La cittadinanza onoraria di Cagliari al rettor maggiore dei salesiani deliberata dal Consiglio comunale. Qualche opinione di don Bosco, di Gianfranco Murtas

Mi sono immaginato don Giovanni Bosco in giro per Cagliari, un po’ in strada, un po’ nelle scuole e nei campi sportivi – là dove soprattutto sono i bambini ed i ragazzi –, e in ogni altro centro di aggregazione, nelle associazioni ma prima di tutto nelle famiglie, e anche nelle parrocchie, magari in qualche reparto d’ospedale, poi su, fra i maggiori, nelle facoltà dell’Università e, dato il bel tempo di questo passaggio stagionale, anche al Poetto. Di mattina anche in qualche negozio – vendevano tutti disoccupazione però ed erano vuoti di vita –, più tardi, di sera, anche in piazzetta Savoia e qua e là dove sono sorti, nei quartieri-città del tempo del Dittamondo, i pub all’aperto. Mezz’ora, alla Marina, al campetto ecumenico di Sant’Eulalia, per una raccolta rapida di notizie e anche suggestioni da don Cugusi e don Lai. Anche in qualcuna delle case definite “press’a poco” – un bel sinonimo – che la Caritas sta cercando di raddrizzare. Lui curioso di conoscere le nostre cose, le nostre novità, non qui per dettare regole omnibus e salvifiche, o per spiegare la teologia («Altri tempi quelli degli scontri di dottrina, me ne son anche pentito, contro anche l’unità d’Italia», mi ha detto in un soffio che era sofferenza visibile, ammettendo finalmente di aver sviluppato simpatia «per i protestanti e i liberali»). Semmai per vedere se i suoi indirizzi avessero trovato, e come, attuazione da noi, se i suoi preti e cooperatori e suore ecc. in un secolo e passa di presenza in città, nella città-regione, avessero onorato la maglia, o si fossero ridotti anch’essi al rango di impiegati del sacro, burocrati dei budget, e gli ex allievi saliti nella scala sociale si fossero abituati al mestiere di collezionisti di maxipensioni e prebende invece che a quello di investitori in socialità, pagandola di tasca la socialità e non chiedendo al Comune di mettere a disposizione le risorse, perché «poi si vedrà». Un salto anche a San Paolo, un po’ bene e un po’ male, mi è sembrato  di capire dalla mobilità del viso, degli occhi e delle labbra chiuse. E’ stato il momento in cui, a me repubblicano piuttosto rigorista, ha fatto una confidenza: la prima fino a quel momento. «Mai chiedere denaro alle casse pubbliche per fare. Fare senza chiedere nulla alle istituzioni, ma alla gente. Tutto quello che abbiamo fatto non è nostro, è della comunità, e neppure della comunità credente, della comunità civile piuttosto, che riunisce questi e quelli: da questue, quante questue anche a Cagliari! sono venuti l’oratorio e l’istituto di viale Fra Ignazio cento anni fa, e quella parrocchia, e quel centro, e quell’asilo… Interpretando il bisogno sociale. Le istituzioni si sono aggiunte, hanno fatto la loro parte, giustamente, non hanno però sostituito la gente, ci hanno dato una mano in più, ma avremmo fatto comunque. Noi non siamo padroni di nulla. Tutto noi amministriamo – e credo non l’abbiamo fatto sempre al meglio, al centro del centro poi è un pasticcio colossale – per un utile sociale, non siamo padroni di nulla e non chiederemo un euro al sindaco né al presidente della Regione per quanto possa necessitare alla nostra Opera, se non quanto serve per il più che supera il tetto del nostro lavoro. Non siamo salesiani per nulla, mica siamo appaltatori di un servizio comunale. L’Opera si realizza con la nostra fatica e l’aiuto popolare sempre e comunque, per la missione che ci siamo dati e che sarà riconosciuta e premiata dalla gente. La Provvidenza non è un salvadanaio pubblico, è il cuore della gente». (Gli dico allora che in Sardegna c’è, a fare il salesiano così, un francescano, padre Morittu, che ha rinunciato alle rette pubbliche pur di gestire con criterio libero, ma pur sempre responsabile oltreché competente, le sue comunità. «Se si vuole, si può, sempre», commenta don Bosco).

