Dai Soffiato e Beato il racconto del ritorno in Continente di numerosi veneti di Arborea, fra nostalgie per la terra lasciata e buona coscienza per l’onesto lavoro compiuto, di Alberto Medda Costella

 

“Macchinista macchinista de Marrubiu, metti l’olio nei stantuffi, che di Arborea siamo stufi, in Continente vogliamo andar. Continente Continente sulle alle, se mi riesce passare il mare, se mi riesce passare il mare, qui in Sardegna non torno più”.

Questa strofa intonata sulle note del canto delle mondine “Saluteremo signor padrone” l’ha cantata Teresa Soffiato, oggi 96enne, che ha vissuto per 33 anni a Mussolinia/Arborea. Diciamo pure il luogo in cui è cresciuta e si è formata. Il passato è comunque d’obbligo perché dal 1963 è tornata alle origini. La sua fa parte di quel folto gruppo di famiglie che nei primi anni ’60 hanno lasciato il paese della bonifica per le fabbriche del nord Italia. Mentre gran parte di queste si è distribuito tra Lombardia, Varese in particolare, e Piemonte, Torino soprattutto, una minoranza ha ripreso la strada del Veneto. Teresa è infatti nata a Lozzo Atestino, nei Colli Euganei, e oggi vive a Padova. Dal testo della canzone si può intuire quanto Mussolinia al tempo non fosse proprio un luogo di villeggiatura. Lavoro, sacrificio e sangue, quello prelevato dalle zanzare anofele, responsabili della trasmissione del morbo della malaria, che rendeva tutto più complicato.

Arrivo nella città del Santo in una mattina di inizio marzo. La giornata è splendida. Quasi un anticipo di primavera. Ad aspettarmi nel piazzale antistante la stazione dei treni c’è Luciano, nipote della signora Teresa. È lui che ha fatto da ponte per questa mia trasferta veneta alla ricerca dei figli di Arborea sparsi nella Pianura Padana. Dopo i convenevoli di presentazione, ci infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso il quartiere Guizza, dove vive. A casa sua ci attende la zia Teresa e la mamma Rosa Gallon, sorella di Angelo da me già intervistato l’estate scorsa ad Arborea. Forse sono solo suggestioni, ma sembra quasi di trovarci in un classico paese veneto e di percepire l’odore della campagna. Il cane da caccia che ci accoglie festante al cancello d’ingresso amplifica questa sensazione. Eppure siamo soltanto a cinque minuti dal centro.

I Soffiato non sono gli unici arborensi nel Padovano. Oltre ai Gallon, ci sono i Lelli, i Beato e i Zambon. Sono famiglie, non a caso, tutte imparentate tra loro, anche se l’origine veneta è differente. Si sono infatti conosciute nelle campagne più profonde di Mussolinia, nelle strade 3 e 4. A più di dieci chilometri dal centro abitato e che proprio per la distanza e per la difficoltà dei collegamenti e delle comunicazioni allora risultavano ai confini del mondo. L’unico modo per interagire col paese era raggiungerlo a piedi o in bicicletta. Macchine e telefoni inesistenti.

Anche Luciano (nella foto qui a destra) è nato ad Arborea, ma è partito dalla Sardegna che aveva 7 anni. De qua ierimo noantri e de qua iera i Boscaratto. E dopo deà dea strada del rettifilo iera i Capraro, così mi dice facendomi vedere una foto della casa colonica in cui è nato. Prima dei Boscaratto ghe iera i Valle, esordisce Teresa. Anche questa – i Valle –una delle tante famiglie ripartite negli anni ’60, originarie di Arcugnano in provincia di Vicenza.

Noi - prosegue Teresa – siamo arrivati il 29 novembre 1929. Noantri in realtà doveimo andar a Sabaudia, in Agro Pontino, ma nol iera pi posto e cussì i ne à mandà in Sardegna. E alora i ne à domandà se ierimo contenti e me papà ga risposto: “con tutti sti fioi vado dove che i me manda”.

