Riflettendo circa la presenza della Massoneria italiana (e sarda) sulla scena pubblica, fra storia e cronaca Il rapporto con la religione (e la Chiesa) e la politica, di Gianfranco Murtas

Proponiamo alcuni stralci di un corposo articolo, quasi un saggio breve, che Gianfranco Murtas ha offerto al nostro sito, relativamente alla attualità della Massoneria nel nostro tempo e nella nostra società, soprattutto in Sardegna.


Proponiamo alcuni stralci di un corposo articolo, quasi un saggio breve, che Gianfranco Murtas ha offerto al nostro sito, relativamente alla attualità della Massoneria nel nostro tempo e nella nostra società, soprattutto in Sardegna. Siamo lieti di accogliere queste anticipazioni in attesa che il lavoro sia compiuto e come tale possa essere presentato alla pubblica opinione. Alla ricognizione delle notizie storiche si somma evidentemente la riflessione critica (nel senso più ampio e positivo del termine) dell’autore che, ricordiamo, sul tema ha dato alle stampe nel corso dell’ultimo trentennio una quindicina di libri e numerosi articoli, contributi a convegni, allestimento di mostre storiche e documentari filmati.

In questa sua fatica egli tende a focalizzare, in un ritorno continuo fra la cronaca e la storia, cioè fra l’oggi e il passato, il “che cosa” sia la Libera Muratoria e perciò quale sia la sua missione sociale, nonché in che termini si sia sviluppato, nei tempi trascorsi e nel presente, il suo rapporto con la religione e la politica:  quali coerenti sviluppi e quali possibili infedeltà si siano registrati nel tempo e nel presente.

Resta ribadita dall’autore (un “cattolico liberale sulle tracce di Manzoni e di Jemolo”, tale egli si professa, mentre politicamente si colloca già dall’adolescenza, e con manifesto orgoglio, nell’area repubblicana e del sardismo italianista) la sua vicinanza ideale all’Ordine massonico, la rivendicazione ad esso di meriti anticipatori nella affermazione dei diritti dell’uomo e delle libertà moderne, ma insieme viene da lui la preoccupazione che oggi il mondo delle logge sia, se non travolto, certo condizionato in negativo dal calo di tensione ideale che si percepisce nella società e nella politica e, nonostante il fresco rilancio di papa Bergoglio, nella Chiesa. Tanto più – egli non lo dice ma lo fa ripetutamente capire – dopo la “devastazione valoriale” introdotta o alimentata, in Italia, dal berlusconismo (per esso intendendo lo smarrimento del senso delle istituzioni pubbliche così come della dimensione comunitaria e solidaristica della società, e per contro l’enfatizzazione mercantile di ogni soluzione e, al fondo, la miscredenza nei principi della democrazia come il risorgimento nazionale e l’antifascismo con la resistenza e la carta costituzionale ce li hanno trasmessi).

All’interno di questa medesima cornice l’autore ha inserito pagine nuove di storia politica regionale che possono avere valore in sé, utili magari alla biografia di un protagonista o a quella di un partito politico, ma pure chiariscono alcuni “perché” della stessa Massoneria isolana. E’ il caso di quanto è stato qui riservato a Francesco Bussalai, attraverso la cui vicenda pubblica (lungamente descritta) è possibile forse comprendere qualcosa di più dei travagli dei comunisti critici degli anni più prossimi alla rivoluzione/repressione ungherese, delle ricomposizioni della galassia socialista, delle relazioni dei socialisti/socialdemocratici con la Massoneria regolare.  Anche perché, va detto, di quei comunisti sardi degli anni ’40 e ’50 Bussalai non fu il solo a giungere, alla fine di un originalissimo percorso, alla Massoneria, lui attestandosi politicamente nell’area riformista, altri in quella socialista/nazionalitaria.

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Scrivo queste note, in un saliscendi anche di emozioni, nei primi giorni di marzo [2014]. Riporto l’attenzione e la riflessione, per condividerne alcuni esiti, foss’anche per respingerli (con argomenti, ben s’intende), su una delle materie che di più, in questi ultimi quarant’anni, mi hanno appassionato ed impegnato. Il che è stato in vario modo: con la ricerca storica, con l’occasione convegnistica, con le pubblicazioni ora di saggi ora di articoli di stampa, con l’allestimento di un archivio generale e di una biblioteca specialistica, ora anche con una prossimità umana ai maggiori protagonisti guardando agli obiettivi e curando i percorsi. Dico della Libera Muratoria, e più ancora della Libera Muratoria italiana e sarda, con le sue figure pubbliche, le sue personalità accese di vita ed intelligenza, di interessi ed abilità esplorative e sperimentali, ma naturalmente anche segnate da limiti e contraddizioni (talvolta perfino sgradevoli), com’è della nostra imperfetta condizione.

La mancanza di una tessera che simboleggi la relazione, l’obbedienza – cioè il patto associativo –, nulla toglie ad una vicinanza che ho sempre francamente dichiarato alle idealità umanistiche ed ecumeniche della Istituzione massonica, ai suoi itinerari qualche volta accidentati ma, a vederli nella prospettiva della storia, dei tempi lunghi della storia, assolutamente profetici, anticipatori delle conquiste civili e sociali via via entrate nel patrimonio metabolizzato dalla modernità: i diritti dell’uomo e del cittadino, la democrazia partecipativa e responsabile, l’autorità riconoscibile dello stato, la libertà di coscienza e di culto, la centralità sociale del lavoro. Altri potrebbe aggiungere al materiale l’immateriale, giustificando così la propria appartenenza ad un cammino chiamato iniziatico, traducibile in molti modi nel vocabolario sociale: io direi soltanto, al minimo, qualcosa che faccia riferimento all’arte dell’ascolto di sé e degli altri, al gusto della meditazione, alla ricerca faticosa di quel che si nasconde oltre l’apparente e anche all’incanto gioioso della sua scoperta. Perché da qui può derivare il molto che è, appunto, quanto di tangibile una civiltà possa vantare come conquista e ricchezza del popolo, non soltanto delle élite: la libertà interiore e della relazione, il godimento musivo, la collaborazione missionaria, la pace armonica.

Voglio restare al dato fattuale. Tutto è stato, sovente, espresso nella testimonianza dei singoli più che nei proclami ufficiali della istituzione liberomuratoria in quanto tale. Ma in alcune fasi storiche, a più livelli, dal mondo obbedienziale attraverso i suoi vertici rappresentativi e carismatici oppure attraverso quel libero sentire e libero dire delle logge tradottosi infine in una” tavola” per la storia, sono venute prese di posizione puntualmente registrate nel dibattito pubblico. Ripensando soltanto agli anni i più caldi del dopo fascismo e del dopo guerra, agli anni insomma di costruzione della nostra democrazia, le logge hanno espresso la rampogna antiqualunquista. Così soprattutto, nel mondo giustinianeo, fece quella stessa di Cagliari – la loggia Risorgimento messa su da un largo concorso nel quale non mancavano i graduati delle forze armate, e particolarmente animata da quell’Alberto Silicani che la persecuzione dei dark l’aveva subita sulla sua persona  –, mentre quella di Sassari intitolata nientemeno che a Gio.Maria Angioy opzionava, addirittura in chiave dirimente, la repubblica…

Senza dunque pretendere quanto è fuori dalle regole, ben è possibile abbattere i tabù, e riconoscere alla Libera Muratoria, anche a quella sarda,  il diritto – e io direi il diritto-dovere – di onorare, ancora nel Duemila inoltrato, la propria storia che è una storia intimamente intrecciata a quella nazionale e all’universale valore della democrazia: alle vicende patriottiche e civili dell’Italia nel più vasto quadro dei principi che muovono la storia, ad iniziare dalla “libertà liberatrice”, secondo la nota espressione dei grandi della scuola mazziniana.

Per questo in diverse occasioni ho detto apparirmi  senza senso e perfino un rovesciamento di segno, oggi, la crescente neutralità rispetto a quelle fonti che hanno fatto del Grande Oriente d’Italia quello che esso è, o un guardare indifferente alle militanze dei suoi Artieri, molti dei quali, facendo politica mostrano di non far… Politica – quella con P maiuscola afferendo l’interesse generale –, se ritengono compatibile con lo status democratico un’appartenenza a quelle formazioni cosiddette leaderistiche e propense al culto vassallo  della personalità, populiste, plebiscitarie come nelle più dozzinali repubbliche delle banane. Le quali non hanno nella loro storia un Goffredo Mameli, non hanno conosciuto né un Cavour né un Mazzini o un Garibaldi, non sanno di dover onorare nell’oggi i sacrifici dell’ieri. Che per noi sardi e italiani consapevoli della morale e della morale del dovere, invece è stato ed è un ieri sempre presente alla coscienza:  quello speso per l’unità, l’indipendenza e la libertà della patria e la laicità delle sue istituzioni.

La bandiera nazionale e quella dell’Europa unita, secondo il sogno mazziniano,associate magari a quella della comunità regionale – la piccola patria sarda vivente di relazioni, non di antagonismi – vigilano e accompagnano i lavori rituali delle logge, simboli fra simboli. E non può essere, eppure è, che molti massoni dalla coscienza leggera come il cartone  tutto abbiano concesso, in questi sciagurati vent’anni trascorsi, a chi ha discettato di frantumazioni della patria, ha irriso il tricolore e l’inno nazionale, e – belanti plaudenti – hanno approvato chi ha grossolanamente manipolato perfino la legislazione per interessi di parte e venali, occhieggiato in politica estera ai nuovi dittatori sulla scena, e collocato al vertice degli organi della Repubblica “nata dalla Resistenza” i più screditati e spudorati pifferai.

Una società nata intellettualmente critica e insieme patriottica – volta cioè ad un grande disegno della storia e impegnata nella fatica della sua realizzazione – mi risulta per talune sue aree neppure marginali, seppure ancora fortunatamente minoritarie, impantanata nei temporeggiamenti di giudizio su quanto nell’ultimo devastante ventennio si è compiuto sulla carne viva della nazione, corrompendo la dignità delle istituzioni e le tavole valoriali della società.

I graduali ricambi generazionali dovrebbero avere come loro bussola, in una società “di tradizione” quale è eminentemente la Libera Muratoria – istituzione prossima a dirsi trisecolare – attenzione e venerazione per i lasciti etici ed etico-civili da arricchire, mai da impoverire e tanto meno da rovesciare, con le esperienze maturande nel nuovo ciclo della storia che  avanza. Eppure è stato dato registrare – sulla stessa lunghezza d’onda di altri settori della società – un diffuso calo di tensione ideale, un mesto appannamento del senso missionario, un compromesso al ribasso con screditate militanze ancillari in  cui ci si è da taluno infilati per il classico piatto di lenticchie. Certamente così consumando ossigeno prezioso. Cosicché mentre si sarebbe potuto e dovuto essere – negli scombinati vent’anni ora alle spalle – coscienza critica, se non anche magistrale, della società, presidiando le istituzioni della politica – anzi della Politica – e della educazione civica, della scuola e del servizio sociale sempre e unicamente per il bene del popolo e della nazione, si è stati inadeguati, se non  corrivi, con quanto di peggio certa sedicente classe dirigente ha operato per fini inconfessati e partigiani.

