La quarta sponda e i coloni di Italo Balbo. Conversazione con Angelo Gallon da Bengasi. di Alberto Medda Costella

… ricostruire quella pagina della grande storia attraverso il racconto di un singolo: Angelo Gallon, dal Villaggio Baracca, provincia di Bengasi. Nato a Tarzo in provincia di Treviso, oggi si gode la sua meritata pensione ad Arborea.

«La volontà del capo che regge i destini imperiali dell’Italia fascista volle la quarta sponda, elevata a dignità di territorio del Regno. Dove dominava la steppa, undici villaggi intitolati ad eroi della stirpe sono sorti con la miracolosa rapidità che è propria del fascismo e punteggiano di nuovissime oasi di fertilità la terra libica. L’alacre fatica di maestranze nazionali, coadiuvata da manodopera locale, ha fatto sorgere i nuovi centri con vasti edifici di pubblica utilità e centinaia di case coloniche, linde e accoglienti».

È l’incipit del documentario dell’Istituto Luce “I ventimila coloni nelle nuove province libiche”. Queste parole cariche di retorica e di devozione verso la rivoluzione e il suo duce sono accompagnate da una cartina geografica che inquadra la penisola italiana collegata alla Libia da un ponte romano ovvero la quarta sponda con le sue quattro nuove province, parte integrante del Regno. È una storia poco nota quella del colonialismo italiano, che ha coinvolto nella prima metà del Novecento anche altri territori come l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia, alcune isole greche e perfino una città cinese. Teatri diversi e altrettanto interessanti, ma l’attualità data dagli sbarchi nelle nostre coste e l’instabilità politica della Libia, così vicina, così lontana culturalmente, ci impongono delle riflessioni. Il recente incontro con un reduce di quell’esperienza di popolamento è l’occasione per fare un tuffo nel passato, per cercare di ricostruire quella pagina della grande storia attraverso il racconto di un singolo: Angelo Gallon, dal Villaggio Baracca, provincia di Bengasi. Nato a Tarzo in provincia di Treviso, oggi si gode la sua meritata pensione ad Arborea.

Ci accoglie in un pomeriggio di agosto, caldo e secco, uno dei tanti di questa estate, che sarà ricordata per la sua parsimonia nell’elargire piogge rigeneratrici per l’uomo e feconde per i campi. Ma chi arriva dal deserto africano non può certo scomporsi per un po’ di siccità. La luce dell’appartamento è fioca, gli scuri sono socchiusi, il sole è ancora alto e riscalda i muri della piccola palazzina che si affaccia sul retro dell’ex Ospedale Avanzini. Alle pareti tante foto della famiglia e soprattutto quelle del suo campione, il nipote Mattia, esordiente in serie A col Cagliari di mister Allegri a Genova contro la Sampdoria nel 2010.

«Allora l’Africa era terra di conquista e doveva essere adibita alla coltivazione del grano» esordisce Angelo in italiano. «In casa nostra si parlava il veneto, ma noi essendo lontani da casa tanti anni ci hanno fatto studiare e parlare la lingua di Dante».

La conquista della Tripolitania e della Cirenaica da parte italiana risale ufficialmente al 1912, a seguito della firma del trattato di pace con l’impero Ottomano che riconosceva la sovranità all’Italia. Almeno in linea teorica, perché gran parte di quel territorio rimase nelle mani delle popolazioni arabe sino ai primi anni ’20, quando Mussolini ritenne che il suo controllo non era più procrastinabile. La “riconquista” durerà dieci anni. La Tripolitania viene completamente occupata nel ’25, mentre per la Cirenaica bisognerà attendere qualche anno, fino alla cattura e impiccagione nel 1931 del “ribelle” Omar al-Mukhtar, il leone del deserto, guida della resistenza. Le due colonie saranno unificate formalmente nel 1934, anche se il centro decisionale era già di fatto Tripoli.