Come tante altre famiglie di Arborea, anche essi inizialmente avevano un’altra destinazione. Il registro della Società Bonifiche Sarde sposta il loro arrivo all’anno successivo, esattamente al 19 novembre 1930. Ora non sappiamo se il funzionario incaricato sia stato scrupoloso nel compilare la scheda famigliare, ma per verità di cronaca riportiamo anche questo dato. Ma son partia da Mantova mi, continua Teresa. Non pochi mezzadri di Mussolinia arrivarono da questa provincia lombarda, 25 famiglie patriarcali, di cui tre venete, compresi i Soffiato, che si trovavano nel Mantovano solo da qualche anno. Noantri semo partii nel ’27 da Bassaneo, in provincia di Padova, e semo stai do ani a Villimpenta sulle risaie a lavorare. Me ricordo come che se ciamava i me paruni. Risi de cognome, pensa ti. E ghe iera anca i Bonfante. Dopo lori xè partii co nantri in Sardegna. I Bonfante sono, appunto, una delle 25 famiglie patriarcali mantovane arrivate a Mussolinia e, come dice Teresa, fecero il viaggio per la Sardegna insieme ai Soffiato. La mobilità interna al Veneto e verso le province limitrofe era usanza dettata dalla necessità del lavoro. A Lozzo Atestino i me veci iera soto el conte Valvasoni, al castello di Valbona. Interviene Luciano: me nono el faseva el carrettiere per questa fameja. Lu iera de Selvazzan (Selvazzano) e me nona dea montagna (Colli Euganei). La nonna di Luciano e la mamma di Teresa si chiamava Ida Scanferla, sorella del mezzadro Onesto che sarebbe arrivato in Sardegna nel 1941 per prendere possesso del podere 230 a Linnas.

Semo così partii in 40. [...] Semo rivai quasi a mesogiorno e i ne ga smontà dal treno a Marubiu, tutti sti putei e squadra de tosi. Semo rivai in Sardegna che iera i fighi fatti, i fighi d’india. Come che semo smontai dal treno i ga scuminsà a dir che in Sardegna iera i fichi. Tutti semo corsi per magnarli e semo cussì rivai a la nostra casa pieni de spine. Teresa è una delle poche testimoni viventi dei primi anni di vita del nuovo centro. L’inconveniente delle spine dei fichi è peraltro comune a tantissime altre famiglie che non conoscendo questa pianta mediterranea non usarono alcuna precauzione per raccogliere i frutti. Da Marubiu ad Arborea semo andai in camion, tutti stretti come i peoci. Iera anca le vaise. Iera Pirisi de Montresta tacà a noantri. Le poche famiglie sarde residenti nell’agro redento prima dell’esodo dalle campagne degli anni ’60 sono in buona parte originarie di questo paesino vicino a Bosa, a nord della Provincia di Oristano. Quando che semo rivai i forestai iera appena impiantai. I paioni (materassi) i ne ga dà el duce e le bestie i le ga portà subito, cussì come el bidon del latte. I ne ga dà un sacco de farina bianca, un sacco de farina zaea, pronta all’uso, perché i savea che le nostre done iera brave a far de tutto. Fora iera il forno per fare el pan. Se alzavimo alle quattro dea matina. Spesso iera fredo. Seminavimo el formenton (granoturco) a man con le bestie che i fea un solchetto. Sappare a man i campi de formenton. Fare i sime a man. E il fen, che quando che vignea su el vento forte, perché in Sardegna xè vento, te fasea el mucio dea spagna e teo catavi in giro. E te dovevi recuperarlo col rastreo. El duce ga fato tanto. A semo rivai in Sardegna che no gavevimo niente. I ne ga dà leti. In ne ga dà de magnar. Lavorà tanto, però a ierimo poveretti e se semo tirai su. Contrariamente ad altre zone della Sardegna e d’Italia, la figura di Mussolini non è stata compromessa dai fatti oggi noti del ventennio e della guerra, anzi, tantissimi mezzadri in passato ne hanno tessuto le lodi, ma non certo per fedeltà all’idea o alla “rivoluzione” quanto per riconoscenza a colui che anche la chiesa aveva indicato come l’uomo della Provvidenza. E qui si ritorna alla vexata quaestio se i coloni, come il resto degli italiani, prima della democrazia fossero fascisti o più semplicemente mussoliniani. Io propenderei per la seconda ipotesi.

