Rifondare le città sarde e le ragioni del loro esistere, iniziamo da Olbia, di Savatore Cubeddu

L’EDITORIALE DELLA DOMENICA.

Nuoro ed Olbia sono le città sarde più disastrate. (Più di Carbonia, che si lamenta da sempre. Più di Oristano, che vive da decenni il suo sonno d’oblio). E sono tra le ultime nate tra le città sarde. La prima si è evoluta da ‘paese’ surclassando la ben più titolata Oristano, perché allo Stato  serviva un presidio militare- istituzionale per mantenere l’ordine pubblico. La seconda si è nutrita della corsa verso la costa dei paesoni dell’interno (Buddusò e Bitti innanzi a tutti), i cui abitanti si lanciarono alla ricerca di uno sbocco nel più variegato terziario in coincidenza della crisi del mondo agropastorale. Processi successivi alle due grandi guerre: nel ‘27 per Nuoro, a partire dagli anni ’60 per Olbia.

Finito il banditismo, si possono chiudere le istituzioni relative, è quindi finita anche Nuoro? Troppo semplice, anche se la prevedibile  attesa di non si sa quale risposta da ‘Cagliari’ lascia intendere che molto di profondo e di drammatico si stia muovendo nella gente del capoluogo della Barbagia. Che merita una trattazione a parte.  Subito dopo l’odierna nota sulla Gallura.

Dal tribunale di  Tempio è arrivata, nella settimana, sulla rivale Olbia una nuova bomba, giudiziaria stavolta, a porre le questioni implicite nel disastro provocato un anno fa dalla bomba d’acqua. Per ora 18 personaggi dell’amministrazione cittadina vengono chiamati a rispondere dei danni agli uomini (sei i morti) e alle cose provocati dalla massa d’acqua di un anno fa. E, intanto che i danneggiati si attendono i pubblici risarcimenti e la distribuzione delle generose donazioni private, aggregazioni di ingegneri e di architetti si contrappongono per definire le scelte che finalmente risolvano e prevengano il ripetersi del problema sorto nel caos edilizio. Quello che, in cinquant’anni, ha deturpato uno dei più bei fiordi del Mediterraneo e impedito che ad Olbia si formasse l’identità urbana collegata ad una riconoscibile comunità.

E’ in questo contesto che – proprio trattando di Olbia – Francesco Pigliaru esprime quella che probabilmente costituisce l’affermazione più interessante dei suoi primi dieci mesi di governo: “È giunto il momento di fare una legge urbanistica chiara, certa e semplice, senza via di fuga per gli speculatori. Pensiamo a una premialità del 40 per cento di volumetria per chi accetta di spostare la propria abitazione dalle zone a rischio. Non abbiamo intenzione di scaricare alcunché sul futuro, investiamo oggi per fare oggi». Affermazione, commenteresti, tutto sommato scontata, ma non è così, anche alla luce della disperata – e pure preoccupante e pericolosa – richiesta del più conosciuto dirigente del sindacato edile: “In  pochi anni abbiamo perso più di metà degli addetti. La Regione deve trovare soldi e luoghi da costruire per dare lavoro agli edili”. E soprattutto tenendo conto che in un’ Olbia, dove non arrivano i soldi promessi dallo Stato, la vita riprende forma declinando il fare da sé; che alcuni quartieri sono stati costruiti in zone acquitrinose non recuperabili; che la nuova scuola di Maria Rocca si sposta dal canale tombato del quartiere Bandinu e, finanziata dai privati, va a ricostruirsi in zona ‘normale’; che sono migliaia le persone che hanno bisogno di alloggi, nuovi ed in luogo ‘sicuro’.

Il prezzo pagato all’urbanizzazione massiccia, senza andare tanto per il sottile, facendo compromessi con il diavolo dell’abusivismo edilizio, è stata una convivenza pericolosa. Un reticolo idrografico in cui si contano 35 ponti e ponticelli e una decina di porzioni tombate di corsi d’acqua. Olbia è percorsa da nove canali: allargati, risanati, esteticamente curati sarebbero una formidabile risorsa. Collegati e accordati con i fiordi renderebbero la città gallurese una meraviglia di …. città.

Diciamocelo chiaro: è la stessa precarietà e disordine edilizio a dirci che Olbia non è ancora ‘socialmente e urbanisticamente’ identificabile come una città. Infatti, non individua urbanisticamente una città la lunga strada di negozi oggi in crisi, non le sue funzioni prevalentemente servili nei confronti della Costa Smeralda, non la povertà culturale, tanto meno il continuo azzuffarsi degli interni gruppi d’interesse.

Dopo il disastro del 18 novembre 2013 Olbia non è più la stessa. Accompagnatasi alla crisi economica ed agli imprevedibili effetti del mutamento dei padroni smeraldini (vedi il dramma della Meridiana), Olbia ha perduto per sempre l’irresponsabile spensieratezza dell’infanzia ed i pruriti di una troppo lunga adolescenza. Può crescere da giovane, imbellendosi, o spostarsi definitivamente a divenire decrepita. Inutilmente pretenziosa.

Non basta rendere sicuri i canali, per le cui spese vanno battendosi i raggruppamenti ingegneristici. L’occasione permette molto di più, se la prospettiva non è solo evitare nuovi effetti del dissesto, ma progettare una città che tiene il meglio del presente, cancella l’irricuperabile del passato, ripensa se stessa avendo davanti una logica di decenni.

L’incentivo allo spostamento delle abitazioni proposto da Pigliaru costituisce un’importante premessa economica nella direzione di questo discorso. Esso potrebbe venire ancora precisato e migliorato scadenzandolo negli anni. Ma suppone un lavoro molto più profondo sul futuro della città, esteso, ragionato, discusso con la popolazione. Una consapevolezza che si va a un nuovo inizio.

E poi? I soldi …  per la ‘rifondazione’ saranno necessari finanziamenti massicci, per centinaia di milioni. Sono quelli che tutti chiedono per creare lavoro. Con una differenza: porsi nell’ottica dei decenni necessari per ricostruire Olbia – perché non coinvolgere da subito la facoltà di Architettura di Alghero? – ha un senso per il futuro, dei suoi cittadini e dell’Isola.

Nella stessa direzione andranno affrontate le questioni che riguardano le altre città ed i paesi della Sardegna. Non  è casuale che continuiamo a parlare di una Sardegna che re-inizia.

 

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