Dopo la gestione di Volpi, De Bono e Badoglio, si proclamò così il Governatorato della Libia, affidato al quadrumviro della marcia su Roma Italo Balbo, esiliato nel deserto, l’unico, a detta di vari storici, in grado di poter contendere la guida d’Italia a Mussolini. Dopo la guerra di riconquista occorreva la pace e il trasvolatore di Ferrara era l’uomo giusto per portare riconciliazione tra italiani e, come li si definiva allora, “indigeni”. Si diede inizio ad un poderoso programma di riforme e valorizzazione della “quarta sponda”. L’ex ministro dell’Aeronautica riordina l’amministrazione e organizza le prefetture, concede una cittadinanza specifica ai libici (a fronte di alcune possibilità di rappresentanza nel territorio libico chiudendo però definitivamente i canali, già estremamente ridotti e limitati a casi eccezionali per l’accesso dei libici alla cittadinanza piena), fa chiudere i campi di concentramento che in dieci anni di precedenti governi avevano ucciso migliaia di persone, libera i tantissimi prigionieri detenuti nelle carceri, le stesse leggi razziali sono applicate in modo blando, con l’intento semi dichiarato di volersi distinguere dai predecessori. Balbo è, inoltre, grande amico del podestà ebreo della città estense Renzo Ravenna, a cui offre riparo dopo essere stato sollevato dal suo incarico. Pare che il duce in quel momento lo abbia definito «porco, democratico e massone».

Dà vita al circuito automobilistico di Tripoli, ma il suo capolavoro sarà certamente l’organizzazione del trasferimento di 20.000 coloni italiani – quando in tutti gli anni passati si è riusciti a farne trasferire a malapena 5.000 – facendo della Libia la loro terra promessa. Da perfetto regista dirige l’operazione in modo magistrale, «curata nei particolari con straordinaria capacità», dice lo storico Giorgio Rochat.

C’è però da compiere un distinguo. Questa colonizzazione è diversa rispetto alla prima, portata avanti da singoli intraprendenti con il sistema delle concessioni, in maggiore concentrazione nel circondario di Tripoli, ma l’accrescimento del ruolo dello stato nel popolamento della Libia con la conseguente creazione degli enti preposti precederà l’arrivo del Quadrumviro. Nelle intenzioni del governatore vi è comunque la volontà di organizzare annualmente, in occasione della marcia su Roma, il 29 ottobre, l’arrivo di 20.000 coloni, prevalentemente del nordest italiano, con alcune quote importanti del meridione. Balbo li attende al porto di Genova, dove, una volta salpate, le navi si ricongiungeranno al largo di Napoli con le altre cariche di famiglie meridionali, su cui è imbarcato lo stesso duce. L’incontro in alto mare sarà salutato entusiasticamente a salve di cannone.

L’anno seguente saranno 11.000, con navi che salperanno da vari porti. Oltre a Genova e Napoli, Catania, Bari, sarà soprattutto Venezia la città di partenza. Dieci treni speciali giungono alla stazione di Santa Lucia. In porto pronti a salpare vi sono tre piroscafi messi a disposizione dal Lloyd Triestino: il Liguria, il Lombardia e il Sardegna. Prima di imbarcarsi tutte queste fanterie rurali ricevono la benedizione del patriarca in piazza San Marco a Venezia. Ad accoglierle sempre Italo Balbo.

«A Tarzo guardavo io mio fratello. Lo tenevo in mezzo alle gambe. Avevo tre anni. Lui aveva qualche mese. Non c’era neanche una fetta di polenta. Avevamo una capretta, e allora io e mia sorella eravamo addetti a portarla al pascolo, facendola brucare in erbe apposite. Mia mamma portava qualcosa a casa da dove lavorava. Se vendemmiava le davano mezzo cestino d’uva. Se andava a pesche portava un po’ di pesche. Siamo usciti dalla guerra del 15/18 che non avevamo niente. Come noi tante famiglie nelle stesse condizioni. E così siamo partiti. Bisognava arrangiarsi. Fino a che c’era la dittatura c’era ordine. In linea di massima si stava bene quando si stava male. Per quel po’ che ho conosciuto io le botteghe erano piene, poi durante la guerra la fame», dice Angelo.

È un’organizzazione perfetta con un ritorno propagandistico esagerato, tanto da far storcere il naso allo stesso Mussolini, non troppo contento, come ogni dittatore che si rispetti, che un sottoposto metta in ombra il proprio duce. «Avevo anche un padrino di viaggio. Mi ha impacchettato un po’ di roba da mangiare e l’ha data a mia mamma. Con quello abbiamo mangiato tutti».

