La traversata del deserto, di Gianni Loy

29 aprile  2019 – Sa die de sa Sardigna: Relazione in Consiglio regionale in occasione della celebrazione

 

  1. 1. Introduzione.

Sa Die e sa Sardigna, la Giornata del popolo sardo, istituita nel 1993 con la legge regionale n. 44, non è conseguenza della rivolta dei cagliaritani che, il 28 aprile del 1794, costrinsero alla fuga il viceré ed i funzionari sabaudi, né del successivo biennio rivoluzionario. Questa giornata è, piuttosto, la conclusione di un complesso percorso, avviatosi negli anni 70 del secolo scorso, sfociato prima nella aspirazione, e poi nella decisione di istituire una giornata di riflessione, diciamo pure di festa del popolo sardo. Un processo che si inserisce nel lungo dibattito sull’autonomismo della Sardegna che, in quegli anni, ha visto una forte ripresa del sentimento identitario. Sentimento che veniva nei fatti represso da un processo di centralizzazione politica e culturale. Processo che impediva l’espressione delle culture del popolo sardo, non di rado vietandole o ostacolandole, spesso confinandole all’esteriorità dello stereotipo o del folklore.

Nella nostra storia recente, a partire da quegli anni si osserva una evidente inversione di tendenza, testimoniata da alcuni fatti, significativi, a mio avviso, per comprendere l’attualità di questa festa e suggerire alcune riflessioni per il futuro. Si tratta di tre momenti, scelti tra tanti altri, perché dal loro concatenamento emerge la complessità di un processo democratico al quale hanno preso parte diverse componenti della società sarda fornendo un indirizzo alle istituzioni che, in ultima analisi, hanno poi approvato la legge istitutiva de Sa Die de Sa Sardigna.

 

2. a) Il movimento sindacale e dei lavoratori della seconda metà degli anni 70. La Federatzione sarda metalmeccanicos.

 

In primo luogo, occorre far riferimento all’azione del movimento sindacale e dei lavoratori della Sardegna. Le loro lotte per la difesa del lavoro, a partire dalla categoria dei metalmeccanici nella seconda metà degli anni 70, sono state caratterizzate dalla ricerca dell’unità (per andare oltre le tradizionali differenze ideologiche delle sigle sindacali) e dalla centralità della Sardegna. Quei lavoratori hanno incominciato a manifestare ed a dibattere recuperando la lingua sarda. Nel 1979, in occasione della grande “Marcia po su tribagliu”, hanno marciato all’insegna dell’Inno Procurare ’e Moderare, ereditato dal passato e destinato, quarant’anni più tardi, ad essere riconosciuto quale Inno Ufficiale del Popolo Sardo. Non certo per rinnegare il canto dell’Internazionale, che pure hanno coltivato e tradotto in lingua sarda, ma per riconoscere l’identità sarda quale fattore di dignità e di opportunità per il loro e per il nostro futuro.  Quell’idea risultava essenziale per il programma economico che intendevano contrapporre al modello di sviluppo neo-coloniale sino ad allora imposto alla Sardegna. Truncare sas cadenas era uno degli slogan delle manifestazioni, in Sardegna e a Roma. Quell’idea spinse la Federazione Sarda Metalmeccanicos (tra i suoi leader Salvatore Cubeddu ed Antonello Giuntini) a recuperare l’autonomia, anche organizzativa, dalle centralistiche organizzazioni sindacali dell’epoca ed a proporre quel modello, che sarebbe stato solo parzialmente accolto, alle confederazioni sindacali della Sardegna ed ai partiti sardi, per lo più concepiti, al pari dei sindacati, come terminali di un’organizzazione  verticistica che, come ricordava all’epoca Umberto Allegretti,  costituiva uno dei più potenti strumenti di etero direzione e ostacolavano lo sviluppo di ogni autonomia.

 

2. b) L’esperienza della rivista “Nazione sarda”.

 

In secondo luogo, è da ricordare l’importanza dell’esperienza di un gruppo di intellettuali di diversa origine politica, democristiani, comunisti, socialisti, sardisti, che nel 1978, quando la caduta del muro di Berlino non era neppure all’ordine del giorno, hanno creato un luogo di incontro attorno ad una rivista, Nazione Sarda, per riflettere sui temi dell’autonomia della Sardegna e sul suo rilancio dopo la fallimentare esperienza dei primi 30 anni, caratterizzati dal “succursalismo”[1].