Simpatico don Bosco, non lo conoscevo bene. L’ho accompagnato, pedibus calcantibus, qua e là. Voleva un laico cristiano che chiamano massone – perché una casacca bisogna pur mettergliela, e quella massonica in verità è anche di prestigio – al suo fianco, ricordando incomprensioni antiche  e reciproche. Un laico per quel grammo in più che gli apparenti avversari (e sono invece leali compagni di tragitto) hanno di libertà espositiva e anche dubitativa. Domande, domande, voleva conoscere:  mai visto un leader religioso come lui venuto qui da noi soltanto a fare domande, anche sui minori non accompagnati, se e quanti, e in quali condizioni, qui da noi… E ieri mercoledì 24 settembre me lo sono io accompagnato, a mezzo pomeriggio, nell’aula grande di palazzo Bacaredda in muto ascolto della discussione consiliare per il conferimento della cittadinanza onoraria al suo decimo successore, don Artime spagnolo delle Asturie. Nei banchi a lato, lui con i sindaci della catena storica, da Bacaredda e Picinelli a Marcello e Nobilioni e Dessì Deliperi, a Tredici ed Endrich e Cao e Prunas pure – bravi cattolici concordatari che s’infischiavano però della democrazia in catene e della tubercolosi imposta nelle celle agli oppositori politici –, e a Cesarino Pintus lui tubercolotico invece, a Crespellani, a Leo e Palomba, a Peretti e Brotzu e Paolo De Magistris, ai successivi Lai, Fanti e Murtas, Ferrara, De Sotgiu e Di Martino, Dal Cortivo e Giua, ed ai recenti Delogu e Floris, e anche a quelli di un minuto soltanto come Follese e Michele Columbu, e ai molti, forse troppi commissari prefettizi che pure hanno cercato di lavorare, chissà se riuscendovi, per il bene di tutti.

Il Consiglio comunale di Cagliari ieri 24 settembre alle ore 18 e qualche minuto ha deliberato il conferimento della cittadinanza onoraria a don Angel Fernandez Artime, rettor maggiore della comunione salesiana, decimo successore di don Giovanni Bosco che me l’ha descritto come un tipo gagliardo, buon conoscitore del papa gesuita fin dai tempi della comune missione argentina, spirituale e insieme pragmatico, operativo, molto amato da chi lo conosce e frequenta. Egli è atteso a Cagliari nel secondo fine settimana del prossimo ottobre per concludere l’anno celebrativo del centenario della presenza salesiana a Cagliari. Allora il sindaco e la rappresentanza consiliare insieme lo faranno cagliaritano a tutti gli effetti. Attraverso lui anche don Bosco diventa, per risalita, cagliaritano, sistemando quella partita inauguratasi prima che lui, don Bosco, fosse don Bosco: perché – come mi ha raccontato giorni fa l’ottimo presidente dell’ala giovane degli ex allievi, Andrea Giulio Pirastu che ha frugato con passione e valore nelle carte dell’Opera e anche in quelle del Municipio –, fin dal 1834, quando cioè il diciannovenne piemontese d’Asti pensava di farsi francescano, a Cagliari c’era qualcuno che già pensava salesiano, tanto da intitolare a San Francesco di Sales vescovo ginevrino un ospedaletto a Castello…  Che storie!

Offrendo a lui la cittadinanza onoraria cagliaritana, la rappresentanza municipale – espressasi alla unanimità: 35 voti su 35 presenti – ha inteso proprio riconoscere il merito civico e sociale, perché pedagogico, scolastico, oratoriale, sportivo, della società religiosa quale si è espresso, nel concreto, lungo la successione di ben quattro generazioni e, può anche dirsi, nello sconvolgimento storico dei regimi politici e del costume sociale . Allo stesso modo – per iniziativa del Consiglio comunale (non del sindaco Zedda, rivelatosi allora impari al compito, apripista invece i consiglieri Lobina e Portoghese) – si provvide due anni fa, onorandone le fatiche quotidiane, per don Mario Cugusi parroco di Sant’Eulalia e anche lui educatore, soprattutto educatore e promotore di cultura nel quartiere storico della Marina.

Cagliari che ambisce al riconoscimento di capitale europea della cultura nel 2019 ha da guardarsi dentro e dal suo vissuto collettivo sa di poter trarre molti elementi di benemerenza che rimandano a uno sviluppo civile sostenuto proprio dai fattori educativi declinati scolastici, ludici, sportivi – tutti intimamente virtuosi – che famiglie religiose hanno immesso nel circuito della socialità, cioè della partecipazione e della condivisione, per l’amalgama umanitario e, appunto, civico.