Sbarco a Tripoli e dopo aver ascoltato la messa in piazza Castello si parte verso la destinazione assegnata. Ai nuovi villaggi, già esistenti, se ne aggiungono degli altri. Sono intitolati a eroi della patria o simboli che la nuova religione degli italiani deve celebrare: Oberdan, D’Annunzio, Beda Littoria, sono solo alcuni nomi dei nuovi centri colonici in Cirenaica. A Francesco Baracca – famoso per le sue imprese nella prima guerra mondiale da cui Enzo Ferrari mutuerà il cavallo rampante, emblema di famiglia, per la sua casa automobilistica – sarà invece intitolato il villaggio prescelto per la famiglia Gallon, a cui fanno capo 206 poderi in tutto. Entrando nelle case coloniche si trova il fiasco di vino, la bottiglia dell’olio e la pasta per fare gli spaghetti, apparizioni provvidenziali che si riscontrano in tanti altri centri di bonifica italiani. Il contratto prevede un primo periodo da salariato e cinque anni da mezzadro, alla fine dei quali sarà immesso in proprietà definitiva e potrà riscattare il podere, pagando delle rate per un massimo di 25 anni.

«Laggiù c’era tanto da lavorare, ma anche da mangiare». Al Villaggio Baracca i Gallon erano alloggiati in un centro di tre palazzine e come vicini avevano una famiglia friulana e una mantovana. Terra vergine, pesante da lavorare, che doveva essere adibita alla coltivazione del grano. Ne producevano circa 100 quintali, ma gliene lasciavano solamente 10 per le loro necessità. «Pensava l’Ente di Colonizzazione della Libia a trebbiarlo». Gli avevano dato in assegnazione anche una terra da disboscare. Più terreni si bonificavano, più si guadagnava. C’era una Battaglia (quella del grano) da portare avanti. Nei terreni più duri l’Ente mandava qualche macchina.

Nel 1940 scoppia la guerra e Angelo insieme ai suoi tre fratelli fa parte di quell’esercito di bambini tra i 4 e i 12 anni che vengono tolti alle famiglie per essere portati in Italia. «Io, Sante, Ettore e Rosa, abbiamo lasciato la Libia e girato l’Italia. Per sette anni ho fatto da papà a mio fratello più piccolo. Siamo finiti nelle colonie del fascio per tre anni, così che se le cose fossero precipitate, non risultavamo d’intralcio. Quando il regime è caduto ci hanno preso su gli enti di assistenza e siamo passati da una mano all’altra come bambini di nessuno». Per sette lunghi anni Angelo non vede quindi il padre e la madre, ma solo i fratelli che erano con lui. Solo uno rimane con i genitori per aiutarli nei lavori agricoli. Mentre i due più grandi partono per il fronte. Saranno poi fatti prigionieri ad El Alamein, uno nelle mani degli inglesi e l’altro degli americani, nei campi di concentramento, per poi essere imbarcati entrambi per la California. «Li trattavano come cittadini americani, mentre il cognato di mio fratello finito con gli inglesi in Sud Africa, tornò a casa che era una stecca e con la tbc. Tante botte e poco mangiare. Gli inglesi e francesi erano terribili. Gli dicevano: “sputa la tua bandiera”. Della causa di queste guerre io ne so qualche cosa…la bruttezza e la cattiveria degli uomini in guerra», dice Angelo, con una lacrima che gli solca il viso provato dai dispiaceri. Durante la guerra, i suoi hanno visto tre ritirate. Gli italiani e gli inglesi andavano e tornavano. L’ultima volta sono tornati gli italiani dicendogli che il fronte si era rotto e che bisognava rifugiarsi a Tripoli. Otto giorni di ripiegamento. 1.200 chilometri. Tutto di notte per non farsi intercettare dall’aviazione alleata. Poi a Tripoli chi poteva tornava in aereo.

Dopo l’otto settembre l’Italia viene occupata dai tedeschi. «Facevano paura. Avevano il campo di assistenza a fianco dove eravamo noi ragazzi. Loro un pezzo di pane nero lo avevano. Così andavamo a passeggiare lungo le recinzioni e come ci vedevano ci dicevano: “anch’io a casa ho dei bambini come te” e ti passavano un pezzo di pane, di nascosto, altrimenti gli ufficiali li avrebbero rimproverati».

