolta con espansioni nella pubblicistica militante, aveva fatto di Paolo Fadda senz’altro uno degli uomini più… VIP dell’intera Isola, un protagonista comunque, anche quando il suo nome o il suo volto non appariva nei riscontri giornalistici… Dal 1964 al 1970 era stato giovane ed abile capogruppo dc al Consiglio comunale di Cagliari: giusto in una stagione che conobbe il passaggio della sindacatura da Giuseppe Brotzu a Paolo De Magistris e, in quanto a formula politica, l’evoluzione dal centrismo dell’asse DC-PLI al centro-sinistra comprensivo di socialisti (e talvolta anche di sardisti). In quegli stessi anni e nei due decenni successivi aveva assunto incarichi negli organi di vertice del Banco di Sardegna, dell’Università degli studi di Cagliari, dell’Ente Minerario Sardo… e in società e/o holding di primo piano come Bastogi-SAIA, Brioschi Finanziaria, Alberghiera Costem…, talvolta appunto con faticosi (eppur graditi) allargamenti nella pubblicistica di settore, come fu la direzione di Agricoltura Informazioni, autentica anticipazione – per la qualità e varietà dei contenuti – di Sardegna Economica, diretta di fatto dal 1997 ed anche formalmente dal 2007, fino al 2012, per mandato della Camera di Commercio di Cagliari affidata allora alla diarchia Mambrini-Solinas…

D’altra parte, l’attività di pubblicista Paolo Fadda (iscritto all’albo dal 1963, ma collaboratore di redazione già da giovanissimo, a cominciare da L’Unione Sarda in quel di Sassari – al tempo di un suo incarico come responsabile della locale filiale della concessionaria Innocenti, nei titoli della società Fadda-Tonini, e nel contesto dei… successi di collocamento delle nuovissime Lambretta) l’ha sempre praticata, all’inizio anche come cronista sportivo (esperto in specie di calcio e pallacanestro) per L’Informatore del lunedì dei primi anni ’50… In ciò, pensando agli esponenti più in vista della politica regionale e della Democrazia Cristiana in particolare, lo si potrebbe avvicinare a Paolo De Magistris, l’indimenticato sindaco di Cagliari che per lunghi anni resse anche, come direttore dei servizi, l’assessorato regionale all’Industria, ma non trascurò di collaborare a L’Unione Sarda, all’Almanacco di Cagliari ed a riviste del pari apprezzate per l’autorevolezza delle firme. Nel book di Paolo Fadda – del commendatore Paolo Fadda –, oltre all’Almanacco ed a Sardegna Fieristica (ed ovviamente a Sardegna Economica), ecco anche l’iglesiente Argentaria, anche i Quaderni bolotanesi, ecc. Per non dire ovviamente delle partecipazioni a pubblicazioni collettanee (ne ho fatto esplicito riferimento nell’articolo “Paolo Fadda, l’86° compleanno di un patriarca civico”, uscito il 29 marzo 2016 nel sito di Fondazione Sardinia) e della sua diretta e personale produzione libraria forte di volumi insieme di studio e di divulgazione, e gran successo di vendite.

Credo di possedere tutti i lavori in edizione di Paolo Fadda – si tratta ormai di decine di titoli – ed una certa predilezione oso ancora manifestarla per quelli che egli diede alle stampe nel passaggio fra anni ’80 e anni ’90, anche perché autoprodotti, affidati cioè al genio e all’abilità di un’editrice voluta dal commendatore che volle mostrarsi… autosufficiente rispetto alle tirchierie di certa imprenditoria editoriale sarda di quel tempo lì: fu Sanderson Craig Editore in Cagliari, ragione evocante, per segrete suggestioni, il nome di un importante console inglese a Cagliari della metà del XIX secolo. Vennero allora Alla ricerca di capitali coraggiosi: vicende e personaggi delle intraprese industriali in Sardegna (con l’accompagnamento dei ritratti a matita di Angelo Liberati), nel 1990, e Sa Cittadi avolotara: Borghesi, Majolus, Poeti e Palazzinari nella Cagliari della fine del secolo scorso, l’anno successivo. A fine decennio venne anche Avanguardisti della modernità. Alle origini della trasformazione industriale della società agricola sarda (accompagnato, quest’ultimo volume, da una gustosissima sezione fotografica riveniente dalle collezioni Siotto e Zedda Piras).

I libri dopo le riviste e i giornali, sempre la scrittura

Si trattava di libri graficamente tutti molto eleganti, ma pure sobri, documentati ma – sfuggendo all’autore l’interesse dell’accademia, e dunque anche una stretta scientificità marcata da un apparato di note di inevitabile appesantimento – sostenuti da corpose bibliografie contenute in appositi indici donati in sovrappiù al lettore: 81 titoli in Alla ricerca, 138 in Avanguardisti).

Credo di non infrangere la riservatezza epistolare – certo non è nelle intenzioni – se oso qui adesso riportare qualche riga di una lettera che il commendatore Fadda ebbe la bontà di inviarmi, in risposta ai miei apprezzamenti (che erano vivissimi), e anche alle osservazioni critiche o integrative, di Sa cittadi avolotara, il 20 gennaio 1992. Sono tre fitte paginette manoscritte – il che mi riporta allo stile di un altro grande amico e stimata personalità pubblica quale fu, e mi piace richiamarlo nuovamente, Paolo De Magistris – che testimoniano di lui, del commendatore, della sua “ideologia” civica, del suo sentimento di borghese produttore maturato nella Sardegna del Novecento ma così intimamente coinvolto, per gli aviti lasciti morali, nelle fatiche anche intellettuali della preparazione ottocentesca, fra industrie e commerci, banche e spedizioni in capo, tanto spesso, a famiglie in progressione di generazioni.

Ecco alcune di quelle righe che mi giunsero carissime e illuminanti: «Quegli anni fecondi che ho inteso “rileggere” fanno parte indubbiamente, come anche lei conviene, di un periodo straordinario (per le creatività, le iniziative, i fatti) della storia cagliaritana. Nel mio libricino (di tono indubbiamente “leggero”) ho voluto introdurre, peraltro, un convincimento “pesante”, legato – a mio giudizio – sulla importanza che avrà, per l’affermazione moderna della città, la forte alleanza che in quegli anni s’andrà a formarsi ed a consolidarsi fra alcuni grandi borghesi continentali (qui immigrati per affari o per esilio politico) e la parte più sveglia ed intraprendente della “nuova” borghesia locale. Sarà, questo “mix” lo zoccolo duro di quel notabilato urbano che, sulla scia del processo risorgimentale ed unitario, porrà mano ad importanti iniziative per far di Cagliari città “nazionale ed europea” non più “citta coloniale”, sede della corte viceregia. Mi era sembrato necessario, infatti, riscoprire e rivalutare il ruolo di quella borghesia urbana che non fu, dopo tutto, la grande assente (colpevolizzata ed angariata), come tanta storiografia marxiana vuol sostenere.

«Figure come Enrico Serpieri, Antonio Viganigo, Luigi Merello e Josias Pernis e, dall’altra parte, Francesco Zedda Piras, Pietro Ghiani Mameli, Falqui Massidda e Cocco Ortu andrebbero sempre meglio inquadrate per comprendere ed apprezzare quello che fu il vero ruolo nella formazione d’una comunità cittadina moderna e civile. Gli stessi progetti del Todde Deplano (per la Nova Karalis) e le prediche di De Francesco (per la Resurrectio Karalis) andrebbero collocati (anche per quel che mi è pervenuto nei ricordi di famiglia: mio nonno era Stanislao Scano, protagonista anch’egli di quella stagione avolotara) in quella forte intesa stabilitasi, in un connubio fra politica ed affari, fra borghesi continentali e locali. Un collante ideale per questa alleanza sarà poi la solidarietà massonica ed a quella solidarietà (anche se non sempre unitaria) verrà addebitato, dalla coscienza popolare, lo strapotere della loggia (is frammassonis ci indi pappant totu Casteddu). Mi accorgo, ora, grazie alla sua osservazione, che il ruolo di Enrico R. Pernis non avrebbe collegato all’affermazione bacareddiana: la mia allusione era riferita alla forte sponsorizzazione che la loggia offrì ai programmi “edilizi” delle giunte di Bacaredda ed al ruolo che, nella massoneria cagliaritana, ebbero personaggi come Pernis, Dionigi Scano, Giuseppe [recte: Giovanni] Zamberletti ecc.

«Tra l’altro, nella mia citazione, non intendevo che rimarcare l’importanza che ebbe la milizia massonica nel processo di affermazione di una classe borghese, vero establishment di comando negli affari della città. Intendevo ancora sottolineare il fatto che l’appartenenza alla stessa loggia favorì quella forte alleanza e, soprattutto, l’integrazione fra intelligenze e risorse continentali e locali, non più ripetutasi.

«Sulla borghesia infine (ed è questo il mio convincimento pesante contenuto in un libricino leggero) andrebbe espresso un più articolato giudizio: certamente negativo per quella rurale ed agraria che si limitò a cooptare i costumi assenteisti della vecchia nobiltà feudale; meno drastico, e per certi versi positivo, per quella urbana che non esitò a porsi alla guida di una rivoluzione mercantile e di un avvicinamento alla più progredita società continentale (gli stessi moti operai del 1906 ne saranno la controprova, per opposta lettura). Tutto qui. Mi scuso per la lunga risposta, ma l’argomento mi interessa…».

L’argomento tornò, oltre che in qualche rapido scambio occasionale, nei primi mesi del 1998, dopo la distribuzione cioè dell’Almanacco di Cagliari che comprendeva un bell’articolo a firma di Paolo Fadda sulla famiglia Pernis inquadrata nella sequenza generazionale e dei “contratti” interfamiliari (Josias – Eugenio sposato con Mirra Serpieri – Romolo Enrico sposato con Lina Tronci, per limitarmi adesso a un solo filone e a tre sole generazioni nel processo temporale dalla vigilia dell’unità d’Italia alla età giolittiana e anche all’avvio della stagione fascista). Agli apprezzamenti, sempre critici e positivi, il commendatore rispondeva: «Il mio obiettivo era quello di poter raccontare la “saga” di una famiglia che ha iniziato e diffuso l’imprenditoria moderna (capitalistica, aggiungerei) a Cagliari. Una grande famiglia borghese quindi, come di Buddenbrook di Mann o le dinastie italiane degli Agnelli o dei Marzotto. Non quindi una biografia di un Pernis (come altri avevano fatto per Josias), ma il racconto di come anche le generazioni seguenti avessero sempre perpetuato quell’ideologia “da grande borghese” (del profitto individuale e della generosità sociale) con cui avevano conquistato meritatamente in città fama e rispetto.

«Ora i Pernis più d’ogni altra “casata” hanno rappresentato un qualcosa di unico nella storia della borghesia cagliaritana tra i due secoli che, per me, andrebbe meglio conosciuto, analizzato e compreso. Purtroppo le fonti e le testimonianze non sono molte, dato che il culto del passato ha, da noi, assai pochi praticanti ed è molto facile assistere al delittuoso disperdere degli archivi.

«Non le nascondo che quel che ho raccolto è stato frutto di una fatica improba e spesso dimostratasi anche poco utile, ma quel che ho appreso mi ha dato modo di ricostruire una saga familiare che, spero, abbia interessato il lettore…».

E qui, o anche qui – pur condividendo soltanto in parte (ma in gran parte!) il giudizio storico di Paolo Fadda – affaccio, con spirito positivo e sempre positivo s’intende! – che anche riserve, o meglio considerazioni che vanno nel senso, fra l’altro, di smitizzare una certa enfasi creatasi intorno alle cointeressenze affaristiche di personalità fra loro associate dalla militanza massonica, ideale e civile. Purtroppo la perdita di trentacinque anni di verbali, della corrispondenza in arrivo e del copialettere della loggia Sigismondo Arquer – quella cui parteciparono Eugenio e suo figlio Romolo Enrico (che fu anche, dopo che Venerabile, assessore della giunta Bacaredda fra il 1911 e il 1913, per assumere quindi la presidenza dell’Ospedale Civile) – ci ha privato di una fonte importante di notizie su possibili combinazioni societarie conclusesi (ipoteticamente) nelle sale dei conversari annesse al Tempio di palazzo Fulgher, proprietà della Congregazione del SS. Sacramento in via Barcellona. Non comunque la Massoneria in quanto tale, ma la caratura imprenditoriale di questo o quello può avere favorito eventuali accordi o composizioni ora nell’edilizia ora nel manifatturiero, nei commerci dell’import/export o in altro settore attivo della Cagliari en marche fra fine Ottocento e primissimo Novecento… Le dimensioni della piazza economica locale, a ridosso del porto commerciale, consentivano a tutti gli attori sulla scena – massoni liberali e guelfi di curia – di conoscersi e trovarsi, incontrarsi, affidarsi reciprocamente. Va poi detto che la parte prevalente e più significativa (per i risvolti pubblici delle loro attività) dell’organico della capitale loggia Sigismondo Arquer (1890-1925), ma anche delle consorelle, come la coeva Karales (1914-1925) o le precedenti – dalla Vittoria e dalla Fedeltà (1861-1877) alla Fede e Lavoro (1868-1878), dalla Gialeto (1869-1880) alla Libertà e Progresso (1869-1881) – o le foranee d’Iglesias od Oristano, in parte anche Carloforte, ma dovrebbe dirsi anche di Nuoro e Sassari, di Alghero e Tempio, ecc. guardava piuttosto all’insegnamento e/o docenza universitaria, all’impiego statale e privato, alla libera professione (e anche alla marina mercantile come a quella militare) che non all’impresa, se non a quella commerciale e agricolo-commerciale.

Certamente condivisibile è comunque l’opinione espressa da Paolo Fadda, a proposito di borghesia produttiva, circa la partecipazione dei massoni sardi, e cagliaritani in specie, a quella sensibilità che affidava la conquista del progresso civile al gradualismo riformatore (con Bacaredda si sarebbe detto “liberalismo organizzatore”, anticipazione o preparazione della democrazia, quella democrazia che il grande sindaco celebrò in un memorabile discorso del novembre 1911): il gradualismo riformatore che univa lo spirito laico e secolarizzato al “fare” per intraprese che sempre meglio si presentavano interne alle regole e ai bisogni del mercato nazionale e anche internazionale.

Di sicuro era una borghesia che associava all’interesse privato una sensibilità solidaristica e filantropica (… all’americana!) che tendeva a supplire, dopo o a lato del mutualismo, le ancora persistenti e vistose lacune dello stato sociale, quelle stesse che il giolittismo – valga qui la categoria particolare per dar riflesso all’intera stagione prebellica – cercava di colmare con una legislazione progressista… Di qui infatti tutta una serie di iniziative assunte per sovvenire alle necessità rappresentate dalle fasce deboli della società, sostenendo – in concorrenza virtuosa con gli aiuti provenienti dalla parte guelfa, dalla Cagliari della rete conventuale o parrocchiale di monsignor Berchialla, o monsignor Serci-Serra, o monsignor Balestra, o monsignor Rossi cioè… – istituti ed ospizi o asili, promuovendo il dormitorio pubblico (girato poi alla Croce Rossa Italiana per farne un ospedale chirurgico al tempo della grande guerra), o la Croce Verde d’assistenza, o magari la Casa delle madri, ecc.

Allievo salesiano

L’argomento – i Pernis capifila della borghesia industriosa, della borghesia commerciale che lanciava e prendeva “ponti” dai mercati continentali ed esteri – porta la mente ai generosi sussidi della famiglia Pernis in particolare (e dei propri sodali) a pro delle opere pie e delle istituzioni sociali a conduzione religiosa, l’oratorio e la scuola salesiana in primis. E fra gli scritti più recenti di Paolo Fadda merita un richiamo speciale, credo, proprio quello dedicato al centenario della presenza dei figli di don Bosco in Sardegna, fra Lanusei e Cagliari e Sanlussurgiu ecc. Non tanto per la diligentissima ricostruzione di un complesso percorso storico evidentemente caratterizzato, nelle diverse stagioni del Novecento, dal mix fra lo stretto ecclesiale ed il più lato sociale, fortunatamente ben documentato dagli archivi della Famiglia religiosa ed in specie dell’Istituto di viale fra Ignazio, ma anche per i cenni – non più che cenni in verità – alla esperienza dello stesso autore nei suoi anni ginnasiali (cf. “Il centenario dei salesiani a Cagliari” in Un secolo con don Bosco a Cagliari. Cento anni di cammino insieme, Cagliari 2014).

Ricordava, Fadda, le provenienze non soltanto cagliaritane dei suoi compagni, così come degli alunni di prima e di dopo: «sui primi cinquanta allievi del collegio di Cagliari, solo undici erano della città, mentre la maggior parte proveniva dalla provincia, soprattutto da centri lontani e disagiati logisticamente come Carloforte, Tonara, Santadi e Ballao. Così, laddove non era arrivato lo Stato, sarebbero stati i salesiani a diffondervi l’istruzione, a far in modo che tanti giovani maurreddini, trexentini o seddoresi sapessero dilatino e di algebra, di geografia e di greco. Saranno poi proprio questi ex allievi ad alimentare una classe dirigente isolana divenuta sempre meno urbana.

«Sarebbe stato proprio il lievito proveniente da questi ex allievi a tenere sempre viva nell’isola la fiammella di quella che piace chiamare la formazione salesiana. Che non ha riguardato soltanto la qualità dell’insegnamento e della didattica (che è stata peraltro sempre molto alta), ma che ha inciso profondamente nell’etica civile di quanti hanno avuto modo di studiare negli istituti tenuti dai figli di don Bosco. Essere ex allievo salesiano è infatti un plus che non scompare, che non si dimentica e che accompagnerà per tutta la vita… il ricordo degli anni trascorsi in collegio, la fraternità rispettosa maturata con i superiori, la lietezza dei giorni trascorsi in un ambiente sereno, avrebbero fatto sì che anche l’ostico greco di Senofonte, il ginepraio di certe costruzioni sintattiche del latino od i teoremi di Talete fossero stati amati alla stessa stregua delle belle gite scoutistiche, delle accese partite di calcio o delle esperienze filodrammatiche con cui si consumavano giornate indimenticabili.

«Per chi scrive, che ha poi proseguito i suoi studi al liceo classico “Dettori”, – ecco qui Paolo Fadda che si ripensa adolescente – i cinque anni ginnasiali trascorsi nell’Istituto di viale Fra Ignazio, sono rimasti sempre, nella sua memoria, i più cari, proprio perché ad essi deve tanto della sua formazione di cittadino e di buon cristiano».

Evocando le larghe plaghe di povertà presenti nella Cagliari d’inizio Novecento, fra il sovraffollamento di sottani e tuguri e la diffusione di malattie come la scabbia, il tracoma, la tubercolosi, ecc. sarebbe stato scontato richiamare l’azione di soccorso e accoglienza delle sante vincenziane, di suor Giuseppina Nicoli prima, di suor Teresa Tambelli dopo, e naturalmente delle loro sorelle religiose, nel quartiere della Marina, e con loro (e molti altri del mondo cattolico) naturalmente dei salesiani. L’educazione come strumento preventivo delle… tentazioni. L’Oratorio guidato da don Giulio Reali, l’Istituto sostenuto da molti benefattori e premiato dalla raggiunta parificazione delle cinque classi ginnasiali… Poveri e ricchi insieme, e siamo già negli anni ’30, negli anni che finiscono nell’imbuto drammatico della seconda guerra mondiale per merito di dittatura.

Scrive Fadda: «Forse è importante comprendere il perché, nelle scelte di quelle classi sociali che, nella selezione del tempo, si indicavano di “benestanti”, avesse prevalso, per i propri ragazzi, la frequentazione dell’istruzione nel collegio dei salesiani. Non è facile dire se questa fosse, in qualche modo, una sorta di voluto allontanamento dall’insegnamento dei ginnasi e licei pubblici dove, per tanti aspetti, prevaleva una sorta di indottrinamento laicista; o se, al contrario, ci fosse una convinta preferenza a quell’insegnamento cristiano (dei sani principi etici e dei virtuosi valori civili) che il collegio di don Bosco assicurava come dei validi plus per la migliore maturazione civica dei giovani.

«Proprio chi scrive, avendo frequentato in quel collegio le classi ginnasiali negli anni fascisti – per una precisa scelta voluta dai propri genitori – può testimoniare come proprio quell’educazione cristiana, come impartitagli dai sacerdoti dell’ordine di San Francesco di Sales, avrebbe prevalso, nella sua maturazione intellettuale ed etica, a quell’infusione di cultura fascista che aveva conosciuto nell’obbligatoria frequentazione delle organizzazioni paramilitari della Gioventù del Littorio».

I tuoni della guerra

Certo deve aver maturato lo spirito del ragazzo la sua presa di coscienza della caduta del fascismo, del regime di dittatura tronfio, razzista e guerrafondaio in essere già da otto anni prima che egli nascesse e che s’era detto immarcescibile, eterno. Eterno come il nazionalsocialismo dell’alleato tedesco. In L’amico di uomini potenti questo annota Paolo Fadda:

«Proprio per quel tormentone imposto dalla gerarchia del fascismo, avrebbe avuto ragione quell’ignoto cittadino cagliaritano che, nei grandi manifesti affissi nella via Roma a metà del ’41 ed in piena guerra, aveva corretto il punto esclamativo posto dopo quel perentorio VINCERE! con un bel punto interrogativo, ed all’altrettanto autorevole “M”, firma del duce del fascismo, aveva voluto aggiungere una timida “a” seguita da tre puntini. Con quei suoi dubbi era stato di certo un buon indovino, perché alle vittorie promesse sarebbe invece giunto un rosario di insuccessi e di sconfitte militari e, insieme, una pioggia di bombe e di terribili distruzioni in tante città, compresa proprio Cagliari.

«Nella sua memoria quei ricordi rifioriranno assai spesso, perché quei cumuli di macerie polverose e quell’odore acre di morte gli erano rimasti impressi indelebilmente. Proprio perché da quei segni distintivi della sua città distrutta, avrebbe tratto il convincimento che quel fascismo non sarebbe stato eterno, come il sole o la luna, come sosteneva il suo capo manipolo della GIL. Non era certo un sentimento compiuto, ma quei dubbi gli erano sorti osservando quei giornaletti del regime che continuavano ad irridere Re Giorgetto d’Inghilterra e il ministro Ciurcillone, nonostante ce le avessero suonate di santa ragione a capo Matapan ed a Tobruk. Le mie preferenze andarono allora a quei vecchi album d’avventure, made in USA ma italianizzati dall’editore Nerbini, quelli di Cino e Franco, di Gordon e di Mandrake.