Si vedrà in questa mia ricostruzione ed elaborazione un continuo andare e venire dalla storia alla attualità e viceversa, e talvolta un reiterare episodi ed analisi e opinioni ad essi riferite. Tutto è stato voluto, anche per favorire una lettura più riposata del lungo testo che intende mantenere i caratteri della conversazione e dunque delle successive messe a punto, fornendo – ecco l’ambizione maggiore di questo articolo/saggio – ai lettori più interessati, direi ai massoni stessi in attività, elementi di rilettura del proprio passato insieme a spunti per meglio posizionare il proprio intervento o il proprio contributo sociale tenendo conto del pregresso, del cammino compiuto ora in solitudine ora in compagnia.

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E’ alle viste l’elezione del nuovo Gran Maestro (e con lui dei Grandi Dignitari) del Grande Oriente d’Italia. I giornali nazionali di maggior tiratura hanno cominciato ad occuparsene con articoli ora di cronaca ora di inchiesta, più o meno interessati ad approfondire e rivelare la realtà delle cose, più o meno interessati a fare della “cosa” materia di libera e/o strumentale interpretazione. Diciamola così, al meglio: talvolta seguendo quell’istinto o quella suggestione che Bertold Brecht rappresentava, nella sua maestosa didascalica “Lode del dubbio”, con questi versi: «Sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai. / Splendida è la loro digestione, infallibile il loro giudizio. /Non credono ai fatti, credono solo a se stessi. Se occorre, / tanto peggio per i fatti. La pazienza che han con se stessi / è sconfinata. Gli argomenti  / li odono non l’orecchio della spia». (Altre volte, le letture muovono da un intento neppure soltanto di autoreferenzialità ideologica, bensì addirittura di venale o volgare convenienza partigiana. Ma sono le peggiori e, spero, eccezionali e non rientrano comunque nelle classificazioni che qui considero).

La scelta nominativa dei vertici obbedienziali significherà naturalmente non soltanto nuove regole ordinamentali, organizzative od operative interne, ma anche, con tutta probabilità, novità nella interlocuzione, ovviamente secondo i metodi e con i mezzi che sono propri di una Comunione massonica, con l’autorità dello Stato e con i mille corpi intermedi della società civile, negli ambiti tradizionali della cultura e della solidarietà soprattutto. Secondo un filo rosso che rimanda, in forme tutt’affatto irripetibili, addirittura al risorgimento e postrisorgimento – quando la Massoneria fu una specie di partito “dello Stato” – ma che ha avuto elaborate e progressive espressioni a far data ormai dalla fine degli anni ’60 del Novecento. Da allora datano, infatti, i colloqui pubblici del Gran Maestro Gamberini, vescovo gnostico, con esponenti di rilievo della Chiesa cattolica, nonché tutta una serie di appuntamenti con studiosi  della politica, della letteratura, dell’arte, della scienza, dell’economia ecc. tesi a posizionare l’Obbedienza nel vivo presente e nel flusso creativo delle idee, delle sperimentazioni, delle acquisizioni che costituiscono il patrimonio condiviso che le generazioni si passano nella staffetta storica.

Avevo cominciato con questi due periodi l’articolo preannunciato al sito di Fondazione Sardinia. E mentre mi son dato tempo per una ponderata rilettura di quanto già scritto, le elezioni sono però avvenute e sono anche già stati resi noti i risultati. Il prescelto è stato Stefano Bisi, senese, con una percentuale che è di pochi punti sotto la metà del plenum degli elettori (i quali a loro volta sono stati il 71 per cento circa degli aventi diritto). I Maestri massoni sardi hanno votato con qualche difformità rispetto ai più del campo nazionale. Ritornerò sul merito, ma per adesso voglio riprendere il filo della riflessione già affacciata.

In quanto società laica di discussione – per riprendere una definizione che della Massoneria dette, prescindendo dai suoi tratti iniziatici e spirituali, l’indimenticato Giovanni Spadolini, risorgimentalista e storico dei rapporti Stato-Chiesa – il sistema delle logge è esso stesso un forum neutrale di incontri e di incontro: e se è ben rilevabile che come un corpus organizzato la Libera Muratoria si sia proposta, nel  tempo, al confronto con le correnti di pensiero o i soggetti  pubblici che hanno arricchito la storia nazionale e quella di più vasti spazi, sembra oggi potersi affermare la tendenza a farsi essa, nel concreto più ancora che in altre epoche, teatro di dialettica civile e di rinforzo umanistico come anche le sue costituzioni antiche suggeriscono o perfino impongono.

In altre parole: si può certamente lavorare «al bene e al progresso dell’umanità» – come nei rituali è detto essere la missione sociale della Comunione liberomuratoria – attraverso la qualità dirozzata e perfezionata dei singoli appartenenti, i quali abbiano preso per cosa assolutamente seria e impegnativa la loro affiliazione, ma anche attraverso una proposta corporativa, un contributo del libero collettivo che mostri la sua sensibilità sociale attraverso la scelta di una dichiarata soggettività pubblica. Ma di più…

Perché da questo punto di vista può essere forse doveroso, oltreché singolare e suggestivo, che la Libera Muratoria italiana, e segnatamente l’Obbedienza di Palazzo Giustiniani ora al voto, esprima e comunichi, nell’ineunte Duemila italiano, i suoi irriducibili valori costitutivi meritevoli di essere conosciuti per quello che sono (e non per quel che si vorrebbe fossero), ma insieme potrebbe (e/o dovrebbe) accadere che essa assuma un inedito habitus quale giusto e riconoscibile “segno dei tempi”: presentandosi come luogo terzo, storicamente legittimato e autorevole per passato e presente, per quel confronto civile di cui tanto oggi si sente la necessità riferendolo alle nuove frontiere del dibattito etico che impegna tutti: dalla libertà di ricerca scientifica alle questioni del fine vita (eutanasia, testamento biologico ma anche e ancora aborto), alla possibile legislazione sui diritti individuali e le nuove famiglie, o alla regolamentazione degli status dei migranti e dunque anche allo jus soli (di cui si parla sempre più sovente date le dimensioni del fenomeno, ecc.). Un Grande Oriente d’Italia che si offra come sede neutrale finalizzata all’approfondimento di materie controverse e dunque ad un miglior appagamento della conoscenza sociale, senza mai trarre conclusioni definite che attengono, per eventuali concrete regolamentazioni, alle istituzioni politiche e rappresentative.

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Il 2 marzo sono stati chiamati al voto ben 16.059 Maestri (sardi inclusi) in capo al migliaio di logge all’obbedienza della storica Famiglia liberomuratoria che s’identifica con le gran maestranze, e direi con i magisteri ad un tempo iniziatici e civili, o chiamali semplicemente umanistici, di Garibaldi e Nathan, di Guido Laj – messinese figlio di cagliaritani e lui stesso cagliaritano dettorino negli anni della sua adolescenza, e poi corrispondente da Torino de “L’Unione Sarda” – e di altri, numerosi e degni testimoni dei valori patriottici e democratici. Valga evocare, come in rappresentanza di tutti, Giuseppe Petroni – il mazziniano fondatore de “La Roma del Popolo” (il giornale che tante collaborazioni ebbe dalla Sardegna, cominciando da quelle onorevoli di Giovanni Battista Tuveri  e Pietro Carboni) e detenuto per più di tre lustri nelle segrete pontificie, dopo la condanna a morte (e quindi all’ergastolo) comminatagli dai tribunali del beato Pio IX – e Domizio Torrigiani, finito negli ultimi cinque anni della sua vita, fra il 1927 ed il 1932, prima a Regina Coeli, quindi al confino di Lipari e di Ponza, con altri antifascisti, per essere infine liberato, ormai cieco, soltanto per morire.

Ben prima della gran maestranza Corona – nota ai più per il risalto anche giornalistico ad essa riservato, ben oltre che per i suoi meriti (che vi furono, indubitabili e cospicui) – Cagliari e la Sardegna in generale hanno partecipato, con figure di primo piano, al governo dell’Ordine. Un ripasso rapido e quasi senza pretese, volto infine ai brucianti dossier dell’attualità sociale e politica, può valere a far chiaro che la nostra Isola, in forme e tempi diversi, non è stata mai ancella ma coprotagonista della storia obbedienziale, con quanto poi questo possa aver significato per il portato liberale – eticamente e civilmente liberale e democratico, laico e patriottico – della sua dottrina.

Non intendo qui glorificare né la Massoneria in quanto tale né, tanto meno, il GOI come espressione associativo/istituzionale del pensiero e della prassi massonici, benché non celi la mia sempre dichiarata ammirazione per la testimonianza profetica ed umanistica, indefettibilmente aconfessionale ed ecumenica,  resa dalla Libera Muratoria negli snodi centrali della storia del mondo e dell’Italia. Tutto ciò al netto delle cadute degli uomini, visibili nel tempo che fu e visibili nell’oggi.

Nel vertice del Rito Scozzese Antico e Accettato, addirittura prima dell’unità d’Italia, comparve un Ferdinando Vittorio Giorgio Maria Ghersi : cagliaritano di Castello (con battesimo nella primaziale di Santa Maria), classe 1789, colonnello dell’esercito regio. In gioventù, ma già graduato, partecipe degli ammutinamenti militari ad Alessandria e Torino al grido di «Evviva la Costituzione», con la speranza di una dichiarazione di guerra all’Austria, e per questo punito con la cancellazione dai ruoli matricolari… Segnalato come fondatore di molte logge in Spagna e Francia e membro infine della Madre Loggia Capitolare Dante Alighieri, il suo nominativo confluì in un piedilista costituito «in gran parte [da] nomi di gloriosi cospiratori della Carboneria e della Giovine Italia; di valorosi combattenti delle rivoluzioni e nelle guerra per l’indipendenza italiana; di eroici campioni dell’epopea Garibaldina, […] dei più celebri attori delle rivoluzioni ungherese e polacca e dell’indipendenza rumena», come si legge in uno dei tanti libri che si sono soffermati sulle biografie dei massoni illustri e che non hanno certo negato lo spazio a questo apripista tutto nostro. (Non mi importa dettagliare qui le fonti richiamate nel testo, che saranno prese per buone “sulla fiducia” e verificate magari in occasione del rilascio cartaceo del presente contributo).