Sul finire della guerra, ha poi fatto cinque mesi a Milano, in via Mac Mahon, ospite del convitto di San Gaetano, gestito dai Servi della Carità del beato Luigi Guanella, mangiando riso americano, vecchio, coi vermi.

«Ci portavano da mangiare e sotto c’erano i baballotti (nome sardo per indicare gli scarafaggi), avevi fame ma ti passava la voglia e allora ogni tanto li tiravi via col cucchiaio. [...] I preti già mangiavano. Erano grassi. Io sono credente, ma in chiesa non ci vado per loro. Quei sette anni da profugo che ho avuto l’assistenza dovevi mangiare quello che ti davano. Quella non era assistenza. Quelli di oggi mangiano e li cambiano. Noi italiani non avevamo nulla. Se c’era da mangiare, mangiavi. Altrimenti guardavi il padre eterno».

Il loro contributo alla comunità consisteva nell’accompagnare i morti in cimitero, in cambio di qualche lira, mentre durante il giorno raccattavano quello che gli ortolani lasciavano in terra. «Una volta rientrando da un funerale siamo passati davanti a una piazza con questi “salami” appesi», così ricorda l’esposizione in piazzale Loreto di Mussolini e i suoi, dopo essere stati fucilati a Dongo.

Qualche mese dopo, Angelo viene a sapere che il fratello sta lavorando nelle campagne romagnole alle dipendenze di un proprietario terriero. Sale su un carro merci insieme a tanti reduci dei campi di concentramento. Alcuni erano seduti su della paglia e con difficoltà a muoversi per via delle loro precarie condizioni. Milano-Forlimpopoli: tre giorni di viaggio. «Faceva tutte le fermate per dare assistenza a questi. Lì ho trovato l’uomo col cavallo che era venuto a prendermi. Tre mesi di lavoro. Dopo si è sparsa la voce che ci rimpatriavano in Libia». Angelo viene così inviato ad Assisi, in attesa di ricongiungersi coi genitori, nel mentre si prende la scabbia e i pidocchi. Mille bambini, tutti dell’Africa, concentrati in Umbria. «Dormivo per terra sulla paglia. Ho passato altri due anni con mio fratello attaccato al collo. L’ho restituito a sua madre che aveva undici anni. Conosceva me e basta. La mia fisionomia lo rassicurava più di quella dei miei genitori. Io mi sono cucito, stirato e lavato. Avevo 14 anni quando sono tornato a casa, in Libia. I pantaloni di velluto erano rattoppati da me. E mia madre mi fa: “chi è che te li ha aggiustati”? “Io me li sono aggiustati”. “Bravo, hai cucito meglio di me”. Abbiamo vissuto di espedienti. Se avevi capacità di arrampicarti, allora qualcosa prendevi».

Dopo la guerra non c’é niente da mangiare e la madre di Angelo è abbastanza abile da ingegnarsi e raccogliere quello che trova per tramutarlo in cibo da dar mangiare alla famiglia. Il ritorno in Africa durerà giusto il tempo di illudersi. A un mese di distanza la gente del posto ha costretto i “Taliani”, nome usato dai libici per indicare gli italiani del duce, ad andarsene. «Avevamo la tavola imbandita. Sono così arrivati i carabinieri e ci hanno detto di lasciare tutto e partire con quello che avevamo. A Tripoli siamo andati via nudi. Si salvò soltanto una federa del corredo di mia madre».

La guerra era stata persa e oramai i Gallon, come tante altre famiglie giunte nel periodo “balbiano”, erano ritenuti stranieri indesiderati. «Noi gli abbiamo insegnato a mangiare e a produrre. Non so poi cosa abbiano tenuto. Allora erano morti di fame. Ci hanno mandato via perché quello che mangiavamo noi dovevano mangiarlo loro. Sai cosa ci ha dato lo stato italiano per i danni di guerra? 80.000 lire, cioè nulla. Non ci compravi nulla». Gli italiani rimasti anche dopo la guerra ed espulsi nel 1969 con la presa del potere di Gheddafi, erano concentrati prevalentemente nella Tripolitania.