Le famiglie di Mussolinia e la medicina alternativa

Teresa interrompe per un momento il racconto. Si ferma a pensare qualche istante a riflettere per poi iniziare a elencare i nomi delle famiglie e delle persone di Arborea che ricorda, alcune non più presenti: Pivetta, Rossetto, Callegari, Bassetto, Reali i fattori, Andreotti che iera sulla casa vissin Luri, Gasparin, Michelon, Soraneo (Soranello), Nostran, Panetto, Vettore, Garbin, Schiavon, Andrello, Ceron, Nicchio, Cappato, Belluco, Boselli, Zaia, Beltrame, Franzon, Cestaro a Torrevecchia, Dal Castello, Artemio Favalessa. I Costea (Costella), me ricordo Elvira. È un fiume in piena Teresa. Prosegue: Sansonetto, Zangirolami, Libanori, Marzaro, Marangoni, Sgarbossa, go ciapà un premio dea scuola con Mario Sgarbossa. Di quanto dice troviamo conferma nel periodico mensile “Brigata Mussolinia” del 15 agosto 1934 edito dalla Società Bonifiche Sarde. Oltre a trovare una sua foto, leggiamo: «la SBS nell’intento di premiare gli alunni che più si distinsero nello studio e nelle scuole delle varie frazioni di Mussolinia e per vieppiù rinforzare l’attaccamento dei coloni a questa terra e che si sta redimendo col lavoro, ha stabilito che l’importo degli abbonamenti al nostro giornale e della vendita sia devoluto a favore dei figli dei mezzadri che sono stati segnalati come i migliori della scuola». Teresa è la ragazza premiata per Luri.

Riprende con l’elenco: Poli, Neri, Silvestrini, Peruzzolo a la do, ma anca Tessari, Tognon, Tonin, Conte, Formentin, Zambon, Zardin. Angheleddu, un sardo che el gavea el mulin. El iera tacà con noantr i Nateri. E Landi…questo ogni volta che me vedea me disea “massaia cosa prepara oggi da mangiare?” Iera gentile. Me ricordo anche dei Mantoan (Mantovani), che xè andai a star su quea casa del frutteto. Te se chi iera là? El iera una vecia de sento ani. Dopo xè andà a star tacà al cimitero, che se sentava sol che a piera granda davanti al cimitero che pregava. Mea ricordo come se fussi adesso. O ancora el nono Zambon, gavevo una fotografia insieme. Angelo Vettore, che ga sposà una Costea. Ea gavea tre fioi quando che xè andada via in Istria insieme a to zia Elvira da quee parti là. Xè partii con tre putei piccinini. Iera Bepi, Irma Michelutti, che un fio dovessi esser ancora ad Arborea. Fa riferimento a Walter, allevatore ed ex presidente della Cooperativa del Latte 3A, e iscritto al “Fogolar Furlan” della Sardegna.

