La terra infelice dei campi incolti, di Piera Serusi

Da L’UNIONE SARDA: 26.09.2014

Quello che in Sardegna non si dice: sui campi incolti della Sardegna hanno messo gli occhi i coltivatori di cardi per la cosiddetta chimica verde di P. Torres, Macchiareddu, Chilivani, P. Vesme, ad iniziare  dalla Matrica e dai suoi amici  presenti al governo della Regione. I proprietari di terreni – l’operazione è in pieno svolgimento – vengono avvicinati da intermediari, spesso non sardi, per affittare i terreni alla grande industria. La disoccupazione operaia e la crisi dell’agricoltura vengono utilizzati dal ceto politico e da quello  sindacale (dei chimici)  con l’effetto dell’occupazione straniera delle terre dell’interno della Sardegna. Nuova (e definitiva?) forma di colonialismo. E poi si chiacchiera di sovranità alimentare…(S. C.).

 

Nella terra del deserto industriale, con le ciminiere un tempo allegre e oggi spente, e vastissime aree da bonificare, e migliaia di operai in cassa integrazione perlopiù rassegnati a un futuro da disoccupati – c’è un milione di ettari di campi fertili non coltivati. Una distesa abbandonata all’avanzare della macchia mediterranea e agli sterpi, in una regione che importa l’80 per cento di quel che tutti i giorni si mette a tavola. Una regione dove, per un effetto concomitante e perverso tra la crisi e certi premi comunitari, col tempo sono andate perse vaste coltivazioni, di vite e barbabietola per esempio. L’ARRETRATEZZA Si parla sempre del disastro della grande industria, ma quanto a disperazione nel mondo delle campagne non sono messi meglio. Dal 2011 più di tremila agricoltori hanno cancellato il proprio nome dall’albo delle imprese; ma delle quasi 35 mila aziende che ancora resistono, il 12 per cento dichiara zero addetti, più della metà ne denuncia uno soltanto, e solo 13 su cento hanno più di due dipendenti. «È uno dei problemi del settore, assieme alla scarsa propensione all’associativismo e al mancato riordino fondiario che ha determinato una forte frantumazione dei terreni e delle imprese», avvisa Raffaele Lecca, segretario regionale Flai-Cgil. Il tutto in una condizione di grande arretratezza – altissimo costo dell’acqua, strade rurali impercorribili, salti ancora non coperti dalla rete elettrica – che diventa ancora più scandalosa se si pensa che del Programma di sviluppo rurale 2007-2013 è stato speso appena un terzo dei fondi a disposizione. È il risultato di una mancata programmazione regionale, l’assenza di una strategia che deve per forza poggiare i piedi su una visione del futuro di questa terra e su un progetto a lungo termine. «Si deve partire da un dato: il fallimento del modello di sviluppo che ha portato la Sardegna a questo punto». Il sindacalista non lo dice, ma il pensiero corre alle ciminiere spente del petrolchimico e dell’industria tessile, alle paure degli operai Alcoa, alle miniere chiuse. «È sul marchio Sardegna che bisogna puntare – sottolinea – investendo sull’agricoltura, sulla filiera dell’agroalimentare, sulle bonifiche». E ora che dal 2014 al 2020 l’isola ha a disposizione fondi comunitari per cinque miliardi di euro, non possiamo perdere l’ultimo treno. «Queste risorse – avverte il segretario Flai-Cgil – devono essere impegnate per sostenere il tessuto produttivo sardo. La Giunta regionale deve adottare scelte coraggiose, non possiamo più fare gli errori del passato». GLI ERRORI SI PAGANO Il passato presenta comunque il conto, piuttosto salato. Solo per fare qualche esempio, un settore suinicolo a rischio per via della peste suina (emergenza mai affrontata), con molte aziende già chiuse e altre in affanno – quando in Sardegna siamo costretti a importare più del 60 per cento di carne di maiale per il fabbisogno locale. E che dire della miriade di piccole fabbriche di trasformazione dei prodotti alimentari falcidiate dalla crisi? «Mancano le politiche di filiera», sintetizza Gabriele Virdis, responsabile Flai-Cgil per il Medio Campidano. Racconta che nel suo territorio, dove la disoccupazione tocca punte del 27 per cento, hanno chiuso la maggior parte delle ditte che lavoravano carciofi, asparagi, bottarga, tonno. Imprese nate coi fondi della 488 e soprattutto dei Patti verdi. «L’agricoltura è l’unica risorsa sulla quale dobbiamo puntare, ma solo se si lavora per coprire tutta la filiera, dal campo al prodotto finito e confezionato – puntualizza -. E invece, solo per fare qualche esempio, siamo l’isola che ha un grande patrimonio di ovini e importa tutto il mangime; siamo quelli che produciamo un ottimo torrone e compriamo da fuori la metà del miele, le mandorle e le nocciole». È sul «fare sistema» che occorre puntare. «Tocca alla Regione – dice Raffaele Lecca – mettere attorno a un tavolo tutti gli interlocutori, a cominciare dalle associazioni». LA CAPRA FELICE Prima che il sogno si avveri, a fare sistema ci stanno provando nella zona industriale di Villagrande. Qui, negli stabilimenti di Amalattea Galydhà – leader nazionale per i derivati del latte di capra ora in partnership con il colosso internazionale Granarolo – vengono lavorati 10 milioni di litri di latte, di cui soltanto un quarto è prodotto in Sardegna e il resto arriva perlopiù da Spagna e Olanda. Il punto è che, manco a dirlo – in un tempo in cui la domanda di mercato è cresciuta vertiginosamente anche per via della diffusione delle allergie alimentari – non c’è una produzione di materia prima all’altezza della richiesta; e dei 123 allevatori che conferiscono il latte, giusto dieci (finora) hanno aderito al progetto di filiera. «Capre allevate in stalla con criteri razionali – spiega Maurizio Sperati, amministratore delegato del gruppo Amalattea -. Ne abbiamo 5.500 in Ogliastra e altre 2 mila nel resto dell’isola». Si punta, inutile sottolinearlo, a incrementarne il numero poiché – considerati gli spazi di mercato e l’accordo con Granarolo che porta i prodotti col marchio ogliastrino Galydhà sugli scaffali dei più grandi centri commerciali – si vorrebbe raddoppiare la produzione. IL DEPURATORE NON PARTE Invece non si può e indovinate perché. Perché il depuratore comunale ancora non è entrato in funzione. «Avremmo bisogno di depurare almeno 100 metri cubi di acqua e invece – spiega Maurizio Sperati -, per il momento col nostro impianto possiamo trattarne la metà». Anche per questo motivo (nonché per la questione della strada d’accesso allo stabilimento talmente dissestata che impediva il passaggio dei tir) tutto il reparto imbottigliamento è stato trasferito nella penisola, col risultato che sette dipendenti (l’azienda ne occupa 25) sono stati messi in mobilità. «Sa che cosa mi sembra incredibile? Che in una regione come questa, che potrebbe vivere di agrindustria e di turismo, la politica continui a fare gazzosa e a pensare all’industria pesante, al passato che è morto. Com’è che ancora non si capisce quant’è prezioso il marchio Sardegna?».

 

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