Un caso da manuale: il processo per il “complotto separatista” contro Bainzu Piliu, di Federico Francioni

L’autobiografia – “Vernacolo” sardo – Reati specifici e valenza politica dell’iter processuale – Chi sono i giudici di Piliu? – Silenzi e reticenze – Il rigetto – Prese di posizione di non “allineati e coperti”.


L’autobiografia. Il sofferto, autobiografico libro di Bainzu Piliu (Cella n. 21. Il lungo cammino verso la dignità, Susil edizioni, Carbonia, 2014) va letto, chiosato e meditato, perché offre una molteplicità di stimoli per ricostruire un percorso drammatico, che si intreccia anche con vicende grottesche, ai limiti dell’inverosimile, le quali potrebbero costituire – non è esagerazione affermarlo – materia per un romanzo o per un testo teatrale. Negli anni ottanta le accuse di “cospirazione contro lo Stato”, formulate dalla magistratura contro di lui ed altri imputati, la sua condanna, a partire dalla Corte d’Assise, nei tre gradi di giudizio (la Cassazione riduce solo lievemente la pena che gli era stata già inflitta, 4 anni, più altri 5 di interdizione dai pubblici uffici), hanno creato un precedente assai pericoloso, su cui non si è mai fatta chiarezza; soprattutto, non si è mai sviluppato un dibattito teorico-politico approfondito, privo di reticenze, con l’obiettivo di proseguire nella lotta per l’emancipazione e l’autodeterminazione di donne ed uomini di Sardegna. Va peraltro doverosamente riconosciuto che nelle loro cronache i due quotidiani sardi non si mostrarono allora corrivi o subalterni ai giudici: ne è una prova l’ampia documentazione riportata nel volume di Piliu, in cui spiccano per lucidità gli articoli di Giommaria Bellu.

 

“Vernacolo” sardo. Un misto di sgomento, incredulità, poi di  indignazione – civile, prima ancora che politica – si avverte nel leggere la delibera del Senato accademico dell’Università di Sassari che, in quel fatidico 1982 (l’anno dell’arresto di Piliu), recepiva una sorta di ukase di stampo zarista, inviato dal Ministero della Pubblica Istruzione – allora retto dal democristiano “di sinistra” Guido Bodrato – contro due tesi di laurea in lingua sarda: ne era stato relatore lo stesso Piliu, professore di Esercitazioni di chimica. Di fronte ad un foltissimo pubblico si erano laureate con lui Emilia La Macchia (nel 1981) e Rosa Bassu (nell’anno successivo). Per tutta risposta docenti e studiosi al vertice dell’Ateneo turritano sottoscrivevano un documento che vietava le tesi “in dialetto”. Nel 1950 era comparsa a Berna l’opera classica di Max Leopold Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e forma. Ma per il Senato accademico non aveva parlato il grande scienziato tedesco; era come se avesse ragliato l’asino! La stessa delibera, per non ingenerare equivoci, accostava al termine “dialetto” quello di “vernacolo”, risultante, nel contesto, ancor più spregiativo: in questo caso anche fior di scienziati risultavano irrimediabilmente affetti da sensi di vergogna e di  terachia. Eppure Salvatore Piras, ordinario nella stessa Università di Istituzioni di diritto privato, appositamente interpellato da Bainzu, gli aveva detto che non esisteva una norma precisa che vietasse l’uso di un’altra lingua, a fianco dell’italiano (p. 89).

Mozioni per l’introduzione del sardo – come lingua obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado – erano state approvate nel 1971 e nel ’74 dalla Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari, dietro iniziativa dell’insigne archeologo Giovanni Lilliu e di Antonio Sanna, docente di linguistica sarda (p. 50). Inoltre, alla fine degli anni settanta, nell’aula magna dell’Università di Sassari, il Pci – partito in gran parte ostilissimo al bilinguismo giuridico – aveva organizzato un convegno in cui un ruolo di spicco era stato ricoperto da uno dei relatori, Tullio De Mauro, docente nell’Università di Roma e futuro ministro della Pubblica Istruzione. Questi aveva patrocinato una legge-quadro a favore delle minoranze linguistiche (Rom compresi) – in seguito non approvata per lo scioglimento delle Camere (intervenuto nel 1992) – ma diventata infine legge dello Stato (la 482). Tutte queste vicende non influivano minimamente sul Senato accademico dell’Ateneo turritano, che cadeva in una non casuale ottusità e nella totale subalternità, come si è detto, ad un ukase del Ministero (pp. 95-96).