Ma tra questi coloni continentali trapiantati in terra sarda si conoscevano anche dei rimedi naturopatici a malanni vari, alternativi alla cosiddetta medicina tradizionale. Il medico in genere lo si chiamava solamente nei casi disperati, spesso quando ormai non c’era più nulla da fare. Sulla strada 8 ghe iera i Bonandini. Ghe iera una nona che gavea più de 90 anni. Alora una volta nol se andea da dotori, solo per la maearia. Me fioeo nol cressea tanto. E sta siora disea che ghe segnava el mal de simioto. Teresa fa riferimento a una malattia generata dalla cattiva alimentazione, indicativo di come sfamarsi fosse ancora un grave problema. Andea via con la bottiglietta de olio de oliva parché bisognava che meo portassi via da casa. E alora ga segnà sto coso che l’è guario e l’è cressuo e l’è vignuo bel. Facendo una piccola ricerca scopriamo che questa usanza veneta prevedeva l’utilizzo dell’olio di mandorla, difficile però da trovare al tempo nella bonifica. L’olio d’oliva poteva essere evidentemente un buon surrogato. La cura consisteva nel massaggiare il bambino dalla pancia verso la schiena, cercando di spingere l’osso sacro verso l’esterno. La tradizione vuole che il simioto (scimmiotto), appoggiato sull’osso sacro, debba essere allontanato con delle parole particolari.

La storia di Rosa e il periodo di guerra

In quel periodo là mi invese iero in Africa, interviene Rosa, facendo riferimento alla storia dei Gallon che abbiamo conosciuto grazie al racconto del fratello Angelo (http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=13741). Ierimo a Fonzaso (BL), sempre sua tera. Dopo prima de andar in Africa, quando che iera za me zio, gavemo cercà de andar in Sardegna, ma nol iera posto. Me zio Favalessa i voleva che fasevimo una fameja assieme per far e lpoder, ma me pupà nol iera abituà a star co altri. I Favalessa a cui fa riferimento Rosa sono di un altro ceppo rispetto ai discendenti di Cessalto che oggi vivono ad Arborea.

Anche i Gallon giravano per le province venete, in questo caso tra quelle di Belluno e Treviso, anche se la loro origine si perde a Cison, stesso paese di Artemio Favalessa citato sopra. L’idea di trasferirsi in Sardegna c’era ancor prima dello scoppio della guerra. Questa volontà è riscontrabile peraltro dalle lettere inviate in quegli anni dal papà di Rosa alla SBS, presenti nell’archivio storico della Società.

Dopo quando xè capità de andar in Africa, semo andai de là, perché lu el gavea fato la guera in Libia. Me fradeo ga anca imparà l’arabo. Me ricordo la partenza da Venessia. Iera anca una tosa pi granda de mi che me voleva ben e l’è rimasta là fin che semo partii. E come che semo rivai in porto me mama come che ga visto gli ascari (truppe coloniali eritree presenti anche sul suolo libico) a me papà ga dito: “dove me ghe to portà?” Ste paroe me xè rimaste impresse. Quando che xè scuminsià la guera i ne à mandà in Italia e mi son sta nelle colonie. Ma come che l’è cascà Mussoini i me ga mandà in collegio. Mi son rivà in Sardegna dopo la guera e come che semo sbarcai a Olbia, gavemo traversà l’isola e a me papà go dito, “te me porti in Africa un altra volta?” Iera tutto secco.

Ma torniamo a Teresa. Si parla di guerra e riaffiorano gli anni sardi del conflitto. Poche volte i passava gli aerei ad Arborea. E alora iera me cugnà Aldo che disea de andar fora quando che i passava. Per paura che non vegnissi do (giù) el teto dea casa. Però iera i tanti militari che i ne dava na man per i lavori sui campi. Iera calabresi. Per trebbiare el formenton stavimo l’uno co altro per darse na man. Anche altre famiglie di Arborea hanno raccontato dell’aiuto dei soldati di stanza nella bonifica in periodo di guerra.