«Anche a Cagliari, per la verità, era cominciato ad emergere, in quei giorni, un certo malumore, un distacco dalla compattezza predicata e richiesta da gerarchi e gerarchetti del PNF. Aveva fatto specie l’arresto del giovane universitario Giampiero Besson che, rivolto ad un ritratto di Mussolini esposto nella sede del GUF nell’ex collegio di Santa Teresa in Marina, aveva pronunciato delle frasi oscene, mandando al diavolo il “duce di merda”. Era stata la guerra, con quegli andamenti negativi che avevano messo in luce l’impreparazione delle nostre forze armate (sul nostro cielo volavano i nostri caccia CR 42 a doppia ala a fronteggiare gli “spitfire” dell’aviazione inglese, e sui mari si subivano le drammatiche intercettazioni con i conseguenti affondamenti per via di quei “radar” a cui i nostri generali non avevano voluto credere), ad aprire delle ampie brecce sul consenso al fascismo e sul morale patriottico.

«Che la gente avesse perso ogni fiducia nel fascismo, lo avrebbe avvertito nei discorsi di famiglia, in cui l’inevitabile disfatta militare andava ormai a braccetto con il crollo del “mito Mussolini”: ne aveva parlato uno zio, alto dirigente in un ministero romano, affermando che ormai tutto era allo sbando e che nella capitale correvano ormai insistenti voci d’armistizio e di rimpasti nei vertici del partito fascista.

«Anche a scuola, nella sua scuola dei salesiani, un giovane prete che insegnava latino, leggendo quel che riportavano i bollettini di guerra, già da tempo aveva trasmesso ai suoi allievi le preoccupazioni per una sconfitta sempre più vicina e, insieme, il malumore per un “governo” che pareva insensibile di fronte a tanti disastri.

«Che quel “vincere” che campeggiava ancora nei manifesti fosse ormai divenuto un qualcosa di irreale era nella convinzione generale; e che di quella sconfitta il fascismo ne fosse il maggiore responsabile ne era divenuta la conseguenza logica.

«Non gli avrebbe quindi destato sorpresa alcuna quanto avrebbe appreso dalla piccola “radio Balilla” nella tarda serata del 25 luglio del 1943; era un annuncio che diceva: Sua Maestà il Re Imperatore ha accettato le dimissioni del cavalier Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

«Era la fine del fascismo, d’un regime, e per quel che aveva fino ad allora capito, una inattesa scissione di quella simbiosi “Patria-fascismo” su cui era cresciuto e su cui, con la scuola, gli avevano fatto costruire le sue certezze. Ora, come si fosse giunti a quel passo rivoluzionario, non gli era stato facile saperlo. Le poche notizie diffuse dall’EIAR, parlavano solo d’una decisione autonoma del sovrano…».

Dalle personali memorie salesiane risale, chiarissimo, il riconoscimento di debiti verso educatori e maestri frequentati ancora nel 1944-45 (dopo la devastazione dei bombardamenti e lo sfollamento cioè) «nelle piccole aule di fortuna di fianco alla vecchia cappella del collegio»: «furono anni decisivi». Testimonianza diretta quella consegnata al volume per il centenario salesiano: «L’insegnamento di don Giulio, che era il docente d’italiano, aiuterà proprio chi scrive a depurarsi – questo è il termine più appropriato – dai residui fumi della retorica del regime fascista ed a capire – questo sì che sarà per lui decisivo – il significato autentico del termine “democrazia”. Inoltre, lo porterà ad amare un poeta come Rainer Maria Rilke, proprio per l’esser stato chiamato a commentare, con un tema in classe, dei versi di una sua poesia che poi l’avrebbero accompagnato per sempre, come straordinaria lezione di vita: Sii paziente verso tutto ciò che è irrisolto nel tuo cuore e… cerca di amare le domande, che sono simili a stanze chiuse… Non cercare ora le risposte che non possono esserti date poiché non saresti capace di convivere con esse… Di quell’insegnamento avrebbe avuto poi modo di verificare, nei diversi incroci della vita, la grande verità».

Arriva la democrazia

Per Cagliari come per la Sardegna e l’Italia tutta, la fine della guerra avrebbe presto significato l’incontro e lo scontro politico, quello elettorale, quello delle assemblee rappresentative: le comunali nel marzo 1946, le politiche e il referendum nel giugno di quello stesso anno, le prime parlamentari nel 1948… Furono «giorni in cui la politica – le scelte politiche – erano divenute, come si diceva, “un tutto”. Nel senso che quelle elezioni avrebbero rappresentato un turningpoint decisivo per il nostro Paese: se rimanere nell’Ovest del mondo, fra le democrazie occidentali, o se trasmigrare nell’Est delle repubbliche sovietiche, non diversamente da Ungheria e Cecoslovacchia, cadendo nelle spire del totalitarismo marxista. Essere buoni cittadini e bravi cristiani, ci aveva detto don Brugo, uno dei nostri docenti più ispirati politicamente, significava dover effettuare delle scelte in difesa dei valori imprescindibili della propria formazione cristiana: così salvaguardare il proprio Paese dai pericoli dell’ateismo staliniano era quindi un imprescindibile dovere».

Sono, siamo alla conclusione. Il dodici-quindicenne ginnasiale iscritto ai corsi tenuti dai figli di don Bosco propone a se stesso, oggi signore anziano che s’avvicina ai novanta, e a tutti quanti gli fanno corona una riflessione sui tempi e sui modi della trasformazione sociale compiutasi a Cagliari (e di Cagliari) decennio dopo decennio, a partire da quel certo anno antivigilia di guerra patriottica e ancora risorgimentale, in quel di Palabanda: «Cagliari è molto cambiata. E sono cambiati, e non di poco e non sempre in meglio, i cagliaritani. È divenuta una città multiforme e multietnica, non più compatta come in quel lontano 1913, forse sformata e disordinata socialmente, non solo urbanisticamente, ma indubbiamente cresciuta sul piano del welfare sociale. Ha perso certamente qualcosa da allora, soprattutto nella coesione sociale dei suoi cittadini, ma è cresciuta nella consapevolezza delle proprie responsabilità e del proprio ruolo di città capitale dell’isola. Purtroppo ha ceduto molto all’egoismo, tanto da non avere più, come allora, molta attenzione ai valori della sussidiarietà e della solidarietà verso i meno fortunati, sostituiti purtroppo dal prevalere, in molti, del solo proprio tornaconto.

«Verrebbe quasi da dire che oggi, un secolo dopo, ha quasi più bisogno d’allora d’una forte infusione salesiana, perché i suoi giovani non scantonino dalla retta via e non s’abbandonino più ai vizi anziché divenire portatori di virtù civiche. Certo, la società di oggi non è più quella d’allora, né la famiglia ha la stessa solidità e la stessa compattezza morale. Ma i principi pedagogici di don Bosco sono sempre attuali, perché fondati sull’universalità della morale cristiana.

«Per essere chiari, occorre infatti riconoscere che proprio questa scuola salesiana abbia sostenuto e favorito la formazione culturale di generazioni di bravi cittadini e di buoni cristiani. Ma non solo. Ha fatto sì che si potesse contare su delle élites di uomini preparati ad assumere importanti responsabilità nella vita sociale, politica ed economica del Paese. Anche la Sardegna ha potuto godere dei benefici di questa scuola di vita, prima ancora che dispensatrice di saperi e di cultura…».

Come Bobbio, diversamente da Bobbio

Chiesero una volta al filosofo Norberto Bobbio, allora al compimento anch’egli dei 90 anni – al Bobbio che giusto alla vigilia di quel gran compleanno aveva licenziato, per gli editori Laterza ed a cura di Alberto Papuzzi, un bellissimo libro autobiografico, Autobiografia il titolo –, quale fosse la qualità maggiore ch’egli, intellettuale di rango ma pure prestigioso esponente delle istituzioni dopo che dell’accademia, riteneva dovesse avere l’uomo: «la bontà», rispose, non l’intelligenza o la cultura o le esperienze, ma «la bontà». La bontà come categoria non autonoma, come una collina solitaria in una vasta pianura ricca di altre alture, una dote fra altre doti: no, la bontà come senso e sentimento della vita e della socialità, e dunque ispirazione ed accompagnamento, azione mentale e modalità ordinaria dell’essere e del fare, modalità di relazione e di pensiero.

Anche lui ora ai 90, e gli auguriamo – in buona salute e la perfetta lucidità di oggi – i 100, Paolo Fadda, per come lo conosco, è un uomo «buono» oltre che colto, dotto e d’infinita esperienza, è buono e partecipativo, umile come sanno esserlo i migliori: che si presta, di sua iniziativa, a servire la messa celebrata da don Mario Cugusi, a Sant’Eulalia o al Santo Sepolcro, in suffragio di chi pure non ha conosciuto personalmente e se ne è andata silente…, che si presta nell’assistenza quotidiana e continuativa dei malati, e quanti malati! nella sua strada…

Mi vien facile affermare pubblicamente (ma anche pudicamente) questo giudizio che poi non è nient’altro che un riconoscimento, una presa di conoscenza e nient’altro. Egli – sarà forse per l’educazione ricevuta dai salesiani settanta e ottant’anni fa – nutre il suo presente di “gran borghese” (ma lo ha sempre fatto!) della pratica quotidiana di un’arte che non è da tutti: della semplicità materiale, della pratica austera (e serena) che ha distinto la vita dei popolani suoi conrionali, generazione dopo generazione, nel trapezio inclinato di Lapola, passaggio necessario fra la città-dominario d’un intero millennio… dopo l’esaurimento del giudicato, e il mare che fu il perimetro della sua prima natura (e storia) fenicio-punica e romana, e altomedioevale. Il mare che egli gode, e interroga, e culla dalle grandi finestre di palazzo Zedda Piras. Per quanti decenni, anche nel Novecento, i pescatori della Marina soci della società parrocchiale di San Pietro, seduti a terra nel piazzale della darsena, riparavano e rassettavano le loro reti… e ricevevano la visita del commendatore, e anche la mia, allora bambino o ragazzino del giro di monsignor Sini, o già di dottor Floris…

Zibaldone, in amicizia: per Sant’Eulalia, per don Mario Cugusi

Mi accorgo di aver sviluppato questo articolo di “festa” per il compleanno nuovo e bello del commendatore Paolo Fadda “patriarca civico cagliaritano” – lui come poteva esserlo stato, anni addietro il professore Antonio Romagnino –, con i ritmi scombinati, o rapsodici, dello zibaldone. Ma forse è questo il pedaggio che deve pagare il biografo, o l’osservatore chiamato a mettere nero su bianco, quando è egli stesso compromesso con il suo personaggio: così in uno stretto rapporto, fra consuetudine ed amicizia, per condivisione non soltanto di talune idealità ma anche di numerose (direi qualificanti ma anche defatiganti) esperienze. E quale esperienza fu la difesa dell’opera di pedagogia religiosa e sociale di don Mario Cugusi nella parrocchia interetnica di Sant’Eulalia, a Cagliari; quale esperienza fu la difesa di Davide contro la forza di Golia, negli stretti percorsi che ci erano dati dai potentati fragili eppure prepotenti ed autoreferenziali della curia romana, nel “caso” Cugusi ma anche quando a un diacono – pur lontano per certa sua visione ecclesiologica dai suoi stessi difensori – l’ordinario canonico incapace di dialogo e anche rispetto impedì per anni l’ordinazione presbiterale cui invece era ritenuto idoneo dal rettore del Regionale… Fino a dover noi rappresentare al papa stesso, in rapporti chiusi in doppia busta, tutta una serie di elementi critici da meglio indagare da parte di un visitatore apostolico, e giudicare e possibilmente sanare o superare, del costume della Chiesa metropolitana locale… Sarebbe venuta, nel febbraio 2012, la prima positiva decisione di papa Benedetto, sarebbe venuta poi, il 10 marzo 2015, la “dichiarazione” formale di papa Francesco, clamorosa per tanti aspetti, e dunque ancora una volta, seppur con quanto ritardo! le fatiche argomentative di chi aveva portato notizie e ragioni oltreTevere trovarono attenzione.

Verrà il momento in cui tutto quanto fu recato, da Cagliari, all’esame dei capi delle congregazioni vaticane e dello stesso pontefice potrà essere reso integralmente pubblico. Saranno forse carteggi che i loro estensori lasceranno agli storici avvenire, oggi bisogna soltanto dire essersi trattato di una testimonianza comunitaria obiettivamente non da poco, impegnativa anzi, e gravosa, dolorosa perfino, ma necessaria.

Cagliari e la Marina hanno perduto, nel 2010, giusto dieci anni fa, l’opera collaudata e ancora in progress e l’intelligenza realizzativa di don Mario Cugusi. E’ stato un male il modo, più che la cosa. Perché comunque la parrocchia di Sant’Eulalia è stata affidata, in subentro, a buone, ottime mani, ad un presbitero di infinite risorse spirituali, ecclesiali e sociali: a don Marco Lai, anima vigorosa ed abile, progettuale, provvida e generosa oltre ogni limite, della Caritas diocesana. E anche perché il talento di un presbitero di tanta dottrina e non minore carisma quale è don Cugusi è stato donato, virtuosamente negli aggiustamenti successivi (che non han dato però gloria a nessuno nelle stanze dell’episcopio), ad una comunità pari, per dignità, a quella urbana invedovata: alla parrocchia di Serdiana, segnata nel presente dalla risvegliata vivacità associazionistica tanto più dei ragazzi e nella storia segnata dal passo pastorale di due grandi arcivescovi che riposano il loro “sempre” in quella antica e dolce parrocchiale del SS. Salvatore: monsignor Agostino Saba – uno dei massimi storici della Chiesa nello scorso secolo – e monsignor Paolo Carta, cui di recente mi è stato dato di stendere, insieme con il prof. Tonino Cabizzosu, una biografia a quadri tematici.

Don Cugusi, oggi prossimo al suo cinquantesimo di messa, ha costituito in questo periodo un ponte fra la città e il suo hinterland che può vantare una storia religiosa singolarmente interessante anche per gli uomini che l’hanno sostenuta addirittura nei secoli. Come già proposi tempo fa alla parrocchia pirrese di San Giuseppe che celebrava la memoria del suo fondatore don Salvatore Casu – quello stesso don Casu che da parroco di Sant’Eulalia avrebbe avuto a lungo per suo collaboratore e vicario l’allora giovane don Cugusi esordiente alla Marina – credo sarebbe utile e bello che a Serdiana, in onore degli arcivescovi di nascita locale Agostino Saba e Paolo Carta, sorgesse un centro studi e documentazione sulla Chiesa della cinta cagliaritana, di quell’area cioè che oggi chiamiamo “città metropolitana”.

Questa è però, me ne accorgo, materia che (in parte) esula dal tratteggio biografico di Paolo Fadda che mi ero riproposto, di lui intendendo piuttosto presentare il profilo civile e politico e, ad esso connessa, la statura intellettuale di studioso e autore di saggi che rimarranno.

Con Carlo Delfino editore

Il filone del quale egli s’è fatto caposcuola, e che metterei di fianco alle produzioni storiografiche promosse negli ultimi due decenni da Cecilia Dau Novelli (dapprincipio con Sandro Ruju) – mi riferisco in particolare al Dizionario storico degli imprenditori in Sardegna, Cagliari, AIPSA edizioni, 2012 e 2015, voll. I e II, e La società emergente: élite e classi dirigenti in Sardegna tra otto e novecento, Cagliari, AMD edizioni 2003, nonché Alle origini della Rinascita. Classi dirigenti e bonifiche nella Sardegna contemporanea, Cagliari, AMD edizioni, 2007 – è quello delle biografie dei capitani d’industria della Sardegna degli ultimi due secoli.

L’incontro con l’editore Carlo Delfino è stato felicissimo, ed il catalogo della casa editrice sassarese, già di alta qualità, si è di molto arricchito proprio per l’apporto dei saggi firmati da Paolo Fadda o da altri (come Bruno Addis, Alessandro Ponzeletti, Marisa Mura, Giuseppe Zichi) che hanno conferito le loro opere alla collana “I grandi dell’imprenditoria in Sardegna” curata dallo stesso Fadda. Tutte opere in cui alla densità delle informazioni si somma la scioltezza della prosa, che rende facile e gradevole la lettura, quasi si tratti di romanzi di vita. Opere anche che gli inserti fotografici (con il tanto di didascalie descrittive) integrano perfettamente, marcando con le evidenze fisiognomiche le sagome caratteriali dei protagonisti rappresentate nel testo.

Dopo L’uomo di Montevecchio – Giovanni Antonio Sanna cioè – ecco così Il Cavaliere del Nasco, biografia di Francesco Zedda-Piras, Il barone delle industrie nuoresi, alias Franceschino Guiso-Gallisai, Fratelli Pinna. Una storia di successi, riferito alla famiglia di Thiesi primattori eccellenti dell’industria casearia sarda, Montevecchio. L’ingegnere che la fece più grande, compendio biografico di Alberto Castoldi (sul conto del quale – direttore generale delle miniere e parlamentare cocchiano – l’autore aveva già dato alle stampe, e sempre da Carlo Delfino editore, La Montevecchio di Alberto Castoldi. La vita, i successi, i luoghi di un grande imprenditore, testo della conferenza da lui tenuta nel 2013, proprio nel villaggio minerario, all’inaugurazione della mostra degli oggetti d’uso comune e degli strumenti di lavoro e di studio appartenuti all’ingegnere che fu anche genero di Giovanni Antonio Sanna). E con loro, nella collana editoriale, Il patriarca del molino di Santa Maria (cioè Salvatore Azzena Mossa, saggio a firma di Bruno Addis), Il Commendatore delle corriere sarde (Sebastiano Pani cioè, di Alessandro Ponzeletti), Gavino Clemente. Il cavaliere intraprendente (di Marisa Mura), Sisini. Imprenditori di Sardegna (direi Francesco in primo luogo, ma l’albero genealogico compromesso nelle attività economiche è abbondante, di Giuseppe Zichi).

Mi premeva segnalare queste più recenti fatiche che la mente e la mano instancabili di Paolo Fadda autore e curatore di collana ha offerto alla platea larga dei “consumatori” del genere biografico calato nella realtà socio-economica dell’Isola fra contraddizioni e avanzamenti. E ancora aspettiamo il resto, già annunciato (e magari… uscito nel frattempo): I signori di Turriga. Gli Argiolas di Serdiana, la storia dei Capra e perciò della Vinalcool, quella di Salvatore Dau, titolare di importanti concerie sassaresi.

Il manifesto della lettura storica, e della speranza ottimista

Come concludere questa galoppata intorno alla figura, ma preferirei dire la personalità, o soltanto la persona di Paolo Fadda? Penserei di farlo dando a lui stesso la parola, raccogliendo dalle conclusioni del più volte richiamato L’amico di uomini potenti un brevissimo brano che pare sintetizzare bene il suo giudizio sulla condizione presente e passata della sua e mia, nostra terra sarda, di noi sardi e volgere poi alla benevolenza della sorte, costruita però mattone su mattone dalla volontà e spirito comunitario e di sacrificio, il futuro che ci attende o sarà il presente di chi ci succederà…

Eccole le parole di Paolo Fadda (esse risalgono a una decina d’anni fa, o poco meno, e se assumono, in specie per le conclusioni, un certo senso se inquadrate nello sprofondo della recessione post-2008, paiono trovare una nuova significatività nell’attuale crisi pandemica):

«Un amico di grande saggezza sostiene che gli unici momenti di sostanziale e convinta unità del nostro popolo li si devono alla “Brigata Sassari”, cioè a quell’esercito di fantaccini sardi dalle mostrine bianco-rosse, che si batté eroicamente nella guerra del ’15-’18 in nome di una patria comune e in indipendenza di campanile.

«C’è ancora un altro aspetto, che sarebbe poi una penalizzazione, da cui l’isola non è riuscita a liberarsi completamente. Ed è quella maledizione di a “su connottu”, che ha condizionato, e continua a condizionarne il progresso. Ed è per questo che vorrei raccontare tre storie, che sono assolutamente vere, anche se potrebbero apparire come delle favole.

«La prima: un secolo e mezzo fa, allorché i deputati isolani di fede progressista si batterono perché anche la Sardegna ottenesse dal governo la sua rete ferroviaria, un movimento d’estrazione ruralista mise in piedi una decisa opposizione popolare, sostenendo che lo sferragliare dei convogli avrebbe spaventato e fatto abortire le pecore gravide, provocando così un forte danno alla pastorizia (meno agnelli e meno latte).

«La seconda: nei primi anni del ’900, allorché un missionario della meccanizzazione agricola come l’ingegner Francesco Sisini, in sintonia con i tecnici delle Cattedre ambulanti, volle introdurre l’aratro con il vomero in ferro , in modo da meglio dissodare il terreno per la semina, furono assai numerosi i contadini che non ne vollero sapere, sostenendo a spada tratta che niente era meglio del tradizionale chiodo ligneo, perché così avevano sempre arato i loro padri, i loro nonni ed i padri dei loro nonni (aggiungendo che quel ferro avrebbe danneggiato la fertilità della terra).

«La terza, infine, riguarda la contemporaneità, ed attiene all’energia, cioè al caro-bolletta elettrica, che qui in Sardegna ha raggiunto dei record europei. Perché la si vorrebbe indipendente da ogni padre o madre che si trovi in natura. Così, dalle ribellioni popolari di anni or sono contro gli sbarramenti idraulici sui nostri maggiori fiumi (colpevoli di sottrarre spazi ai pascoli comunitari), si è giunti all’ostilità contro tutte le energie rinnovabili – vento, sole e acqua – colpevoli di violentare la naturalità dei luoghi e di danneggiare l’immagine bucolica delle nostre campagne deserte e selvagge (così da noi si continua a produrre elettricità da quel petrolio degli sceicchi che ogni anno aumenta i suoi costi).

«Questo perché gli ambientalisti di casa nostra (o, almeno, gran parte di essi), alimentati da una cultura talebanicamente conservatrice, continuano a mitizzare una passata civiltà contadina che sarebbe fiorita, a detta loro, in una immaginaria Sardegna felice (dimentichi peraltro di avere alle nostre spalle, purtroppo, solo un passato, neppure molto remoto, fatto di miserie, di lacrime e di infelicità collettive). Confondendo così – come sostiene un amico – la sostenibilità con l’immutabilità ambientale, tanto da negare che il paesaggio possa essere accompagnato da un aggettivo (vitato o agrumicolo, ma anche industriale o urbano) che ne specifichi la destinazione antropica impressa alla natura originaria.