In ruoli apicali, nella piramide del Rito Scozzese, già all’indomani delle gloriose Cinque Giornate di Milano, Ghersi spese il suo sovranato, con un breve rimbalzo poi anche negli anni di Firenze capitale, per rafforzare le relazioni europee fra le potenze latomistiche del continente, volte tutte alle cause liberali e democratiche nazionali. E diciamola tutta: di quelle cause delle quali godiamo noi oggi, ancora oggi, i benefici senza che la nostra mente si riporti, più di quando dovrebbe, a chi ha aperto la strada…

Vi fu, destinato al Supremo Maglietto dell’Ordine ed al sovranato scozzese, negli anni della grande guerra, ma nella Comunione di Piazza del Gesù (scissionista nel 1908 dal GOI, pur certo non scissionista dalle tavole valoriali basiche), il primo Venerabile della maggior loggia sarda a cavallo fra Ottocento e Novecento, quella Sigismondo Arquer che operò dal 1890 – anno del primo fare amministrativo di Ottone Bacaredda – fino a che il saccheggio fascista della propria sede in via Barcellona non la mise anche materialmente fuori gioco. Campano di nascita, si chiamava Leonardo Ricciardi ed insegnava chimica all’Istituto Tecnico alle Scalette del Santo Sepolcro, nel quartiere della Marina. Generosamente s’era impegnato, con altri colleghi e Fratelli, a rilanciare il mito arqueriano, con  quanto il nome della vittima della Inquisizione spagnola significava allora, in una Sardegna e in una Cagliari per larga parte clericale e nera. Esso parlava ad altri, parlava alla città borghese e colta, interna alle professioni, alle cattedre e ai commerci, e anche però alla città dei giovani impegnati ancora nei corsi di studio e diffusi nella galassia associazionistica, alle viste di un modernismo felicemente laicizzante. Di Arquer, celebrato dalla mano di Domenico Bruschi nel palazzo Viceregio nel 1895, firmò, Ricciardi, la prefazione ad una biografia stampata al tempo dal collega e Fr. Luigi Manzi (un marchigiano calatosi tutto nella nostra realtà storica e geografica regionale), messa infine in vendita per il recupero dei fondi necessari a scolpire una lapide da fissare all’Università: «per eternare il glorioso nome di Sigismondo Arquer [che] precedette Bruno nell’affermazione della libertà di coscienza».

Seguì pochi anni dopo, come a chiudere l’ultimo decennio del secolo XIX, quel professor Gustavo Canti – piemontese docente di lettere e preside anche lui nell’organico dell’Istituto Martini – che fu tra i fondatori della sezione cagliaritana della Società nazionale Dante Alighieri, volta alla difesa e valorizzazione della cultura e della lingua nazionale nei contesti difficili delle correnti migratorie verso i paesi industriali dell’Europa e nel doppio continente americano. Canti, nome conosciuto anche per la savia amministrazione della capitale cui partecipò con il sindaco Nathan, fu Gran Segretario e poi Gran Maestro aggiunto.

Gran Maestro titolare fu, negli anni dell’esilio antifascista del GOI, fra il 1931 ed il 1940, il toscano Alessandro Tedeschi che giusto nell’Università di Cagliari compì, negli stessi anni del venerabilato Canti, le fondamentali esperienze di docente di anatomia patologica, portate poi in Argentina dove fu il vero fondatore del sistema sanitario nazionale. Più tardi, negli anni in cui furono assassinati i Fratelli Rosselli, in Francia terra d’emigrazione politica, egli si fece propugnatore del circuito delle Massonerie perseguitate a morte da Hitler, Mussolini e Franco e dagli altri dittatori del continente.

Presto molti massoni italiani, taluni di origine ebraica, furono caricati anch’essi sui carri destinati ai lager e fraternizzarono nei mesi del loro martirio. Perché non mancarono neppure le ritualità latomistiche nei campi di morte, com’è stato documentato recuperando le memorie dei formulari pronunciati in quelle baracche destinate al nulla. Valgano, come luce di riflettore, quelli di Esterwegen, fra novembre 1943 e maggio 1944, in lingua francese, della micro loggia Liberté Chérie allogata nella baracca n. 6: «Isolément, nous ne pouvons rien! Unis, nous pouvons tout!»… non l’illusione della sopravvivenza, ma la virtù della testimonianza… «Liberté, Liberté chérie / Je dirai: tu es à moi». Viene un brivido pensare che al gruppo avrebbe potuto associarsi il Fr. Armando Businco, cui un giorno i suoi corregionali intitoleranno l’ospedale Oncologico di Cagliari. Fu anch’egli, sardo di Ierzu già Venerabile della loggia Karales e antifascista di salda fede mazziniana e sardista, gielle ed azionista, caricato su un treno diretto ai campi burgundi, per essere infine salvato da un’operazione di partigiani nel passaggio lombardo dei convogli partiti da Bologna, da quell’ateneo da lui difeso, con le sue preziose dotazioni di radium, dalla razzia dei soldati del Fuhrer.

Viene un brivido anche – e ne scrive qui però l’amico che lo avrebbe incrociato molti anni dopo in tutt’altro contesto – il pensare a quel giovane di 22-24 anni, nativo di Capodistria e fattosi romano dall’età di otto anni, lui con la sua famiglia, che per una scelta dell’anima decise dopo l’8 settembre 1943 di consegnarsi, prigioniero, alle logiche malefiche dei campi di concentramento tedeschi e polacchi, pur di non vestire la divisa della Repubblica Sociale Italiana e sparare ai suoi compatrioti. Era Fabio Maria Crivelli, fattosi massone nel settembre 1970 – quasi a celebrare anche lui, simbolicamente, il centenario di Porta Pia – e passato poi per la militanza giustinianea nelle logge cagliaritane portanti il titolo distintivo di Sardegna e di Francesco Ciusa. Che storia, che storie! (E mi viene qui da pensare, ancora una volta, a quanto debito noi si abbia verso chi ci ha preceduti: sicché l’immaginare che in un Tempio giustinianeo, anche sardo, dove ben potevano stare un tempo i monarchici devoti alla causa Savoia e del legittimismo dinastico e non soltanto i mazziniani e i garibaldini – perché uniti comunque dalla grande idea della patria comune da servire e non di cui servirsi –, possa oggi trascorrere le ore un claquist d’obbedienza… guascona – il nulla ideale cioè, lo zero patriottico  – è cosa che angustia e ferisce perché riporta alle autoindulgenze degli obliqui passati, negli anni ’20, dalla loggia, come dai partiti della democrazia, alle convenienze del regime).

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Universalistica nei suoi fondamenti, è una tradizione importante, quella massonica, sviluppatasi all’interno dei processi nazionali, anche del processo risorgimentale e postrisorgimentale dell’Italia, che è quanto dire, anche, scontando tutte le contraddizioni di quella lunga fase storica, dal liberalismo alla democrazia. Come avverrà superando, anzi subendo e però combattendo, la iattura del fascismo, fino ad approdare alla repubblica nata dalla resistenza. Epopea, anche questa, alla quale non sarà estranea la militanza massonica un po’ in ogni regione, come non lo era stata nella opposizione interna, catacombale alla dittatura, e prima ancora nel contrasto alle violenze delle squadre, cui si debbono i roghi delle biblioteche di non poche sedi ordiniste e rituali fra 1924 e 1925. (Dovrebbe documentare – perché lo potrebbe senz’altro fare, senza neppure nascondere gli opportunismi di taluno, anzi di molti – il GOI, questa sua partecipazione alla lotta per la libertà negli anni del regime, oltre l’esilio parigino dei suoi organi magni, e durante la guerra di liberazione fino al contributo alla redazione della carta costituzionale con uomini come Meuccio Ruini, Ugo Della Seta ecc. La Sardegna – dico la Sardegna massonica –  fece anche allora la sua parte. Come l’aveva fatto l’8 novembre 1924 fondando, con molti altri liberali, liberaldemocratici e democratici, l’Unione Nazionale promossa dal Fr. Giovanni Amendola, destinato a finire sotto i colpi dei giannizzeri mussoliniani: un buon  terzo dei firmatari erano massoni, e fra essi figuravano anche i prossimi gran maestri Guido Laj e Umberto Cipollone, i sardi Mario Berlinguer, Francesco Cocco Ortu, Carlo Fadda,  Ezio Mereu, Arnaldo Satta…).

Anche a Cagliari entrarono, forti e tronfi, i questurini e – secondo testimonianze – i giannizzeri della MVSN e costrinsero alla fuga notturna l’Ispettore del Rito Scozzese Romolo Enrico Pernis, console di sua maestà britannica, inseguito da un ordine di cattura.

Certamente, va ripetuto, non fu esente essa – la Libera Muratoria – da cadute di uomini, tutte forse puntualmente registrate dagli avversari ma, prima ancora, dagli stessi Fratelli rimasti fedeli al giuramento. Che era il giuramento, meglio la parola d’onore, di uomini d’onore cioè, della convinta testimonianza: la libertà e l’uguaglianza e la fratellanza sopra tutto, per il bene individuale e sociale, sopra e contro ogni opportunismo.  A Cagliari, quelle note furono per mano del Segretario Alberto Silicani, che al suo antifascismo dovette la cacciata dal corpo redazionale de “L’Unione Sarda” ormai da un biennio, nel 1922, di proprietà dell’avv. Ferruccio Sorcinelli. Si potrebbero ripassare una per una quelle postille d’aggiornamento nel libro-matricola della Sigismondo Arquer: «dimissionario per incompatibilità politica», «passato al fascismo», «dimissionario dall’Ord. per incompatibilità politica come da s/ lettera 15 febbraio 1923 – il Gr. Or. ha preso atto – fascista», «fascista +++», «passato al fascismo – esponente delle corporazioni», «dimissionario il 6 novembre 1923 per incompatibilità politica – “traditore”», «radiato per negligenza e morosità 18 gennaio 1924 – “traditore”», «radiato per incompatibilità politica il 10 maggio 1924 – “traditore”»…

Ma oltre alle cadute vanno considerate le virtù: perché non di minor rilievo fu il contributo offerto al progresso dalla Libera Muratoria e dalle sue logge, non soltanto nel generico universo mondo, ma anche nel più periferico ma concreto degli Orienti sardi. Anche e soprattutto, verrebbe da dire, nei tempi grigi e faticosi in cui il potere politico, sotto forme all’apparenza liberali, tardava a comprendere il nuovo all’orizzonte – il nuovo della democrazia e anche del socialismo (al netto del suo massimalismo) – e la Chiesa cattolica imponeva il temporalismo come dogma, imprigionando la sua dottrina in codici del tutto ignari del Vangelo. Allora, e così ancora fin quasi alla grande guerra, mentre la politica estera della nazione era vincolata ai patti della Triplice Alleanza con gli imperi austro-ungarico e tedesco, i giornali di opposizione – quelli della democrazia repubblicana o del socialismo – erano, anche in Sardegna! sovente sequestrati per ordine della procura del re ed i prefetti confiscavano perfino le corone di fiori deposte dai democratici alle lapidi dei loro grandi; per parte sua Pietro imitava Cesare nel peggio, umiliando i suoi stessi nelle aperture alla democrazia e contro l’ormai antistorico paternalismo, e anche i giovani riuniti da don Virgilio Angioni attorno alla testata de “il Lavoratore” erano impediti di proseguire nella loro battaglia sociale… Così ancora cinquant’anni dopo che il canonico decano De Roma, personalità illuminata, era stato scomunicato dal suo arcivescovo per aver aderito alla richiesta del governo di Torino di censire i beni ecclesiastici in vista della abolizione delle decime!