Questi intellettuali, l’anno seguente, avrebbero lanciato l’idea di un’eccezionale mobilitazione popolare “che porti alla convocazione di un’assemblea costituente con il duplice compito di definire un programma di immediata risposta autonomistica e di formulare uno statuto di autonomia che consenta ai Sardi di liberarsi dalla dipendenza, di esprimere compiutamente la loro identità nazionale e di esercitare, finalmente, l’autogoverno”.[2]

È doveroso ricordare l’importanza di quel movimento che, superando gli angusti schemi della politica tradizionale, ha profondamente inciso sulle tematiche dell’identità, del concetto di nazione, dell’autonomia, idee che hanno costituito la base sia per una ripresa del dibattito intellettuale, sia per ispirare movimenti ed orientamenti culturali e politici che hanno accompagnato gli ultimi 40 anni di storia della Sardegna.

È doveroso ricordare almeno i principali intellettuali di quella esperienza, almeno quelli che ci hanno lasciato ma che non possiamo dimenticare. Essi, infatti, sono entrati a far parte, definitivamente, della storia del popolo sardo, della nostra storia.  Antonello Satta. Eliseo Spiga, Giovanni Lilliu, Elisa Spanu Nivola, Gianfranco Contu.

 

2. c) Il dibattito della prima metà degli anni 80.

 

In terzo luogo, occorre ricordare una successiva esperienza, tra il 1983 ed il 1986. Si tratta di una serie di incontri che misero assieme il contributo di quel movimento sindacale e popolare di cui abbiamo parlato, di alcuni di quegli intellettuali provenienti dall’esperienza di Nazione Sarda, e di altri ancora. Una serie di incontri che avevano all’ordine del giorno la possibilità di dare uno sbocco alla ripresa delle tensioni autonomistiche che si manifestavano in Sardegna con una iniziativa comune.

A quegli incontri, a conferma della trasversalità del tema, parteciparono intellettuali e dirigenti politici di diversa estrazione, comunisti, democristiani, sardisti, socialisti di democrazia proletaria sarda. Questi i loro nomi, come compaiono nel verbale della riunione plenaria svoltasi a Cagliari il 4 dicembre 1985: Cardia Umberto, Carrus Nino, Cocco Camillo, Columbu Michele, Contu Gianfranco, Cossu Antonio, Cubeddu Salvatore, Dessanay Sebastiano Francioni Federico, Ganadu Antonio, Lilliu Giovanni, Loy Gianni, Masala Francesco, Oppo Augusto, Pili Domenico, Satta Antonello, Selis Giammario, Spanu Nivola Elisa, Spiga Eliseo, Usai  Giuseppe,

È stato in occasione di quegli incontri che ho sentito avanzare formalmente sia l’idea della istituzione di una Festa del Popolo sardo che la proposta della data del 28 aprile. Data che apre un lungo arco storico che si concluderà con la condanna dei martiri di Palabanda. È probabile che tale idea possa essere stata avanzata anche precedentemente. Di certo, è documentata, proprio in quegli anni, in un articolo sulla rivista Ichnusa, del 1985, a firma Salvatore Cubeddu[3].

Quegli incontri furono vivaci, anche perché si mettevano a confronto culture tradizionalmente antagoniste; vanno richiamati perché dimostrano la capacità aggregativa delle idee di identità, di nazione, di popolo.

Ho richiamato questi riferimenti, tra tanti altri possibili, perché sono straordinariamente attinenti alla Giornata, a Sa Die de Sa Sardigna, perché dimostrano, a mio avviso, che nessuno, se non il Popolo Sardo, può rivendicare alcuna primazia sulla giornata.  Essa, in definitiva, è espressione esclusiva di un sentimento collettivo, della aspirazione di un popolo, che vuol testimoniare con orgoglio la propria identità, a riconoscersi, anche simbolicamente, in un giorno di festa. Sa Die, in ultima analisi, è del tutto estranea ad ogni possibile strumentalizzazione ed al di sopra di ogni dinamica politica.

 

2. d) – Il ruolo delle istituzioni.

 

È doveroso ricordare anche un ultimo dettaglio, che dettaglio non è.  Cioè il fatto che oggi celebriamo questa giornata grazie ad una decisone delle istituzioni che, recependo le tensioni, le aspirazioni e le proposte di quei movimenti, diversi anni più tardi, persino quando i segnali provenienti dalla società erano meno forti che nel passato, di istituire, per legge, sa Die de sa Sardigna. Si è trattato di una espressione di democrazia, in senso sostanziale, da apprezzare anche perché, come dirò, il ruolo delle istituzioni è e dovrà essere centrale.