E’ stato indubbiamente per l’intervento intelligente e competente di alcuni – così nell’Opera di don Bosco come nella nostra istituzione municipale – che alla delibera di cui ho detto si è pervenuti. Se ne potrebbe fare la storia perché, al di là del fatto occasionale, c’è sostanza che esige, a mio avviso, evidenziare.

Don Sergio Nuccitelli, direttore dell’istituto di viale Fra Ignazio, dopo contatti informali con il sindaco, nella scorsa estate, ha ufficializzato e motivato la richiesta della cittadinanza onoraria per il leader della sua famiglia religiosa. A lui si è affiancato, con autonoma ma convergente iniziativa, il presidente della componente giovanile degli ex-allievi, Andrea Giulio Pirastu, che è poi il vero protagonista – insieme con il consigliere Guido Portoghese – dell’intera vicenda. Perché dagli ex allievi è venuta una più particolareggiata delineazione di quanto la presenza salesiana abbia inciso nel vissuto cittadino di un secolo, partendo dai programmi  lanciati dal primo successore di don Bosco, il beato don Rua – che fu  a Cagliari nel 1902, dove celebrò nella chiesa di Sant’Antonio abate di via Manno (quella stessa in cui nel 1921 avrebbe parlato monsignor Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII). E, unitamente a don Rua, da un minuto prete non salesiano ma diocesano, allora giovanissimo, che per cinquant’anni sarebbe stato parroco a Sant’Anna: don Mario Piu. Il quale, ricordando «il deplorevole abbandono nel quale si trova[va] un gran numero di figli del popolo», di essi diceva che, «coltivati a tempo e ben educati», sarebbero potuti «crescere onesti e utili alla società, anziché andare a popolare le carceri». Ecco infatti la missione salesiana com’egli la avvertiva e rilanciava: «il bene della gioventù, ma specialmente dei poveri. A loro vantaggio si apriranno scuole gratuite e un ricreatorio».

In un bellissimo articolo uscito anni fa sull’Almanacco di Cagliari, il professor Antonio Romagnino – nostro indimenticato Defensor Karalis – evocava il contesto sociale nel quale l’Opera entrava, discreta ma concreta, e rispondente in quel principio di secolo. Era la Cagliari de is allegronis, de is picciocus de crobi, dei teppistelli di quartiere anche, «spesso scambiati per un piacevole elemento di folclore», i quali «erano invece uno dei più tristi aspetti delle miserie sociali della città». Ecco dunque Romagnino ricordare l’esordio dell’Opera, i suoi scopi, il suo metodo educativo e sociale, in una città che all’inizio del Novecento era «priva di istituzioni di qualsiasi genere» – dico istituzioni di accoglienza e accompagnamento formativo. (Presto si sarebbe aggiunta, alla Marina, suor Giuseppina Nicoli, avendo in suor Teresa Tambelli una degnissima continuatrice, a favore dei giovani e giovanissimi; su altri fronti ecco, in parallelo temporale, l’attività di dottor Virgilio Angioni… I meriti sociali della Chiesa cagliaritana!).

Ricordo qui fra parentesi, perché frutto di una ricerca che compii anni fa celebrando il novantesimo della nascita di Francesco Alziator e Giuseppe Dessì venuti al mondo entrambi nel 1909, che in quell’anno – proprio quando cominciava ad erigersi il cantiere di viale Fra Ignazio – qualcuno promosse un ricreatorio minorile laico, intitolandolo a Francesco Cocco Ortu, allora ministro dell’economia di un governo Giolitti, dopo esser stato anche guardasigilli. Ma era ancora poco, troppo poco. E le società sportive prendevano gli adolescenti, non i bambini. Mentre le scuole erano disertate ancora alla grande, seppure gli sforzi dell’Amministrazione non mancassero e coltivassero intanto, in ogni modo, i cinquemila circa presenti in aula tutte le mattine (il doppio che dieci anni prima).

L’obiettivo della lotta all’analfabetismo – sceso nell’Isola, nel primo decennio del secolo, di una decina di punti, dall’82 al 71 per cento – coinvolgeva pienamente il capoluogo. Nel bilancio comunale un 20 per cento era destinato a sostenere l’istruzione primaria. Lavoravano nelle diverse sedi delle elementari cittadine 73 fra maestri e maestre, e l’organico era in continuo incremento , così come era incoraggiato dal Comune il patronato scolastico, alimentato anche dai buoni borghesi dei molti commerci cittadini: funzionava già da sei-sette anni, in quel compimento del primo decennio del Novecento, la refezione quotidiana dei bambini, il che aveva favorito senz’altro l’estensione della scolarizzazione (le razioni distribuite erano nell’ordine delle 150mila all’anno). Così come crescente era il numero degli alunni sussidiati con libri di testo ora nell’ordine dei 1.500, o con scarpe nell’ordine dei 250, o con refezione nell’ordine dei 2.000. Scuole in ogni quartiere, il quel primo decennio del Novecento, in una città che era essa stessa tutto un cantiere. E non senza tensioni tra lavoratori residenti e altri dell’hinterland o della provincia, e perfino, talvolta, i forzati di San Bartolomeo: ecco finalmente funzionanti i nuovi plessi di Sant’Avendrace e di  via Carmine, e al bastioncino… Finanziato e presto operativo anche l’edificio di Villanova.