«Ora, proprio da quel che si è appena detto, si può meglio comprendere come le vicende storiche di quest’isola ne abbiano segnato la difficoltà, e – non secondariamente – anche l’inettitudine ad affrontare le sfide dettate dal progresso. Perché siamo stati sempre più conservatori che innovatori e, ancora, perché abbiamo fatto dell’essere degli isolani degli isolati. Non paia questo un gioco di parole, ma un tentativo d’autocritica, d’esame di coscienza.

«Ora, se la storia – come ci hanno insegnato – è, o deve essere maestra di vita, al passato si deve saper guardare per trovare insegnamenti od ammonimenti, ed anche per capire come e perché sia necessario cambiarne le storture. Per noi sardi, poi, soprattutto la geografia dovrebbe esserci maestra, perché sarà proprio lei ad avere condizionato la nostra storia di isolani-isolati.

«Non vi può essere dubbio, peraltro, che sarà pur sempre la condizione d’essere un’isola ad impregnare la nostra cultura, sia quella sul versante del progresso economico che su quello dello sviluppo sociale. Tanto da far pensare che sarebbe necessario, e forse indispensabile, riuscire ad estirpare dal nostro gene l’impronta d’essere e di sentirci isolani. Cioè di dover rimanere dei “diversi” da quanti vivono in quella che un tempo veniva chiamatala “terraferma”, cioè i territori continentali. Con l’aggravante che quella diversità la si sarebbe associata ad una sorta di neo-misoneismo, cioè un’avversione per tutto quel che di nuovo proviene dal di fuori.

«Potremmo quindi, un giorno o l’altro, divenire una “non-isola”, nel senso d’avere acquisito, innanzitutto nella cultura reale, un patto di contiguità con quel che avviene altrove, ai di là del Tirreno? E’ una domanda che pongo ed a cui mi è difficile rispondere, perché m’accorgo che si mantiene sempre più esuberante, dalle nostre parti, quelle chiusure da isolamento, con quelle punte avanzate che non ci vorrebbero più italiani (e forse neppure europei).

«Per quel che ho potuto assistere in questi decenni, sarebbero state molte di più le sconfitte che i successi per quanti cercarono, con l’economia e con la politica, di patrocinare una proiezione extra-isolana, un andare verso stabili ed efficaci legami con l’esterno. E ad ogni sconfitta – vorrei aggiungere – avrebbe purtroppo corrisposto una chiusura, a sempre più mandate, del chiavistello con le terre continentali (andrebbero letti in questa luce, a mio parere anche i ciclici revival indipendentisti).

«Non ci si è neppure fatti convincere da quel che andava avvenendo attorno a noi, con un’economia mondiale che andava trasformandosi in arcipelago, secondo la fortunata metafora di alcuni studiosi americani. Un “arcipelago”, dunque, dove anche isole come la nostra possano avere ragion d’essere, se interessate e capaci nell’utilizzare quei links che oggi rendono vicine anche le realtà più remote.

«Dalle nostre parti è rimasto purtroppo molto “romanticismo economico”, di cui la metafora del “pecorino romano” e del pionierismo newyorkese degli Albano e dei Centola ne esprime tutte le valenze negative. Quasi che da quel 1900 il mondo si fosse fermato e che ai formaggi piccanti da grattugia potesse arridere la stessa fortuna di allora.

«Ma “torraus a cuili”, come si dice dalle nostre parti. Domandiamoci quindi: quale domani si potrebbe prevedere od auspicare per la nostra Sardegna? Non è facile, in questo caso, far mestiere di profeta, dato che quel futuro sta tutto nelle nostre mani (e non certo in quelle di Giove).

«Cerchiamo di capirci meglio. C’è innanzitutto da prendere atto che si è entrati, ormai da qualche anno, in una fase fortemente recessiva dell’economia mondiale, ancor più grave, per quel che si può arguire, di quella esistente alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Sarà molto difficile, quindi, che una mano d’aiuto possa pervenire dall’esterno come allora; né si può pensare né ad un nuovo piano Marshall, né ad una nuova Cassa per il Mezzogiorno o ad una replica del piano di Rinascita. Dobbiamo farcela da soli, con le nostre forze e con le nostre capacità. Non ci sono più risorse esterne da richiedere ed occorre quindi pretendere la gestione più oculata possibile di quel che ci resta.

«Forse si è giunti all’antivigilia di un nuovo drammatico show-down, che imponga una mobilitazione generale perché ciascuno di noi, giovane o vecchio, uomo o donna, si rimbocchi le maniche e remi forte perché si eviti il naufragio e si possa raggiungere la sponda d’un rilassante benessere.

«Si dovrebbe essere convinti che il ritrovare una strada che ci riporti alla crescita comporta un metamorfosi che sia spirituale e culturale insieme; occorre ritrovare, ridando loro il primato, valori come il gusto per l’eccellenza, l’impegno per la creatività, la valorizzazione dei meriti, lo spirito della solidarietà e, ancora ma non ultimo, il senso della giustizia. Perché, come ci ha insegnato Weber, lo sviluppo nel progresso si fonda sempre su quei valori che definirei di natura spirituale: senza di essi fallirebbero anche le più valide iniziative, i più razionali progetti imprenditoriali. Sta quindi a noi – e soprattutto alle nostre giovani generazioni – riscoprirli e ricollocarli fra le priorità dell’impegno.

«Per questo, sono dell’avviso che debba scriversi a lettere cubitali in ogni cantonata dei nostri paesi e delle nostre città, come in ogni cavalcavia delle nostre strade (e ancor più nella coscienza di ogni sardo), quella “meravigliosa” frase del primo Kennedy: «Ask not what your country can do for you; ask what you can do for your country» (non chiederti cosa può fare il tuo paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese).

«Ecco: mi pare questa la “chiusa” più giusta ed opportuna come morale di quest’antologia di ricordi. Perché in quegli anni difficili del dopoguerra, come in quelli euforici della riscossa, ogni sardo seppe dare il meglio di sé per far sì che la sua terra rinascesse e diventasse, a pieno titolo, una regione d’Europa. Ed è questo l’augurio (che è poi una forte speranza) che ci rivolgiamo in chiusura, perché quel miracolo d’allora si rinnovi e che ritorni fra di noi il progresso e il benessere. Così sia».

Paolo Fadda, patriarca 91. Il biografo di Cagliari e della sua borghesia ai nuovi appuntamenti di studio e narrazione

In diverse occasioni ho dedicato qualche scritto a Paolo Fadda, alla personalità pubblica che per la sua vita onesta e saggia di amministratore – lo ricordo giovane consigliere e capogruppo in Consiglio comunale nei cruciali anni della Rinascita (e nel passaggio di sindacatura da Giuseppe Brotzu a Paolo De Magistris, dopo l’approvazione del primo piano regolatore postbellico di Cagliari) e anche in altre sedi, compresa l’Università e compresi il Banco di Sardegna e l’Ente Minerario Sardo (per non dire poi del management privato) – e la sua cultura operante in molte pieghe associative della nostra città mi ha dato motivo ed onore di esserle amico. Richiamo qui, adesso, soltanto gli ultimi contributii ampiamente biografici usciti rispettivamente nei siti di Fondazione Sardinia e di Giornalia (e cito “Paolo Fadda, l’86° compleanno di un patriarca civico” del 29 marzo 2016 e “Paolo Fadda, patriarca 90. Al compleanno del manager e scrittore cagliaritano ‘amico dei potenti’” del 29 marzo 2020). Ricorderei anche, almeno per omaggio doveroso a Vittorio Scano che l’ha ospitato, il mio articolo apparso sull’Almanacco di Cagliari edizione 2016 dal titolo “Prolifico quanto acuto: Paolo Fadda, lo scrittore cagliaritano autore di vari saggi sull’economia isolana negli ultimi due secoli”. (Neppure dimentico, pur se lontano ormai più d’un decennio, il solido ed originale sodalizio – munito di un giornale e di un sito internet chiamati entrambi Cresia –, che ci unì a sostegno delle ragioni sociali di don Mario Cugusi contro le prepotenze arroganti di un vescovo canonista e padrone).

In quegli ed altri scritti ho cercato di riepilogare al meglio, in ordine tematico e temporale, oltreché vari aspetti biografici, la cospicua bibliografia di questo nostro intellettuale sardo di primissima cifra ed autentico “defensor Karalis”: colui che, azzardo questa impressione personale che so condivisa da molti, dopo Alziator e Romagnino per alcuni versi, dopo Paolo De Magistris per altri – personalità tutte d’oro che abbiamo perduto alla nostra confidenza negli anni passati – costituisce oggi la più sana e robusta memoria civica della capitale isolana. E, allargando lo sguardo in quanto alle presenze storiche dell’imprenditoria e della politica, della regione tutta intera. Non cronista, o cronista soltanto – meglio dire però memorialista (per molti aspetti davvero memorialista, lui discendente dagli Scano così come dagli Zedda-Piras e da quante altre dinastie d’ingegno fabbricatore!) –, ma interprete critico, con la potenza culturale del saggista, di un secolo e più della nostra vita di comunità sarda, vista nelle dinamiche urbane ed in quelle che relazionavano, con diverse e talora opposte valenze, i maggiori poli dei due capi provinciali con i rispettivi territori d’intorno. Si pensi soltanto, centrando ora, in positivo, le personalità da lui briosamente raccontate nella collana Delfino dei “grandi dell’imprenditoria in Sardegna”, a Giovanni Antonio Sanna ed Alberto Castoldi e Montevecchio, a Francesco Zedda-Piras e Tiana, a Franceschino Guiso-Gallisai e Nuoro, ai fratelli Pinna e Thiesi, a Francesco Sisini e Sorso…).

Ora il commendatore compie il suo 91° compleanno e fortunatamente, per lui e per noi, alle buone condizioni di salute continua ad accompagnare la meravigliosa lucidità e fertilità di una mente sempre al galoppo – magnifica la memoria, lineare lo spirito indagatore, continua la produzione di libri ed articoli (è anche uno degli editorialisti de L’Unione Sarda) – sicché è compito gradito dei suoi amici ed estimatori confermargli, nella circostanza, tutto intero il carico di stima, affetto e riconoscenza per quanto egli ha donato e ancora dona senza riserve o parsimonia.

Non mi fa velo, scrivendo di lui, il fatto che io gli voglia bene. Nessuna apologia lo inorgoglirebbe e perciò ne annoto considerando lo scontato chiaroscuro che è proprio della nostra condizione umana, sua e mia e di tutti. Il che non toglie che possa e debba dirsi che chi lo conosce sa come nella sua vita privata e privatissima, oltre che in quella pubblica ben conosciuta, la virtù intesa come materiale adempimento del dovere, stretta aderenza ad una coscienza esigente, secondo l’insegnamento avuto in famiglia e, negli anni dell’adolescenza, presso il collegio cagliaritano dei salesiani, si combini ad una rettitudine intellettuale e a un indipendenza di giudizio che fanno, e l’una e l’altra, la differenza.

Ho evidentemente, per percorsi personali, distanze ideologiche e politiche dalle sue tende preferite – cattolico democratico (o democristiano) lui, azionista repubblicano di matrice liberale e di minoranza io –, ma ciò non di meno ho sempre avvertito, nella quarantennale relazione con Paolo Fadda, un largo idem sentire ideale nella passione democratica e nell’affezione tutta sarda a radici e fronde delle generazioni da cui veniamo e che proiettiamo nel futuro…

Confessione personale. In Paolo Fadda colgo ad un tempo e il galantuomo cui la sorte, ora benigna con lui per l’età e la salute, non ha avareggiato amarezze e dolori di grande momento, felicemente superati con le energie della sua fede profonda e intelligente e di un carattere saldamente equilibrato anch’esso grazie ad insegnamenti ed esempi raccolti nel campo delle sue frequentazioni formative prima e dopo la seconda guerra mondiale, e il produttore originale ed apripista di studi sociali ed economici che resteranno nell’utile di molti.

Gli eroi della modernità: i borghesi

Nelle considerazioni di Paolo Fadda, espresse nei suoi scritti importanti e tutti sostenuti da dati di fatto (tabelle statistiche comprese, magari del Nitti) oltreché impreziositi dall’autorevolezza delle sue fatiche trascorse di manager privato e pubblico, sono centrali le funzioni assunte dalla borghesia isolana di fine Ottocento-primo Novecento. Intendo quella borghesia che egli ha conosciuto dall’interno e tanto più quando, nella sua giovane età ed anche nella prima maturità, ha potuto fare vivida esperienza delle saldature – ecco la parola giusta – fra il genio progettuale dei protagonisti della stagione postrisorgimentale o tardo-ottocentesca e, metti, bacareddiana e quello che ancora nei primi decenni del Novecento, e perfino in tempi di dittatura (ad Arborea per esempio), hanno portato avanti, col “miracolo idroelettrico”, la modernizzazione dell’economia, e dunque, più complessivamente, anche delle condizioni di vita e del costume sociale della Sardegna.

C’è un capitolo, fra i più intensi del suo bellissimo saggio da Karel a Cagliari (Delfino, 2013) in cui egli si diffonde in una illustrazione, che è anche difesa da letture spicce e superficiali, tutte dottrinarie di marca socialista (dei pur generosi socialisti di un tempo! ché oggi i socialisti, come i sardisti, sono diventati… berlusconiani/leghisti, di molto molto molto peggiorando l’insegna), del contributo decisivo offerto dalla borghesia produttiva e professionale all’Isola, e innanzitutto – anche per il trascinamento conseguente che ne sarebbe venuto – alla sua capitale, nello storico passaggio di secolo, nell’era umbertina e successiva.

E’ un testo che qui appresso ripropongo con la sobria aggiunta di alcune personali riflessioni a latere, anche in parziale dissenso con Paolo Fadda. Bacareddiano l’uno e bacareddiano l’altro, sono convinto anch’io che il contributo intellettuale e tecnico-professionale della borghesia dei palazzi (non solo status symbol ma pure investimento reddituale) e delle imprese, in esse compresa l’agricoltura degli hinterland urbani, abbia avuto ricadute sociali rilevantissime nella crescente professionalizzazione anche degli antichi bastascius e giornaderis così nelle fonderie come nelle società ferroviarie dello scartamento largo o ridotto ed altrove: ché sempre, ed è inevitabile, il successo di un’idea o di una competenza, volgendosi a meritato accumulo di profitto, coinvolge in progress tutti i partecipanti alla filiera, anche i marginali. Però…

Può dirsi così: vero è che alle case popolari si arrivò tardi, a Cagliari, nella stagione della pubblicizzazione del gas e dell’acquedotto, in quel passaggio da Bacaredda a Marcello imposto dalla inarrestabile fibrillazione civica derivata dai moti del maggio 1906. Moti che non furono soltanto popolari, moti sui quali soffiarono elementi neppure tutti trasparenti del ceto medio – si ricordi il processo Bacaredda-Cao celebrato nel 1907, con la condanna del leader radicale seppure con derubricazione delle responsabilità sanzionate – e con intenti di greve corporativismo ed apertamente luddistici, cioè antimodernisti, ostili alla rete tramviaria e per il lavoro autonomo dei carrettieri, ostili alle tecnologie frigidarie comportanti una difesa dei prezzi decisi dai banconieri del Partenone… Ma anche fatta quella tara in pro del governo cittadino, restava a carico d’esso l’obiettivo ritardo nella determinazione di diretti interventi nella costruzione di case operaie, non soltanto nel calmieramento dei prezzi al banco.

Vale anche qui il discorso accennato per l’emancipazione dei bastascius e giornaderis: è vero che le grandi opere – fosse il municipio di via Roma o fosse il rifacimento del bastione con lo spianamento e l’unificazione della Leona e della Zecca, o fosse anche la scuola nuova di Stampace o quella di Castello – offrivano molte giornate di lavoro a un numero rilevante di operai domiciliati nei sottani senza luce ed aria dei quattro quartieri (come accertato dalla commissione consigliare Barrago-Aresu del primissimo Novecento); ed è anche vero che  il “sistema”, e cioè la legislazione regolatrice della materia, ben più decisiva d’ogni delibera sindacale o consiliare, autorizzava la mano d’opera della provincia rurale a concorrere con parità di diritti nelle assunzioni dei cantieri cui aspiravano (spesso vanamente) i disoccupati cagliaritani, e che una scomoda concorrenza ad essi veniva altresì da una quota dei lavoratori ristretti per il resto del giorno in quel di San Bartolomeo… Insomma la questione sociale era allora piaga autentica dalle molte facce – e sopra tutto contavano le malattie della povertà che bruciavano i corpi e gli spiriti (anemie, scrofala, tisi, certi eczemi e talune oftalmie croniche…) – sicché un qualche rimedio per meglio saldare gli interessi della popolazione in miseria, appunto con il lavoro retribuito e con le case luminose e non tubercolotiche, a quelli espressi dalle dinamiche moderniste reclamate di tempi – ché, ripeto, della vita di persone in carne ed ossa si trattava! – si sarebbe potuto volere ed ottenere. E d’altra parte il discorso del novembre 1911 del sindaco Bacaredda tornato alla suprema magistratura civica dopo il fallimento della destra clericale intruppatasi senza sogno di domani nella giunta Nobilioni, pareva riconoscerlo alludendo ad altre prospettive ed altri equilibri, con quell’insistito (e poetico e moraleggiante) richiamo alla democrazia che superava il liberismo (o il liberalismo) trascorso, pur se ancora impegnava tutti a un patto di lealtà intergenerazionale, evitando che il bilancio comunale fosse gravato da un eccesso di debiti che altri un domani avrebbero dovuto ripagare…

L’antisocialismo di Bacaredda con Cocco Ortu avversario di sempre

Resta anche da dire – riprendendo un passaggio delle analisi di Paolo Fadda, un passaggio che temporalmente si fa intermedio fra la prima politica delle grandi opere pubbliche (che Bacaredda poté permettersi per quello straordinario introito, graduale ma certo, di oltre tremilioni e mezzo di lire derivante dalla composizione della trentennale vertenza con le Finanze statali a proposito dei tributi ostinatamente negati al Comune dall’Erario) e quello delle pubblicizzazioni delle infrastrutture idriche ed energetiche (e anche della costruzione delle prime case popolari a Campo Carreras): resta anche da dire dell’incontro pacificatore fra i partiti della Casa Nuova (o quel che d’essa era rimasto a quasi vent’anni dalla fondazione) ed i cocchiani. Né si dimentichi qui che L’Unione Sarda era sorta, proprio alla vigilia del voto popolare (ad elettorato invero ben ristretto) del novembre 1889, per sostenere le ragioni dei prossimi perdenti (ma sempre maggioritari alla Provincia), sicché dal quotidiano di viale Umberto (poi Regina Margherita) mai fino ad allora era venuto, con Vinelli alla direzione o con quella di Raffa Garzia, comprensione e perdono per le fatiche amministrative della giunta in carica.

Spinta anch’essa da un giornale – quella Giovine Sardegna del poeta ateo (ma fratello di due preti) ed infelice Emanuele Canepa – la stella bacareddiana era sorta, aggregando uomini delle professioni, degli impieghi, delle associazioni e delle imprese, per illuminare e dare prospettiva ad una società impoverita dall’inopinato crollo bancario del 1887, addebitato sì al Ghiani Mameli ma non di meno al suo referente politico e parlamentare Francesco Cocco Ortu, benché anche il Salaris – l’avversario giurato e tenace di Cocco Ortu – non avesse mai espresso, in proposito, un giudizio divergente da quello del futuro guardasigilli (che prenderà ad essere eletto, per ben otto legislature dal 1892, nel collegio di Isili – la patria di Ghiani Mameli – abbandonando Cagliari fattasi ostile).

Ma dunque il 1906, con quei radicali e socialisti (e repubblicani) che avevano guidato la rivolta popolare, pagando per essa lunghi mesi di detenzione di vari loro dirigenti, aveva spaventato il ceto moderato ed entrambe le fazioni liberali di Cocco Ortu e Bacaredda (e per qualche tempo anche quella guelfa). Saldare le forze era diventato necessario ed urgente. Sicché può ben dirsi che l’ideale parabola bacareddiana comprende nella sua permanente (nonostante gli interregni dei commissari prefettizi) ascesa un prima del 1906 ed un dopo: prima contro Cocco Ortu, il quale s’accontenta della provincia e del controllo del Consiglio Provinciale (Deputazione compresa) e lascia il capoluogo ai primati del sindaco-mito, dopo con Cocco-Ortu in chiave antisocialista o antisinistra ma pure con un’accelerazione insieme sociale e modernista: così soprattutto dal 1911, dopo la lunga crisi determinata dalle dimissioni della giunta Marcello (e del Consiglio da lui presieduto) per protesta contro il governo romano non adempiente circa la terza coppia di treni promessa alla composita linea Golfo Aranci-Cagliari e in seguito anche, nel fare municipale, al fallimento del centro-destra Nobilioni-Sanjust della primavera-estate di quell’anno cinquantenario.

La formazione dell’Associazione Democratica (con il suo organo ufficiale tutto giacobino dichiaratosi Il Giornale Democratico) e il patto stipulato con gli avversari di sempre – in primis i repubblicani (che tireranno calci soltanto nel 1914 per le spese eccessive sostenute dalla giunta offrendo il benvenuto al duca degli Abruzzi) – avvierà un’altra fase nella linea politico-amministrativa di Bacaredda, marcata sempre da un laicismo difensivo e sorvegliante (nessun saluto d’accoglienza al nuovo arcivescovo Francesco Rossi) e da un pragmatismo più aperto alle novità, anche nazionali, del tempo che s’avvia alla grande guerra e alle dispute anche cittadine fra interventisti e neutralisti.

Certo sono da apprezzarsi, a mio avviso, le tavole di difesa borghese che Fadda estende alla città capoluogo contro le sentenze (invero datate) di Carlo Baudi riducenti Cagliari ad una sanguisuga del contado. La “città-magnete” evocata da Fadda era invece quella che offriva, per le sue dimensioni anche demografiche, quotidiano sbocco alle produzioni agricole della provincia e opportunità di lavoro, come detto, a molti precari dei centri rurali del Campidano e non s’appassionava alle venalissime gare con la borghesia della rendita paesana.