Il pensiero corre inoltre alla sofferenza della famiglia Piliu quando leggiamo che il rettore Antonio Milella, proprio in quel cruciale 1982, sospese Bainzu a tempo indeterminato sia dal servizio che dallo stipendio.

 

Reati specifici e valenza politica dell’iter processuale. Carabinieri e magistratura si sono appoggiati a reati specifici e su queste basi hanno costruito anche altre accuse dall’incontestabile significato politico. In Corte d’Assise il pubblico ministero Walter Basilone afferma e ribadisce, nella sua requisitoria finale, che l’indipendenza della Sardegna può essere richiesta solo su un piano di generica, astratta utopia e che, nel passaggio ad una concreta agitazione, i sostenitori di tale istanza si pongono inevitabilmente contro la sicurezza dello Stato e contro la Costituzione. In quell’occasione il pm negò recisamente anche qualsiasi fondatezza giuridica del ricorso al referendum: sono dunque avvertiti coloro che intendono  praticare anche nell’isola quanto coraggiosamente si è fatto in Scozia ad opera del vastissimo ed articolato fronte indipendentista.

Prima ancora che di Piliu, gli inquirenti si occupano dell’autotrasportatore Salvatore Meloni, accusato di attentati contro un assessore di Terralba, contro l’edifico del Comune dello stesso centro e contro la compagnia di navigazione Tirrenia.

Com’è successo in  epoche storiche diverse e in svariati paesi, sotto i regimi più disparati, le forze dell’ordine mettono confidenti, provocatori, delatori, ruffiani e quant’altro a fianco di individui che, si suppone, siano prossimi a commettere reati, con l’intento di acchiappare il maggior numero possibile di delinquenti. Le polizie hanno sempre funzionato così, non dobbiamo certo meravigliarcene: numerosi sono gli esempi che si potrebbero addurre al riguardo. Ed ecco uno degli imputati, Felice Serpi, che esce dal comando militare della Sardegna, in una centralissima via di Cagliari, con un pacco pieno di esplosivo (dinamite!): sembra che aspetti solo il momento adatto alla cattura. Giampaolo Pisano risulta legato ai servizi segreti, come afferma il dirigente sindacale Salvatore Cubeddu e come ribadisce l’on. Mario Melis: e l’elenco potrebbe continuare. Il dirigente della Digos Antonio Pitea, diventato in seguito consigliere regionale del centro-destra (dove si era illuso di non avvertire fiaggu di illegalità), incontra a suo tempo Leo Talloru, pentito ed accusatore degli indipendentisti, durante la latitanza di quest’ultimo. Pitea afferma di non essere a conoscenza del primo di due mandati di cattura contro Talloru che, ad ogni buon conto, viene lasciato libero di muoversi a fianco degli indipendentisti (p. 177-178) .

 

Chi sono i giudici di Piliu? Basilone sostiene l’accusa con una foga tale che, trascorsi ormai tre anni dalla chiusura delle indagini e dal rinvio a giudizio, chiede di rubricare come strage l’attentato contro gli uffici cagliaritani della Tirrenia: ma un perito appositamente nominato depone che l’esplosivo utilizzato non poteva provocare qualcosa di così grave. Il presidente della Corte Carlo Piana deve intervenire più volte per mettere un argine alla straripante iniziativa del pm. Durante l’udienza di mercoledì 20 febbraio 1985, in un clima di esasperata tensione, il presidente gli impone addirittura di tacere: Basilone viene colpito da malore e deve abbandonare l’aula. La seduta è sospesa; al suo posto entra il sostituto procuratore Enrico Altieri ed il processo viene rinviato all’indomani. Il procuratore della Repubblica Giuseppe Testaverde dichiara di aver temuto che il collega Basilone venisse colto da infarto e aggiunge di aver conferito al riguardo col procuratore generale Giuseppe Villa Santa.