Gli sforzi della nuova Amministrazione Bacaredda – quella che esordì nell’autunno 1911 – , dopo l’operato delle  giunte Nobilioni e, prima ancora, Marcello, erano reali. L’iniziativa salesiana sposava questo fervore di iniziative, aggiungendo semmai qualcosa di originale, che era il modello della pedagogia ottimista e creativa elaborata nelle periferie torinesi,e particolarmente allettante per quelli che ancora resistevano alle chiamate del Comune, magari per ché senza famiglia, o con famiglie squinternate e irresponsabili.

Scrive Romagnino: «Proprio a questa gioventù riottosa si rivolgeva il programma educativo di don Bosco che si basava su principi ancora oggi profondamente attuali. “Certi educatori – sosteneva il fondatore dell’Opera Salesiana – con il pretesto di dover domare una natura ribelle, si ostinano a piegare la volontà con mezzi violenti, e così, invece di raddrizzarla, la distruggono”. L’affermazione calzava a pennello anche per le bande di giovani teppisti che infestavano Cagliari nei primi anni del Novecento, protagonisti di risse violente, alimentate da un artificiale spirito di quartiere che metteva Stampace contro Castello o la Marina contro Villanova».  Ecco: «l’oratorio avrebbe gettato acqua sul fuoco di quelle giovanili esuberanze».

Si partì con l’oratorio, ci si allargò con le scuole. Poi, nel 1914 – giusto cento anni fa, il mese era ottobre – toccò all’oratorio festivo, per il quale l’avviso lanciato da don Matteo Ottonello «ai padri ad alle madri di famiglia della Citta di Cagliari», era chiaro: «tutti i giovani, tutti i fanciulli di qualunque grado e condizione, di età non inferiore ai sette anni» costituivano l’utenza più naturale. Con una precisazione: «si dà tuttavia la preferenza ai più abbandonati ed ai più ignoranti avendo essi maggior bisogno dell’altrui assistenza».

Certo la società, il mondo, e anche la nostra Cagliari di oggi non sono una replica passiva di quel che erano cento anni fa, alla vigilia della grande guerra. Ma le povertà ci sono comunque, diverse sì ma non meno reali di quelle di un tempo, e don Bosco, come Nostro Signore, non cambia argomento, facendo dei suoi  dei puri appaltatori (a stipendio) dei servizi comunali invece che, ancora e sempre, dei volontari totali e permanenti. Ci si è messo poi di mezzo anche papa Bergoglio, di recente, invitando le compagnie religiose a riempire di poveri, o nuovi poveri, conventi e istituti ormai vuoti di preti e frati e suore. Ce n’era e ce n’è anche per i salesiani di oggi, inclusi i cagliaritani festeggianti il loro centenario. In coscienza ognuno può prendersi il suo (intendo il suo richiamo), senza sollecitazioni.

Torno alla cittadinanza onoraria deliberata per il reverendo Angel Fernandez Artime. Dunque gli ex allievi – anziani e giovani – hanno detto la loro, motivando al Comune il perché un tale atto amministrativo meritava di essere adottato. Hanno cercato, giustamente, un contatto con quanti più consiglieri è stato loro possibile raggiungere, di ogni orientamento politico. Hanno anche proposto un testo-base – steso per dovere d’ufficio (ma non solo) da Andrea Giulio Pirastu – che potesse valere come concentrato motivazionale in vista di una mozione che dieci consiglieri avrebbero potuto sottoscrivere indirizzandola al sindaco. Doveva trattarsi – così era scritto in quella bozza – di un documento che i consiglieri più pronti o più disponibili avrebbero dovuto coltivare, eventualmente arricchendolo di note e aggiustamenti ritenuti opportuni, in ordine alfabetico. Proprio per non dare a nessuno una benemerenza puramente strumentale. Perché la Chiesa non è cosa da strumentalizzare. Perché l’umanitarismo non è cosa da strumentalizzare. Perché la promozione civica non è cosa da strumentalizzare.