Non meno apprezzabili sono le considerazioni che l’autore esprime riguardo alla pari dignità, in quanto a creatività e gusto del rischio (ma anche sensibilità sociale e filantropica), dei concorsi fra i borghesi detti AGDGADU e quelli più fedeli alle direttive papali o vescovili: «Ci sarà dunque, anche nel campo della fede in Domineddio, una Cagliari bifronte (di laici atei e di laici credenti), ma che, sotto sotto, avrebbe manifestato una sua convinta coesione su quell’agognato destino di progresso, rappresentato dalla conquista di migliori condizioni di benessere e di vivibilità sociali». E non trascuro che già nel 1865 – anche allora tempo di conta elettorale municipale (oltre che parlamentare) – i famosi “goccius de is frammassonis” identificavano, se davvero l’autore era un aristocratico decaduto, la borghesia con il liberalismo modernista e laico che aveva portato la capitale da Torino a Firenze, ma per trasferirla appena possibile a Roma, sottraendola al papa-re ed al boia che ancora nel 1868 avrebbe decapitato Monti e Tognetti…

Illuminanti sono altresì – ed ampiamente presenti anche nelle pagine di altri storici, da Aldo Accardo a Gianfranco Tore – i giudizi di Paolo Fadda sulla “cagliaritudine” rapidamente acquisita dai borghesi continentali ed esteri di nuova residenza da noi e portatori di esperienze e culture che ancor più elevano il rango modernista della città e la sua propensione allo scambio, non solo materiale e di mercato, con le città d’oltre Tirreno.

Una città italiana

Pur nella relativa umiltà del confronto con Palermo o Napoli o Bologna, per non dire Roma e Milano, Cagliari nel suo epocale passaggio di secolo si trasforma, urbanisticamente, restando fedele a se stessa: l’abbandono dei vincoli di piazzaforte militare ha consentito, con l’abbattimento delle mura interne ed esterne, un migliore raccordo fra i quartieri che prima erano cittadelle semiautonome (tanto da aver autorizzato Fazio degli Uberti a pensarla frazionata più che policentrica, e così fu per quasi seicento anni!), ma anche di più: ha consentito il ridisegno delle direttrici viarie, quelle aperture e nuove vocazioni del Largo e di su Stradoni, soprattutto della via Roma, dal Carmine a Bonaria… e, un domani che è già quasi oggi, quelle proiezioni ulteriori verso la città estiva del Poetto. Dall’altra parte, vigneti e cardeti e orti a valle di Villanova cedono (o cederanno) progressivamente spazio ai cantieri che dalla via Nuova (poi Sonnino) scendono verso la strada per Quartu, attorno al solitario convento di San Benedetto, e magari verso la periferia di su Baroni… Eleganza architettonica del municipio e del bastione, eleganza architettonica della palazzata che prende, edificio dopo edificio, la via Roma da casa Zamberletti a casa Magnini, e oltre il municipio, gli immobili che affacciano in recto/verso sulla stazione ferroviaria e la piazza del Carmine (poi XXVII marzo): Vivanet e Rocca, Boscaro e Cocco, Aurbacher e Chapelle… o lungo il stabilimento molitorio dell’on. Merello, ma anche in su Stradoni o nel Largo (si pensi ai Bonfils e Aresu, ai Serventi e Zedda-Piras, si pensi ai Devoto-Cao e Castangia, dagli Accardo e Scano)…

Resiste la Playa, con lo stradone provinciale e qualche stabilimento balneare verso Giorgino – resistente anche in concorrenza con il Poetto, dopo il 1913 –, si allarga la rete dei collegamenti tramviari fra i rioni, l’elettricità ormai sconfigge ovunque il gas-petrolio per illuminazione stradale lasciandone le riserve prevalentemente al riscaldamento domestico… e anche le condotte idriche e naturalmente quelle fognarie premiano, già per l’igiene fattosi valore universale, la nuova edilizia residenziale. Strade alberate in centro e un paradiso botanico a fasciare anfiteatro romano riscoperto dal can. Spano proprio in contemporanea alla dismissione della città come piazzaforte militare, ma a fasciare anche la collina di Monreale ed il suo camposanto fattosi ogni giorno di più un museo d’arte a cielo aperto; e industrie ed ingrossi insediatisi nel viale San Pietro (poi Trieste), vero interfaccia economico-commerciale fra il capoluogo e la provincia, o stabilimenti anche in centro, come la Manifattura Tabacchi ed il Gazogeno, e ad Is Stelladas, come il birrificio ex Vinalcool o, all’opposto della pianta urbana, a Sant’Avendrace o Tuvixeddu, come il forno della calce evolutosi poi nella monumentale cementeria… per non dire ancora delle saline di est e di ovest, agli estremi lontani dell’abitato…

Né tutto è trionfo del porto o è produzione (oppure consumo) materiale né lo è il decoro urbano, l’eleganza architettonica o, appunto, i viali alberati, da Buoncammino alla via Roma. E’ – come ben dice Fadda – la città dei teatri e dei cinematografi, dei circoli e delle associazioni le più varie, da quelle patriottiche a quelle letterarie, la città della statuaria pedagogica, la città che si specchia nei monumenti che, uno dopo l’altro, abbelliscono piazze e palazzi, dalla Vergine Immacolata innalzata nel 1882 a Giovanni Bovio nel 1905, da Giuseppe Verdi nel 1901 ai quattro risorgimentali repubblicani (Mazzini e Garibaldi) e monarchici (Vittorio Emanuele II e Cavour) nel cinquantenario, da Dante a Giordano Bruno nel 1913… La città dei santuari mercedario e cappuccino, delle parrocchie e degli asili religiosi – valga a compendiarli tutti il nome di suor Giuseppina Nicoli (e dopo sarà tempo di suor Teresa Tambelli) –, la città dell’università e di una scolarizzazione crescente fino alle secondarie, la città dei giornali e dei partiti, la città della dialettica politico-sociale cui certamente contribuisce la bella novità della Camera del lavoro che coordina le leghe di mestiere… Città delle nuove librerie per soddisfare il gusto della lettura dei quidam e città dei quadri ad olio in abbellimento dei saloni d’incontro nelle case… Città che accoglie, in crescendo, i congressi di società nazionali – non solo gli ingegneri o gli agricoltori (da leggersi come proprietari-imprenditori agricoli) con tanto di ministro a dar conto e far promesse, ma anche, nel 1907,  la Dante Alighieri, nata per sostenere o accompagnare la giovane emigrazione italiana all’estero, verso le Americhe, non soltanto per celebrare il mito del Sommo Poeta nel recinto patrio…

Naturalmente le tratte marittime e le linee telefoniche (dopo quelle telegrafiche) favoriscono questo accresciuto coinvolgimento e questa più matura consapevolezza nazionale di Cagliari ed anche il recepimento della città nelle consapevolezze del continente, ben prima delle stagioni turistiche che saranno cosa di anni ’30 e ’50 e naturalmente successivi. Così come lo favoriscono, questo recepimento, le banche: ché dopo lo sconquasso del 1887 (ma a lungo preparato!) scendono nell’Isola e nel suo capoluogo, uno dopo l’altro dalle centrali continentali, gli sportelli del Banco di Napoli già nel 1890, quelli della Comit nel 1906, del Credito Italiano che rileva e converte le agenzie della SBS di Ferruccio Sorcinelli nel 1912, e così a seguire con il Banco di Roma e la Banca Nazionale di Credito (poi BNL)… mentre il Credito Fondiario Sardo e le Casse Ademprivili di Cagliari e Sassari che pure guardano al prevalente soccorso agrario…

S’implementano le correnti d’inurbamento, si spalma la nuova popolazione nei nuovi quartieri o nei vecchi in riordino. Cagliari si fa ad un tempo polo attrattivo e collettività relazionale con il suo entroterra neppure soltanto immediato – quello quartese o selargino o dei due Pauli: si pensi soltanto a Villacidro, e neppure soltanto per le vacanze premarine o di mezza stagione…

Fadda: ecco la città del primo Novecento, anni d’una nascita febbrile e convulsa

A Cagliari si discusse molto, il primo gennaio del 1900, se quel giorno fosse il primo del nuovo secolo o, invece, dell’ultimo anno del precedente. Si trattava, per essere di buona memoria, di quanto già accaduto per l’anno Mille, senza però che si fosse fatta, in proposito, una condivisa chiarezza. D’altra parte, per dare retta ad un opinionista del tempo, la questione poteva ritenersi di “lana caprina”, non diversamente dell’insoluto quesito se fosse nato prima l’uovo o la gallina…

Quel che è certo, comunque, ed anche documentato, che i due quotidiani cittadini di allora – L’Unione Sarda e La Sardegna Cattolica – avrebbero salutato quell’inizio anno con grande entusiasmo, quasi fosse l’inizio di una nuova era. E questo, pur non sfuggendo alle quotidiane polemiche. Infatti il primo avrebbe polemizzato con la decisione del Pontefice per aver deciso di proclamarlo “Anno Santo” e caricandolo così di indulgenze e perdoni; mentre il secondo avrebbe biasimato il decreto del ministero Pelloux che elevava come festa nazionale quel 20 settembre, giorno in cui trent’anni prima i bersaglieri del generale La Marmora avevano conquistato Roma, sottraendola al dominio temporale del Papa.

Ora, che fosse, o meno, l’alba del XX o il tramonto del XIX secolo, quel capodanno del 1900 vedrà Cagliari in piena trasformazione. Per la verità, s’era quasi scordata d’essere stata la capitale d’un Regno ed aveva accettato, disciplinatamente, d’essere soltanto una (seppure la più vasta) delle province del nuovo Regno unitario d’Italia. Per i demografi si trattava d’una città in rapida crescita, avendo ormai raggiunto i 50 mila abitanti (dai 30 mila che aveva trent’anni prima) ed in piena trasformazione sociale, anche grazie alle provvidenze contenute nelle leggi “speciali” varate a fine secolo per risollevare l’economia isolana dal ministro cagliaritano Francesco Cocco-Ortu.

La città appariva, o sembrava fosse divenuta, il laboratorio di idee e di progetti per una profonda modernizzazione dell’intera isola, nell’intento di venir fuori da un passato non certo esaltante, e per avvicinarsi il più possibile al benessere “continentale”. In città si notava infatti una forte “voglia” di dare vita ad una stagione di riscatto e di cambiamento, tanto da farla ritenere il motore per il progresso dell’intera isola.

La sua stessa crescita demografica era avvenuta perché circolava dinai mera e soprattutto s’aprivano molte ed importanti occasioni di lavoro. Proprio in quegli anni era divenuta un centro attrazionale per tanti giovani sardi che dai loro villaggi s’erano inurbati per liberarsi dalle condizioni “servili” della condizione agropastorale.

A Cagliari, si diceva allora, si può far fortuna, sia trovandovi un lavoro salariato e sia ancora mettendosi in commercio, come sarebbe capitato a Efisio Cocco che, giunto dal suo paesello, aveva impiantato a Cagliari un’attività commerciale nei pressi della Chiesa di Nostra Signora del Carmine, divenuta in breve tempo fra le più importanti della città (il figlio Antonio sarebbe poi divenuto uno dei leader dell’imprenditoria cittadina).

Cagliari, infatti, era stata la prima nell’isola a liberarsi dal giogo della feudalità e ad imboccare le nuove strade della modernità (di fatto le altre città regie non erano riuscite a liberarsi dai loro connotati rurali: città-paese, quindi, o, con termine inglese, delle “agrotowns”). Al contrario, l’antica residenza dei viceré forestieri era riuscita a far propria l’aspirazione di trasformarsi in città borghese (che è poi l’altro nome di “moderna”), diventando sede di un organismo economico pulsante di scambi, di commerci e di varie attività.

In un certo senso quest’evoluzione avrebbe favorito la piena maturazione del sentimento di “cagliaritanità” (cioè di quel gradiente d’orgoglio e di vanto degli abitanti della capitale dell’isola) che ne caratterizzerà appieno la cultura identitaria. Vi sarebbe infatti da considerare, proprio per quel che s’è detto, che la Cagliari del passato non era mai stata una città dei cagliaritani: lo era stata, invece, dei tanti dominatori che ne avevano occupato strade e piazze ed ancorato i loro battelli nel suo porto, ritenuto ospitale e sicuro.

La darsena è stato da sempre il centro della portualità, sede soprattutto delle vocazioni sportive e pescherecce cittadine.

Infatti, mentre le élite d’antico regime, cioè gli aristocratici locali, avevano sempre ricercato, per il loro blasone, valenze e riconoscimenti a Cartagine, come a Roma o a Madrid o a Torino, i nuovi ceti borghesi sine nobilitate – tra cui molti d’immigrazione forestiera e, quindi, non autoctoni – si sarebbero fatti autenticamente “cagliaritani”, dimenticando le loro origini nell’oltremare e sposando, con un forte atto di fedeltà e d’amore, la loro nuova patria.

In questo loro atteggiarsi, i cagliaritani apparivano nettamente diversi dai loro corregionali dell’entroterra rurale, quasi si fossero liberati dai vincoli e dalle costrizioni di quella feudalità “di fatto” che continuava ancora a dominare, con la cultura dei is meris e dei prinzipales, le campagne. Non che la città avesse troncato per questo i legami per le produzioni agropastorali: tutt’altro: ma le sue architetture, le sue istituzioni ed i suoi servizi mostravano ed evidenziavano caratteri chiaramente urbani.

Per la verità, quel che avrebbe fatto Cagliari ancor più città di altre, non sarebbe stato soltanto l’essere sede d’Università, di Tribunale, di Prefettura e di quant’altri uffici di prestigio (privilegi che aveva, ad esempio, anche Sassari), risiederà nella forte presenza di una fiorente economia commerciale legata alle attività ed ai traffici portuali, sia in entrata che in uscita dall’isola, tali – per quel che ne testimoniavano le cronache del tempo – da consolidare una posizione di indiscussa preminenza (per quel che si poteva valutare, fatto eguale a cento il valore complessivo dell’import-export isolano, i tre quinti transitavano per il porto cagliaritano).

Le domande sono certamente intriganti, e si riallacciano poi al filo conduttore con cui si è ritenuto di illustrare questa visione storica d’una città bimillenaria. In parole povere, si tratterebbe di chiarire se Cagliari abbia più avuto o più dato al resto dell’isola; e se, da questo bilancio di dare e avere di benefici, vi si possa trovare un’idonea giustificazione a quel carico di disamore, di pregiudizi e di rincrescimento che gli “altri” sardi avrebbero continuato a nutrire per la loro capitale.

Proprio quel porto – ormai attrezzato per accogliere vapori e piroscafi d’ogni tonnellaggio – era divenuto, con i suoi movimenti in netta crescita (dalle 308 mila tonnellate movimentate nel 1899 si sarebbe giunti nel 1911 ad oltre 420 mila), il magnete dello sviluppo economico non soltanto cittadino ma dell’intera isola. E, per altro verso, uno dei principali richiami per l’inurbamento. Andrebbe infatti rilevato come l’incremento demografico di Cagliari fosse assai più sostenuto di quello dell’intera isola: se a fine Ottocento la popolazione cagliaritana rappresentava il 5,20 per cento del totale regionale, con il censimento del 1911 i suoi 58.500 abitanti erano il 6,75 per cento dell’intero totale.

Ci sarebbe innanzitutto da precisare se la maggiore disponibilità di denaro nelle tasche dei cagliaritani sia dipeso dall’aver succhiato il sangue agli altri corregionali, o, al contrario, se ciò sia stato possibile per via della loro lucrosa intraprendenza nel dare vita ai commerci ed ai traffici extraisolani. Questo perché – per dare retta ad un’osservazione allora corrente – ogni cagliaritano era in grado di indirizzare verso gli acquisti familiari (fossero di generi alimentari come d’ogni altro bendiddio) quasi il triplo delle lire di quelle che, mediamente, erano in grado di spendere gli altri sardi (non a caso, ci fu molta meraviglia in una famiglia di prinzipales paesani nell’apprendere che una loro parente, “maritata in Cagliari con un negoziante”, spendesse annualmente, solo per vestiti e cappelli, tre o quattro volte in più del loro bilancio per sostentare sei-sette persone!).

Si può ben comprendere, quindi, che a Cagliari giungessero abitanti da ogni dove, provocando quelle “contaminazioni” che avrebbero determinato – a giudizio dei puristi della sarditudine – quell’inquinamento dell’identità originaria dei sardi, con una colpevole resa rispetto a quella che Giovanni Lilliu ha definito la “costante resistenziale” della gente isolana.

Si è dell’opinione che in un’analisi di questo genere non serva fare riferimento soltanto a numeri ed a cifre, ma occorra servirsi di quel po’ di letteratura che esiste, delle impressioni cronachistiche rintracciabili, ed ancora, e soprattutto, di una buona dose di buon senso. La discriminante sta proprio in quella contrapposizione fra cultura del profitto e incultura della rendita, fra impegno nel lavoro e amore per l’ozio, su cui si sarebbero divise le due borghesie dell’isola: quelle urbane e quelle paesane.

Ma Cagliari – viene da domandare – avrebbe vissuto questa sua evoluzione da città viceregia a città-emporio, mettendo in luce una propensione egoistica ed egocentrica, da vera città-sanguisuga (come l’avrebbe battezzata Carlo Baudi di Vesme)?; o, al contrario, avrebbe collegato la sua trasformazione nella vita economica e sociale in una dimensione isolana (o almeno extraurbana) da moderna e aperta città-magnete?

È difficile comunque stabilire se la città (qui intesa soprattutto nella sua dimensione politica) avrebbe fatto qualcosa per diffondere al suo esterno quella superiore qualità della vita di cui disponeva; o se, al contrario, si sarebbe tirata indietro di fronte a quella cortina di sbarramento con cui le comunità rurali avrebbero difeso il loro ancoraggio a quei valori di civiltà aurorale, fatti più di miti consolatori che di fertili e prodighe realtà.

Cagliari era comunque – come avrebbe scritto la giovane Grazia Deledda – qualcosa di diverso, una sorta di sogno americano per tanti giovani delle zone interne, un luogo dove andare per sfuggire al triste destino del bracciante e del servo pastore. Non è difficile comprendere questi sentimenti e queste aspirazioni, se ben si tengano a mente le illuminanti pagine di tanti illustri geografi dello sviluppo, da Carlo Cattaneo a Giustino Fortunato ed a Gaetano Salvemini; pagine e giudizi che ritroveremo anche nei più contemporanei Francesco Compagna e Giuseppe Galasso. Si tratta di osservazioni che mettono ben in evidenza come lo sviluppo “armonico” di molte regioni del Sud (e di quel Sud del Sud com’era allora la Sardegna) sia stato impedito per via della mancata diffusione nelle campagne (per inedia o per ostilità) di una civiltà urbana, certamente più alta e capace di generare progresso, lasciando comunque «ai letterati ed ai sociologi il gusto e la velleità di contemplare e di esaltare una mitica “civiltà contadina”, quella che intristisce i paesaggi ed avvilisce gli uomini, trasferendo loro il desiderio di emigrare altrove».

Non vi è dubbio che l’intera isola avrebbe avuto necessità d’accedere proprio a quella superiore civiltà fiorita nella città, in modo da poter rendere possibile anche un suo atteso rifiorimento. Proprio da Cagliari, in quei primi anni del secolo, erano infatti partite alcune iniziative capitalistiche destinate ad avviare una prima, seppur timida, trasformazione agronomica delle campagne, progettando delle opportune regolamentazioni dei corsi d’acqua. Non vi è dubbio, infatti, che in città, negli ambienti dei suoi ingegneri e dei suoi capitalisti, si fosse guardato al mondo agricolo circostante come ad un’occasione importante per realizzare progresso (e, con esso, profitti).

Il tutto era favorito dal fatto d’essere divenuta residenza di un dinamico ed intraprendente ceto di ingegneri e di tecnici (tra Cagliari ed Iglesias operava il 95 per cento degli ingegneri dell’isola), molto attenti, oltre che interessati, a realizzare un deciso riassetto dell’amenagément territoriale di un’isola, intristita per secoli da campagne vittime di pessime condizioni ambientali ed igieniche. “Bonificare le terre” era parso lo slogan più popolare in quel primo decennio del ’900, anche perché, con il grande raduno nazionale degli ingegneri, svoltosi a Cagliari nel 1902, le opere di bonifica idraulica erano assurte a strumento fondamentale per riuscire a liberare le regioni del Sud Italia dal loro sottosviluppo e dalle miserie sociali.

Vi è da osservare, per la storia, che quell’attenzione della borghesia urbana verso il riscatto economico del mondo rurale, sarà oggetto di molta diffidenza e di altrettanta ostilità. Le chiavi di lettura per questi atteggiamenti non possono essere, obiettivamente, univoche, ma è certo che la costituzione di un’economia agricola di taglio imprenditoriale (così come nelle cascine lombarde o nelle fattorie toscane) era destinata a sconvolgere radicalmente gli assetti sociali delle campagne isolane con una proprietà assenteista e redditiera ed un ceto di contadini e di pastori “senza terra”, ostaggio e succubi di meris e prinzipales.

Non vi e dubbio che anche questa discrasia fra città e campagna (fra i progetti di trasformazione modernizzante e la conservazione dei tradizionali assetti sociali in vigore nella gestione delle terre) darà nuova sostanza a quell’invidia che un’esautorata aristocrazia fondiaria e le depresse e povere comunità di contadini e di pastori avrebbero nutrito nei confronti di quegli uomini della città che erano divenuti i possessori di quella ricchezza “mobiliare” che aveva soppiantato le vecchie regole feudali d’una ricchezza e d’un potere fondati sulle proprietà fondiarie.

In effetti, quattro secoli di feudalesimo (condito, per di più, alla spagnola) avevano fatto nascere nelle campagne un forte ed agguerrito sentimento antiurbano (il che vorrebbe dire antiborghese).

A questo avrebbero inciso, e non secondariamente, anche talune remore religiose, con preti e frati che dipingevano il “dio denaro”, venerato dai borghesi, come un temibile e famelico Belzebù, poiché s’erano schierati in difesa – parrebbe – dell’ostilità della borghesia verso i grandi privilegi – economici e politici – goduti dal clero nelle costituzioni feudali.

La stessa laicità di quei borghesi, spesso sconfinante in anticlericalismo, avrebbe giocato la sua parte, tanto che nella Cagliari di quegli anni dare del borghese ad uno valeva dargli del “mangiapreti”, prima ancora, magari, che dello sporco affarista. Eppure, a scorrere le vicende di quegli anni, non ci si incontra con una omogenea identità borghese, dato che ci s’imbatte in borghesi massoni (e, quindi, per definizione atei) ed in borghesi credenti, talvolta con visibili ostentazioni di bigottismo religioso.