Quel contributo al progresso fu nel seme gettato nelle imprese migliori a fondamento della molteplicità dei percorsi di sviluppo culturale e civile, prima ancora che politico, della nazione. E quando si volessero udire gli argomenti non «con l’orecchio della spia», ma con onesta intelligenza e scrupolo documentario, si potrebbero scoprire pagine impensate, e godibili, della nostra storia collettiva, anche regionale. In prima fila, già dagli anni ’70 dell’Ottocento, per l’abolizione della pena di morte: una battaglia cui parteciparono anche le compagini sarde, comprese quelle di periferia, come fu a Villasor, dove la singolarissima coincidenza fra loggia e giunta/Consiglio comunale (con il sindaco-Venerabile Michele Vaquer) portò, per sovrappiù, alla formalizzazione in atti consolari di quanto auspicato nel Tempio rituale di quello che era il rifugio (pro quota anche elettorale) del deputato Francesco Salaris, antico Artiere della loggia Vittoria: che si realizzasse, cioè, un ricovero di mendicità nel circondario e si desse vita ad una società mutualistica operaia.

Potrebbe anche ricordarsi, a proposito della lunga battaglia per la pena di morte infine espunta dal codice penale licenziato dal ministro (poi presidente del Consiglio) massone Giuseppe Zanardelli, come il beato Pio IX fosse stato costretto, nel 1868, a rinunciare alle già programmate decapitazioni di Ajani e Luzzi, dopo quelle già eseguite dei giovanissimi Monti e Tognetti, dalla campagna d’opinione scatenata in Italia dal massone sardo  Giorgio Asproni, prete fattosi mazziniano, e da altri suoi sodali…

La storia è sempre contemporanea, e vale tenere a mente, sempre e comunque, quell’alata frase di Benedetto Croce fissata sulle pagine della sua “Teoria e storia della storiografia”: «Solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato: il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde ad un interesse passato, ma presente». Per questo, accennando prima ad una Massoneria capace di offrirsi alla società italiana come forum libero e “inconcludente” (cioè senza conclusiva formalizzazione di alcun orientamento e tanto meno di una delibera, di competenza invece di altre sedi istituzionali pubbliche), ho affacciato anche la questione del testamento biologico fra quelle di bruciante attualità e necessità di approfondimento: ripensando anche alla stranezza, o incongruenza, di quelle mani spellate nel 2000 per la beatificazione di papa Mastai Ferretti che avrebbero fatto pollice verso nel 2006 ai funerali religiosi di Welby, tornatosene al Creatore finalmente slegato – santa morte! – dalle trentennali  funi della sindrome laterale amiotrofica…

Mi sia qui concessa una deviazione propositiva: se non può il papa personalmente procedere a quel gesto riparatore della pubblica messa in suffragio di Welby, vi provveda a Cagliari l’arcivescovo Miglio, che pure non batté ciglio davanti alla scandalosa manifestazione di ateismo pratico del suo confratello il cardinale Ruini, quando questi, viceDIo, costrinse il feretro sulla piazza. Analoga riparazione proposi, ma inutilmente, ai vescovi sardi nel 2009, centosessantesimo anniversario della morte del nostro Goffredo Mameli, caduto ventenne per fuoco dei francesi chiamati a difendere l’intollerabile teocrazia di Pio IX, bollata come sappiamo, 121 anni dopo, dal grande papa Paolo VI.

E un’altra parentesi ancora vorrei qui proporre, sempre riguardo alle questioni clou di vita e morte, anche perché sentiamo dall’attuale papa Francesco richiamare la bellezza, non soltanto la necessità – ma innanzitutto la necessità –, del confronto e del dialogo per mettere a fuoco una “verità” che nessun sapiente potrebbe vantarsi mai di possedere in toto (e chi ha la grazia della fede, lui per primo sa che la fede è energia di ricerca e orientamento di senso, non magica risposta a tutte le domande).

S’era appena insediata ed aveva iniziato le sue attività, nella sua sede cagliaritana, la loggia Sigismondo Arquer quando, nel 1894, un parroco cittadino che accompagnava i feretri di due coniugi al camposanto osò dividerli in ultimo, avendo intanto appreso che lei si era data la morte per la disperazione del lutto, ultimo lutto dopo altri che nel breve periodo avevano colpito la sua famiglia: non era degna, una suicida, della benedizione, ed ai suicidi si riservava sempre uno spazio sconsacrato nei cimiteri.

Chi allora osava assolutizzare le sue convinzioni, e pietrificare anche la pietà, disumanarla, si metteva nella sequela di quell’altro, il presule pro tempore a Cagliari, che aveva rimbrottato il suo clero soltanto per aver partecipato – era il 1872, l’anno della morte di Giuseppe Mazzini – ai funebri di Enrico Serpieri, uno dei costituenti della Repubblica Romana, perché allo stesso corteo avevano preso parte i rappresentanti delle logge, con tanto di labaro, intitolate Libertà e Progresso e Fede e Lavoro…

Trattando di storia massonica nei frequenti ameni conversari, la vulgata che da noi s’è imposta come cosa neppure bisognosa di riscontri o maggior approfondimento è quella di una Fratellanza-consorteria autoreferenziale secondo logiche di pura convenienza venale: la camarilla denunciata dai famosi Goccius del 1865, che era tutta supposta, mentre quella effettiva, ben riconoscibile negli stessi anni e prima, aveva connotati, a Cagliari, semmai antimassonici, di stampo lealista e clericale come documentato da autori importanti come Aldo Accardo, e come fu svelato e denunciato dallo stesso Cocco Ortu – riferendosi ad un’età che era quella stessa del proprio esordio pubblico – e prima ancora dal procuratore generale Luigi Rossi Doria. Centocinquant’anni fa.

Ogni obiezione affacciata, magari con educata discrezione e senza pretesa d’affermarsi come verità assoluta, è affogata nel dogma maligno, semmai attenuato nelle forme o rinviato a formule nuove ancora da pensare, per non smentire mai il pregiudizio e non azzardare un giudizio rovesciato… Tutto vien facile quando si seguono gli artifici che Brecht bollava così: «Con coloro che non riflettono e mai dubitano / si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono. / Non dubitano per giungere alla decisione, bensì / per schivare la decisione. Le teste / le usano solo per scuoterle. Con aria grave / mettono in guardia dall’acqua i passeggeri di navi che affondano. / Sotto l’ascia dell’assassino / si chiedono se anch’egli non sia un uomo. / Dopo aver rilevato, mormorando, / che la questione non è ancora sviscerata, vanno a letto. / La loro attività consiste nell’oscillare. / Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua».  Anche da noi, a Cagliari e in generale in Sardegna. L’arte di chiudere gli occhi, sperando che la scena passi.

Di tanto in tanto si tenta di revisionare il dogma, ma l’indolenza e i riflessi condizionati finiscono poi per riproporre nel rapsodico chiacchierare dalla tribuna d’un caffè le verità solenni di sempre. E l’indimostrato torna ad essere scienza popolare. Tanto più negli ultimi anni, o negli ultimi decenni, magari da quando “L’Espresso” pubblicò – era il 1978 – i nominativi dei Maestri Venerabili delle logge di tutt’Italia, o da quanto Armando Corona fu eletto Gran Maestro, o da quando nell’autunno 1993 i giornali regionali fecero a gara a pubblicare lenzuolate indiscrete e chiassose di nomi , dando in pasto alla più greve opinione pubblica storie private, trascorsi e presenti professionali, militanze civili… tutto all’ingrosso per un prezzo scontato.

Dal circuito delle logge certo mancò in quelle circostanze – almeno questa è la mia opinione – una rappresentazione di sé che fosse, nella trasparenza civica, risposta definitiva: come a dire di un debito contratto con una storia onorata, ma di un debito che si ripagava con un presente dignitoso, fervido, costruttivo del bene generale, che ben si poteva illustrare. Giusto allora come dopo. Anche sul piano sociale, non soltanto su quello della speculazione intellettuale nella direzione della libertà liberatrice (a riprendere una espressione d’un grande azionista meridionale, mazziniano e crociano, come Adolfo Omodeo). Magari poteva dirsi dei venti chilometri di condotte idriche donate a un villaggio servito da un missionario italiano, sardo e cagliaritano. Poteva dirsi di quell’intervento, o delle cure omnibus – morali e materiali – a famiglie in carne ed ossa, delle periferie urbane, o ad associazioni, magari anch’esse a governo religioso cattolico e a volontariato laico e anche massonico, piegate nel virtuoso soccorso agli impediti dall’Alzheimer o da altre sofferenze, tanto tanto più nell’infanzia e nella terza età… Poteva dirsi degli infusori donati addirittura decine d’anni fa ad un ospedale del capoluogo, poteva e può dirsi della Casa della fraterna solidarietà che chi ha allenato in loggia la sua pietas civile ha attivato, raccogliendo progressivamente tante virtuose collaborazioni, in quel di Sassari… O dei ponti con l’Africa nera costruiti dalla Fratellanza massonica barbaricina… Sempre senza sbandierare nulla. O si tratta di una osservazione non pertinente?

Perché se la destra non deve sapere cosa fa la sinistra – lo dichiara il Vangelo e la cosa ritorna nei principali rituali latomistici al pari di altri echi neotestamentari, ma qui evocato soltanto a segnalare l’umanesimo, non la (inesistente) teologia della Libera Muratoria! – può capitare che le circostanze impongano una narrazione di sé rispetto al mondo, ai bisogni del mondo. Come poteva fare quel cagliaritano dottor Francesco Barrago, medico cattolico nel piedilista della Fede e Lavoro con sede in via Sant’Eulalia, il quale nel 1869 sostenne in un’aula universitaria la bontà dell’interpretazione darwiniana (chiamala evoluzionista, senza minimamente entrare nell’ante-big bang) e però subendo le dure rampogne dottrinarie del creazionista canonico Francesco Miglior, che parlava dal pergamo della primaziale promuovendo il relativo al rango di assoluto e condannando ed assolvendo in rapporto ad un parametro rovesciato. Sì rovesciato, come lo stesso supremo magistero della Chiesa avrebbe dichiarato nei tempi successivi, ammettendo le letture critiche delle Sacre Scritture e finalmente ammettendo, apertis verbis, anche le risultanze della scienza. Diciamola pure: accogliendo Galileo!

Storie lontane e storie però anche vicinissime, secondo la lezione di Benedetto Croce innanzi richiamata. Perché le grandi questioni della libertà di coscienza, di pensiero e di culto si possono ben combinare con quelle della libertà di associazione e di stampa, con le altre grandi questioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, della democrazia, sul grande scenario per i grandi protagonisti della grande storia, e su quello locale, dove altri protagonisti – davvero tante volte non minori degli altri – rendevano e rendono la loro testimonianza. E va ricordato: una testimonianza che investe l’umano a 360 gradi, dal sociale al solidaristico, dall’intellettuale all’etico-politico.