Indimenticabili per la lontananza anche i trasferimenti dal podere al centro abitato. Dalla tre fasevimo avanti e indrio a pie. E alora me pare ga preso do mussetti e cussì ga fato un calessin, che quando lo utilizzavimo me parea de esser i siori de Arborea. El comun comunque me gavia passà na bicicletta per andar a scola, ma da dove che ierimo noantri alla tre gavevo da andare fin ad Arborea, piova o sol. E alora non so pi andada, perché iera da lavorare i campi. I me disea: “con tutto quelle che ghemo da fare è pecà”. Cussì son andada a lavorar. Ma son contenta cussì. Mi son ricca de salute, stago bene e non so mai andà in ospedal. Go solo avuo la maearia in Sardegna e da quando son vegnua qua no go avuo neanche un mal de testa. Adesso go quest’attrezzo da 20 giorni che me aiuta (fa riferimento a un apparecchio per il cuore). Go sempre lavorà un toco de tera e me magno la me verdura. A dimostrazione di come il legame con la terra non si sia mai interrotto.

Teresa è tornata raramente in Sardegna. Son vegnua in Sardegna da sola, in aereo, quando me cugnea Candida, moglie de Bruno Lelli, stava mal. Adesso xè Vittorio so fioeo. Che l’è sta anca qua, a laorar sui telefoni. Alora tutti ga ciapà (fa riferimento anche ai suoi figli) un bon posto de lavoro, ma lu ga dovuo tornar indrio poareto parché el iera morto so pare. Interviene Luciano: uno el fasea l’idraulico, l’altro elettrauto e altri ancora sui telefoni. Una grossa azienda locale li aveva assunti tutti. Teresa inizia a spiegare come dai campi di Arborea gran parte della sua famiglia si fosse impiegata nelle nascenti imprese del Padovano.

Preparando le valigie, era il 1963

Suonano alla porta. È Franco Beato, (nella foto qui a sinistra) nato ad Arborea nel 1946. La sua famiglia era arrivata a Mussolinia da Arcugnano in provincia di Vicenza nel 1936, per prendere sistemazione prima in un podere alla strada 6 e dopo alla 3. Oggi è in pensione dall’insegnamento di lettere italiane e coltiva la passione per la fotografia e la ricerca storica. Nipote anche lui di Teresa, figlio della sorella. Dei Beato nessuno è rimasto ad Arborea a dare continuità a una generazione. Sono tutti ripartiti per il Continente.

Si riprende il discorso interrotto. I motivi che spinsero i Soffiato a lasciare Arborea li racconta la stessa Teresa. Allora iera Livio militare a Bologna. Renato con so pare el gavea un’idea diversa de lavorar sui campi. Adriano iera piccinin che indea a scoea. Chi lavorava la terra che bisognava far tutto a man? Ara che mi go pianto quando son vignùa via. Me fioeo saveva che a Padova iera bisogno de manodopera. I l’è parti tanti prima de noi. Semo vignui qua grazie a Toni Sambon (Zambon), amico de me fiol Renato. Renato lusingato da Toni Sambon. “E alora andemo via! Andemo via. Cosa femo qua?” Me disea. “A monsere a vita le vacche?” Semo vignui nel ’63. La sua famiglia risulta praticamente tra le ultime a lasciare il paese. Il grosso infatti è già partito tra il ’60 e il ’62. Nella cronaca di un giornale del 1963 si leggono i commenti degli assegnatari intervistati mentre preparano le valigie: «preferiremmo far gli operai a metà salario che continuare a sudare sulla terra per niente». Si informa della perdita di 2.000 abitanti su 5.000. Al di là di questo dato statistico viene ben trasmesso il clima che si respirava nella bonifica misto a delusione e sconforto per quanto sacrificato e lottato negli anni, a partire dalla proprietà delle terre riscattate a partire dal 1° gennaio 1955 fino alle aspettative riposte sull’ETFAS, l’Ente di Riforma. Da illuminata scelta delle classe politica democristiana del dopoguerra esso si era già trasformato nel carrozzone, sempre a guida DC, che sperperava soldi pubblici e depauperava l’imponente patrimonio immobiliare e agricolo di cui ancora oggi paghiamo la gestione scellerata. Nell’archivio storico dell’ETFAS si trovano vari documenti in cui le scelte dei politici prevalgono su quelle dei tecnici.