Quel che sembra unirli, così come s’è visto, appare l’identico obiettivo d’una migliore qualità della vita da conquistarsi attraverso quella che gli ipercritici avrebbero chiamato “l’industria del guadagno”. Ora, per chi ha letto, e ricorda, il “Mastro don Gesualdo” del miglior Verga, potrà meglio intendere questa dicotomia sociale venutasi a creare fra chi “s’è fatto da solo la roba” e chi l’ha solo ereditata. Fra chi, con il lavoro d’impresa, è salito in ricchezza e prestigio e chi, invece, dopo aver consumato la roba, è rimasto a vivere il suo declino «con lo stemma marchionale logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito».

Perché – in questi anni per certi versi rivoluzionari – s’assisterà alla trasformazione dell’economia, con l’aristocrazia che si dissolve nell’ozio e nell’inedia, e con l’entrata in campo di chi ha fatto propria la massima (un’ossessione quasi religiosa, dirà Verga) di doversi impegnare per creare, con le proprie capacità, denaro, prestigio e potere.

La Sardegna, e Cagliari in particolare, non ha avuto il suo Verga, e di quelle vicende è giunto soltanto un tenue ricordo, forse inciso nelle case di quei “nuovi ricchi”, nelle loro feste sibaritiche, e – ancora – nella loro ricerca d’emancipazione sociale, portando all’altare nobili ragazze (sarà il caso di un borghese Ghiani-Mameli coniugatosi con una contessa Cao di San Marco, quasi una replica cagliaritana delle nozze del Gesualdo verghiano con la nobile Bianca Trao).

Ci sarà quindi grande similitudine fra quella Sicilia e la coeva isola di Sardegna, ambedue gravate da un lungo e triste passato feudale, ed ambedue alla ricerca di una rivalutazione con l’emergere di un nuovo ceto di cittadini “di bono stato”, com’erano chiamati i borghesi nei liberi comuni.

Ma quell’industria “del guadagno” era destinata ad ottenere risentimenti ed invidie, tant’è che in una delle prime elezioni comunali saranno molti a far propaganda perché gli elettori non votassero quei negozianti cittadini, rei d’essere soltanto degli affaristi succiasanguni, cioè degli avidi speculatori sui bisogni e sulle necessità della povera gente. Senza Dio e senza morale, li avrebbe accusati un predicatore dal suo pulpito, anche se gran parte dei marmi e delle pitture che ornavano quella chiesa erano poi dono munifico di quei peccatori.

Pur con molta difficoltà, e nonostante quelle ostilità, il pensiero borghese (che era poi una forma mentis più che una ideologia) era destinata a farsi strada. D’altra parte quel mito del progresso, delle grandi invenzioni e d’una più ampia libertà, di fratellanza e d’uguaglianza sociale, che ai borghesi di fine Ottocento erano serviti come arma contro le vecchie classi privilegiate, era ormai destinato a scontrarsi con l’ideologia antiborghese degli agitatori marxisti. Ma pur combattuta, quella forma mentis borghese sarebbe divenuto il filo conduttore del trasbordo della comunità cagliaritana verso la modernità ed il progresso d’intonazione “continentale”.

Per certi versi, anche la valenza politico-elettorale della borghesia cittadina sarà oggetto di una contestazione-opposizione. Per via, certamente, di certi atteggiamenti lobbistici messi in atto da alcune fratellanze più o meno massoniche, tacciabili, non ingiustamente, d’affarismo occhiuto e spicciolo. Sarà questo il peccato-vizio più evidente, tanto da vedere sminuita quella che sarebbe potuta essere una positiva virtù: e cioè l’aver diffuso fra la gente una coscienza patriottica, legata al grande progetto risorgimentale, peraltro accompagnata, non sempre ma spesso, «dal senso di perseguire una via di sviluppo con più giustizia e più libertà. Per tutti».

Per la verità, quegli atteggiamenti lobbistici delle borghesie cittadine avrebbero anche sviluppato un forte patriottismo municipale, perché Cagliari potesse gareggiare in modernità e comfort con le città continentali più titolate. Sarà questo un patriottismo che avrà come obiettivo quello di migliorare l’immagine cittadina, di pensare a dei boulevard ed a promenade sul mare, spaziosi e pittoreschi, con dei moderni palais confortevoli ed imponenti (l’uso del francese è giustificato dal fatto che s’intendeva perseguire i rivoluzionari progetti parigini del barone Haussmann).

Che dentro a quel patriottismo ci fosse anche un po’ d’affarismo, come corse voce, sarà poi anche vero, anche perché nella forma mentis di quei borghesi, il palazzo non sarà più soltanto un segno di prestigio come residenza avita per una casata nobiliare, ma diverrà soprattutto oggetto di business, d’un investimento capace di dare reddito.

Così i patrimoni più cospicui e gli investimenti più innovativi della città avrebbero imboccato la discesa verso il mare, tanto che per misurare le ricchezze cagliaritane non s’utilizzeranno più gli ettari di terra posseduti o gli starelli di grano prodotti, ma le migliaia di lire in portafoglio ed i profitti conseguiti con gli affari. Ed i più ricchi erano i negozianti e gli industriali, e non più i conti ed i baroni, ridottisi – come s’usa dire – “in bolletta”, per via d’un costo della vita che ormai non lascerà più spazio all’ozio

Che la città si trovasse quindi in una fase convulsa (e forse anche disordinata) della sua trasformazione urbanistica, sarà certamente vero, ma è anche giusto affermare che in quell’essere en marche c’era tutta la voglia – patriottica ed affaristica insieme – di fare “grande” Cagliari. Pensando che qualche peccato veniale potesse pur doversi commettere, pur di raggiungere l’obiettivo.

Sarà questa la Cagliari delle prime fabbriche, dei cantieri e delle officine che poi rappresenteranno e testimonieranno le tappe del progresso. Così lo sviluppo sarebbe divenuto il denominatore comune dell’ideologia municipale della borghesia cagliaritana.

C’è infatti un discorso che ricorre spesso nei cultori delle tematiche dello sviluppo, e soprattutto fra quanti si sono occupati delle fasi di passaggio da un’economia dominata dal settore primario ad una più avanzata; ed è quello che attiene allo stretto legame esistente fra modernizzazione ed urbanizzazione. Cioè della necessaria diffusione dei valori urbani (della qualità della vita cittadina) nei paesi e nelle comunità rurali.

Si tratta ovviamente di un discorso che va visto nell’habitat sociale della Sardegna rurale d’inizio Novecento, con gran parte dei paesi privi di acquedotti, di fognature, di condotte mediche, di farmacie e talvolta anche di cimiteri, afflitti in più da eccessi di morbilità per la presenza di malattie derivanti da condizioni igieniche troppo spesso insufficienti ed indecorose.

Una condizione che farà sì che la città venga vista come una sorta di eden, con i suoi bei lampioni a gas, le fontanelle con l’acqua corrente, il water-closet “originale inglese”, i caffè ed il restaurant, il grande ospedale sotto il colle del Buon Cammino ed i suoi 45 studi medici specialistici (dall’oculista al ginecologo ed al dentista). Una città da detestare e da invidiare, come il povero invidia il ricco.

Va ricordato come in uno dei centri della Trexenta (ma l’esempio potrebbe valere per molti altri centri della provincia cagliaritana), ancora nel 1900 solo undici degli ottocento abitanti sapessero leggere e scrivere, ed accanto a cinque famiglie definite di possidenti-benestanti, ve ne fossero almeno centotrenta in condizione d’indigenza, confermando percentuali molto simili a quelle che a metà Ottocento aveva rilevato il Casalis (quando ci s’alimentava con pane e saliva).

Differente appariva la situazione della città. Infatti nel medesimo periodo le famiglie benestanti (cioè quelle che vivevano solo di rendite) erano passate dall’i 1,5 al 4,3 per cento, mentre quelle dei commercianti ed imprenditori vari dal 7,9 al 12,9 per cento, e quelle dei liberi professionisti ed impiegati dal 13,4 al 18,4 per cento. Le famiglie operaie erano ormai circa il 48,5 per cento ed il restante poteva essere indicato come “indigente”. Nel contempo era anche molto migliorata la condizione culturale, in quanto l’analfabetismo in città era sceso a meno del 50 per cento della popolazione maschile, ma era ancora quasi al 70 per cento quella femminile. Il dato cittadino dell’analfabetismo registrava comunque circa diciotto punti percentuali in meno di quella globale registrata nell’intera regione.

Non v’era dubbio alcuno che fosse una città en marche, come scrivevano i giornali locali, anche se la sua distanza, in termini di qualità e benessere della vita, con le città continentali del Regno era ancora abbastanza ampia. Fatto eguale a 100 il reddito medio di un milanese o di un genovese – stimava Francesco Saverio Nitti – ad un cagliaritano ne continuavano ad andare poco più di sessanta, ma il sardo mediamente non giungeva che ad averne quaranta. Utilizzando il ritrito esempio del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, si potrà dire che il cagliaritano era il meno povero od il più ricco dei sardi di quegli anni.

Ma, al di là del crescendo delle attività e, insieme, della popolazione, la città stava allargando i suoi confini, attraverso la conquista di nuovi spazi in pianura, sempre più somigliando alla Karalis descritta da Claudiano. D’altra parte gli stessi progetti d’espansione, come immaginati dal Todde-Deplano e perseguiti in un certo modo anche dai nuovi consoli civici, andavano prefigurando dei nuovi quartieri lungo un asse lineare che dalla chiesa della Madonna del Carmine ad Ovest giungesse ad Est fino a quella dedicata alla Madonna di Bonaria, scorrendo a bordo mare. Un altro asse, questo verticale in direzione Nordest, avrebbe allungato la città costruita oltre Campo Carreras (l’odierna piazza Garibaldi) in direzione dell’abitato di Pirri.

Sembrava che ci si fosse ispirati alle coeve idee dello spagnolo Arturo Soria y Mata (l’inventore della ciutad lineal) che avevano superato le concezioni medioevali della città chiusa e murata, proponendo una città nuova, fatta di spazi prima che di volumi, capace di interloquire anche urbanisticamente con il territorio circostante e che avesse il mare (e soprattutto il porto) come polmone di sviluppo e di progresso.

Seppure ci fosse, in quei proponimenti, un po’ troppo di utopia mista ad interesse (divenuti oggetto di irrisione e di critica nelle sale del “Filarmonico” e nei foyer del Civico e del Cerruti), si trattava comunque di una visione innovativa della città, aprendola verso una nuova dimensione in cui il mare diveniva qualcosa da vivere da vicino più che da osservare da distante. Si tracciavano nuove strade, s’aprivano piazze e si costruivano case e palazzi con buona tecnica e con sapiente forma, dato che in città avevano studio una trentina d’ingegneri civili e si poteva contare su maestranze provette.

Memori delle “lezioni” di Gaetano Cima e degli esempi continentali di quella che verrà chiamata l’architettura umbertina, i nuovi fabbricati potevano a buon diritto fregiarsi del nome di “palazzi”, e questo per il pregio dei materiali, l’armonia delle forme e la dimensione dei volumi. C’era certamente in quei progettisti molto delle idee e degli insegnamenti di chi, in quegli anni, andava per la maggiore in Italia, come Emanuele Rocco, Guglielmo Calderoni e Pio Piacentini.

Si assisteva, nelle tecniche del costruire e nel disegnare vani e volumi, al trionfo della luce e degli spazi ed all’utilizzo di nuovi materiali, tanto da far ritenere come l’architettura avesse avuto una parte importante. Questo perché, ricordando un concetto caro al Mumford, l’architettura riflette e mette a fuoco un’ampia varietà di fatti sociali, da quelli riguardanti i bisogni e le aspettative dei cittadini a quelli riflettenti le trasformazioni economiche in atto, fino ad interessare la cultura ed il pensiero di tutta una società.

Tra l’altro, l’abbandono dei pregiudizi d’ancien regime, conseguente al diffondersi ed al prevalere dell’ideologia borghese, avrebbe modificato radicalmente il concetto stesso del fabbricato per abitazione. Non più il “palazzo” come segno documentale del proprio status sociale (da utilizzare come residenza della famiglia), ma l’edificio signorile da offrire al mercato (in vendita o in locazione), come prodotto terminale d’un processo industriale che partiva dalla materia prima (i metriquadri del suolo) per trasformarsi poi verticalmente, attraverso l’utilizzo di capacità e tecniche nuove, in metricubi di volumi. Con l’obiettivo di conseguirne il profitto (o, per dirla con i critici, il maggior profitto possibile).

A quest’indirizzo avrebbe poi dato un forte ausilio quell’espansione demografica della città, in atto proprio in quegli anni, e, conseguentemente, il crescente incremento della domanda di nuove abitazioni da parte di nuovi ceti emergenti. L’affermarsi di un sempre più numeroso ceto mercantile e, conseguentemente, dell’incremento di un nuovo ceto di famiglie abbienti, avrebbe creato un interessante mercato soprattutto di abitazioni signorili.

Certo, al di là degli indubbi vantaggi conseguenti alle migliori condizioni di abitabilità e di vivibilità, questo considerare il palazzo non come oggetto d’uso ma come strumento di profitto, avrebbe determinato anche degli inconvenienti, come quelli conseguenti all’affacciarsi di quello che molti ritengono essere stato un pernicioso virus cittadino, la speculazione edilizia.

Pur non volendola ignorare, si è però dell’opinione che occorra ricercare una maggiore obiettività di giudizio In una città che continuava a soffrire di un forte deficit d’abitazioni e che, peraltro, era soggetta a continuativi flussi d’inurbamento, la “questione abitativa” era divenuta la principale emergenza cittadina. Promuovere e facilitare nuove costruzioni, favorendo l’impegno del capitale privato, era divenuto il programma delle amministrazioni cittadine più evolute, a Cagliari non diversamente che a Milano od a Genova.

D’altra parte, così come oggi s’incentivano gli investimenti industriali ed artigianali concedendo gratuitamente quote importanti di capitale, affinché si possa attenuare l’emergenza lavoro, così allora si favorivano, con deroghe ed esenzioni tributarie, i privati costruttori, perché dessero una mano nel risolvere i problemi dell’abitazione, soprattutto se destinata ai ceti “popolari”.

Non vi è comunque dubbio alcuno che l’industria edilizia e gli investimenti immobiliari avessero facilitato la formazione di nuove ricchezze, capaci di sovvertire le precedenti gerarchie cittadine.

Anche per questo avrebbe continuato a trovare spazio, nelle chiacchiere cittadine, il rimpianto per la città viceregia d’un tempo, «rinchiusa tra le mura pisane e le tre torri», con quelle vie strette e quelle case trasudanti umanità, per via «di quei lunghi filari di panni stesi». In quel rimpianto per il tempo perduto, o per quelle memorie molto proustiane, non si teneva a mente quel poco che c’era dietro le mura o al di là delle porte; s’erano dimenticati «quei campi maleodoranti (dove sarebbe sorta la stazione) rimasti luogo di gettito di tutti gli immondezzai», e quel luogo da corte dei miracoli com’era diventato il porto cittadino, ben differente da quello che un tempo lontano era stato battezzato gloria Pisanorum.

Così la nascita della città di pianura verrà accompagnata da aspre censure e forti ostilità da parte di molti cagliaritani – eterni frondeurs, secondo un’opinione corrente -, mal disposti ad accettare, ed a condividere, quella nuova architettura che aveva sovvertito le gerarchie dei luoghi cittadini, emarginando dal progresso Casteddu ‘e susu, e costruendo una nuova città con edifici per “nuovi ricchi”, sovraccarichi di «ornati, sminuzzamenti, frastagliature, elementi tutti più inutili che giovevoli a discapito della vera eleganza ed imponenza».

Ora, al di là di queste osservazioni critiche, e senza per questo dover sopravalutare, nell’analisi dello sviluppo cagliaritano, l’incidenza del settore delle costruzioni – di opere pubbliche e residenziali – per la numerosità dei suoi addetti (esecutori e imprenditori), è certo che esso avrebbe caratterizzato in maniera significativa gran parte della storia economica cagliaritana per tutto il Novecento. Cagliari sarebbe divenuta in breve tempo “città di costruttori”, favorendo la costituzione di un’importante filiera di attività accessorie (si pensi ai falegnami, ai ferraioli, agli idraulici, ai marmisti, ecc.) che avrebbero formato quello che oggi si potrebbe chiamare un distretto industriale “verticale”. Sarà la città, come ne avrebbero scritto, del lavoro dei maistrus ‘e linna, ‘e muru, ferreris, arregioleris, pintoris, ecc.) e non più dell’inedia dei don e de is meris,i così il fabbricare e il possedere belle case, comode e dai comfort moderni sarebbe divenuto motivo d’orgoglio e di distinzione per i cagliaritani e fonte di gelosia e di critica da parte dei paesani (avrebbe scritto un possidente di un piccolo centro del Sarrabus, invitando dei suoi amici cittadini, che sarebbe stato molto lieto di far conoscere loro la sua nuova casa «che neanche a Cagliari…»).

Il primo, grande cambiamento della città – quello che l’avrebbe portata ad eccellere nel firmamento isolano – era stato provocato proprio da quegli interventi nell’edilizia residenziale. La città, infatti, s’era estesa non solo territorialmente, ma aveva sempre più assunto un’immagine moderna, per via di fabbricati dalle linee eleganti, ampi e ben rifiniti, alla moda “continentale”, come si diceva in giro.

Gli autori ed i protagonisti di quest’evoluzione “modernista” sarebbero stati, nell’ordine, gli uomini della borghesia, quelli della politica municipale, is maistrus ed ancora i tanti piccaperderis e manorbas del proletariato cittadino, ed infine gli ingegneri. Si potrebbe anche dissentire da quest’indicazione, ma è certo che proprio a quei protagonisti, alle loro capacità ed alle loro iniziative, si dovrà molto del “salto” che Cagliari farà nel suo assetto civile.

Può essere anche importante sottolineare la forte infusione di “secolarizzazione” (cioè di una laicità sconfinante nel laicismo areligioso) nella società cagliaritana di quegli anni. E, quindi, l’allontanamento dalla Chiesa di una parte, non minoritaria, dell’establishment locale. Soprattutto di quello d’estrazione borghese. Per contro, la nobiltà cittadina – proprio per marcare la sua distanza da quei nuovi ricchi “adoratori del dio denaro” – si sarebbe stretta attorno ai rappresentanti più autorevoli della Chiesa cittadina, provocando così un’altra importante cesura nella società locale. Di questa situazione, peraltro vissuta anche difficoltosamente in diverse famiglie cittadine (il padre “negoziante” e massone anticlericale e la madre, discendente d’antica nobiltà, terziaria francescana), ne darà testimonianza la discesa nelle competizioni elettorali, di un partito di cattolici (il PPI di don Sturzo). Un partito, come diranno criticamente le “gazzette” del tempo, che si sarebbe aperto quasi esclusivamente ai rappresentanti di quella aristocrazia papalina (ancora incollerita per l’affronto fatto a Pio IX con Roma capitale del Regno) da sempre “esulata” in is arrugas strintas di Casteddu ‘e susu.

Non era poi una critica senza riscontri dato che quel partito, nella sua versione cagliaritana, mostrerà assai poco di «popolare», non solo per via dei modesti suffragi ricevuti nelle urne ma soprattutto dal nome dei suoi candidati, in gran parte beneficiati dal fatidico “Don”.

Peraltro, nelle quasi cinquanta chiese cittadine, le liturgie, non solo domenicali, sarebbero state seguite da una assai numerosa folla di fedeli, e le pie congregazioni di carità avrebbero trovato sovvenzioni sempre più sostanziose anche dagli esponenti di quel milieu borghese targato A.G.D.G.A.D.U.

Né avrebbe destato meraviglia negli ambienti cittadini che un venerabile “trentatre” della massoneria locale avesse donato, ad un ordine religioso, un vasto appezzamento di terreno per edificarvi un collegio per impartire ai giovani locali un’educazione cattolica.

Ci sarà dunque, anche nel campo della fede in Domineddio, una Cagliari bifronte (di laici atei e di laici credenti), ma che, sotto sotto, avrebbe manifestato una sua convinta coesione su quell’agognato destino di progresso, rappresentato dalla conquista di migliori condizioni di benessere e di vivibilità sociali.

Fin qui si è già detto molto sulle borghesie cittadine, sul loro formarsi e sul loro moltiplicarsi soprattutto negli affari e nelle attività di commercio. È opportuno ora aggiungere che, dalle provenienze quasi esclusivamente forestiere del passato, si sarebbero aggiunti, man mano, nuovi apporti di provenienza locale, in gran parte dai paesi dell’interno.

Si è già detto di Efisio Cocco e delle sue vincenti attività mercantili, si dovrà quindi aggiungere – per dare conferma a quest’assunto – il ricordo di Francesco Zedda-Piras, giunto da Tiana (piccolo centro delle Barbagie) e divenuto uno dei principali attori dell’economia cittadina. Ma l’elenco di quanti immigrati dai loro paeselli avrebbero fatto fortuna in città, è molto più ampio, in quanto non andrebbero dimenticati Francesco Spissu, Ernesto Sanna-Manunta, Giovanni Mascia, Giovanni Zedda-Zedda, Guglielmo Cau, Felice Muscas, ecc.

Is piccioccus ’e crobi (i ragazzini con il cesto) fanno parte della simbologia duna Cagliari d’animi, quando per “tres o cincu soddus” aiutavano i “benestanti” a trasportare la spesa dal mercato.

Si trattava d’una borghesia fattasi sempre più indigena per nascita ed autoctona per formazione e, quindi, strettamente legata alle sorti della città. Ci sono diversi esempi a convalida di questo stretto rapporto: rileggendo, ad esempio, i resoconti della locale Camera di commercio (di fatto, il tempio dell’economia cittadina), si ha la percezione netta di quanta correlazione ponessero tra il successo dei propri affari ed il progresso della città. Alla quale, quindi, dedicavano mille attenzioni per promuovere e per sollecitare gli interventi atti a migliorarne gli standard civili.

«Quel che è necessario è fare della nostra Cagliari, la Livorno del Mediterraneo inferiore – aveva indicato l’ingegner Giorgio Asproni ai suoi colleghi dell’istituzione camerale – perché ne abbiamo le capacità e le possibilità, sol che si sappia sviluppare le grandi risorse sconosciute ed inespresse che sono nella nostra terra e nella nostra gente. Sta quindi a noi – aveva aggiunto – non rimanere con le mani in mano in modo da fare di Cagliari una città di livello internazionale».