Perché certo andrebbe chiesto, da noi, a un Francesco Ciusa o ad un Armando Businco, ad un Gavino Soro Pirino o ad un Filippo Vivanet, ad un Dionigi Scano o ad un Pompeo Calvia, o magari ad un Mario Berlinguer o ad un Melkiorre Melis, ad un Angelo Garau ecc.  che cosa cercassero o avessero  trovato, con gli altri della Massoneria da loro frequentata  nella lunga scia temporale, prima e dopo di Roma capitale, prima e dopo il lungo sonno (o la lunga persecuzione) del fascismo, e anche negli anni della Rinascita, quelli stessi nostri, delle nostre responsabilità già di adulti, sì gli altri a cui essi avevano passato il testimone della tradizione… Libera Muratoria d’un tempo e Libera Muratoria moderna, anche in Sardegna, come nel resto d’Italia, dove non era un puro accidente la presenza d’un Lando Conti, il sindaco di Firenze mazziniano e repubblicano assassinato poi dalle Brigate Rosse.

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Debbo darmi tempo per una riflessione più personale e privata, perché… Ecco qui il punto che vorrei sviluppare – la relazione delle logge con la politica o con gli ideali della politica, ma di conseguenza, inevitabilmente, anche con la militanza della politica – dopo però aver almeno affacciato, e se possibile affrontato, alcuni altri aspetti: dico gli aspetti di un’identità massonica che qualche volta, sembrando essa confusa o al meglio datata, così dai detrattori per mestiere come anche da qualcuno degli acritici cantores o degli improvvisati Magistri, si è ora artefatta, ora adattata, senza decenza, all’utile del momento. Ripenso, in quest’ultimo caso, alle improvvise conversioni (un quarto d’ora d’orologio), nel fatidico 1994, giusto come era avvenuto fra il 1923 ed il 1924, anche nella nostra concretissima Cagliari, credibilmente per un posto fisso o uno stallo retribuito… Sì, alle incredibili conversioni nientemeno che da Mazzini o da un padre della patria come – dico dei miei più cari – l’indimenticato Ugo La Malfa, o dalle aree della socialdemocrazia saragattiana, del liberalismo e del socialismo con tutte le loro anime, a un Cavaliere contro-profeta, povero di ogni idealità, portatore di risibili benemerenze sapienziali, civili e fiscali, mesto corifeo di una claque che canta e decanta il rovesciamento di segno dei vizi e delle virtù nel pubblico e nel privato. Ma davvero possono dirsi e farsi mutuamente compatibili il pensiero debole e la scuola della secolare tradizione liberomuratoria? E peggio: lo spregiudicato opportunismo dei tre compagni della famosa leggenda e la parola perduta dell’architetto capo del Tempio di Salomone?

Nella storia che apparenta e inserisce la Sardegna nell’Italia potrebbe ricordarsi – aggiungo qui soltanto questo accenno (che vorrei sviluppare un giorno con ampio apparato, poiché i documenti sono già disponibili) – la larga partecipazione dei sardisti alla vita delle logge, già nei primi anni ’20 come poi nel secondo dopoguerra e ancora negli anni ’50 e ’60 e successivi, così a Sassari come Cagliari, a Nuoro ed a Bosa, a Carbonia ed a La Maddalena, ad Alghero e ad Oristano… Per gli ideali federalistici, che riportavano alla scuola democratica risorgimentale e cattaneana, al repubblicanesimo sociale di Mazzini che aveva le sue coordinate ideali nell’europeismo (evidentemente politico, non tecnocratico), ai quali anche le prime carte del sardismo, e già quelle del movimento dei combattenti, si riferivano con fede sicura: contestando le burocrazie italiane, non lo spirito nazionale italiano!

Per questo, per il sogno della piccola patria sarda che guardava agli scenari del grande continente nel quale, per necessità assoluta, tanti suoi figli già erano emigrati e molti, molti di più avrebbero impiantato le proprie famiglie (espandendosi dalla Francia ai fronti minerari anche tedeschi o belgi, ecc.), nel sardismo delle origini, nel primo Novecento, dopo il gran macello della grande guerra, si delineava tanta tanta Massoneria. E chi l’avrebbe detto che i suoi dirigenti, novanta e passa anni dopo, dopo averla umiliata con la partecipazione a corsare imprese di malgoverno, sarebbero arrivati a rovesciarne perfino il segno, costringendo il partito dei Fratelli – per citarne soltanto alcuni dei cinquanta, o centocinquanta – Efisio Mameli, Pietro Mastino, Annibale Rovasio, Bartolomeo Sotgiu, Emilio Fadda, Quintino Fernando, Ovidio Addis, Giuseppe Marongiu e, valga sempre, Armando Businco, resistente antiburgundo, nell’abbraccio squinternato dei populisti plebiscitari e postfascisti?

Ci sono imbrogli che bisognerebbe, appena con un tanto di onestà intellettuale e di rigore da pretendersi da se stessi, sciogliere. Perché male erbe spuntano, secondo una certa sfiduciata visione non di avversari ma di amici – è anche la mia visione –, all’ombra di una grande e nobile pianta com’è la Libera Muratoria: ma una Libera Muratoria esposta sempre più alla sferza dell’indebolimento etico-civile dello spazio sociale in cui opera, e cedente addirittura sul fronte identitario, del suo realizzarsi cioè, oggi, come specchio della società con tutte le sue contraddizioni invece che, com’è stato in passato nei travagli della grande storia, apripista di tempi nuovi. I tempi che ho chiamato della libertà liberatrice.

E’ un tabù la politica. In certi conversari ufficiali o ufficiosi non tanto della Massoneria che conosco, ma dei massoni che conosco e di cui anche posso essere amico, la politica è argomento scomodo perché le scelte personali sono palesemente incompatibili, e tenerle sottotraccia o mascherarle pare alleggerisca le coscienze e salvi la faccia. Ma non può essere. Perché la politica – la Politica – è l’arte di chi ha mente e cuore di caricarsi i problemi di tutti, per prestarsi alla loro cura, con disinteresse pieno e sentimento missionario. Com’era stato per Asproni, oggi in Sardegna paradossalmente cucinato dai democristiani cosiddetti riformatori, che pure sono per loro propria cultura il contrario esatto del grande Bittese… Che direbbe Asproni, che direbbero Garibaldi o Nathan – il Nathan che sarebbe diventato il perfetto sindaco di Roma –, o Ettore Ferrari, o Guido Laj… della loro Massoneria attraversata dalle contromilitanze dei cantores plaudenti il peggio che la patria possa aver prodotto dalla fine della seconda guerra mondiale?

La loro riflessione massonica, lo ripeto, accoglieva la politica che si presentava con la P maiuscola, perché guardava all’interesse generale, e ben poteva e anzi doveva dialogare con chi, muovendo da altri presupposti, magari dalla destra liberale del Dio-Patria-Famiglia, però aveva compiuta contezza degli interessi sociali, patriottici e civili. Ma dov’è la sensibilità, la sofferenza per un interesse generale non ancora conquistato, in quei massoni che, messi i panni del dirigente o del militante, vanno a cantare, paggi laudatori fra altri belanti, l’inno non ad uno statista ma ad un pifferario rozzo e infedele? Perché tutto è perdonato non per avvenuto pentimento ma per indulto: le evasioni fiscali come gli harem nei posti governativi, l’alleanza con i dittatori e lo sgoverno in patria.

Nel 1923 e nel 1924 potevano dirsi liberi muratori degni delle loro patenti, dei paramenti e dei gioielli simbolici da essi indossati nelle tornate rituali, quelli che avevano rinunciato al proprio loro spirito critico e controcorrente per farsi vassalli dei nuovi padroni del potere? No, e infatti fu, fra tanto obnubilamento, sola  virtù del tempo quella di dividere le strade: o il regime che scritturava i quaquaraqua nelle amministrazioni pubbliche e nei piccoli commerci oppure la Fratellanza liberomuratoria con le sue tradizioni spirituali e civili tutte democratiche e profetiche.

E mi domando, da un osservatorio indipendente ma pure idealmente compromesso tanto con le fascinose suggestioni della ricerca latomistica quanto con gli ideali e le ideologie del sardismo italianista: quelli che, in questi anni insieme grevi e svolazzanti nelle concessioni al pensiero debole, si professano autonomisti-federalisti-sovranisti e fanno fronte comune con i postfascisti e i mercantili, in quali discendenze etico-civili trovano le compatibilità con la storia di un Giovanni Battista Melis e di un Anselmo Contu galeotti per resistenza carsica, catacombale, agli imbrogli dei sacripanti? O addirittura con la storia di un Giuseppe Zuddas, combattente antifranchista, come contro la falange militare e politica di Franco era schierata e si sarebbe schierata la Libera Muratoria? La Libera Muratoria del giuramento di Francesco Fausto Nitti, uno dei fondatori, con Rosselli e il nostro Lussu, del movimento di Giustizia e Libertà!

Dopo lo scandalo P2 (tale continuo a ritenerlo – scandalo –, nonostante certe recenti riabilitazioni), fra la primavera del 1982 e quella del 1991, la carica di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia è stata ricoperta da un’autorevole personalità isolana, nota sulla scena politica e istituzionale, ma anche professionale ed economica, vale a dire Armando Corona.

Sarà la storia a giudicare l’uomo e la sua azione. Io gli sono stato amico, e l’amico non è mai imparziale, né nelle critiche né nelle assoluzioni. Credo che la sua gran maestranza del GOI sia stata complessivamente positiva, anzi molto positiva. Gli scarti finali (sia quelli politici che quelli nell’Usmoi), non entrano in queste mie considerazioni di oggi. Taluno potrebbe essere spiegato, meglio contestualizzato, anche giustificato. Ma qui non c’entra.

La stampa locale, pur con ricostruzioni approssimative e sovente anche banali, ha ripetutamente dato conto di che cosa, alla vigilia e poi sulla scia del “fenomeno Corona”, la Libera Muratoria sarda sia stata nell’ultimo cinquantennio. Essa ha indagato, con risultati invero modesti, sulla sua carta d’identità, sulla sua organizzazione istituzionale e territoriale, le sue idealità ed iniziative pubbliche, i suoi orgogli – con i nomi che ricorrono sempre e che anch’io sempre richiamo –  Giorgio Asproni  e Giovanni Antonio Sanna, Gavino Soro Pirino e Stefano Rocca, Pasquale Umana e Roberto Binaghi, Giuseppe Palomba e Gavino Scano, Pompeo Calvia ed Armando Businco, Francesco Ciusa e Mario Berlinguer, Claudio Demartis ed Angelo Roth, Stefano Cardu e Franco d’Aspro, per evocarne ancora appena qualcuno dei duemilanovecento iscritti negli albi-matricola a partire dal 1861– e le sue propensioni etiche e sociali. Ha cercato anche di sondare il suo rapporto con la politica, con le forze politiche come collettori dello spirito pubblico e con le istituzioni regolamentate nell’ordinamento.