Sono alcuni degli uomini del “Caso Manuella”, dal nome dell’avvocato cagliaritano, della cui misteriosa scomparsa, nel relativo, clamoroso processo, furono accusati professionisti, commercianti e legali cagliaritani. Difensore di Bainzu, con Giuseppe Fadda, è un esponente di spicco del foro sardo, Aldo Marongiu (che ha sostituito un altro prestigioso penalista, Giannino Guiso). Infine, dopo due anni di reclusione, gli avvocati Giuseppe (Bepi) Podda, Sergio Viana e lo stesso Marongiu vengono totalmente scagionati da gravissime accuse: la scomparsa e il probabile assassinio di Gianfranco Manuella sembrano legati ad un vasto traffico di droga. Marongiu torna al suo lavoro, ma le vicissitudini del processo Manuella gli abbrevieranno la vita: colpito da tumore, morirà di lì a pochi anni. Nella foga di Basilone possiamo leggere, almeno in parte, l’anomalia del caso Manuella.

Per avere un’idea della logica che animava allora i vertici della magistratura isolana, sarà opportuno ricordare che, in una relazione d’apertura dell’anno giudiziario, Villa Santa dichiara minacciosamente che gli indipendentisti esasperano “pretese diversità di cultura e di tradizioni” (v. “L’Unione Sarda” del 13 gennaio 1983). Dunque queste “diversità” non sono, non devono essere più oggetto esclusivo di ricerche linguistiche, etnoantropologiche, di dibattito politico, ma sono destinate a finire sotto la lente dell’indagine giudiziaria.

In base alle confidenze dei pentiti, i carabinieri, in vista del processo contro Bainzu, stilano un rapporto informativo (solo in parte utilizzato dal giudice istruttore) nel quale si afferma che gruppi, associazioni ed organismi favorevoli all’introduzione del bilinguismo risultano coinvolti nel “progetto separatista”. È il contesto in cui matura l’attacco agli indipendentisti, senza il quale non possiamo capire il processo a Piliu. Nell’anno della sua detenzione, si suicidano a Buoncammino ben 12 detenuti, mentre 5 vengono salvati all’ultimo minuto. Risultato del “regime” instaurato anche da Villa Santa? Gli si può attribuire un energico richiamo al presidente Piana, dopo che questi in udienza aveva tolto la parola a Basilone? Forse c’è stata una  “strigliata”, ipotizza Bainzu, che ha costretto Piana ad “allinearsi”.

 

Silenzi e reticenze. Nel mondo sardista e indipendentista non c’è mai stata una riflessione approfondita su una vicenda giudiziaria nella quale i magistrati – per la prima volta nella storia della Repubblica – pongono al centro delle loro indagini la mozione del congresso di un partito: quello, per intenderci, organizzato e celebrato nel 1981 a Porto Torres dal Partito sardo d’azione, che aveva sancito la scelta in favore dell’indipendenza con maggiore consapevolezza e precisione (anche lessicale) rispetto alle decisioni emerse nell’assise di Oristano (1979); allora si era fatto un più generico – e contraddittorio – riferimento al principio di “autonomia statuale”. Gli interrogatori del giudice istruttore Mario Marchetti cominciarono da subito a vertere su quanto era stato deliberato nell’81; da lui, poi da Basilone, quanto era allora scaturito veniva considerato non libera espressione della base, di una dialettica magari conflittuale fra componenti diverse, fra vertici e base, ma come prodotto di trame oscure – che partivano dalla Sardegna per approdare alla Sicilia e soprattutto alla Libia – condotte con l’intervento e la mediazione di figure ambigue: l’avvocato siciliano Michele Papa ed il libico Mehemet Tabet Ageli. Peraltro nulla di concreto, a carico di tali personaggi, emergeva nei tre gradi di giudizio e nelle relative sentenze, attraverso cui passarono Bainzu ed altri indipendentisti, sempre accompagnati nelle aule giudiziarie da una schiera abbastanza consistente e variegata, come si è detto, di delatori e provocatori, legati anche ai servizi segreti dello Stato italiano.

Può piuttosto essere ascritto ad ingenuità e buona fede di Piliu la sua partecipazione ad una “festa siculo-libica” che si era svolta a Catania in quello stesso fatidico 1982.

