Salvare l’Italia a costo della Sardegna, di Nicolò Migheli

Questo articolo è già stato pubblicato nel sito www.sardegnasoprattutto.it, il 26.06.14.

Raccontano che un contadino disperato perché gli storni gli mangiavano le ciliegie finì col rivolgersi ad un prete perché facesse un esorcismo. Il sacerdote prese un biglietto e scrisse “Deo seo predi Zurru, ministru de Santa Romana Ecclesia e naro a tie o isturru: no ti che papes sa cheresia”, poi invitò il contadino ad appendere il biglietto nel ramo più alto del ciliegio. L’uomo fiducioso eseguì. Lo storno lesse lo scongiuro, intinse il becco in un frutto maturo e vergò la risposta:”Deo seo s’isturru e mi mandigo sa cheresia: afanculu a predi Zurru ministru de Romana Ecclesia!”.

Il linguaggio dello Stato non sarà così diretto e insultante, ma se la riforma costituzionale in discussione al Senato verrà approvata, le richieste dei Sardi faranno simile fine. Non è che negli anni dell’autonomia sia stato molto diverso. I tavoli e i “Ne terremo conto” si sono susseguiti, ma lo statuto regionale, benché inattuato, ha avuto una cornice costituzionale in cui far valere le proprie ragioni. Non sarà più così. Ci sarà una suddivisone perfetta delle materie concorrenti, tra le tante istruzione, ambiente ed energia che torneranno allo Stato.

Le regioni autonome verranno svuotate perché si sta proponendo che gli statuti vengano adeguati in tempi brevi al nuovo quadro costituzionale. Se ciò non avverrà sarà lo Stato a farlo. L’unico statuto che forse non verrà riformato sarà quello della Provincia Autonoma di Bolzano perché figlio degli accordi internazionali sul Sud Tirolo. Per il resto d’Italia è la fine di qualsiasi concezione contrattualistica dei rapporti tra centro e periferia. Un neo centralismo in cui le decisioni verranno prese a Roma. Lo stesso Senato dei Cento, rispecchierà i rapporti di forza demografici e la Sardegna con solo il 2,6% del corpo elettorale è condannata ad un destino di irrilevanza.

Deciderà Roma in funzione delle proprie esigenze e tornaconti. Ad esempio se non volessimo un sistema di rigassificatori non potremmo opporci, quelle infrastrutture potrebbero essere dichiarate di interesse strategico e presidiate dall’esercito. Lo Stato lo ha già fatto con la TAV e con le discariche campane. Le stesse servitù militari potrebbero essere addirittura accresciute, per il medesimo motivo. Così come diventerà impossibile richiedere una Agenzia sarda delle entrate. Benché la Ue riconosca una rappresentanza multilivello, in Italia vi saranno solo decisioni centralizzate. Il discredito della politica, la campagna di stampa sugli sprechi hanno prodotto una delegittimazione delle istituzioni intermedie. Nessuna sorpresa, Renzi nelle sue dichiarazioni programmatiche aveva annunciato quello che si sta realizzando.

Dai giornali importanti giunge un appoggio alle riforme e le regioni autonome, per loro, non hanno più ragione d’essere. La stessa specialità della Sardegna se motivata unicamente con il sacrificio di circa sessantamila giovani nella Prima guerra mondiale è ormai superata, sono trascorsi cento anni. È evidente che i motivi devono essere altri, l’essere nazione differente con lingua propria, il primo su tutti. Benché l’autoconsapevolezza dei Sardi sia cresciuta, il riconoscimento di nazione non è così immediato. In Italia domina la retorica della nazione italiana come unica possibile. Siamo dominati da un monolinguismo paranoico che vive come attentato all’unità qualsiasi altra lingua che non sia l’italiano. Nazione e stato italiano come sinonimi.

Una corrente di pensiero presente anche nell’isola, che inevitabilmente porta alla perfetta fusione come nel 1847. Concezione che non riconosce nessuna validità a forme di autogoverno che non siano emanazione diretta del potere centrale. La riforma costituzionale in discussione determinerà i prossimi decenni, forse l’intero secolo. Un appuntamento storico a cui i parlamentari sardi ed il Consiglio Regionale non potranno sottrarsi. Ancora una volta, soprattutto i parlamentari, dovranno decidere se saranno fedeli ai diritti della loro terra o ai partiti italiani che li hanno eletti. Su questi argomenti però non pare ci sia alcun dibattito, se si eccettua il seminario realizzato dalla Fondazione Sardinia, Sardegnasoprattutto e Carta di Zuri.

Nessuno che si chieda quale idea dobbiamo avere della Sardegna, come ne immaginiamo il futuro, quale istituzioni darsi. A leggere le cronache, sembrerebbe di rivivere quella fine del 1847, quando poche èlite sassaresi e cagliaritane, sull’onda di manifestazioni studentesche e dietro le pressioni di gruppi economici, decisero la perfetta fusione con gli stati di terraferma. Atto compiuto senza neppure convocare gli Stamenti e viziato dalla illegittimità.

Anche ora saremmo noi a salvare l’Italia, rinunciando alle nostre “Venerate istituzioni” come allora ? Ancora una volta ci verrà chiesto il sacrificio come alle mantelline verdi sul Carso? E noi pronti ad obbedire agli ordini? Potremmo farlo, come l’abbiamo già fatto. In fin dei conti non siamo gli eredi del Regnum Sardinae, la piccola Prussia che ha fatto l’unità d’Italia? Se così fosse però, cancelliamo il nome di Giovanni Maria Angioy dalle nostre vie e piazze, dedichiamole a Efisio Pintor Sirigu, noto Pintoreddu, il normalizzatore. Accontentiamoci di prendere a calci l’ultimo inserviente del Senato, come fece Giovanni Siotto Pintor con un commesso del Parlamento Subalpino che non voleva farlo entrare perché vestito in abito tradizionale.

In fin dei conti il comportamento che ci contraddistingue è quello di predi Zurru: scrivere biglietti, inviare petizioni a chi poi le ignorerà. Lo stato-storno farà quel che vorrà e a noi ci resterà solo il lamento. Italia ti ses ismentigada de mama tua Sardigna modesta, cantava un poeta del tardo Ottocento.

 

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