A chi va l’Assessorato agli Esteri? di Enrico Cocco

EDITORIALE DELLA DOMENICA, della  FONDAZIONE

Più che di bilanci, in viale Trento è tempo di bilance. Non di certo una novità clamorosa (Altera Nos insegna) quella di dare vita ai consueti abboccamenti tra alleati per unire in maniera coerente e concordata le varie tessere del puzzle. Di innovativo, questo si, c’è l’aggiunta a quello “pre”, sempre più poroso causa social media, del silenzio “post” elettorale: tutti cauti, tutti muti, in attesa che si pronunci la Corte d’Appello, la triste riscrutinatrice, per dare volti e nomi ufficiali al nuovo Consiglio Regionale, nato già vittima degli annosi problemi politico/burocratici di cui dovrebbe farsi carico, possibilmente con urgenza.

Lo scandalo (perché di scandalo colossale si tratta, con la proclamazione avvenuta a 24 giorni dalle elezioni) è stato vissuto con il fatalismo tipico di un’Isola che del peggio non si sorprende più: d’altro canto, vertenze industriali o lattiero caseari aperte, dove sta il problema? Le giornate si allungano, le temperature si alzano, a Cagliari non c’è neppure la temuta penuria di ricci. Avanti così.

Ed avanti va il mondo, come testimonia l’infiammato dibattito sulla nuova Via della Seta esploso in Italia negli ultimi giorni, di cui su queste pagine avevamo già da tempo dato conto, sia nei rapporti tra la Giunta uscente ed il dragone[1], sia nelle preoccupazioni rispetto alla programmata sperimentazione del 5G da parte di Huawei nel cagliaritano[2].

Come previsto, è stato sufficiente un richiamo all’ordine dell’amministrazione USA per far vacillare alcune certezze sovraniste al governo giallo-verde, trovatosi improvvidamente più che sulla seta, sulla via delle uova: tra moniti del Quirinale, tweet di Washington, richiami di Bruxelles, spifferi (ipocriti) da Parigi e Berlino, il governo Conte ha dovuto camminare felpato chiarendo, distinguendo e potando qua e là, con un vicepremier sorprendentemente arrembante (Di Maio) ed un altro sorprendentemente arrendevole (Salvini).

Tra i tanti temi sollevati dalle polemiche, quello del porto di Trieste e dell’eventuale ingresso sotto qualche forma di capitali ed imprese cinesi ha assunto un rilievo altamente simbolico, perché proprio la peculiare conquista portuale mandarina preoccupa enormemente (l’ipocrita) Unione Europea.

Basti per tutti la lezione del porto del Pireo. Fino al 2015, Germania e Francia erano i primi investitori su suolo greco: le note vicende, ed il noto trattamento imposto al paese ellenico con un Memorandum lacrime e sangue, ha accelerato le sempre più forti relazioni tra Atene e Pechino.

Nel 2008 la società cinese COSCO Shipping ottiene un franchising di 35 anni per due terminal container del porto, pagando la cifra iniziale di 50 milioni di euro, altri 591 milioni di euro di affitto per tutto il periodo e un importo garantito di almeno 2.7 miliardi di euro da guadagni futuri. La crescita dei volumi d’affari è stata immediata e costante, soprattutto rispetto ai ricavi del terzo terminal rimasto in mani greche: a nulla valgono proteste e denunce dei sindacati, che vedono due terzi del porto trasformarsi in una zona franca di lavoro cinese, con la consueta disinvoltura in termini di salari al ribasso, orari di lavoro estesi, scarsa sicurezza e, ovviamente, nessuna contrattazione.

Otto anni dopo, nel 2016, con la Grecia già devastata dalla cura dimagrante della famigerata Troika, i doveri di privatizzazione rispetto al noto sospetto sulla gestione pubblica del mondo ultraliberista portano la stessa COSCO Shipping ad acquistare il 51% delle azioni della società che gestiva lo stesso porto del Pireo, ad un prezzo di 280,5 milioni di euro. Il contratto di vendita stipula che se la COSCO dovesse soddisfare particolari condizioni, investendo fino a €300 milioni nei successivi cinque anni, potrà aumentare la sua quota azionaria arrivando a detenere 67% entro il 2021 (con ulteriori 88 milioni di euro d’esborso). Fatto che avverrà senza alcuna esitazione.

E sarà per pura casualità, non vorremo fare certo i mal pensanti, che un anno dopo, nel 2017, il governo Tsipras blocca la condanna Ue alla Cina sul rispetto dei diritti umani, unico veto che affossa la  dichiarazione che l’Unione avrebbe dovuto fare al Consiglio delle Nazioni Unite a Ginevra.

Per questo c’è da fare un salto triplo sulla sedia, come da migliore tradizione circense orientale, quando appaiono certe notizie, come l’articolo dell’Ansa, il 13 Marzo scorso, dal titolo “Crollo del traffico nel porto canale di Cagliari”. Il terminal container, si legge, “è in picchiata, con il 2018 chiuso a circa 215mila Teu, -50% rispetto ai 430mila del 2017, anno che aveva già visto un calo del 36%. E il 2019 non promette nulla di buono: i primi due mesi dell’anno dimostrano una proiezione su base annua di un ulteriore -42% rispetto al 2018”.[3] Preoccupazione nutrita da due principali ingredienti: il primo è che le situazioni di crisi, i ventri molli d’Europa, sono l’obiettivo perfetto per l’insediarsi di imprese cinesi teleguidate da Pechino; il secondo è la nostra attitudine ad accogliere con i tappeti rossi chi, potrebbe, avere canini aguzzi in certi bonari sorrisi tutti atti a rassicurarci.

Per questi motivi, un vero atto di discontinuità nella politica isolana, sarebbe l’esistenza di un reale, continuo ed informato (per quanto ideale) Assessorato agli Esteri, capace di collocare costantemente la Sardegna nel giusto punto delle relazioni internazionali, anche e soprattutto in discontinuità ed opposizione con eventuali scelte romane. Non si tratta ovviamente di strillare al pericolo giallo, si tratta di costruire un orizzonte politico ed economico in cui sapere come e dove incasellare tutti gli investitori stranieri interessati ad operare sul suolo sardo.

Che la Sardegna possa permettersi un limbo post elettorale è un lusso di per sé già impossibile da sostenere rispetto ai gravi problemi interni: figuriamoci se potrà essere possibile per la nuova Giunta svicolare rispetto, ad esempio, ad accordi o trattative in corso che la giunta precedente ha fatto con emissari palesi o occulti di Xi Jimping.

Il che darà anche la cifra della solidità e personalità della componente sardista nel governo della Sardegna: in merito ad eventuali investimenti del Sol Levante sull’Isola, si dovrà chiedere il permesso al governo italiano, o possiamo pretendere ed aspettarci che il nuovo Governatore dia seguito alle promesse di centralità di scelta tutta isolana?

Attendiamo, ad ogni modo, il sorgere del sard dell’avvenire.

 

 

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