L’idea di una accolta tenebrosa fissatasi in un immaginario dogmatico e intimamente grossolano, sostenuta nel tempo dal pregiudizio di aree vaste sia del cattolicesimo da strapaese che di certa sinistra giulivamente estranea al Brecht della “Lode del dubbio”, non ha mai retto alla lettura critica e intelligente degli studiosi: i quali, quando sono stati mossi da una diffidenza dottrinaria – come il paolino Rosario F. Esposito o il gesuita Giovanni Caprile, massonologi fra i maggiori in Italia –, hanno rettificato la loro opinione via via che gli studi condotti sulle carte della storia e la personale conoscenza del palpitante vissuto delle logge contemporanee ne destrutturavano il pre-giudizio. Il che vale, all’ingrosso, anche per la realtà sarda.

Non m’importa qui ricostruire le benemerenze, dico anche quelle sociali, pensando al sostegno fornito agli studi di giovani o agli asili notturni per i senzatetto…, pensando, per dire ancora realtà sarde e cagliaritane, agli interventi  anche di pura elemosina, come quelli del 1896, a pro di un istituto dei ciechi che prendeva forma in città, ma che le gentildonne nere nere del clericalismo patrizio di Castello contestarono, ingiungendo al presidente (poi sindaco di Cagliari) Nobilioni di rifiutarli, trattandosi di sterco del demonio… A Sassari, intanto, la neo costituita Gio.Maria Angioy non soltanto sovveniva le cucine economiche, ma partecipava con diversi suoi Artieri – Paolo Camboni, Agostino Cossu Rocca, Pompeo Calvia, Carlo Piccardi, Ferdinando Margelli, Gerolamo Amic  e altri trenta – ai ricambi settimanali, tutti partecipativi, nel concreto coordinamento delle attività…,  Storie remote e storie recenti, discrete. Ma perché non evocarle? Don Esposito pubblicò una volta un libro, dalle edizioni della Società San Paolo, e lo intitolò proprio “Le buone opere dei laicisti , anticlericali e frammassoni”. Si potrebbe declinare, per quanto le carte documentano, tempo per tempo, città per città. Mentre sulla Comunione piovevano e ancora piovono sorrisi di sufficienza degli stupidi nulla pensanti, dietrologie fumose degli onniscienti, acrimonie residuali dei santi autopatentati. Anche sulla conquista civile della cremazione. Cominciando, nell’Isola, proprio dalla città capoluogo, nel 1980, dopo che altre condizioni ambientali consentirono alla Fratellanza, allora era già un secolo, di farsi promotrice dei primi forni, delle prime convenzioni con l’autorità pubblica, emancipando l’amministrazione dalle tarde ipoteche clericali.

M’importa restare sul tema e accompagnare l’evento prossimo della elezione del nuovo Gran Maestro con qualche ulteriore considerazione, forse eccentrica, forse rapsodica nel confronto con il flusso della storia obbedienziale che non vale per sé ma è tutta volta – o qui interessa per questo versante – ad un vantaggio pubblico. Non voglio discostarmi troppo dall’oggetto, cui mi ha indotto – lo ricordo – il voto che anche mille Maestri massoni giustinianei sardi riuniti nella quarantina di logge funzionanti al presente, sono stati chiamati a dare con un intento non di “cordata” parapartitica, ma secondo un giudizio di maggior adeguatezza dei singoli candidati agli obiettivi.

Evidenti ragioni di galateo associativo o fraternale impongono a me, anche come titolare dell’Archivio storico generale della Massoneria sarda, di non entrare in ambiti riservati ad un range cui sono formalmente estraneo. Ciò non toglie che ritenga utile e magari anche doveroso sviluppare alcune riflessioni e porgerle ad pubblico dibattito, con riferimento specifico al rapporto massonico con la politica.

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La questione religiosa, dopo quella politica. Mi porta oggi a quel tema, obbligandomi ad esporre libere considerazioni sui portati ideali e le concrete soggettività in campo, attive sui fronti della sinistra, della destra e dei centri, una riflessione che mi suscitò alcune settimane fa (esattamente sabato 1° febbraio ) uno strambissimo convegno organizzato nel seminario arcivescovile di Cagliari, avendo come relatore il minore conventuale padre Zbigniew Suchecki, canonista all’Antonianum ed al San Bonaventura, dotto consultore della Congregazione per le cause dei santi e membro della plenaria per la modifica del codex canonico. Titolo della sua relazione: “Perché i cattolici non possono essere massoni”.

E’ questa la materia in cui più che in altre, attenendo a una dimensione valoriale di base, si sono compiute mistificazioni, sovente (io credo) in buona fede. E se certo la materia è ben complessa per gli aspetti anche molto diversi che meriterebbero d’essere analizzati, un approccio semplificatore di base potrebbe essere opportuno. Almeno per riorientare chi volesse capirne e poi, con percorso personale ed autonomo, investigare ancor più in profondità.

Ecco dunque, qui a seguire, un appunto che ho steso, per conversazioni private, proprio nei giorni del convegno con padre Suchecki.

Io immaginerei una qualsiasi conversazione appropriata sul rapporto fra la Chiesa e la Libera Muratoria, o fra la dimensione spirituale cristiana e quella umanistica massonica, tenendo conto della storia che tutti ci genera e ci relativizza: vedendo dunque tanto la Chiesa (spinta nella relazione, ora conciliativa ora avversiva, con la Massoneria) quanto la Massoneria (volta alla relazione con la Chiesa) come corpi sociali entrambi figli della storia, ciascuno nella sua natura e vocazione peculiare, nella sua dimensione e nel suo vissuto. Esito storico sono anche i giudizi della Chiesa sulla Massoneria, idem quelli della Massoneria sulla Chiesa. O, si potrebbe meglio dire, i giudizi dei ceti magisteriali della Chiesa e quelli magistrali della Massoneria.

La più ristretta questione della compatibilità di militanza, o della militanza individuale – dico questione più ristretta rispetto a quella generale e complessiva della relazione fra le due Istituzioni – entra dentro tale contesto e può trovare risposta soltanto dopo che si è fatta qualche chiarezza sullo scenario ideale/valoriale e storico/ideologico in cui si collocano sia la Chiesa che la Fratellanza liberomuratoria.

Derubricato dagli assolutismi e dalle autoreferenzialità di un tempo, che per quanto riguarda la Chiesa tanto meno hanno senso oggi, dopo l’avvio del pontificato di papa Bergoglio il quale enfatizza la dimensione del «chi sono io per giudicare? » e punta a valorizzare la verità, secondo l’antica indicazione di Paolo VI (esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” del 1975), attraverso la testimonianza più che attraverso le conferenze, l’esame delle compatibilità dottrinarie e storiche fra Chiesa e Massoneria e circa la ipotizzata doppia appartenenza può svilupparsi sereno guardando alla realtà delle cose e non ai fantasmi di un tempo. Potrebbe anzi qui aggiungersi: non soltanto fantasmi “di un tempo” ma anche di “certi luoghi”, perché il conflitto fra Chiesa e Libera Muratoria come è stato vissuto in Italia non è stato lo stesso di quello di altre regioni d’Europa e del mondo, meglio segnate dal pluralismo religioso e politico e non condizionate dalla presenza nel loro seno della Chiesa-madre o della Sede Apostolica.

In primo luogo bisogna guardare alla natura delle due realtà: la Chiesa è, teologicamente, il corpo mistico di Cristo, è – secondo il linguaggio conciliare – il popolo di Dio in cammino, è in altre parole l’assemblea dei battezzati partecipi attivi della fraternità evangelica; la Massoneria non è né chiesa né religione, ma una società umanistica, aideologica per statuto ed ecumenica per eccellenza. Gli “Antichi Doveri”, sorta di costituzione morale rimontante al primo Settecento (1723) e dovuto alla penna di alcuni cristiani di confessione anglicana, segnatamente del pastore James Anderson, che si applicarono a dare statuti di base, definiscono la Massoneria come «il centro di unione e mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti».

Resta evidente, com’è in tutti i commentari, che le ragioni di paventata distanza erano e sono quelle di credo filosofico-politico-religioso o di stato sociale, ragioni da superare allo scopo di realizzare “una libera fraternità nella uguaglianza”. Sicché, storicamente, la Massoneria moderna e speculativa (settecentesca) – evoluzione di quella operativa del medioevo (Maestri comacini ecc.) – non è altro che la sede neutra di incontro. E infatti la storia dice bene di cattolici ed anglicani che insieme frequentavano le logge nella Gran Bretagna segnata nel XVIII secolo dal conflitto fra Chiesa nazionale e Chiesa di Roma, come in epoca più recente è capitato di vedere la coabitazione fra neri e bianchi bucando l’apartheid in SudAfrica, o fra arabi e israeliani negli anni della guerra in medio Oriente. Quando nessuno aveva da convertire l’altro, cioè da fare proselitismo (rifiutato oggi anche da papa Francesco per quanto riguarda la Chiesa!).

L’atto di umiltà che ciascuno di noi è impegnato a compiere davanti alla propria coscienza deve essere prima di tutto quello di rinunciare al proprio pregiudizio e di fermarsi ad ascoltare l’altro che si professa quello che è e non quello che gli altri gli hanno attribuito, anche fosse in buona fede, di essere. Gli  “Old Charges-Antichi Doveri” del 1723 iniziano proprio con un paragrafo intitolato “Concernente Dio e la religione” e fanno implicita memoria di come le corporazioni dei franchi muratori del medioevo, degli specialisti costruttori delle cattedrali gotiche cioè, facessero professione di fede cattolica, tanto da avere per proprio Venerabile un religioso.

Queste sono le prime parole degli “Old Charges”: «Un Muratore è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale; e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convergono, lasciando ad essi le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni sinceri o uomini di onore ed onestà, quali che siano le persuasioni che li possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti».

Pare inoltre interessante ed utile conoscere un passaggio centrale di quella “Dichiarazione di Princìpi approvata dal Convento dei Supremi Consigli Confederati riuniti a Losanna” centocinquant’anni dopo, nel settembre 1875: «La Massoneria proclama, come ha proclamato sin dalla sua origine, l’esistenza di un Principio Creatore, sotto il nome di Grande Architetto dell’Universo. Essa non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a tutti questa libertà che esige da tutti la tolleranza. Per innalzare l’uomo ai propri occhi, per renderlo degno della missione sulla terra, la Massoneria pone come principio che il Creatore supremo ha dato all’uomo, come bene più prezioso, la libertà. Agli uomini per i quali la religione è la consolazione suprema la Massoneria dice: “Coltivate la vostra religione senza ostacolo, seguite le aspirazioni della vostra coscienza. La Massoneria non è una religione, non è un culto”».

Questi sono i principi di base, i dogmi potrebbero chiamarsi, della identità massonica quale si sono definiti in un contesto culturale occidentale, dunque a forte pregnanza cristiana, rafforzativa delle esperienze operative d’un tempo, appunto quelle delle corporazioni liberomuratorie del medioevo di cui è traccia in tutte le grandi cattedrali d’Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, ecc.