Si trattava certamente di un invito alla mobilitazione, ad operare insieme verso un obiettivo che andava ben oltre (solo che lo si riferisca alla cultura di quel tempo) agli obiettivi molto autarchici allora prevalenti.

In effetti, gli intendimenti di quella borghesia erano ben in linea con la crescita ed il progresso della città, tanto da condividerne le stesse direttrici di sviluppo. Si può quindi sostenere, senz’ombra di dubbio, che quella borghesia s’era fatta “cagliaritana” a pieno titolo, anche perché sempre più stretti rapporti coniugali e familiari avevano fatto sì che anche casate forestiere come Gavaudò, Pernis o Devoto – intrecciatesi con quelle dei Tronci, dei Pisu, dei Melis od anche dei “sangue blu” come i Sanjust od i Villahermosa – fossero divenute titolari di una provata ed indiscussa cagliaritanità.

A fianco di questi borghesi c’erano poi gli uomini della politica municipale. Pare necessario spiegare il perché di quell’aggettivazione – municipale – con cui si è inteso meglio identificare quegli esponenti del potere locale, proprio per rimarcarne le differenze con quella del parlamento nazionale. Vi è infatti da sottolineare come il gruppo di comando del Municipio cittadino (il cui leader era il sindaco Ottone Bacaredda) avesse un legame molto stretto con gli ambienti economici locali, tanto che alcuni esponenti ne saranno cooptati come assessori nella Giunta. Nello stesso Consiglio comunale v’erano diversi “negozianti” ed “industriali”, di fatto numericamente superiori ai liberi professionisti (assai pochi erano i nobili). C’era dunque quasi una simbiosi fra la politica bacareddiana e quella auspicata dai gruppi dell’imprenditoria borghese per far progredire la città, mentre sarebbero emerse, talvolta, delle polemiche contrapposizioni con la rappresentanza parlamentare egemonizzata dalla personalità di Francesco Cocco-Ortu.

Non appare facile capire quali fossero, effettivamente, le differenze fra i bacareddiani ed i cocchisti, anche se talune incomprensioni erano nate fin dai tempi dei fallimenti bancari di fine ’800 e dei differenti atteggiamenti assunti nei confronti del banchiere Pietro GhianiMameli (peraltro, come già detto, da considerarsi come uno dei “grandi borghesi” della storia cittadina). Non ci sarebbe motivo, quindi, per indicarne la collocazione politica con le denominazioni classiche – sinistra e destra – e neppure con le amicizie parlamentari privilegiate (zanardelliani o crispini). Alcune male lingue la facevano discendere dall’appartenenza (o per la simpatia) a differenti camarille cittadine più o meno affaristiche, dato che le differenziazioni si sarebbero sempre manifestate su problemi cittadini (il vincolo degli interessi – avrebbe rilevato Aldo Accardo nella sua storia post-unitaria della città – sarebbe stato sempre più forte delle appartenenze ideologiche).

È certo, quindi, che i loro rapporti non furono mai molto buoni, anche perché al Cocco-Ortu, potente parlamentare ed uomo di governo, avrebbe dato ombra il favore che Bacaredda riscuoteva fra gli elettori cagliaritani, cioè della sua città.

Un aspetto anch’esso importante, e che ci riconduce al punto di partenza di quest’analisi, è che con Bacaredda sarebbero entrati nell’amministrazione comunale molti uomini “nuovi”, quasi tutti provenienti dall’ambiente economico cittadino, rompendo così quello che era stato il “maso chiuso” dei cocchisti, come venivano chiamati i seguaci del Cocco-Ortu.

Al di là di questo, pare importante riconoscere a quegli uomini della politica municipale il merito d’aver saputo accompagnare, con intelligenza ed acume, il progresso della città, mostrando soprattutto molta sensibilità amministrativa ed una chiara visione prospettica sulle trasformazioni da urbane da realizzare.

Ha giustamente ricordato lo storico Gianfranco Tore come, dal 1900 in avanti, fosse stato avviato un imponente programma di opere pubbliche, «con un investimento annuo di più di un milione di lire, trasformando Cagliari in una vera città en marche». Era divenuta la città dei grands travaux, delle grandi sistemazioni viarie, del tracciamento dei grandi viali alberati, del completamento degli edifici scolastici, al servizio di una popolazione che al censimento del 1901 aveva superato i 50 mila abitanti.

Il nuovo Palazzo civico e l’imponente bastione di Saint Remy avrebbero contribuito, e non poco, ad arricchire l’immagine architettonica della città, da sempre così povera di monumenti. Era in atto, senza dubbio alcuno, una importante trasformazione urbanistica, di arricchimento dell’arredo e delle funzioni cittadine, nell’obiettivo di arrivare ad una effettiva “saldatura” fra quelle che erano state le “appendici” di pianura (Marina, Stampace e Villanova) con il centro di Castello, il piano comunale predisposto dall’ingegner Giuseppe Costa ne aveva tracciato le linee direttrici ed il grande impegno finanziario dell’amministrazione Bacaredda ne aveva avviato la realizzazione.

Cagliari era ormai un’altra città, aveva una linea tranviaria che l’attraversava e la collegava con l’entroterra quartese, aveva, nel litorale di Giorgino, i suoi stabilimenti balneari alla stregua di Genova e di Livorno, aveva i suoi caffè ed i suoi restaurant, non diversamente dalle grandi città continentali. Erano degli aspetti che la distinguevano ancor più dall’altra Sardegna, e se contribuivano ad aumentarne l’orgoglio, contestualmente ne aumentavano l’invidia, e, quindi, i pregiudizi per una città che la si indicava sempre più come sanguisuga (a tal proposito, rincarando la dose, l’oristanese avvocato Porcella, membro della Deputazione provinciale, avrebbe definito Cagliari «la beniamina della nonna», ed il suo municipio «il Creso della Sardegna»!).

Occorre ricordare che Ottone Bacaredda era divenuto sindaco della città nel 1889, appena quarantenne (era nato a fine dicembre del 1848), succedendo al professor Gaetano Orrù. Proprio nel suo discorso d’insediamento, così come riportato dalle cronache, avrebbe indicato pragmaticamente le linee della sua azione che s’impegnava a svolgere «con mente serena, con spirito elevato, non chiedendo consiglio alle nostre personali simpatie e amicizie od a rancori o ad animosità che abbassano e umiliano, non ubbidendo alla influenza di partigiane passioni, ma nel nome della moralità e della giustizia per il bene della nostra Cagliari. Il tutto – concludeva – senza odi e senza rancori».

Tutta la sua politica municipale sarà svolta quindi a far grande la città, nella convinzione di dover lasciare un suo segno indelebile nella storia cittadina e, contestualmente, imponendone le sue risorse e le sue qualità “d’eccellenza” sul resto dell’isola. Imponendo alla sua amministrazione d’essere – come spesso amava ripetere – una “casa di vetro”.

In questo suo impegno avrebbe trovato non poche difficoltà nella situazione economica generale del Paese, e nell’emergere di aree di crisi e di malcontento fra gli strati più deboli della popolazione cittadina. Per quel che riporteranno le cronache politiche, sarà proprio all’inizio del Novecento che sarebbe emersa la “questione” delle due Italie: di un Centro-Nord in sviluppo e in continuo progresso e di un Sud (con le due isole) in gravi difficoltà e, soprattutto, con vasti problemi di malessere e di povertà sociali.

Forse ci sono dei dati che servono a testimoniare quel forte disagio e le ragioni del malcontento popolare. Li aveva elaborati nel 1902 Francesco Saverio Nitti: come ricchezza mobile (reddito) per abitante la Sardegna era sotto di poco meno di un terzo della media del Regno; la circolazione monetaria per abitante era, nell’isola, neppure un quinto, mentre la spesa pubblica nei quarant’anni unitari aveva visto l’isola penalizzata fortemente (neppure 12 lire per abitante rispetto alle 64 del Centro-Nord).

Saranno anche queste le ragioni (aggravate dalle ripetute penurie nei raccolti agrari) a motivare quei moti popolari che, nel maggio del 1906, porteranno all’attenzione della pubblica opinione cagliaritana la “classe operaia”. La crescita dei prezzi nei generi di prima necessità ed i bassi salari con cui venivano retribuiti carichi di lavoro sempre più pesanti, avrebbero fatto esplodere una rabbiosa, ed anche violenta, sollevazione popolare.

Che la responsabilità fosse poi da addebitare all’amministrazione Bacaredda sarebbero legittimi molti dubbi, ma è certo che essa divenne l’oggetto-obiettivo dell’esasperazione generale. I ripetuti e prolungati scioperi dichiarati dalle diverse categorie di lavoratori (dalle sigaraie ai tranvieri ed ai portuali), insieme agli affollati cortei per le vie cittadine, avrebbero dato l’immagine di una vera e propria sommossa popolare, con scontri e devastazioni di cui ancor oggi c’è memoria.

Non è nella logica di questo racconto riportare la cronaca di quelle tumultuose vicende (che peraltro hanno avuto diversi attenti cronisti): si è ritenuto di farne menzione perché proprio da allora anche la classe operaia sarebbe divenuta, al pari della borghesia cittadina, protagonista della vita sociale cagliaritana. La stessa nascita della Camera del lavoro nel 1907 dovrebbe essere ricordata come una tappa importante nel cammino cagliaritano verso la modernità continentale.

Una modernità – occorre ricordare – che ormai andava investendo tutta la società cittadina. E che aveva il suo slogan nel verbo “costruire”. Ed anche Cagliari diverrà protagonista di quello che in tutt’Europa sarebbe stato indicato come “il tempo degli ingegneri”, cioè dei costruttori.

La tecnica e la scienza per saper ben costruire case, ferrovie, porti, navi e macchine d’ogni genere, erano divenute essenziali per attuare quella grande rivoluzione industriale in atto nel vecchio continente e nelle Americhe. Un po’ dovunque la “scienza politecnica” veniva considerata la chiave giusta per aprire alla società del XX secolo le porte del progresso. Dovunque, quindi, ma anche a Cagliari, dove gli ingegneri sarebbero divenuti l’avanguardia virtuosa della borghesia cittadina, oltre che i protagonisti delle grandi trasformazioni sociali, tecniche ed ambientali portate dal nuovo secolo.

Lo stesso svolgimento a Cagliari, come già ricordato, del X Congresso nazionale degli ingegneri italiani, risulterà un’occasione straordinaria per portare questa professione a protagonista della modernizzazione della società e dell’habitat locale. In quell’occasione, attorno al centinaio e passa di ospiti, s’era unita una numerosa pattuglia di ingegneri cagliaritani (in gran parte provenienti dalla scuola ingegneristica del Valentino). Fra essi andrebbero ricordati Edmondo Sanjust, Beniamino Pirola, Giorgio Asproni, Stanislao e Dionigi Scano, Carlo Floris-Thorel, Enrico Stefani, Luigi Contivecchi, Gracco Tronci-Pernis, Antonio Cao-Pinna, Enrico Devoto.

Se la borghesia cittadina, come s’è visto, era assurta, con Bacaredda, a promotrice politica del progresso della città, quegli ingegneri ne sarebbero divenuti lo strumento tecnico, dato che ad essi – o a taluni di essi – si dovranno le linee guida utilizzate dal ministro Cocco-Ortu per varare la legislazione “speciale” a favore dell’isola.

Proprio ad essi – od a taluni di essi – si dovrà quel miracolo idroelettrico che, con l’elettricità e le bonifiche, darà il via alla più importante opera di redenzione sociale mai vista in Sardegna. Il fatto che si fosse formato a Cagliari il fertile laboratorio di quelle idee e di quei progetti (ricordiamo le opere sul Tirso, sulla piana terralbese e sullo stagno di Santa Gilla) avrebbe dato un nuovo importante titolo di merito alla città, divenuta quindi anche capitale del risorgimento isolano.

Ormai Cagliari, come avrebbero scritto Giancarlo Sorgia e Giannino Todde, era riuscita «a travalicare le vecchie mura medioevali per recitare un ruolo di primo piano nell’area isolana e mediterranea, pur trovandosi di fronte ad una crisi di crescenza resa ancor più grave dalla situazione di un’isola condizionata da pesanti squilibri socio-economici».

Comunque, pur con i tanti distinguo accennati, la città, per via di quelle nuove magnifiche case e quegli imponenti nuovi palazzi avrebbe suscitato un «nuovo e forte sentimento d’orgoglio e d’amor cittadino» in tutti i suoi abitanti.

Lo spirito borghese, introdotto da un intraprendente ceto di uomini “del fare”, sarebbe così riuscito a prevalere sulle chiusure tradizionaliste ed attendiste del vecchio establishment feudale. La città, con quel suo febbrile operare, «si dimostrava attiva e partecipe, al corrente tempestivamente di quello che avveniva allora in Europa. E ritrovava anche in un ritorno all’antico, una vocazione mediterranea, che sarebbe stata l’ispiratrice della nascita di un cantiere navale [promosso dal Falqui-Massidda] e di operazioni commerciali nell’area tunisina [finanziate dal Credito Agricolo e Industriale Sardo di Pietro GhianiMameli]», come ci hanno ricordato proprio Sorgia e Todde in quella loro documentata istoria delle amministrazioni civiche cagliaritane.

La Cagliari degli anni bacareddiani andrebbe interpretata in questa sua ricerca di modernità e di collegamento con il resto del mondo, alla riconquista di quegli spazi che erano stati fenici e romani ed al riavvicinamento ad un porto che divenisse finalmente una risorsa per il progresso cittadino, occasione di lavoro oltre che di profittevoli affari. Una discesa verso la pianura che ha poi trovato il suo simbolo nel palazzo Civico progettato da Crescentino Caselli e da Annibale Rigotti.

L’asse “fronte mare” della via Roma, con i suoi palazzi ariosi ed i suoi portici monumentali, era un po’ la risposta che la borghesia degli affari aveva inteso dare, come segno di modernità e di progresso, al conservatorismo edilizio d’una nobiltà che s’era caparbiamente arroccata nelle impervie stradine del Castello ed in quelle abitazioni che di aristocratico avevano ben poco. Così nella stessa forma e nella composizione dei palazzi edificati a Cagliari in pianura (accenniamo qui ai palazzi Vivanet, Accardo, Magnini, Zedda-Piras, Zamberletti, Serventi, Garzia, Manca, Chapelle, ecc.) si possono leggere, visibilmente, i complessi processi di cambiamento avvenuti non solo nell’arte del costruire (l’uso dei materiali, l’utilizzo dello spazio, l’introduzione dei comfort igienici, ecc.), quanto quelli attinenti ai nuovi e differenti bisogni e desideri che la comunità cittadina esprimeva per la qualità dell’abitare e del vivere.

Saranno poi queste le cause che avrebbero determinato, nel giudizio dei posteri, un’aspra critica nei confronti di quella borghesia locale che aveva assunto la guida della città e del suo sviluppo, sostituendosi alla nobiltà di Casteddu ‘e susu. Ad essa verranno attribuiti peccati d’ogni genere, soprattutto miopie ed egoismi, affarismi ed ingordigie, oltre che una certa dose di incultura e di grettezza spirituale. Tralasciandone, purtroppo, la valenza degli indubbi meriti. Si sarebbe così sostenuto – con un evidente peccato di faziosità ideologica – che la Cagliari borghese sarebbe stata edificata non certo per far più grande e meglio vivibile la città, quanto per aumentare a dismisura il portafoglio di pochi furbi plutocrati (irridente e polemica definizione usata allora per chi, in nome del capitalismo, comandava e s’arricchiva «ai danni del popolo minuto»).

Anche di recente sono state espresse molte acide critiche su quest’esplosione edilizia della città del primo ’900, espresse anche da pulpiti autorevoli, addebitando soprattutto alla borghesia locale (a quei ceti produttivi che avevano soppiantato la vecchia e oziosa nobiltà redditiera) d’avere pensato solo ai propri interessi materiali ed al proprio diletto, con l’arricchire la città di passeggiate, viali e piazze, dimenticando però di dare soluzione al problema abitativo delle classi più deboli.

Così lo stesso salto di qualità che Cagliari compie in quegli anni con il nuovo porto, l’acquedotto, la rete fognaria, l’illuminazione pubblica, ecc. non trova sufficiente valutazione, sopravanzato dalle aspre accuse rivolte a quel «sistema di potere clientelare e paternalistico» messo su dalla borghesia produttiva locale per «difendere e salvaguardare i nuovi modi di produzione capitalistica», fondati più sullo sfruttamento operaio che sull’innovazione tecnica e tecnologica».

Così anche quella stessa polemica sulle case popolari come alternativa al palazzo civico od al nuovo imponente bastione di St. Remy rischierà di essere niente più che un pretesto per poter definire reazionaria od antipopolare un’amministrazione civica che s’era voluta caratterizzare con un vasto programma di opere pubbliche, peccando più d’immagine – come s’è sostenuto da taluni – che di sostanza. Una critica che non avrebbe tenuto conto, non solo dell’atmosfera e delle condizioni di quegli anni difficili, ma anche delle stesse configurazioni sociali del tempo.

Poco importava, a quelle sirene marxiane, rilevare che il reddito medio d’un cagliaritano fosse aumentato del 40 per cento nell’ultimo ventennio; che i giovani iscritti nelle scuole secondarie cittadine fossero aumentati di due volte e mezzo; che gli interventi del “Monte di pietà” fossero in una fase di progressiva diminuzione, e che i consumi degli alimenti-base – come il pane e i legumi – si fossero triplicati (come noterà una rilevazione della locale Camera di commercio).

Seppure piegate più ai voleri dell’ideologia partigiana che a quelli dell’obiettività storica (come si potrebbe intuire), quelle accuse anti-borghesi paiono tutto sommato ingiuste. Perché dimenticano che è stato merito di quella calunniata borghesia (come avrebbe detto Bacaredda) se, pur tra indubbi peccati di egoismo e di omissioni, s’era potuto avviare e compiere il rinascimento della città, la sua entrata fra le comunità moderne, la sua emancipazione anche sul fronte del lavoro e del progresso (a Cagliari, si poetava allora, v’è mera traballu e mera dinai).

Con l’affermarsi di un gruppo sempre più numeroso, e per certi versi abbastanza coeso di uomini “nuovi” (interessati a far cambiare “marcia e direzione” allo sviluppo della città), si sarebbe riusciti a far sì che Cagliari si potesse allineare, «sempre più attiva e partecipe», a quanto «stava avvenendo allora in Europa». Ma, fatto assai importante, non avrebbe perduto i segni della sua identità passata, i valori della tradizione e l’orgoglio delle proprie origini. Ed in questo «ritorno all’antico ritrovava e rinnovava una vocazione sempre più in linea con il progresso, con quel che scienza e tecnica stavano regalando alla qualità della vita civica».

Andrebbe anche rilevato che – anche per merito di quella emergente borghesia – la città appariva ben più “acculturata”, più in linea con i movimenti artistici e letterari che erano emersi nelle terre “continentali” Così, per far bella la propria casa, s’acquistavano oli e acquerelli (i più ricercati erano quelli di Guglielmo Bilancioni, di Enrico Castagnino e di Raffaele Ciuffo, tutti con atelier in città), si frequentavano gli studi di scultori come Cosimo Fadda e Giuseppe Sartorio, e, soprattutto, s’acquistavano e si leggevano libri.

Le librerie più frequentate erano quelle di Felice Muscas e di Camillo Brundu (ambedue in Marina, a dimostrazione di dove risiedessero i più fedeli acquirenti) e, fra i libri più acquistati, erano i romanzi di Antonio Fogazzaro e di Guido da Verona e le poesie di Giosuè Carducci. Per i ragazzi di allora il best-seller era l’avvincente storia dei loro coetenei “della via Pal”, indimenticabile capolavoro dell’ungherese Ferenc Molnar.

Con i libri, e la lettura, si cercava un collegamento con il mondo che stava al di là del mare, sprovincializzando la propria anima prima ancora che la propria vita fisica. S’andava a teatro – prosa, lirica e operette erano le opzioni più gettonate – anche per vivere emozioni differenti da quelle possibili nel “piccolo mondo” cittadino, emozioni che – per dirla con le memorie di un cagliaritano d’allora – erano poi delle vere e proprie evasioni culturali, cioè dei viaggi virtuali verso un mondo diverso, affascinante ed intrigante.

Cagliari, quindi, si sprovincializzava, guardando più al mondo della cultura e della conoscenza che a quello delle corti e delle loro pittoresche ma sterili liturgie, tanto prediletto dalle classe aristocratiche del passato. Si faceva politica non più come conquista di poteri personali, ma come strumento per una crescita collettiva, cercando sempre di conciliare il proprio particolare con gli interessi generali della gente. E con la politica si cercava di armonizzare sempre più la città con la campagna, non dividendone più, come un tempo, interessi e privilegi, ma ricercandone motivi e legami di unità.

Il fatto poi che i nuovi cagliaritani (quegli oltre 20 mila giunti in città in meno di vent’anni) fossero in gran parte provenienti dai villaggi dell’interno, sarà la controprova che l’evoluzione borghese, con la sua politica, aveva fatto di Cagliari la città dove trovare lavoro e buon vivere, dove era possibile riscattarsi dalle miserie e dalle angustie del villaggio. Dove, lo si dica senza arrossire, era possibile imparare un mestiere moderno (quanti bastascius e giornaderis, ad esempio, sarebbero divenuti esperti tornitori e provetti saldatori nelle officine di Rocca o di Doglio o manovratori e fuochisti nelle ferrovie!) e, soprattutto, liberarsi da quell’avvilente condizione di rimanere serbidori a vita, sempre carichi di doveri e privi di diritti, alla corte de is meris.

Saranno quindi quei primi anni del Novecento il vero ed importante turningpoint, il punto di svolta di Cagliari per l’entrata nella modernità. E da allora, lo si voglia o meno riconoscere, la città sarebbe divenuta il faro su cui tutta l’isola dei villaggi avrebbe cominciato ad indirizzare la propria rotta.