A questa fase del racconto anche Luciano è parte attiva della storia per aver vissuto questi fatti in prima persona. Spiega che l’anno in cui egli e la sua famiglia sono arrivati dalla Sardegna ci fu una grande nevicata: un freddo da morire. La prima casa in cui si trasferirono era vecchia e aveva i muri sottili. Io presi una bronchite tremenda e non riuscivo a guarire. Allora una famiglia di vicini si offrì per darmi ospitalità durante la notte, perché la loro casa era più calda. I me ga tenuo a dormir con lori che i gavea una munega, in meso a do ragasse che i ga avuo 20 anni. La munega è uno strumento che si utilizzava in passato per scaldare il letto, con dentro le brace, facendo attenzione che lo stesso non prendesse fuoco.

Interviene Franco. Spiega che la molla principale del ritorno dei suoi nella penisola è stato il movimento generale di moltissimi ex mezzadri. Il passaparola, cioè di una vita più facile sul Continente, stipendio fisso e riposo settimanale, ma forse soprattutto l’appagamento di un segreto e “genetico” desiderio di riconsegnare la loro vita alla terra d’origine. Luciano a proposito racconta un aneddoto riguardante suo zio Angelo Gallon: quando xè vignuo qua qualche anno fa come che l’è smontà dall’aereo ga vardà le montagne e ga dito: queste xè le me montagne. Eppure quando che xè partio dal Veneto el gavea pochi anni. Di nuovo Franco: questa è stata la grande spinta, perché dal punto di vista economico non avrebbero avuto tanti motivi per andare via. Come accennato, gran parte di quei ex mezzadri sono partiti per il Piemonte e la Lombardia, ma Luciano mi dice: mi de quei ni go conossuo tanti, ma tutti me disea che casa loro iera qua, il Veneto.

Di nuovo Franco: i trasferimenti verso il continente avvenivano con le conoscenze. Dicevano: “potete venire a lavorare. Trovate posto”. Anche noi Beato, non siamo tornati subito in Veneto, ma ad Alessandria dove c’era un fratello di mia madre, che ci ha trovato un podere a Novi Ligure. E se semo trasferii là. Nel ’52 siamo tornati in Sardegna per casualità. Mio papa nei primi anni ’50 iera andà a lavorar in Francia per un anno e mezzo. El dovea sistemarse là. E invece me mama ga dito andemo a salutar i parenti in Sardegna. Cussì semo tornai e semo restai. Lì ci siamo ritrovati con altri due fratelli di mio padre. E allora con loro abbiamo costituito una famiglia e abbiamo girato la Sardegna, sempre come mezzadri, prima a Selargius, un anno, e poi a Donigala. Era il 54/55 .Ga nevegà e iera i titoloni sui giornai (potrebbe essere il ’56, anno di una grande nevicata). Eh go girà mi…le elementari le go fate, la prima metà ad Arcugnan, metà a Luri. Stavimo alla Tanca e andavo a pie. La seconda a Marrubiu. La terza a Selargius. La quarta metà a Donigala e metà a Luri de novo. E dopo me papà ga caricà tutte le nostre masserizie e semo rivai a Nurachi, ma la casa iera occupà. Cussì el paron per una settimana i ne à sistemà in una casa campidanese in paese. Me ricordo che nol se trovava olio. El paron el ne gavea dà un mazzo de chiavi bello consistente e una sera semo andai fora, sulle porte vicine. Siamo riusciti ad aprire un portone gigantesco. Nol iera luce, ma iera delle anfore gigantesche, con dei residui de olio d’oliva. Litri e litri. Il padrone era proprietario di un frantoio. Mentre a Selargius ci trovavamo bene. L’azienda era ben organizzata. Lì si coltivavano soprattutto ortaggi, che si vendevano al mercato a Cagliari. Tante verdure alcune esportate pure a Roma. Dopo un fradel del paron iera sempre là a domandar robe e cussì nol iera pi equità della mezzadria e cussì andai via. Per ultimi semo andai a Terralba. Stavimo in paese, in affitto, ma il podere iera fora. In quinta elementare. Mi a Terralba zogavo col fiol dea parona, che el parlava sardo. E mi piccinin lo go imparà anca mi. Lo parlavo perfettamente.