Agli storici il compito di studiare quest’ultimo scorcio di storia. Noi abbiamo dinanzi una giornata, che è celebrazione ma che dovrà assumere, sempre di più, il carattere di grande e partecipata festa popolare. Festa che evoca, prima di tutto, le idee di nazione e di popolo. Alcune osservazioni al proposito.

 

3. Un sostantivo ed un aggettivo qualificativo.

Nel far riferimento al popolo sardo, utilizziamo un sostantivo ed un aggettivo.  Ciò che qualifica, tuttavia, è sempre l’aggettivo. Non un popolo qualunque, quindi, ma un popolo che fa riferimento ad un territorio, la Sardegna, alla sua storia ed alla sua cultura. Un popolo potrebbe non abitare la propria terra. I nostri conterranei emigrati non smettono di appartenere al popolo sardo, alcuni popoli non possiedono alcun territorio e neppure ambiscono a possederlo (come il popolo rom); altri hanno a lungo vissuto, o vivono, lontani dalla propria terra. Forse per aver male interpretato la Bibbia, laddove il Signore, dopo aver creato l’uomo (“maschio e femmina li creo”), disse loro di riempire la terra e di sottometterla[4], ci consideriamo padroni del territorio. Invece, siamo piccola cosa, non siamo noi a dominare la nostra terra, intesa come territorio, come storia, come cultura, bensì siamo da essa dominati, siamo tra i tanti che appartengono al popolo sardo per poi lasciare quel posto ad altri. Come avviene per la “nostra” casa, che invece è casa che ci ospita, come ha ospitato altri prima di noi ed altri ospiterà dopo di noi. Niente ci appartiene, siamo noi ad appartenere alla nostra terra, alla nazione sarda, al popolo sardo. La stragrande maggioranza di noi sarà dimenticata, altri verranno a prendere il nostro posto. Tuttavia, per tutto il tempo in cui apparteniamo alla Sardegna, abbiamo l’opportunità di operare, nel bene e nel male, conservando ed arricchendo il suo territorio, oppure devastandolo; abbiamo l’opportunità di arricchire la sua storia e la sua cultura, oppure di immiserirla. Abbiamo l’opportunità di contribuire alla crescita economica ed al benessere della collettività, oppure di sottrarre risorse per il nostro egoismo. In ogni caso la Sardegna sopravviverà.

 

4. La nozione di “nazione”.

Non spenderò neppure una parola sull’annoso dibattito relativo alla nozione di “nazione”. Mi limito ad indicare quale sia, a mio avviso, l’accezione da accogliere e quale invece, quella da respingere[5].

Da accogliere, sicuramente quella formulata da Ernest Renan[6], secondo il quale la nazione altro non sarebbe che “un plebiscito di tutti i giorni“, il “desiderio di vivere insieme” basato sul “comune possesso di una ricca eredità di ricordi” e sulla “volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa“. Si tratta di una nozione appartenente ad una visione di carattere soggettivistico, volontaristico, che per taluni aspetti si trova anche in Rousseau, nello stesso Mazzini e, oggi, in Habermas[7]. Trovo che la formulazione di Renan rimanga la più chiara ed apprezzabile. A me è chiaro che la nazione sarda, indipendentemente dai profili politici, che non hanno alcuna conseguenzialità con l’idea di nazione (nel senso che una nazione potrebbe, ma non deve necessariamente ambire a trasformarsi in Stato), richiede che quel plebiscito venga ripetuto ogni giorno.

Altrettanto è chiaro che la lingua, ad esempio, pur non costituendo elemento costitutivo, sia quasi indispensabile, e quindi da coltivare quale espressione del “voler continuare a far valere l’eredità ricevuta”. Certamene da respingere, invece, il riferimento alle concezioni naturalistiche di nazione che, nelle espressioni più estreme, hanno portato alle aberrazioni del nazismo ed ai genocidi, anche recenti, nel cuore dell’Europa ed in tutto il mondo.

 

5. Il popolo sardo di oggi.

 

Il popolo sardo, il popolo sardo di oggi, è costituito dalle persone che, in riferimento ideale alla terra ed alla storia della Sardegna, condividono la fatica di vivere, condividono la speranza nel futuro, condividono la solidarietà, hanno coscienza di appartenere ad una collettività ed operano, collaborando, per il suo progresso.