Nel ’47 la famiglia Gallon sbarca a Napoli per raggiungere il campo profughi di Aversa. Sette mesi in tutto. Grazie poi allo zio di Angelo, Ettore Favalessa – anche lui di Cison, paese di nascita dei genitori, che aveva sposato una sorella della madre – ricevono la proposta di trasferirsi ad Arborea, alle dipendenze della Società Bonifiche Sarde.

Ettore si reca alla direzione SBS per parlare col direttore Rino Giuliani, informandolo che conosce una famiglia con tanta forza lavoro che potrebbe raggiungere la Sardegna. Detto e fatto. La risposta è positiva e il lavoro è garantito. Il primo anno lo passano come operai, per poi trasferirsi al podere 222 della strada 2, abbandonato da una famiglia dopo l’incendio del fienile. L’appezzamento non è troppo distante da quello dei cugini Favalessa (non imparentati con gli altri della bonifica originari di Cessalto), nella zona oggi nota come “bassa Calabria”, per via della distanza dal centro abitato di Arborea. «C’era terra, lavoro e strade bianche, ma da mangiare niente. Siamo rimasti 15 anni lì. E dopo siamo passati alla strada 4, sempre con i nostri parenti Favalessa, dove oggi ci sono Costella e Beltrame».

Duro lavoro con i buoi, arare, falciare. Questo il compito di Angelo. L’acqua per le bestie deve essere presa a una fontanella a circa un chilometro da casa, perché queste si rifiutano di abbeverarsi dal canale della strada 32.

«Sapeva di fango. Andavo via con la bicicletta e due bidoni, ma non bastava. Facevo più viaggi. Portavo 25/30 litri d’acqua. Non serviva neanche a bagnargli la bocca. E poi giorni e giorni buttato a dormire sotto il carro, con le zanzare e i moscerini. La mattina venivano giù per fare i lavori e mi portavano la colazione: caffè latte, polenta e pane, ma era raro allora. Comprare il pane e mangiarlo a tavola al posto della polenta era festa. Ho cominciato a vivere quando mi sono sposato. Anni di lavoro con mio padre, mangiando male. Non mi hanno dato nulla, ma la situazione era quella. Il primo vestito me lo sono comprato io a diciotto anni, col lavoro extra, allevando conigli e colombi. Mi ero comprato perfino la Bianchi sportiva, poi sono partito militare e nel 1960 mi sono sposato. Ho conosciuto mia moglie al suo paese, Zeddiani, quando andavo con Valdemarca (altro veneto di Arborea) a bere un goccio di vernaccia, lì nel bar della piazza».

Angelo era entrato alle dipendenze della SBS, mentre la sua famiglia di origine aveva nuovamente fatto fagotto alla volta del continente, come tante altre di Arborea in quegli anni, in cerca di fortuna nelle fabbriche. A Padova questa volta. Anche i Favalessa ripartono.

«Io sono rimasto qua perché avevo il lavoro che mi dava soddisfazione. Ero ben voluto. Ero corresponsabile di 220 ettari di linea. 50 di agrumeto, 10 di pescheto e altre piante da frutto. La lavorazione e i trattamenti li ho fatti per 25 anni io. Giacinto Reali, il responsabile frutteti e vigne, mi faceva lo specchietto e mi dava il lavoro per settimane. Mi diceva: “mai avuto un operaio come Gallon. Preciso in tutto. Dove passa Gallon il lavoro è fatto e pulito. Non voglio neanche andare a vedere”».

Le vigne e i frutteti da lui seguiti non hanno mai avuto una malattia, per i trattamenti precisi e fatti con rigore. «Nella mia squadra eravamo in cinque. Avevo fatto un corso per il trattamento e la pompa la utilizzavo anch’io. Le soluzioni si fanno sempre spalle al vento. Se ti metti faccia al vento respiri queste cose. Chi ha lavorato con me non ha mai avuto problemi di intossicazione».

Angelo è da 25 anni in congedo e a 84 anni non ha mai avuto un problema di salute. A tutt’oggi non prende neanche una medicina. Dice di non aver visto praticamente crescere i suoi figli, perché anche da sposato faceva qualche lavoro extra. Molti arborensi lo ricordano come maschera del cinema, oggi non più esistente, lontano nel tempo, come la Libia italiana, presente solamente nei pensieri degli ultimi reduci di quell’esperienza e nei video dell’Istituto Luce che oggi ci aiutano a far i conti anche con il presente.

 

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