 

Patriarca 92. Lucidità analitica e propositiva: il permanente dono di Paolo Fadda alla sua Cagliari. Una sua lettera del 1964 a Fabio Maria Crivelli

Da quarant’anni ormai, dacché la SAIA da lui al tempo presieduta mostrò qualche interesse al recupero edilizio ed al rilancio residenziale (e del terziario civico) di Stampace e promosse la stampa dei due volumi sulla Marina (Cagliari Marina: memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere, 1981) e Castello (Cagliari Castello: passato e presente di un centro storico, 1982) a firma di Antonio Romagnino – pubblicazioni testofotografiche che dettero finalmente la stura al meraviglioso diluvio dei titoli che il professore ha poi, negli anni, consegnato a editori diversi e donato a noi suoi lettori sempre, e chi anche allievo e chi anche sodale nelle imprese di Italia Nostra o nella militanza agli Amici del libro, e altrove ancora – Paolo Fadda è nelle mie preferite, più intense e rispondenti interlocuzioni sulle questioni cagliaritane fra ieri e oggi. Si tratta di interlocuzioni sempre larghe, quasi onnicomprensive, includenti i concorsi della borghesia imprenditoriale e del proletariato operaio allo sviluppo cittadino da Bacaredda (e da prima di Bacaredda) in qua. Includenti altresì la funzione pubblica di alcuni soggetti istituzionali di prim’ordine come le banche direttamente incidenti sulle dinamiche del progresso economico locale, l’influsso della Chiesa nell’evoluzione sociale e culturale della popolazione, e molto altro ancora. Nel novero, non marginale il ruolo della stampa come elemento propulsore della modernizzazione dell’area urbana e sana secolarizzazione del costume sempre più propenso allo scambio con l’oltremare.

A tanta personale istruttiva compagnia hanno concorso, santo carburante, i suoi libri. Paolo Fadda studioso, Paolo Fadda autore originale e prolifico, curatore di collane editoriali, editore lui stesso in un esordio di ammirevole orgoglio – quello della Sanderson Craig (stagione 1990-91) – e naturalmente Paolo Fadda pubblicista ed editorialista perfetto, passato per collaborazioni le più varie (per la varietà delle testate che l’han chiamato ed a cui ha dato la sua fiducia) e sempre di alto profilo, sì, Paolo Fadda ha costituito per me un riferimento sempre preciso e altamente qualificato per ogni inoltro nell’approccio alla nostra storia di ieri e di oggi, nell’approfondimento della nostra contemporaneità regionale e cagliaritana in specie.

Ha avuto lui la generosità di soffermarsi sulle mie cose (con articoli e con la presentazione di libri), ho scritto io tante volte di lui e dei suoi lavori, e sul piano umano e personale gli sono stato assolutamente prossimo quando sciagurate figure (anche, ma non solo, della Chiesa) lo hanno contrastato, giudicando volgarmente e senza conoscere, senza conoscere nulla e, ancor più e soprattutto, senza conoscere l’intima distinzione morale dell’uomo e, in aggiunta alla umiltà (virtù che io neppure mi sogno), quella bontà tutta sua che un novantenne d’oro come Norberto Bobbio, parlando delle categorie etiche dell’umano, definì il pregio ben superiore ad ogni altro possibile nella biografia di una qualsiasi personalità applaudita dalla platea sociale, più della cultura, più del rango. Ho scritto tanto di Paolo Fadda che oggi, mentre egli raggiunge e sobriamente (come sempre) festeggia il suo 92° compleanno, vorrei dare a lui stesso la parola riproponendo un suo articolo (nella forma della “lettera al direttore”) uscito su L’Unione Sarda di quasi sessant’anni fa – del 14 ottobre 1964 per la precisione –, allora vigilia della sua elezione in Consiglio comunale dove permase fino al 1970.

Si tratta – per contestualizzare – della consiliatura che nacque all’insegna dell’esordiente (a Cagliari) formula del centro-sinistra, impostata cioè sull’architrave democristiana ma con i qualificanti contributi del Partito Socialista – e di uomini come Sebastiano Dessanay (assessore anziano), Anton Francesco Branca, Ottavio Businco – allora prossimo alla sua unificazione con la socialdemocrazia di Giuseppe Saragat (al tempo presidente della Repubblica), ed anche dei sardisti alleati dei repubblicani (quando i sardisti erano sardisti, figli puri della cultura democratica mazziniana e cattaneana, e non ingrati raminghi persi nelle nebulose indipendentiste in possibile ebbra conversione forzista e leghista). Venuta da Roma, fu da Cagliari che, poi, l’alleanza di centro-sinistra si portò anche alla Regione favorendo con personalità come Efisio Corrias, Paolo Dettori, Giovanni Del Rio e Soddu e Deriu ecc. quella certa politica contestativa che, al netto di qualche tono o di qualche strumentalizzazione (e anche di qualche omessa autocritica, invero necessaria), fu manifestazione dignitosa di fierezza sarda nei confronti della comunità nazionale e tanto più di un governo (il terzo Moro) impaludato dalle burocrazie ministeriali deossigenanti l’attuazione del Piano di rinascita. Si perse allora, in progress, l’aggiuntività promessa con il piano straordinario, ed i finanziamenti statali finirono per essere sostitutivi dei tradizionali trasferimenti.

E bisognerebbe anche dire, a tal riguardo: fu grazie anche a Paolo Fadda, e per tanta misura grazie a lui, che la politica cittadina conobbe questa promozione aperturista verso la sinistra, allora interprete di tanti valori e tante esperienze, insomma di un patrimonio non ancora apprezzato sul piano amministrativo (s’intende dopo la fine delle giunte di concentrazione Dessì Deliperi e Pintus, e Crespellani 1946-49. I liberali di Cocco-Ortu, Caredda, Angioy… garantivano il rigore e la costruttività dell’opposizione moderata, fuori dal recinto della destra missino-monarchica, dall’altra parte il carrismo lussiano, pur nel dottrinarismo di certe impostazioni, assicurava un slancio ideale utile a tutti, maggioranza e minoranza. Allora giovane – 35enne – capogruppo democristiano in Consiglio comunale (qui eletto con 1.218 preferenze), uomo di grande famiglia, colto e di mille relazioni, Paolo Fadda seppe progressivamente indirizzare le scelte del suo partito favorendo anche, nel 1967, l’assunzione della sindacatura, in ricambio da Giuseppe Brotzu, da parte di Paolo De Magistris: un avvicendamento positivo che si protrasse fino a quei successi “d’immagine” della città che furono la visita a Cagliari del papa Paolo VI e la vittoria dello scudetto da parte dei rossoblù di Gigi Riva e Manlio Scopigno. (Circostanza, quest’ultima, che mi riporta alla memoria la collaborazione di “cronista sportivo” resa dal Fadda ventenne, nei trascorsi anni ’50, sia a L’Unione Sarda che a L’Informatore del lunedì di Franco Porru!).

 

Cagliari 1964

Certamente erano anni, quelli poi mitizzati – gli eroici “60” –, che per molti che ne hanno raccontato, o testimoniato, avevano coinciso con le età più belle della vita: l’infanzia e l’adolescenza o la primissima giovinezza. Ciò è valso come uno specialissimo riflettore di luce chiamato a promuovere insieme presente e futuro. In altre parole – bisogna dire anche questo – la vitalista illuminazione delle cose e delle atmosfere recata da quel dispositivo mentale, ha carezzato gli eventi (e anche la memoria d’essi) ed enfatizzato, nelle sintesi e nei rilasci, l’ottimismo generale.

Era esso – il riflettore – come il giustificato e naturale supplemento al tempo colorato come lo si respirava allora captandolo dai giornali, dalla radiotelevisione, dalle conversazioni (quelle da bar e da salotto, da passeggiata e da scuola): la distensione internazionale (nonostante la permanenza dittatoriale oltre cortina, Cecoslovacchia inclusa, e, di segno opposto, anche in questo o quello stato sudamericano, ma pur comunque dopo la crisi superata a Cuba!), certe dinamiche infra-ed-interstatuali che si prestavano a diverse interpretazioni ed anche ad opposti giudizi (dalla decolonizzazione in corso nei continenti alla guerra infinita nel Vietnam, dalle durezze marziali cinesi ai movimenti giovanili pacifisti dell’Occidente con la Baez e Bob Dylan e le altre ribellioni dei Rolling e dei Beatles, dalle lotte e controlotte in America per la questione razziale, fino ad arrivare agli assassini politici dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, alle conquiste dello spazio ed a quelle della medicina (perfino con i trapianti)…

Da noi ecco la progressiva felice secolarizzazione del costume nazionale (anche per la positiva autoriforma in chiave umanistica ed ecumenica della massiva Chiesa cattolica) e la più conciliante politica sociale dei governi di centro-sinistra arrivando addirittura alla stagione dell’autunno caldo a chiusura di decennio, la liberalizzazione universitaria e la riforma ospedaliera (anticipazione della futura riforma sanitaria recante il superamento delle mutue e l’impianto del servizio sanitario nazionale), i riassetti democratici di certa stampa in rapida evoluzione tecnologica – si pensi a I ed al grosso dei rotocalchi Rusconi e Rizzoli – (e, di contro, le nuove infeudazioni all’industria da qualche parte, come in Sardegna) e cento altre cose…

Sì, quel riflettore mentale si poneva come supplemento “in prevalente positivo” ai fatti raccolti e registrati… Per non dire dell’accompagnamento pubblico proveniente, oltre che dai partecipati comizi di piazza, dalle canzoni di Sanremo, del disco per l’estate, di Mina, Fabrizio De André e Lucio Battisti… colonna sonora di una-due generazioni italiane in viaggio verso il futuro. Anche per la Sardegna tutto questo e però anche il sogno, e qualche realizzazione, del Piano di rinascita come freno all’emigrazione ed impulso al progresso civile attraverso nuove infrastrutture viarie ed idriche del territorio, il disegno dello sviluppo turistico e anche industriale – uno sviluppo che dette il segno della modernità alla nostra società, ma pure introdusse elementi rivelatisi poi negativi e perfino rovinosi –, ancora qualche drammatico colpo banditesco ma anche le prime vere glorie del Cagliari e con il Cagliari in A…

E Cagliari in quanto “città-regione”? Cagliari, con i suoi ormai duecentomila residenti nel 1964, a contare naturalmente le comunità che si sarebbero successivamente ritagliate l’autonomia municipale, da Elmas a Quartucciu a Monserrato… Cagliari ancora cantiere a vent’anni ormai dai bombardamenti, ma cantiere ormai non più soltanto per le riparazioni ma per lo sviluppo, per il nuovo, nella logica (sempre più terziaria) del polo d’attrazione dalla provincia… Quartieri residenziali di fresca urbanizzazione, periferie ad alta intensità d’abitanti in nuovi appartamenti dei piani IACP e Ina-casa, fra Villa Fiorita e Fonsarda, Is Mirrionis e San Michele, La Palma e Bingia Matta… L’arcivescovo Paolo Botto benedice, passando di strada in strada, il nuovo quartiere di Is Cornalias, mentre il vicino seminario diocesano carbura al meglio e diventa – negli anni propizi del Concilio – luogo di incontro e risveglio di una cultura larga, e le chiese parrocchiali e non – da Santa Caterina a Cristo Re, da San Carlo (dopo San Paolo) a San Francesco d’Assisi, la Medaglia Miracolosa e Sant’Eusebio, si posizionano come centri di riferimento delle nuove aree urbanizzate.

Si comincia a cantierare il CEP in direzione di Pirri ed in centro, in piazza San Cosimo, viene abbattuta la vecchia casa-ospizio del clero e si progetta il monumentale palazzone-tunnel di collegamento fra le vie San Lucifero e Logudoro… E così si cantierano anche le nuove scuole, il prefabbricato di via Falzarego e lo scientifico Pacinotti in via Liguria, il classico Siotto-Pintor fra il viale Trento e il viale Sant’Avendrace, ed il femminile professionale a Bingia Matta…

 

Sono ormai definiti i progetti di nuove arterie stradali – dalla circonvallazione aeroporto-Poetto al panoramico viale Europa di Monte Urpinu, dalla via Abba di collegamento fra le vie Garibaldi e Sonnino alla scenografica scalinata di Bonaria…, cresce il traffico, sfiorano le quindicimila le immatricolazioni d’auto in un anno. Sono quasi al debutto i poliambulatori previsti in via De Gioannis, via Carloforte e via Nebida a Is Mirrionis, né diverso è il discorso per i mercati rionali dopo quelli trionfanti di San Benedetto e di Santa Chiara ed anche di via Pola, anche gli altri delle frazioni e di La Palma e via Quirra… S’inaugurano, in municipio, il centro meccanografico per il servizio Anagrafe e, a Clinica medica, la “banca degli occhi” per i donatori di cornea, s’appalta il completamento del gigantesco brefotrofio provinciale con 572 posti letto (andrà presto in liquidazione lo stabilimento dell’Infanzia abbandonata da riciclare come facoltà di Scienze Politiche nel viale Fra Ignazio), la Provincia apre in viale Ciusa il suo nuovo laboratorio d’igiene e sanità (trasferendolo dal viale Bonaria). Va in rinforzo con nuovi macchinari il Centro tumori (destinato ad evolvere presto in Ospedale oncologico regionale), mentre è sempre attiva, in città, la campagna di vaccinazioni antiantipolio – migliaia di bambini (di noi bambini e ragazzini allora) ne sono fortunatamente coinvolti – e la sensibilizzazione sociale alla donazione del sangue: sono 800 gli avisini, un vigile urbano è premiato per il maggior merito fra i salassati… Al civico di San Michele si tumulano 16 caduti in guerra le cui spoglie sono state tardivamente recuperate…

Piange, Cagliari, la morte di due sante suore: suor Teresa Tambelli, superiora dell’Asilo della Marina e di Stampace, e suor Angela Fumagalli, superiora della Casa delle madri…

S’avviano i lavori per l’acquedotto nell’area sviluppo industriale – quell’area di Macchiareddu su cui molto di spera anche per il porto-contaniners – mentre al Quadrifoglio entrano in funzione gli impianti per il riciclaggio dei rifiuti trasformati in produzioni di concimazione agricola; trasferito il mattatoio nello stabilimento di via Po, si ipotizza lo spostamento della prefettura nei dismessi vecchi spazi di San Lucifero… Al Poetto si formalizza il consorzio fra i comuni di Cagliari e di Quartu, mentre i casottisti fanno lobby per ottenere migliori attrezzature sul litorale. D’estate sono ben 36, nella statistica del 1964, i graziati dal rischio d’annegamento per l’efficiente servizio dei benemeriti del salvamento…

La centrale del latte di viale Trieste pastorizza e imbottiglia ben 27 mila litri di latte all’anno, prende medaglie l’albergo-scuola Enalc di piazza Dante (poi Piazza Giovanni), i presidi e in generale tutti quanti gli interessati riconoscono che la riforma scolastica delle medie (la media unificata cioè) ha dato ottimi risultati, la scuola di assistenti sociali celebra il suo decennale, però ancora resta nell’orbita semipubblica della Chiesa… L’ateneo conta qualcosa come settemila iscritti, si pubblicano le graduatorie di ammissione a Magistero, ad Ingegneria si introducono i nuovi corsi di meccanica e di chimica, le feluche goliardiche festeggiano (o fanno la festa a) le matricole… Esordisce la cattedra di antropologia culturale – ponte fra Medicina e area umanistica –, la città accoglie i relatori pronti alla settimana di studi storici (in collaborazione con gli accademici di Spagna) ed ospita anche i giornalisti convocati ad una rappacificazione sindacal-associativa nazionale, e così gli operatori turistici – quelli del Trentino e quelli siciliani (con rettore d’università al seguito) – per possibili futuri scambi.

Finalmente nuove luci vengono accese lungo l’intero Terrapieno, si dà il via ai programmi di sviluppo di Marina piccola… Cagliari si fa bella, apre un ufficio di informazioni turistiche in piazza Matteotti…

L’anno 1964, così come ogni anno invero, è scandito dalle manifestazioni pubbliche segnate in calendario: dal carnevale con i suoi carri allegorici alle due settimane della Fiera campionaria (con gli “speciali” della giornata europea e della giornata dei paesi arabi), dalle devozioni quaresimali e della settimana santa alla ritualità pasquale, dalla processione-festa di Sant’Efisio a quella tutta religiosa del Corpus Domini (con sosta al sanatorio di Monte Urpinu), dal viaggio marino della Vergine di Bonaria a luglio alle leggerezze popolari di Ferragosto, dalle onoranze al patrono San Saturnino ai pellegrinaggi verso i cimiteri, dalle visite alle caserme militari al megaraduno per l’Immacolata, alle celebrazioni natalizie, fra novena e messa di mezzanotte… e in mezzo, naturalmente, ecco le giornate del mutilato, dell’aeronautica, dell’Enal, dei fedeli del lavoro, della Guardia di finanza, della Polizia, dei Carabinieri…

In mezzo è, naturalmente, anche la politica, piuttosto chiusa quella comunista nel suo permanente dogmatismo (nel 1964 muore Togliatti e prende la segreteria del PCI Luigi Longo), fissi nell’antistoria borbottante quelli della destra, bloccati nelle tentazioni d’ingordigia del potere i democristiani (non per caso commissariati dalla loro direzione nazionale), con qualche desiderio o aspettativa di novità l’area socialista e quella autonomista.

Il 22 e 23 novembre quasi centodiecimila elettori sono convocati alle urne ed il municipio cerca un suo pur parziale rinnovo. Vengono eletti 23 candidati democristiani, otto comunisti, sei liberali, quattro missini, tre socialisti, due socialdemocratici, altrettanti sardisti, un monarchico ed un socialista dissidente (poi socialproletario). L’alleanza di centro-sinistra presto formalizzatasi poggerà su una maggioranza di 30 consiglieri.

 

Fadda columnist e… proiezione Sassari (con rimbalzo)

Amante della scrittura – e la sua fu (e continua ad essere) sempre sobria e rapida, eppure mai superficiale, al contrario! – Paolo Fadda accompagnò in quegli anni il suo impegno politico-amministrativo con una presenza piuttosto frequente sulla stampa cittadina. Ricorderei a tal riguardo, per chi volesse approfondire le sue valutazioni e lavorare magari a ricostruire di lui il profilo pubblico in una fase storica assolutamente rilevante per la città capoluogo, questi articoli apparsi su I: “Cagliari città-guida” e “Pericolosi errori sulle vie dell’industria”, rispettivamente del 20 novembre e 20 dicembre 1964; “La strada giusta: per l’industrializzazione della Sardegna”, “La svolta in Sardegna” (proprio sull’avvento del centro-sinistra in municipio ancora a presidenza Brotzu), “Democrazia o demagogia?”, “La paura delle ombre”, “Tramonto dei notabili”, “La seconda autonomia”, “I nuovi compiti degli enti locali”, rispettivamente del 21 e 31 gennaio, 16 e 19 marzo, 25 aprile, 26 maggio e 25 giugno 1965; “La polemica sul Golfo”, “Bisogna salvare i nostri comuni: una riforma fondamentale” e “Il vero senso dell’autonomia”, rispettivamente del 29 giugno, 15 luglio e 15 novembre 1966… ma infine, ad elencarli tutti (su diverse testate) ancorché limitati al tempo della sola consiliatura 1964-1970, si decuplicherebbe il numero… Non mancherei peraltro di menzionare, in tale ricco repertorio, questo ancora de L’Unione Sarda (uscito il 30 marzo 1968 in vista del rinnovo delle Camere), almeno l’editoriale “Due temi per una scelta” (essendo i “temi” l’influenza conciliare e postconciliare sul partito della Democrazia Cristiana che si sarebbe voluto riportare al suo originario popolarismo e, su altro piano, lo spazio ispirativo ed operativo della autonomia regionale impegnata nella politica di rinascita), e, d’interesse tutto locale (ma con evidenti ricadute regionali), “Problema della città” riferito alla grave questione della edilizia universitaria (uscito in cronaca il 25 aprile dello stesso anno).

Ripeto, ho accennato a qualcuno soltanto degli interventi pubblici di Fadda nei cruciali anni ’60, assolutamente meritevoli di ripresa e di verifica della loro rispondenza problematica e/o anche permanente attualità… Ma oggi ho pensato anche – omaggio speciale all’amico Paolo Fadda – di saltare Campeda e da Cagliari proiettarmi, in conclusione, a Sassari (dove egli visse e lavorò per diversi anni da giovane manager), qui raccogliendo una nota a lui dedicata da Aldo Cesaraccio, il celebre Frumentario titolare della celebrata rubrica “Al caffè” de La Nuova Sardegna (valga per il conforto ma valga ancor più per il dissenso o l’asprigna critica… anticagliaritana). Eccola qua (dal giornale del 23 luglio 1969):

«Ancora di “Cagliari città-guida”. Dopo il sindaco De Magistris, mi scrive il capo del gruppo consiliare della Democrazia Cristiana, dottor Paolo Fadda. Poiché egli ha la benevolenza di ricordarmi l’“affetto di una vecchia amicizia” tengo subito a dire che, non soltanto questa amicizia è immutata, ma anzi ad essa si aggiunge l’ammirazione sincera per chi, come lui, dà prova fino ai limiti della polemica di un attivo amore per la propria città.

«Il dottor Fadda mi invia il testo integrale del suo discorso del 1° luglio al Consiglio comunale di Cagliari, dal quale è spuntata la discussione sulla “città-guida”. Ho letto il testo, e bisogna riconoscere che il discorso è intonato a tema più accettabile, quello cioè di Cagliari come proponente del “discorso di un’integrazione regionale nel processo di sviluppo civile della Sardegna”. Preso così, il tema ha i suoi limiti naturali nel fatto che si trattava di un dibattito in Consiglio comunale, non in Consiglio regionale. Dice infatti il dottor Fadda: “La nostra visione di città leader non è, né può essere, una comoda ed ereditaria posizione aristocratica; deve essere un primato conquistato e meritato ogni giorno nelle trincee dell’impegno e dell’azione”. Alla buon’ora! Ma è quel che dicevo io, quando affermavo che l’unica distinzione cui Cagliari potesse aspirare era quella di servire d’esempio per attività, spirito d’iniziativa ecc. senza affatto cadere in contraddizione (come invece mi faceva rilevare il sindaco De Magistris) nei confronti della tesi dell’accaparramento.