Il rigetto. Ma il caso di Bainzu serve anche come cartina di tornasole per capire che una parte cospicua della dirigenza sardista – per il potere di cui disponeva all’interno del partito – non ha esitato un momento nello schierarsi in modo più o meno  esplicito con i carabinieri e con i giudici. Durante il processo Fulvio Grussu, membro del Comitato centrale del Psd’az, dichiara che alcuni imputati “manifestavano idee indipendentistiche, estremistiche, rivoluzionarie” e che uno di loro, Oreste Pili (condannato poi a 3 anni), si distingueva per un acceso “antiverticismo”. Ancora una volta la lotta interna ad un partito si sposta dalle sezioni verso un’aula giudiziaria e viene inglobata nella dimensione del “sorvegliare e punire”.

Il caso Piliu è da manuale e non si può comprendere senza i meccanismi di rigetto avviati, messi in funzione e ben oliati soprattutto dall’on. Nino Piretta, vicesindaco, assessore alle finanze del Comune di Sassari e vicepresidente del Consiglio regionale che, con altri dirigenti, mai avrebbe tollerato un ridimensionamento del proprio potere clientelare – con addentellati nella Massoneria – ad opera di un partito reso combattivo dall’opzione indipendentista. Troppi interessi in gioco, troppo consistenti le fette di dominio e controllo da spartire: il riferimento è alla Sacra Trimurti – il democristiano Piero Montresori, il socialista Marco Fumi e, per l’appunto, Piretta – che, con la più classica delle logiche trasversali, ha dominato l’edilizia (ma non solo) specialmente nella Sassari degli anni ottanta. Allora il capoluogo del Capo di Sopra divenne un grande laboratorio – in negativo, s’intende! – di accordi e manovre in grado di anticipare, per certi versi, la “Milano da bere” e Tangentopoli. Insomma, una volta tanto, Sassari e la Sardegna come centri; altro che arretrate, marginali periferie, come ci hanno più volte ripetuto Soloni e professorones de sa Universidade!

Infine Piretta, come sappiamo, fu arrestato. A questo punto, dalla lotta politica, dalla cronaca, dalla storia, sembra di passare alla lettura di un romanzo che però la fantasia più accesa – di un Marcello Fois, di un Flavio Soriga – forse non riuscirebbe ad immaginare ed architettare.

Dopo la detenzione, nel 1989, Piliu viene convocato all’ufficio matricola del carcere giudiziario di San Sebastiano in Sassari, dove gli sarà comunicato che, a tutti gli effetti, è ormai un uomo libero. Egli varca la porta della casa di reclusione e chi vede davanti a sé? Proprio Piretta, appena arrestato, pensate, quel Piretta che negli anni settanta aveva sempre disdegnato di incontrare Bainzu e che, d’accordo con gli altri dirigenti del Psd’az, lo aveva addirittura espulso: si ricordi che Piliu era diventato segretario della sezione sardista di Sassari, intitolata al mitico architetto Antonio Simon Mossa ed animata, fra gli altri, soprattutto da “Zampa” Marras. Cosa si dicono Bainzu e Piretta? Si scambiano un semplice “ciao!”. Ma il romanzo, che nessuno, forse, avrà mai l’ardire di scrivere, non finisce qui.

Nella vicenda processuale di Piretta si incontrano anche: una misteriosa cassaforte (contenente un “diamantino”) gettata a Porto Torres, nel mare di Balai, da qualcuno che voleva si risalisse al potente capo sardista; un attentato contro l’on. Melis che non voleva lasciare il seggio di eurodeputato a Strasburgo, cui Piretta puntava per garantirsi l’immunità; attentati a ripetizione contro Tino Poddighe, ex amico e socio di Piretta (con relativa condanna di quest’ultimo); la sua fuga e la  latitanza in Argentina; uno strano personaggio che pratica riti magici per impadronirsi di una consistente eredità. Proprio così: siamo di fronte a materia che sembra da romanzo, se non fossimo convinti che la realtà storico-politica supera di gran lunga la più sfrenata fantasia, anzi, la fantascienza!