Del popolo sardo, pertanto, fanno parte anche i miei amici rom e sinti, slavi e di ogni parte del mondo, Vasjia, Jasmina, Cheng, tutti quelli che hanno eletto la Sardegna quale loro terra e contribuiscono con il loro lavoro, con le loro opere, la loro cultura, al progresso della terra che li accoglie. Così, del resto, è sempre stato nella storia della Sardegna, sin dal tempo dei suoi primi abitatori. Crogiolo di persone, di gruppi, di comunità, non di rado essi stessi invasori, inizialmente, che hanno aderito al patto costitutivo, non scritto, del nostro popolo. Si tratta di Comunità, sarde, che a volte conservano ancora tratti distintivi della loro cultura e della loro lingua d’origine (questa mattina, nella Messa celebrata in Cattedrale, alcuni hanno pregato con la loro lingua, o con la loro variante) sino a divenire parte integrante del popolo sardo. Così avverrà per i nuovi arrivati che incominciano a conoscere, nei banchi delle nostre scuole, la loro nuova patria.

Un popolo, ogni popolo è sempre in cammino. Anche il popolo sardo attraversa il deserto, alla ricerca della terra promessa. L’obiettivo è un mondo di pace, di benessere, dove regnino l’armonia, la solidarietà. Ma perché ciò avvenga, lungo il cammino dovrà superare ancora tante prove, smascherare i falsi idoli, vincere le tentazioni di tutti gli egoismi. Dovrà riuscire a comporre i conflitti che dividono lo stesso popolo, lasciandolo esposto ai predatori che arrivano dal cielo e dal mare, a volte, con la complicità dell’autonomia.[8] Il nostro popolo, a sua volta, è sparso per il mondo, e potrà continuare ad esserlo sinché le persone che lo compongono sapranno rinnovare i legami di appartenenza con la terra d’origine.

6. La “appartenenza”, una categoria peculiare e distinta da altre categorie della vita e della politica.

 

Non possiamo neppure ignorare che l’appartenenza ad un popolo, ad una nazione, è soltanto una delle categorie di appartenenza delle persone. All’interno del nostro popolo sussistono distinzioni per sesso, religione, etnia, esistono ricchi e poveri, conflitti interpersonali, divisioni politiche, anche profonde, che suggeriscono sentieri diversi e che, a volte, propongono differenti e contrapposte vie d’uscita.

Ebbene, il nostro patto di appartenenza, la nostra identità, non può essere confusa con i programmi politici, è categoria che sta al di fuori, al di sopra di essi, che ci consente di celebrare una comune ricorrenza, di vivere assieme la Festa, che ci aiuta a ricordare che, al di là delle divisioni contingenti, ci riconosciamo come popolo che condivide una comune aspirazione. La consapevolezza dell’appartenenza alla nazione sarda, anche nel rito della festa, potrebbe farci prendere coscienza, spogliandoci dei nostri stessi pregiudizi, di essere in molti, avveduti e coesi. Medas, abbistos e unidos. Muchos, cuerdos e unidos.

 

7. I sardi. Un popolo ospitale.

La storia ci racconta di invasioni, di conquiste, ci ha costretti, per lunghi secoli, a temere il mare perché porta d’accesso dei predatori. Eppure, anche in costanza di quei pericoli, mai abbiamo perduto il senso dell’ospitalità. L’ospitalità dovrà continuare ad essere una delle peculiarità fondamentali della nostra appartenenza alla nazione sarda. Una nazione che coltiva l’amicizia con gli altri popoli, che ripudia la guerra, che invoca il dialogo, che accoglie i perseguitati. Un popolo solidale e consapevole di appartenere ad un’unica razza umana composta da tanti popoli che, come il nostro, vagano nel deserto e che, collaborando, potranno più facilmente individuare il sentiero che conduce alla terra promessa.

 

8. Il senso della festa.  Un’occasione per rinnovare il patto di convivenza.

Il giorno della Festa del popolo sardo è, e dovrà continuare ad essere, occasione per rinnovare il patto di convivenza del popolo sardo, l’impegno a trasmettere l’eredità ricevuta. La cultura e la lingua sono parti inseparabili dell’ambiente naturale che abbiamo il dovere di tramettere intatto, e se possibile migliorato, alle future generazioni. Ciò richiede un impegno da parte di tutti ed in special modo da parte delle istituzioni:

-          Da parte di tutti: l’impegno, solenne, a trasmettere ai nostri figli, assieme ai beni ambientali e materiali, anche i tratti culturali, positivi, ereditati dai nostri padri e dalle nostre madri, a partire dalla lingua, dalle conoscenze, dalla storia nostra familiare e collettiva.

-          Da parte delle istituzioni: l’impegno a garantire a tutti coloro che liberamente lo desiderino, il diritto di poter apprendere la lingua del popolo sardo sin dalla tenera età, dalla scuola materna, a potersi esprimere anche pubblicamente con la propria lingua, il diritto a conoscere a fondo, sin dalla scuola, la propria storia e la propria cultura e a poter riflettere sul loro valore.