«Ora, caro amico Fadda, la nuova situazione in corso di maturazione nella nostra isola porta a una netta distinzione fra città-esempiocittà-guida o anche città-leader. (Lei stesso saggiamente dice nel suo discorso: “A vent’anni dall’autonomia regionale noi vogliamo superare il vieto provincialismo, la faida dei campanili”, nel senso che un discorso su una qualsiasi città-esempio può e deve farsi, non soltanto per Cagliari, ma anche per Villacidro, per Arbatax, per Porto Torres, per Porto Cervo, per Olbia e, si spera, anche per Ottana e per Sassari. Ma Lei è Lei. E gli altri? Gli altri, magari con l’alibi del leader, confondono l’esempio con la guida, e lo fanno – badi bene – non nell’ambito del Consiglio comunale (dove il discorso ha pieno diritto di cittadinanza), bensì fuori. In Consiglio comunale una frase come questa (cito sempre dal Suo discorso): “I problemi di Cagliari sono quelli dell’intera Isola; e quelli della Sardegna, indipendentemente dal campanile da cui prendono ombra, sono i problemi di Cagliari”, va benissimo, è un programma civico che fa onore a chi lo propone; ma quando l’affermazione: “I problemi di Cagliari sono quelli dell’intera Isola”, emigrando dal Consiglio comunale, viene presentata in assemblee regionali come cambiale imperativa da far pagare a un ignaro Governo o a una furba Giunta regionale, siamo da capo con l’equivoco della città-guida che deve essere soddisfatta nelle sue esigenze come se davvero esse riassumano le esigenze dell’intera Isola anziché rappresentarne soltanto una parte. Il porto terminale delle navi-contenitori (cito uno degli esempi più recenti) potrà essere un beneficio per Cagliari, ma non dice nulla, assolutamente nulla, al progresso economico dell’intera Isola; tuttavia per la sua attuazione (se ci sarà) si dovrà attingere a fondi comuni in una misura tale da far legittimamente temere che vi siano sacrificati altri interessi delle zone interne, portuali e non.

«Inserirsi autorevolmente “nel processo di sviluppo civile della Sardegna” vuol dire fare (se glielo lasciano fare) il porto per contenitori a Cagliari contemporaneamente agli aeroporti di Olbia, Ottana e Oristano, agli acquedotti ad Arzachena e a Sa Pedra Bianca, e via enumerando.

«Si riprenda in mano, caro dottor Fadda, i resoconti sommari del Consiglio regionale per ciò che concerne le avvilenti votazioni di quei padri della Patria in materia di emendamenti al “quarto programma esecutivo”, oppure rilegga la paradossale sortita dell’onorevole Molè sui diritti di Cagliari nei “quadri” della Regione (vera causa del dramma di spaccatura della Democrazia Cristiana sarda); si aggiunga le compiaciute e nient’affatto disinteressate lusinghe della Giunta regionale, abbondantemente ombreggiate da campanili e da torri; poi faccia l’addizione in miliardi, e vedrà che l’appunto non riguarda il Suo onesto discorso di cittadino avveduto al Consiglio comunale della Sua città, ma un fatto di costume che al saggio amore per la propria casa contrappone un’insensata furia accaparratrice, in forza della quale un carico di miseria da sempre segue lo stendardo del progresso di una sola città».

 

Quella frattura fra vita pubblica e mondo del lavoro

Ecco ora la lettera di Paolo Fadda inviata al direttore de L’Unione Sarda Fabio Maria Crivelli. Con una precisazione. Che quel dibattito largo che ci si sarebbe attesi dalle “provocazioni” dell’autore dell’articolo non avvenne poi, per le povertà tradizionali (almeno sotto il profilo del confronto argomentativo!) dell’ambiente.

Riporto qui, per mera documentazione, il distico del direttore Crivelli: «Il problema della formazione della classe dirigente sarda si è andato aggravando negli ultimi anni, sia per i criteri non sempre accettabili che hanno presieduto e ancora presiedono alla distribuzione degli incarichi di maggiore responsabilità, sia per la tendenza di molti giovani a evadere da un ambiente che, del resto, non offre loro se non anguste prospettive.

«Paolo Fadda, un giovane industriale cagliaritano, nella lettera che qui pubblichiamo fa un lucido esame di questo stato di cose, che non è privo di conseguenze per la vita dell’isola. Ci auguriamo che altri vogliano esprimere il loro parere su questo argomento, dando vita a un dibattito, certo non infruttuoso, un dibattito che, pubblicando questa lettera, intendiamo sollecitare».

 

Signor Direttore.

mi vorrà perdonare per il discorso che desidero oggi proporre a Lei, che so tanto sensibile annotatore della nostra realtà quotidiana, nei limiti e nelle responsabilità di un giornalismo moderno, dinamico, aderente al nuovo mondo di oggi.

E’ un discorso che da tempo avevo in animo di farle, che da tempo peraltro andavo limando e correggendo, alla luce di quotidiane verifiche, di nuove esperienze.

E’ un discorso che trae fondamento e sostanza dall’osservare il progressivo decadimento della classe politica dirigente delle nostre città: che viene sollecitato dal desiderio di trovare un antidoto a questa continua lenta “emigrazione di cervelli”; che viene infine proposto dalla necessità di chiamare, attorno al governo della cosa pubblica, una classe dirigente più moderna, più popolare ed integrata, più dinamica, più sensibilizzata ai grandi problemi del momento presente. Ed è proprio la constatazione del come la nostra classe dirigente, non a livello politico, si sia progressivamente disinteressata della realtà politica del nostro paese, che muove e dà ossigeno a quanto io oggi desidero dirle.

E’ possibile osservare oggi una grande netta frattura fra il mondo politico ed il mondo del lavoro e dello studio; l’integrazione fra le nuove leve della vita economica, della vita di studio o di lavoro col vasto campo della vita pubblica, avviene di raro e non avviene per nulla.

Si è venuta a formare a Cagliari più che altrove, una divisione netta, quasi incolmabile. Da una parte “i politici puri” che ogni giorno di più perdono ogni possibilità di contatto con la vita economica e sociale del nostro paese; dall’altra le nuove classi dirigenti del mondo del lavoro o dello studio che manifestano apertamente la loro estraneità od il più marcato disinteresse per la amministrazione della cosa pubblica.

Fotografare una tale situazione è oggi semplice; meno semplice è risalire nel tempo e rilevarne le cause storiche; ancora più difficile è programmare la cura.

Certo è che il discorso di base rimane quello della divisione netta fra i due mondi; l’incomunicabilità fra mondo politico e mondo economico: i rapporti difficili che si sono instaurati da tempo tra le classi dirigenti delle due realtà della vita sociale di oggi.

 

La classe imprenditoriale ha sempre vissuto (ed è questa una sua grande limitazione) ai margini della vita pubblica; i suoi tentativi di contatto non hanno mai avuto i contorni di un deciso inserimento od una completa integrazione, ma hanno assunto le linee sfumate della pratica di intrallazzo o, come oggi si dice, di sottogoverno.

E parlando di classe dirigente di mondo economico non si intende parlare soltanto in chiave privatistica, ché il discorso potrebbe allora essere chiaramente ma erratamente individuato come un rivendicazionismo di bassa lega, privo di quei significati sociali che noi invece vogliamo assegnare al nostro discorso.

E’ classe dirigente di una realtà economica anche quella che si è formata negli enti e negli organismi pubblici, nelle grandi società parastatali o nei grandi complessi azionari ove la distanza dal capitale e dalla figura fisica dell’azionista limita e annulla quasi del tutto la struttura e la mentalità privatistica della impresa.

Anche questa classe dirigente, che può avere maturato la sua esperienza nell’amministrazione del pubblico denaro in intraprese economiche, s’è mantenuta lontano, quasi assente, quasi mai partecipe della nuova realtà politica ed economica che i politici puri andavano progettando ed attuando.

Nella valutazione del problema, che è molto interessante sol che lo si analizzi al lume, ad esempio, dell’attuale piano per la rinascita dell’isola, è peraltro molto importante ricercarne le cause storiche. Abbiamo detto che non è semplice individuarle, definirle, accettarle. Sono cause certamente complesse, sicuramente controverse. Né chi scrive ha bianchi i capelli per poterne essere stato uno scrupolo cornista, né ha alta la presunzione per esserne un lapidario indiscutibile storico.

Un’analisi attenta, peraltro, ci potrà condurre molto vicino alla soluzione, alle regioni di fondo che hanno determinato (e giustificato, fino ad un certo punto) questo allontanamento e questa frattura. Ed è un po’ la storia stessa della nostra regione, economicamente e socialmente poco sviluppata, che fa da sfondo al problema. Una regione ove le grandi iniziative industriali si sono mantenute distanti dalla realtà sociale o, è il caso delle intraprese minerarie, sono intervenute come entità economicamente estranee in una pericolosa posizione di neocolonialismo che non ha avuto che scarsi contatti nella formazione di una classe dirigente con una determinata specifica esperienza e, soprattutto, nella costituzione di un capitale veramente sardo.

La mancanza di fonti di occupazione a livello dirigenziale (proprio per le estraneità di quel mondo dalle strutture sociali della nostra regione) ha portato nel tempo all’ “emigrazione dei cervelli”, tanto pericolosa quanto quella attuale delle braccia, dato che ci avviamo fortunatamente a degli obiettivi di piena occupazione. E’ dell’inizio del secolo la grande selezione che la amministrazione statale ha fatto tra le classi intellettuali mature della Sardegna; la burocrazia statale infatti ha pescato a piene mani in tutto quello che un’isola senza industrie e senza capitali offriva al livello della cultura universitaria.

E la nostra rinascita ha perso, da allora, la sua classe dirigente, preparata dai sacrifici di tante famiglie isolane, maturata nella conoscenza e nella realtà dei nostri problemi economici, emigrata per le tante strade della mastodontica burocrazia statale. Le cause che determinarono questa pericolosa emigrazione sono chiare ed evidenti: per un laureato in Sardegna c’erano poche e difficoltose sistemazioni, per un diplomato altrettanto, né le poche intraprese a livello artigianale trovavano nel mercato creditizio e nell’assorbimento dei consumi, l’ossigeno bastante per partecipare a quella progressiva maturazione imprenditoriale, che invece s’era avuta clamorosamente, e negli stessi anni, nel Veneto, nella Emilia Romagna, in Toscana, per non parlare del famoso leggendario triangolo industriale.

La mancanza di un mercato d’assorbimento per i cervelli che nascevano nelle nostre università, ha provocato in altri tempi e per tutti i primi cinquant’anni del secolo, la fuga dall’isola di una classe dirigente di cui oggi noi tutti non possiamo non rimpiangere la mancanza. In più, la triste esperienza della dittatura aveva come narcotizzato le possibilità politiche di una nuova giovane classe dirigente, vietandone o mortificandone gli aneliti negandone le incentivazioni, creando nuove pericolose discriminazioni.

Il clima autonomistico, conquistato con le libertà democratiche, ci trovò quindi con una classe dirigente mutilata e divisa, numericamente e qualitativamente inadatta a ricoprire la funzione di guida nel nostro processo di trasformazione e di rinascita. Né la politica attuata, in clima democratico, ai diversi livelli della guida politica servì a creare o a facilitare la nascita di una nuova classe dirigente; l’industrializzazione voluta e concepita come mezzo ideale per la trasformazione economica della regione, della realtà sociale delle nostre popolazioni, assunse talvolta i contorni bene definiti di quel tale “neocolonialismo” che già le imprese minerarie avevano instaurato nell’altro secolo in Sardegna. L’incentivazione creditizia fu mantenuta spesso distante, colpevolmente distante, da quel processo di maturazione industriale dei tanti imprenditori a livello artigianale operanti in Sardegna.

 

Il mercato della sistemazione dei “cervelli” fu ancora inadeguato, per tante ragioni, a ricevere la collocazione di una futura, capace classe dirigente. Né i molti enti ed organismi che la nuova politica economica dello Stato andava creando, facilitarono o ne studiarono la soluzione. Ancora oggi oltre alla fuga delle braccia, noi assistiamo alla colpevole fuga dei nostri laureati, dei nostri tecnici, dei nostri futuri migliori dirigenti.

Abbiamo cercato di individuarne, nella lacunosa esposizione, le cause storiche, focalizzandole soprattutto nel “neocolonialismo” che vietò in altri tempi, e vieta tutt’ora, la crescita e la rinascita isolana, sul piano imprenditoriale, in quanto ne mortificò e ne mortifica le aspirazioni, ne frustrò e ne frustra le iniziative, negando l’apertura di un adeguato mercato creditizio agile e dinamico, che è il solo che avrebbe sopperito alla mancanza del capitale, vistosa palla al piede del nostro sviluppo industriale.

La nuova burocrazia regionale, nata con l’istituto autonomistico, allevò sì una nuova classe dirigente (quella classe dirigente di politici puri) che peraltro manifestò subito, d’acchito, la propria insofferenza a vivere assieme a chi aveva trovato, nel mondo economico o dello studio, diverse difformi esperienze per la propria maturità dirigenziale.

Né gli anni facilitarono la comunicabilità fra i due mondi, la frattura diventò anche più grave e le colpe possono essere comodamente addebitate alle due fazioni.

Né l’una né l’altra facilitarono mai il dialogo, la possibilità di un discorso purchessia; l’una – quella deli politici puri – rivendicando origini diverse, e, soprattutto, una diversa differenziata problematica; l’altra manifestando chiaramente il proprio disprezzo per la classe dirigente a livello politico e conducendo colpevolmente possibili contatti solo a livello d’uno spregevole intrallazzo.

Oggi le scelte politiche ci portano di fronte alla necessità di ottenere la soluzione d’un grosso problema, allorquando è in corso un radicale processo atto a modificare e a trasformare la realtà economica e sociale della regione; oggi è ancora più delittuosa l’incomunicabilità stabilitasi fra i due mondi, in quanto mortifica le possibilità di rinascita della nostra realtà sociale; oggi la divisione fra i due sforzi e le due iniziative operanti in campi così lontani, sarebbe condannabile ed inaccettabile allorquando si parla di coordinazione e di programmazione sia a livello politico che a livello imprenditoriale.

Ottenere questa integrazione, facilitare questo rapido inserimento in un unico organico strumento operativo è una necessità ed un obbligo per gli uomini del nuovo tempo della Sardegna.

Un dibattito mancato, la DC, Crivelli

Come ho sopra accennato, tali “provocazioni” non sortirono quel dibattito che pur si poteva credere molto molto opportuno, alimentabile dalle diverse correnti e politiche e sociali, tanto più alla vigilia del voto amministrativo che vedeva anche il capoluogo sardo impegnato nella scelta della sua classe amministrativa. Fu un’occasione persa. Comunque il “giovane” Fadda emerse nella conta delle urne allora alle viste. Eletto consigliere comunale, presto avrebbe assunto le funzioni di capo del maggiore gruppo politico presente in municipio. E da lui, anche da lui, sarebbero venute cose buone per la città.

Aggiungo che le riflessioni portate nella sua lettera a L’Unione Sarda mi indurrebbero – insistendo qui sui parametri del giudizio socio-politico di Paolo Fadda – a considerazioni ulteriori, diciamo d’ambiente da una parte, personali d’interlocuzione da altra parte. Qui richiamerei, distintamente e in relazione, lo Scudo crociato e Fabio Maria Crivelli.

Mi permetto, sul primo punto, una nota critica all’amico Fadda ed a quanto di prezioso egli ha lasciato alla nostra pubblicistica ed alla saggistica politica. L’omessa trattazione – quasi avesse voluto respingerla volutamente dal paniere tematico – delle dinamiche politico-amministrative cittadine, cioè tutte cagliaritane, in capo alla Democrazia Cristiana. Così soprattutto nel suo interessantissimo, informatissimo C’era una volta in Sardegna la DC. Tesi per una storia critica della Democrazia Cristiana sarda, 2008, l’occhio pare rivolto esclusivamente alla dimensione regionale, saltando a piè pari l’analisi del ginepraio locale. Il nome stesso – secondo me centralissimo – di Paolo De Magistris sembra escluso da ogni ripresa di cronaca e da ogni giudizio, e meriterebbe oggi, insieme con tutto il suo portato, un recupero onesto e sincero e pieno.

Le dinamiche politiche di Cagliari (in salsa democristiana s’intende) sono sussunte, al meglio, e naturalmente con riferimento alla storica svolta del centro-sinistra nei mediani anni ’60, nella dimensione provinciale: «Le vicende della politica nazionale, con il declino del centrismo e l’emergere, seppur lento e faticoso, delle alleanze di centro-sinistra (lo si scrive qui proprio con il trattino, come voleva Aldo Moro), avrebbero influenzato anche in Sardegna gli assetti interni del partito. Ai pionieri del gruppo sassarese di Cossiga s’erano poi uniti – anche se su posizioni non del tutto omogenee – i giovani cagliaritani guidati da Ernesto Dessì e Lello Picciau […] e diversi giovani provenienti dalla Fuci, dai laureati cattolici e dalle Acli. Tutti vicini, culturalmente, all’insegnamento di Dossetti e di Moro, e quindi aperti verso un progresso sociale (nelle alleanze e nell’azione politica). Nel reclutamento avevano trovato una sponda in quegli ambienti emergenti nel mondo cattolico, nei circoli e nelle organizzazioni ecclesiali per via di un laicato ora più aperto verso il mondo esterno, oltre che più autonomo nei confronti della gerarchia.

«Vi è comunque da tener presente che, nonostante il loro impegno, non sarebbero riusciti a ribaltare il potere interno del partito in provincia, per via della forte presenza, nel tesseramento, di quel gruppo clerico-moderato che faceva capo a personalità di rilievo, come quelle di Raffaele Garzia e di Giuseppe Brotzu (oltre alla presenza di un politico dal forte potere, carismatico e clientelare, come il deputato Antonio Maxia).

«Forse, c’era in questi due raggruppamenti una base comune, pur nelle opposte concezioni dell’agire politico: li avrebbe uniti, infatti, una spiccata idiosincrasia (che era poi un misto di invidia e di avversione) per il gruppo sassarese e, soprattutto, per quell’egemonia messa in atto nelle scelte e nel potere regionale.

«Sarà poi un’iniziativa, di cui pare fosse stato autore il “turco” Nino Giagu-De Martini, a modificare – a metà di quegli anni Sessanta – gli equilibri interni della DC cagliaritana. Ne sarà protagonista il romano Carlo Molè, potente capo della segreteria della presidenza di quell’Ente di riforma agraria (ETFAS), accusato d’essere – come si è avuto modo di ricordare – una sorta di centro di potere per i “giovani turchi”.

«Sarà proprio Molè a reclutare – immettendoli nell’organico di quell’ente – alcuni fra gli emergenti giovani del partito, da Pinuccio Serra ad Angelo Becciu, da Leonardo Tronci a Lucio Artizzu. E soprattutto ad accerchiare il gruppo Garzia stabilendo alleanze, più o meno organiche, con il gruppo oristanese di Lucio Abis e con quello sulcitano di Giovanni M. Lai. Quelle sue operazioni – che al tempo dirà d’esser state più frutto di tattica che di vera strategia – avrebbero trovato una positiva conclusione nella conquista della maggioranza nel comitato provinciale, con la sconfitta del gruppo Garzia (che peraltro avrebbe continuato a mantenere una forte incidenza sul piano elettorale)…». Così alle pp. 100-102.

Circa Crivelli mi fa piacere riprendere da un altro bellissimo libro di memorialistica e testimonianza politica di Paolo Fadda – L’amico di uomini potenti, 2016 – un passaggio che dà onore ad una personalità che anch’io ho molto stimato ed ho incluso fra le mie amicizie più impegnative. Ho già richiamato il passaggio in un mio articolo del 2020 postato sempre su Giornalia (“Paolo Fadda, patriarca 90. Al compleanno del manager e scrittore cagliaritano ‘amico dei potenti’”) ma credo utile oggi riproporlo: «Paolo ricorda che in diversi incontri con Fabio Maria Crivelli (storico direttore del quotidiano cagliaritano, oltre che attento osservatore ed interprete delle vicende politiche isolane) si parlò a lungo di questa degenerazione dell’assetto politico regionale, e del palese declino del comparto produttivo. Ed il parere di Crivelli s’incentrava proprio su quella perdita d’unità del partito che era stato per anni l’asse portante della politica sarda. Cinque o sei anni fa – diceva – la classe politica s’impegnava per la creazione d’un cantiere navale o per l’apertura d’un nuovo stabilimento industriale, mentre oggi parla e si divide sull’alleanza con Armandino Corona, con Mario Melis o con Umberto Cardia per varare una nuova giunta, ed anche l’impegno per l’industrializzazione lo si è ridotto ad una cruenta contesa fra i supporters di Girotti dell’Eni, quelli pro Cefis e Montedison ed i “siriani” di Rovelli. Dove la posta in palio non sarebbe – aggiungeva sconsolato – il successo di quell’industria, ma i favori riscuotibili dal vincitore.

«Crivelli, nel ricordo di Paolo, era un Giornalista ed un Direttore con la sua bella iniziale maiuscola (fatto, questo, non molto consueto nella categoria), e – soprattutto – un galantuomo, nel senso più ampio che si possa dare a questo termine. Mai fazioso, ma sempre rispettoso della verità dei fatti, avrebbe guidato “L’Unione Sarda” con grande equilibrio in anni importanti per la storia isolana, realizzando soprattutto un giornale moderno, attento interprete della società locale ed aperto alle nuove istanze dettate dall’emancipazione culturale e sociale allora in atto. Seppure guardato con sospetto dagli ambienti più estremi della sinistra per via di suoi pretesi eccessi filogovernativi (c’è chi ne avrebbe modificato il nome in Fabio Maxia Crivelli, per via della sua amicizia con quell’esponente democristiano), dette al suo giornale una linea informativa indipendente, lontano da ogni eccesso e da ogni piaggeria di comodo.

«Discorrere con lui nel piccolo studio in cima al corridoio della redazione, allora nel viale Terrapieno, era una ghiotta occasione per analizzare vicende e uomini della politica e dell’economia o per fare il punto su certi fatti accaduti. Non era certamente filodemocristiano, ma fra i democristiani aveva diversi amici, scelti – come amava dire – fra chi amava leggere libri ed ascoltare buona musica e non fra chi andava freneticamente alla ricerca di tessere e di potere.

«Ed è per questo che a Paolo interessava molto scambiare con lui delle opinioni, per meglio capire le tante incongruenze di un partito dove (era questa l’analisi di Crivelli) le opinioni di due leader dorotei come Raffaele Garzia e Lucio Abis apparivano mille miglia distanti da quelle dei morotei di Sassari e dei forzanovisti di Nuoro.

«Era questo quel che si percepiva all’esterno ed il parere di un osservatore come il direttore del maggior giornale dell’isola non poteva che essere importante…». Così alle pp. 113-114.

 

 

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