Ancor oggi è possibile incontrare esponenti sardisti che, richiesti di un semplice parere sull’itinerario politico-processuale di Piliu, girano i tacchi e si allontanano; oppure ti rispondono tranquillamente che carabinieri e magistratura avevano ragione; e poi – aggiungono – Bainzu stava per impadronirsi del Psd’az! Tutto ciò è sostenuto da quanti sanno benissimo che egli era alla testa del Fis, Frùntene pro s’indipendèntzia de sa Sardigna, formato da pochi militanti. Il Fis, riconosce onestamente lo stesso Piliu, non aveva le forze per presentari da solo alle elezioni: nel 1983 fu Democrazia proletaria sarda che propose a Bainzu di essere capolista per l’elezione della Camera dei deputati; non fu eletto, ma ottenne oltre 4.800 preferenze, una cifra non da poco (partecipai attivamente alla campagna elettorale in suo favore).

Lo scioglimento del Moimentu de su Pòpulu Sardu – organizzazione nuova ed originale, che aveva dato un notevole apporto alle lotte di quegli anni  – e la confluenza di una parte dei suoi militanti nel Psd’az contribuì purtroppo a condizionare ed a frenare una parte del mondo indipendentista che non partecipò attivamente alla campagna per la liberazione di Piliu. Tutto questo ci aiuta a capire che non a caso carabinieri e magistratura avevano individuato in Bainzu e nella sua organizzazione l’anello debole di una catena: sulla base di questo convincimento, essi colpirono sena piedade peruna. Marchetti e Basilone tuttavia volevano andare oltre perché ritenevano che i vertici sardisti fossero al corrente del “complotto separatista”. Mirarono cioè a Bainzu e ad altri per poi risalire a tutto il Psd’az.

 

Prese di posizione di non “allineati e coperti”. Scrivemmo allora un appello che richiamava l’attenzione della società isolana sui pericoli derivanti dalla criminalizzazione di determinate idee e che comparve sui quotidiani isolani il 24 dicembre 1982: venne firmato da alcuni intellettuali coraggiosi, fra cui rammento il compianto Leonardo Sole. Ricordo anche la conferenza sul tema: “L’arresto degli indipendentisti: aspetti politici e giuridici”, relatore Paolo Fois, professore di Diritto internazionale nell’Università di Sassari. Ad essa seguì: “Indipendenza ed autonomia. Quali convergenze?” – in un’aula magna dell’Ateneo turritano ugualmente gremita (come per il precedente incontro) – che venne introdotta dallo stesso Fois e da Alberto Azzena, docente nell’Università di Pisa. Entrambi gli appuntamenti erano stati organizzati dalla Cooperativa “Iniziative culturali”, presieduta dalla carissima e compianta Rina Fancellu Pigliaru ed animata da Giuseppe Doneddu, Nennella Masia, Alberto Merler, Antonello Ruzzu, Simone Sechi, Lucia Tavera ed altri fra cui il sottoscritto. Allora l’obiettivo della Cooperativa consistette non nel dare vita ad un improbabile confronto fra innocentisti e colpevolisti, ma nel richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’estrema problematicità di concetti e problemi di cui invece pretendevano di occuparsi carabinieri e giudici. Sarà infine doveroso ricordare che la Polizia ed il questore di Sassari Cesare Palermi vennero tenuti fuori dalla vicenda giudiziaria e processuale (lo ha ricordato Pier Giorgio Pinna de “La Nuova Sardegna” alla presentazione del libro di Piliu nell’aula magna dell’Università di Sassari).

In definitiva un’opera come Cella n. 21 può contribuire a suscitare un nuovo esame della complessa vicenda e dei nodi politici ad essa sottesi, favorendo così la ripresa del lungo, difficile cammino della Sardegna verso la propria, completa liberazione socioeconomica e politico-istituzionale. È quanto si augura Bainzu; e noi con lui!

Per approfondire

Francioni, Federico, Il processo agli indipendentisti, in “Ichnusa-Rivista della Sardegna”, n. 3-4, agosto 1983 / febbraio 1984, pp. 22-26.

 

Id., Fra centro e periferie, in “Antigone”, trimestrale di critica dell’emergenza (direttore Luigi Manconi), n. 3 / 4, estate-autunno 1985, pp. 44-45.

 

Olita, Ottavio, Vite devastate. Il caso Manuella. Una storia di depistaggi, Edes, Cagliari, 1995.

 

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