Il ruolo delle istituzioni, nel tempo di una globalizzazione che tende ad omologare ogni cosa, che impone stili di vita funzionali al profitto, che facilmente, rapidamente ed impietosamente cancella anche i tratti culturali dei popoli e delle nazioni e le loro tradizioni, è essenziale. Le nazionalità infra-statuali che meglio son riuscite a conservare il proprio patrimonio culturale ed a farne strumento di progresso e di benessere, sono quelle le cui istituzioni hanno investito massicciamente anche nella protezione e promozione della lingua e della cultura, intrecciando tali interventi con le politiche di sviluppo economico del territorio. In definitiva, per un verso, il ruolo delle istituzioni, a partire dalla Regione, è essenziale per la promozione dell’identità e, per altro verso, il senso di appartenenza e di coesione del popolo sardo può costituire elemento fondamentale per il raggiungimento del comune benessere materiale spirituale.

 

9. Siamo in molti, avveduti e capaci di trovare un accordo.

L’istituzione de Sa Die de sa Sardegna è la conclusione di un processo intellettuale e popolare di riappropriazione della propria identità, di un movimento recente ma radicato nella storia millenaria dei sardi. Di un movimento che ha simbolicamente individuato un momento della storia la cui rievocazione sarà occasione, ogni anno ed ogni giorno, per rinnovare il patto democratico del popolo sardo. La proclamazione, da parte della massima istituzione democratica del popolo sardo, de Sa Die de Sa Sardigna, e la scelta di un Inno che affonda le proprie radici nella storia e nella tradizione popolare, apre la strada ad un percorso che auspichiamo possa essere comune e condiviso da quanti, indipendentemente dalla razza, dalla lingua, dalla religione, si riconoscono, oggi, nel popolo sardo. L’autonomia, ricordava ancora Dessanay, “verrà soltanto quando i sardi, con la piena coscienza della propria identità, si daranno poteri coerenti con i contenuti originali della nostra autonomia, quelli di ordine economico, quelli di ordine sociale e quelli di ordine culturale”[9].

 

Confesso che mi è costato, contro la mia abitudine, leggere questa relazione in lingua italiana. Spero che, almeno in occasioni come questa, non accada mai più. La lingua, pur non costituendo elemento fondante dell’appartenenza al popolo sardo, è elemento di straordinaria importanza. Auspico che le istituzioni se ne facciano interpreti, che la utilizzino nelle occasioni ufficiali, che siano d’esempio, che abbiano l’orgoglio di accogliere i visitatori con le parole, ospitali, della lingua nostra. Che comprendano quanto sia urgente ed importante far si che si riprenda a parlare, a parlare tutti, la nostra lingua.

Bona festa.

 


[1] Vindice Gaetano Ribichesu, in “Nazione Sarda”, 1978, novembre – dicembre.

[2] Lo si veda in Salvatore Cubeddu, Quando è finita la prima autonomia della Sardegna?, in Fondazione Sardinia,  http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=14224

[3] Salvatore Cubeddu, Quale sindacato per il futuro della Sardegna? in Ichnusa, n. 9, 1985.

[4] Gen. 1, 26-28.

[5] Per una rassegna teorica si veda Francesco Tuccari, Idea di Nazione, in “Enciclopedia delle scienze sociali”, 1996, ora anche in : www.ddddd.com. Per quanto riguarda la Sardegna si veda: Francesco Casula, La nazione sarda nella storia, in Fondazione Sardinia, http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=15316

[6] Ernest Renan, Che cos’è una nazione?, Donzelli, Roma 2004.

[7] Gli Stati post-moderni, secondo Habermas, non possono avere fondamenti etnici o morali o religiosi, perché questi sarebbero non inclusivi, e ciò non consentirebbe loro di dare cittadinanza a quella «costellazione post-nazionale» che invece l’Unione europea deve essere, specie se aperta alla immigrazione.

[8] “L’autonomia realizzata a partire dal secondo dopoguerra … non è riuscita a bloccare il centralismo statale italiano e, conseguentemente, la politica di tipo coloniale … con l’aggravante che ora queste operazioni venivano fatte con la complicità dell’autonomia”. Sebastiano Dessanay, Intervento, Seduta del Consiglio Regionale della Sardegna in occasione delle celebrazioni del trentennale dello Statuto, 1978.

[9]In Salvatore Cubeddu, loc. ult. cit.

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