Ciascuno aderisce alla società massonica non con una fede religiosa, o filosofica o politica, ma con un animus laico, cioè aideologico. Soddisfatto dalla condivisione dei principi etici di base – l’amore alla libertà, alla uguaglianza, alla fratellanza, l’amore a un principio eterno e creativo che ciascuno declina liberamente in coscienza e da cui deriva l’intima reciproca significatività – il massone lavora con altri massoni, per un obiettivo di miglioramento personale e sociale, attraverso una più larga e profonda conoscenza della realtà propiziatagli dalla compresenza di altri protagonisti diversi da lui per credo, cultura ed esperienze di vita. Egli lavora (il cosiddetto lavoro muratorio) proponendo della realtà una lettura quale egli ricava dalle sue personali tavole valoriali e dalla sua esperienza sociale e culturale e non la oppone né la impone ad alcuno, ma la offre come parete di un prisma, o meglio di un poliedro, che si combina alle altre pareti dello stesso prisma o dello stesso poliedro.

Spiega bene questo concetto il verso de “La loggia madre” del massone Rudyard Kipling (premio Nobel per la letteratura del 1936): «Fuori – Sergente, Signore, Saluto, Salaam / Dentro, Fratello, e non c’era nulla di male.  /Ci incontravamo sulla Livella e ci separavamo sulla Squadra,  /Ed io ero Secondo Diacono nella mia Loggia Madre laggiù! / Avevamo Bola Nath il contabile  /E Saul, l’israelita di Aden,  / E Din Mohammed disegnatore  / al Catasto,  /C’erano Babu Chuckerbutty,  /E Amir Singh, il Sikh, / E Castro delle officine di riparazione, / Il Cattolico Romano!…».

Una scheda biografica di Kipling lo ricorda iniziato nel Punjab, a Lahore, nel 1886, da un Venerabile di personale fede indù, promosso successivamente al grado di Compagno d’arte da un Venerabile di personale fede maomettana, e quindi al grado di Maestro da un Venerabile inglese (deve cioè reputarsi cristiano anglicano), mentre il suo assistente era un massone di personale fede ebraica.

Impediti di trattare, nelle tornate rituali, di politica e di religione in quanto elementi dividenti fra persone che si riuniscono invece apposta per tessere il filo della fraternità alla ricerca degli elementi unitivi, senza però sogno alcuno di sincretismo, i massoni regolari non ad altro si attengono che a un dettato formale e sostanziale dei cosiddetti “Landmarks” (anticipati negli “Antichi Doveri”  ma esplicitati e formalizzati in un testo del 1858). Fra essi il monoteismo, la credenza nella immortalità dell’anima, il volume della sacra scrittura (la Bibbia aperta nella pagina del prologo del Vangelo di Giovanni – il Vangelo della Luce – e, quando partecipino alle tornate Fratelli di religione ebraica o islamica, la Torah o il Corano aperti anch’essi in una pagina allusiva alla Luce, cioè, nel linguaggio dei simboli, così consueto anche nella tradizione cristiana e in ogni altra religione, alla emancipazione dalla condizione vile verso più elevati livelli spirituali e intellettuali, di temperamento, di bontà ecc.), ecc.

Fra i principi e finalità del Grande Oriente d’Italia, all’art. 4 della costituzione si legge fra l’altro che esso, «fatti propri gli Antichi Doveri, persegue la ricerca della verità ed il perfezionamento dell’Uomo e dell’Umana Famiglia, opera per estendere a tutti gli uomini i legami d’amore che uniscono i Fratelli, propugna la tolleranza, il rispetto di sé e degli altri, la libertà di coscienza e di pensiero».

All’art. 5, riguardante i metodi, recita che il Grande Oriente d’Italia «non tratta questioni di politica e di religione».

Insomma, ognuno dei Fratelli che partecipi liberamente alla esperienza di tolleranza ecumenica – da intendersi come amicizia per ogni sincera elaborazione personale – porta la sua complessità e unicità, cioè la sua identità piena che, in quanto tale, entra in campo per l’arricchimento di tutti e senza dover essere sottoposta ad alcun giudizio né condizionata da pulsioni propagandistiche o proselitistiche di alcuno. Né tanto meno essa può essere scorporata in sezioni (ora la competenza culturale o professionale, ora la fede religiosa) da sottoporre al giudizio saccente di qualcuno.

La ricerca dei fondamenti comuni non implica, si ripete, alcun interesse a compimenti sincretistici, quasi una new age ante litteram. La Massoneria vive di diversità e gusta la diversità, non livella alcunché espropriando i succhi originali delle varie esperienze ed elaborazioni.

Il ricorso alla ragione, come punto di forza dell’umano, nella lettura non esclusiva ma certamente necessaria della realtà cosmica e storica, anch’esso distingue la vocazione massonica da quella di una qualsiasi chiesa, il cui fondamento è soltanto la grazia donata.

Chiarito questo punto, che toglie ogni malinteso circa la inesistente e impossibile concorrenza fra le due realtà della Chiesa e dell’Ordine massonico, va soggiunto che le scomuniche di papa Clemente XII (“In Eminenti”) – cioè di un papa-re, teocrate – e dei successori  hanno avuto tutte quante origine da una duplice avversione e/o equivoco: dalla visione assolutista e cioè illiberale tanto della dottrina cattolica quanto della pratica secolare dello Stato della Chiesa (tant’è che altra condanna venne alla Massoneria, nello stesso tempo e dopo, in altri stati retti da monarchie assolute, come l’Austria), sicché era esclusa dall’orizzonte cattolico ogni istanza intimamente ecumenica: quella istanza che la Chiesa cattolica ha colto per sé soltanto nella stagione conciliare. Conseguente era la condanna della Massoneria sia come società liberale, sostenitrice delle libertà di pensiero e coscienza, di stampa e associazione, sia come società ecumenica, dato che la Chiesa interpretava la vicinanza su un piano paritario del cattolico e del riformato o dell’ebreo una forzatura, non dandosi eguaglianza e pari dignità fra i portatori dell’integrale verità e gli altri, cioè gli infedeli. La Chiesa magisteriale, non cogliendo ancora la bellezza della fraternità evangelica, assumeva la sua verità come una verità dirimente e discriminante perfino la frequentazione.

Ancora negli anni della nostra infanzia, anche nella nostra Cagliari, si verificarono episodi di avversione reciproca fra cattolici e minoranze protestanti che passavano per le case con le loro Bibbie, episodi di intolleranza da parte dei cattolici e magari di ingerenza da parte dei protestanti, ed essi sono stati registrati dalla cronaca (sarebbe utile una visita alla emeroteca cittadina) e sono nella nostra memoria.

Era impedito dal magistero che un cattolico, tanto più quando non autorizzato dal clero o dalla gerarchia, potesse autogestire la relazione con i fratelli di altra religione, e anzi soprattutto di altra confessione cristiana. Ciò nella permanente preoccupazione pedagogica di clero e gerarchia, quasi che i battezzati cattolici fossero esposti a continuo pericolo e tentazione dalle loro libere frequentazioni.

E gli stessi ebrei, considerati per lunghi secoli «perfidi giudei» e da Giovanni Paolo II «fratelli maggiori», segnano, nella loro esperienza come noi l’abbiamo conosciuta, l’evoluzione radicale, e perfino il rovesciamento di giudizio dottrinale e storico da parte della Chiesa.

Quando la Massoneria universale, e quella italiana in essa, sosteneva i principi di democrazia e di libertà di pensiero, di culto, di stampa ecc., la Chiesa, nei suoi domini territoriali e nelle società regionali e nazionali su cui poteva spendere la propria influenza, condannava la democrazia e i principi di libertà di pensiero, di culto, di stampa ecc. Basterebbe leggere il “Sillabo” di papa Pio IX del 1864. E con la democrazia e ogni libertà erano condannati, contestati in nuce, perfino i diritti dell’uomo. Eppure basterebbe ripensare al magistero conciliare di Paolo VI e, dopo, di Giovanni Paolo II per udire addirittura poesia riguardo ai diritti dell’uomo e all’esercizio delle sue naturali libertà che l’ordinamento giuridico dovrebbe sempre riconoscere e tutelare. E’ la Chiesa che, imparando dalla storia, ha rettificato il suo giudizio sul mondo e il suo rapporto con il mondo. E beatifica oggi uomini come il Rosmini che pure aveva condannato a suo tempo, ponendo all’Indice i suoi libri.

Di più: con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha riscoperto se stessa riscoprendo le fonti, la centralità biblica e da qui anche la piena legittimazione delle confessioni, anch’esse fondate sulle Scritture – cioè sul Libro Sacro –, a partecipare alla assemblea della fraternità. Ha declericizzato se stessa, riportandosi a una dimensione comunitaria e collocando in essa la paolina varietà dei carismi (compresi quelli ministeriali) tutti volti a dare concretezza ai dinamismi spirituali propri della comunione ecclesiale.

Un argomento forte dei sostenitori della permanente incompatibilità ed avversione della Chiesa verso la Libera Muratoria è tratto dalla storia risorgimentale italiana che ha visto l’Ordine massonico impegnato, con i suoi documenti e i suoi uomini, nel moto unitario ed espropriativo dell’asse ecclesiastico ecc.

Naturalmente questa materia è assai complessa e rivelatrice comunque, a un’analisi attenta, equilibrata ed imparziale, di mutue incomprensioni, per quanto sembra indubbio che, sotto il profilo della lettura dei segni dei tempi, sia stato il risorgimento nazionale e unitario e non certo la teocrazia papalina a marcare maggiore lucidità (se è vero che ancora il pontefice Paolo VI, nella ricorrenza centenaria della storica breccia di Porta Pia, affermava essere la perdita del potere temporale un dono di Provvidenza, mentre il suo predecessore del 1870 e poi tutti gli altri papi fino al 1929, avevano giudicato la presa di Roma un esproprio ingiusto, dichiarandosi prigionieri nella città leonina).

La memoria storica potrebbe portare, ancora a Cagliari, a considerazioni perfino amene sulla fondatezza dei decreti di scomunica, su cui ha scritto belle pagine Giorgio Asproni, che la materia conosceva benissimo.

Nel novero delle pagine di storia ecclesiastica locale sarebbe da cogliere forse quella, gustosissima [e già sopra richiamata], che vide la scomunica, da parte dell’arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra, del suo decano capitolare – un santo da tutti come tale venerato – Domenico De Roma, per la posizione da questi assunta  o non assunta davanti alla richiesta del governo di Torino di censimento dei beni ecclesiastici in vista della abolizione delle decime. All’indomani della scomunica a lui comminata dal suo ordinario, il canonico De Roma, solito officiare di prima mattina, andò in cattedrale a celebrare a mezzogiorno una messa solenne… «Il popolo ne restò meravigliato: ma istrutto che le scomuniche per fini e cause temporali si disprezzano, perché sono inattendibili, rise dello scomunicante, e continuò a venerare lo scomunicato», commentò poi il sen. Musio, un giurista fra i più fini di tutt’Italia!