A tal proposito Teresa racconta che molti veneti avevano imparato il sardo, in particolare coloro che vivevano ai confini della bonifica. Contrariamente agli altri veneti arborensi trasferiti nel Padovano Franco però ha mantenuto una cadenza più famigliare, sardo-veneta direi. Nel modo di parlare ricorda molto un mio cugino Costella che oggi vive alla strada 4, che parla, non a caso, sia il veneto che il sardo. È Franco stesso a darmi una parziale conferma della mia percezione: mi go sempre parlà il veneto de Arborea e come che te go dito gavevo imparà anca el sardo. Qui i ga la cadenza tipica del veneto che riconosci a distanza. Ecco io parlo veneto, ma quella cadenza non ce l’ho.

Un amore che rimane: «Go vissuo 34 anni…»

Franco ha mantenuto bellissimi ricordi del suo paese natale: quando semo andai via iera un giardin. Mi go avuo ad Arborea un’infanzia bellissima, ma quando son tornà nel ’79 iera i canai pieni de canne, nol iera pi neti (puliti) come una volta. È in effetti questo un ricordo comune, più che giustificato, a gran parte dei suoi abitanti. Quando la Società Bonifiche Sarde era nel pieno dei suoi poteri con Piero Casini presidente e Rino Giuliani direttore, pretendeva attraverso che tutto fosse in ordine, canali e bordi delle strade. La disciplina del tempo e la perfezione rappresentavano un’ossessione per le autorità e i tecnici, spesso però a discapito dei mezzadri, per il di più di fatica loro imposta e il di meno del già poco tempo rimasto libero dopo le incombenze della campagna. Ancora oggi non è difficile osservare qualche ex mezzadro, che ha vissuto quegli anni e che, sempre con falce o zappa in mano, quasi per un’abitudine inconscia, tiene il luogo in cui abita in perfetto ordine, anche dove teoricamente il buon senso non lo consiglia.

Oggi tante cose sono cambiate. Rispetto a prima rimangono alcune tradizioni, che in un mondo globalizzato, parificato nelle abitudini e nei costumi, fortunatamente continuano a dare un’identità al paese e permettono di riconoscerlo nel tempo. Chiedo se anche loro ad Arborea usavano accendere il falò dell’Epifania. A questa domanda Teresa si illumina: oi oi…era i trevisan che i lo fasea, e fa un nome: i Zambon, i Zambon. Lo ripete più volte: i fasea la fugassa (il dolce del 6 gennaio che per i Trevisani delle due sponde del Piave è la Pinsa) soto le bronse (brace). Ma me fradeo, papà di Luciano, el piaseva el giorno de morti taiar le sucche (zucche) intea a strada con una candela dentro, de note. E la gente come che le vedea el fasea de quee corse. Lu lo fasea per scherzo. Halloween non è ovviamente una tradizione veneta. È probabile che il fratello l’avesse conosciuta durante il suo periodo di prigionia sotto gli inglesi.

Per concludere la nostra lunghissima chiacchierata, domando infine a Teresa, la persona tra i presenti che ha passato più tempo in Sardegna, a Mussolinia/Arborea, se sente ancora suo il paese: son nata a Padova, ma mi Arborea non la desmentego mia. Go vissuo 34 anni. Le amiche e il mio cuor xè là. Ma la vita che gheimo fato in Sardegna varda…iera dura. Nissun pol rivar a crederghe cossa che iera.


 

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