Naturalmente alcuni consiglieri – che sono poi quelli che più e meglio hanno operato nella circostanza – hanno compreso e sono stati leali alla consegna, mentre un altro consigliere, democristiano berlusconiano, se n’è infischiato appropriandosi della cosa e, firmandosela in proprio, la depositava agli uffici in bella solitudine. Quando si dice – e io lo dico da ventuno anni tutti i giorni, mattina e sera – che forza italia è stata una pena ingiustamente punitiva (un supplizio) per una patria pur difettosa, proprio per la debolezza del suo costume pubblico e la mancanza di senso dello Stato, può trovarsi anche in questo minimo episodio ragioni dimostrative supplementari.

E’ stata una bella mossa, abile tatticamente ma soprattutto corretta sul piano istituzionale e completamente dentro lo spirito della iniziativa, quella dei consiglieri che, lungi dal metter cappello sul foglio e sorridere al fotografo, hanno lavorato non per la vetrina ma per la causa: coinvolgendo tutta l’assemblea, raccogliendo anzi riunendo la firma di oltre i due terzi del Consiglio, come anche recita da delibera votata ieri. Si sono sentiti gli argomenti, arricchiti di esperienza personale, portati da Guido Portoghese, Giuseppe Andreozzi, Renato Serra, Ferdinando Secchi e, prima del sindaco, Aurelio Lai anche, che in modo disperatamente diplomatico ha sottolineato quanto ancora delle potenzialità salesiane potesse tradursi in realtà a favore dei più disagiati, come alle origini era.

Questa bella, bellissima delibera consigliare nasce da una intesa virtuosa fra un settore della società civile e l’istituzione municipale, passando per la mediazione della rappresentanza. Ecco il valore della operazione. Nel concreto, dall’associazionismo giovanile, e dal suo ottimo presidente, è venuto, dritto dritto per la commissione Affari Generali del Consiglio, un altro promemoria, un nuovo supporto di valore storico-documentario utile alle valutazioni dell’intera aula. In esso è entrato molto di quanto emerso, in queste ultime settimane, dagli scavi compiuti nell’archivio dell’Opera. In esso i giovani ex allievi si sono mobilitati a cercare, ricostruire, interpretare, non senza difficoltà, anche per contribuire originalmente ad un libro di imminente uscita , che riepiloga, grazie alla partecipazione anche di numerosi studiosi, le vicende salesiane dell’intero secolo (che sono poi, per molti versi, le stesse cittadine del lungo periodo). Perché anche dietro la confezione del libro che presto avremo fra le mani, oltre che dietro la pratica della cittadinanza onoraria, c’è lo studio delle carte. L’archivio salesiano di Cagliari è ricchissimo, per fortuna. Merito di chi ha avuto, a suo tempo, anzi nella sequenza dei tempi, lucida percezione della importanza di un deposito documentario. I giovani che hanno da poco lasciato il liceo e sono ora impegnati nei loro studi universitari, stanno riordinando spessi faldoni, utili ad una più larga fruizione, speriamo pure all’allestimento di una mostra permanente. E anche, perché questo s’è annunciato da parte del presidente Pirastu, ad un cortometraggio di cui egli stesso con i suoi colleghi ed il coinvolgimento di alcuni volontari delle ultime classi del liceo, ha abbozzato già il canovaccio.

Se la cronaca non pareggia, in quanto a nobiltà, la storia – ecco la mia opinione – , certo è nello spirito salesiano la ripresa, il rilancio tutto sociale che la circostanza di calendario suggerisce. Sposando la socialità alla cultura, e la cultura alla socialità, anche in vista del riconoscimento di Cagliari come capitale europea della cultura 2019. Con tutta gratuità ci si attende dai salesiani cagliaritani un nuovo incipit: quello del secondo centenario. In adesione all’invito di papa Bergoglio e in perfetta applicazione/imitazione del «fare come faceva il Fondatore», che è il motto carismatico del nuovo rettor maggiore, ormai cagliaritano come cagliaritano è chi scrive, ecco quel che i salesiani sapranno donare a Cagliari in questo scorcio di 2014: un supplementare conferimento  di energie e di strumenti per l’accoglienza ai giovani in difficoltà alloggiativa e poveri di mezzi, e il supporto ai loro studi. Dono alla comunità cittadina, secondo le linee della migliore tradizione dell’Opera

 

Condividi su:

    Comments are closed.