Ma focalizzando i maggiori intenti della Massoneria italiana ottocentesca o del primo Novecento in rapporto essenzialmente alle questioni valoriali e spirituali, parrebbero certamente scorgersi in essi elementi che all’anticlericalismo aggiungevano spunti di irreligiosità modellati dalla cultura razionalista, scientista e positivista del tempo. Tali pulsioni non sarebbe giusto negarle, per quanto possa rilevarsi anche in questo un chiaroscuro e non una unicità di tinte.

Sarebbe anche da dire che nel 1869, quando il delegato della loggia sassarese – Bartolomeo Ortolani, rettore del Canopoleno, un passato da prete – portò alla costituente nazionale, da intendersi come congresso plenario della Massoneria italiana, la proposta di sostituire la formula iniziatica “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo” con altra positivista del tipo “Alla Gloria del Progresso Infinito”, i rappresentanti di pressoché la totalità delle altre logge italiane respinsero quell’ordine del giorno, dichiarando immodificabile l’ancoraggio all’idea ecumenica del Grande Architetto creatore in cui ognuno avrebbe potuto individuare il suo Dio particolare:  e i massoni di fede cattolica o cristiana in genere (come avrebbe potuto essere Kipling o il dottor Schweitzer) avrebbero in essa scorto il Dio della Bibbia, creatore-liberatore-padre, e i massoni di altra fede vi avrebbero scorto altri connotati di eternità, onnipotenza e presenza nella vita degli uomini.

Dunque anche nel momento di più acuta tensione ideologica fra Chiesa e Massoneria in Italia, il sistema delle logge volutamente non compì il passaggio alla irreligione. Ed a Cagliari stesso è da dire che negli anni immediatamente successivi alla guerra 1915-18 fu Oratore della loggia Sigismondo Arquer – nome quest’ultimo evocativo del rogo dell’Inquisizione che bruciò viva la vittima nel 1571 – il pastore evangelico-battista Francesco Giusto Lo Bue, appassionato cantore di San Paolo.

E’ anche da dire che quella sorta di “parasacramenti” – il battesimo morale sulla tomba di Garibaldi a Caprera, l’educazione dei lupetti, i riconoscimenti di matrimonio (ovviamente accompagnati dalla celebrazione in municipio), soprattutto i riti di lutto – che presero consistenza nel volgere fra Ottocento e Novecento rivelavano la significatività, per la Libera Muratoria italiana, della cultura religiosa cristiana e cattolica di cui replicavano, in ambiente ecumenico, la spiritualità non potendone ovviamente rimbalzare la teologia.

Valga ancora, a segnalare la permanenza di tale spiritualità, o sensibilità spirituale, qualche passaggio del rito funebre che, di fianco a quello sovente celebrato in parrocchia, viene officiato nel Tempio massonico, ancora – si ripete – in chiave non sostitutiva o alternativa, ma complementare ed in chiave umanistica ed ecumenica, alla morte di un Fratello o il 10 marzo, data evocativa in Italia della morte di Giuseppe Mazzini:  «… Forza infinita, Fuoco venerato, che tutto ciò che vive fecondi, immutabile Origine d’ogni trasformazione, fa’ che il nostro Fratello possa vivere eternamente con te, come ha vissuto con noi. Possa la sua morte insegnarci a morire e la sua venerata memoria mantenerci costanti nelle vie della onestà e del dovere». E’ l’invocazione che il Maestro Venerabile della loggia rivolge al Grande Architetto dell’Universo «Forza immensa che regola e muove la natura».

Ancora: «Come l’astro che nasce disperde le tenebre della notte, così la speranza che il nostro Fratello riposi nel grembo del Grande Architetto dell’Universo dissipa ogni nostro dolore e cambia in giubilo il nostro sconforto», è l’auspicio formulato ancora da chi presiede la cerimonia. «Che la memoria dell’estinto Fratello ci ritorni alla mente con dolcissima soavità. In presenza di questi tetri colori e del lugubre silenzio di morte che qui domina, ricordiamoci, o Fratelli, che dalla corruzione nascono i profumi e le bellezze della vita: che la morte non è che l’iniziazione ai misteri di una vita seconda, e che nulla si disperde o si estingue nella natura», sono altre parole ancora del rituale.

La conclusione, che pare proprio replicare l’amore al perdono che è tutto di segno evangelico, come dal Vangelo derivano i passaggi del rito di iniziazione allusive al “fare il bene che si vorrebbe fatto a sé”: «dinanzi a questi simboli della morte, ogni pensiero egoistico, ogni risentimento deve esser bandito. V’invito dunque a giurare con me che obliate ogni offesa. La pace e la concordia regnino fra noi… non dimentichiamo giammai il fondamentale precetto: non fare ad altri quello che non vorresti fatto a te stesso, e fa’ agli altri quello che per te medesimo vorresti».

Queste frasi sono state pronunciate anche a Cagliari per onorare le spoglie e la memoria di massoni che erano impiegati, per chiamata vescovile, in taluni uffici della curia già negli anni ’70 ed ‘80 del Novecento, o addirittura all’altare, in epoca anche più recente, con funzioni di ministranti.

Concludendo. Indulgere a una lettura tutta dottrinaria (fuori dal contesto storico) del rapporto fra Chiesa e Massoneria, da cui derivare regole assolute di contrapposizione e ostilità e anche di incompatibilità dogmatica fra la fraternità evangelica vissuta nella comunità cristiana ed ecclesiale e la fraternità umanistica vissuta nell’ecumenismo massonico non implicante alcun giudizio teologico particolare, non arricchisce nessuno, non realizza né alimenta la mutua fiducia ed amicizia, spinge ad autoreferenzialità e manicheismi fra i perfetti (o sedicenti tali) e imperfetti che non ha forse avuto alcun senso ieri, non lo ha oggi e tanto meno si crede e si spera lo abbia domani.

La linea maestra, in tutto questo, rimane il gusto giovanneo al dialogo, riproposto da Paolo VI – «la Chiesa si fa dialogo» – nella “Ecclesiam Suam”, del 1964, in piena stagione conciliare, quando andò all’abbraccio con il patriarca ecumenico Athenagoras – che un’iniziazione massonica la ebbe come la ebbe anche l’arcivescovo primate anglicano Fisher – e si preparava a bruciare le scomuniche antiortodosse, confortato dal patriarca che avrebbe bruciato le scomuniche anticattoliche. Questo spirito deve riportare ciascuno a ripensare la propria identità, prima di passare all’esame della relazione con l’altro di cui deve capire la natura e non sostituire ad essa la propria interpretazione più spesso impropria.

Perché nessuno potrebbe dire che la concezione che la stessa teologia ha della identità del cristiano sia oggi la stessa dei secoli trascorsi: perché oggi la parola chiave è popolo, un tempo era gregge; e direi – guardando al contesto storico – perché un tempo, il tempo dell’assolutismo e dell’autoritarismo, era la speculare identità del pastore-dominus quella che vinceva (si ricordi “sa scomuniga de predi Antiogu” in quel di Masullas), mentre oggi è – a ripetere le parole di Giovanni XXIII nella sera del giorno famoso di apertura dei lavori conciliari – “paternità-e-fraternità” che si muovono insieme nell’accompagnamento del popolo.

Se dunque il cristiano cattolico è sceso dalla cattedra e si riconosce, in semplicità, come colui che avverte in sé la chiamata alla testimonianza evangelica nella e attraverso la sua vita, tutto avviene sulla scena della vita amica del Vangelo e non nell’esame sterile dei commi del codice.

Il paolino don Rosario F. Esposito – forse il maggior massonologo italiano di parte cattolica, autore di decine di libri e saggi in materia, il quale partì nelle sue ricerche storiche con un pregiudizio negativo da lui confessato come un errore – ha concluso la sua vita, pochi anni fa, accettando perfino la carica di Gran Maestro onorario della Comunione massonica di Palazzo Vitelleschi.

In uno dei suoi libri più belli – “Santi e massoni al servizio dell’uomo” , esito di lunghissime e faticosissime ricerche d’archivio – don Esposito, venuto più volte anche a Cagliari per onorare un artista massone e naturaliter cristiano come Franco d’Aspro – elenca a decine i massoni italiani e stranieri alleati dei cattolici nella carità e i massoni cattolici per educazione e statuto di coscienza che hanno speso la loro vita per glorificare Dio attraverso «l’uomo vivente» (secondo la nota espressione di Sant’Ireneo).

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L’affaccio politico nella storia del GOI. Indirizzerei alcuni ulteriori sguardi al rapporto che la Massoneria ha avuto nel concreto con la politica, anche e specificamente, nella nostra regione, nei decenni trascorsi e nell’oggi. Ciò per pormi infine la domanda se abbia senso, ed eventualmente quale, confermare una relazione, non smentendo ma integrando il dato di base sopra richiamato della trasversalità ecumenica, della neutralità di natura della Libera Muratoria. Perché io ritengo che quella trasversalità ecumenica e quella neutralità di natura siano esse stesse elementi da coniugare con un portato storico caratterizzante l’esperienza “nazionale” di una Comunione “internazionale”, meglio universalistica. Insomma, la Massoneria italiana, pur essendo per natura, cioè per dati costitutivi, pari a quella d’ogni altro paese e continente, vive la sua storia particolare e porta alla maggior sede universale la sua esperienza e la sua elaborazione.

Dopo tanta premessa, avverto però – ed è confessione malinconica – di affrontare questa questione come in una bolla di paradosso, se davvero l’atmosfera generale (e, ne ho notizia, anche delle logge, o di certe logge) si è impoverita di passione morale e civile…

Nel concreto, dentro questa esperienza nazionale, dentro questa elaborazione che guarda ai dati tutti italiani, sono inseriti i materiali del risorgimento unitario, del risorgimento laico, del risorgimento progressivo scaturito dalla dialettica fra liberalismo, democrazia (radical-repubblicanesimo) e socialismo, degli assestamenti giolittiani nel complesso passaggio di secolo, della battaglia antifascista con i patimenti della cattività e dell’esilio, della partecipazione ricostruttiva postbellica. Questo ha vissuto la Libera Muratoria in un paese che, a differenza di altri, ha dovuto convivere con la sede mondiale (in abito anche politico e statuale)della Chiesa cattolica, ha dovuto convivere con una dittatura più che ventennale, ha dovuto convivere per quarant’anni con le obliquità ideologiche di un Partito Comunista fratello dei comunismi illiberali d’oltre cortina, ha dovuto convivere con un guelfismo soffocante – almeno nei primi decenni repubblicani – entrato nella legislazione e nella amministrazione, ha dovuto infine convivere, dopo che con la tragedia prolungata del terrorismo, con una crescente degenerazione della politica e del sentimento pubblico, fino alla svolta degradata portata dai cosiddetti nuovisti che hanno vissuto e vivono la politica – la Politica! – come marketing da ipermercato.

La Massoneria italiana non ha costruito se stessa in un Eden, ma nel dramma delle scomuniche e delle persecuzioni clericali, nel fuoco delle sue biblioteche assaltate dalle squadre fasciste, nella opposizione dottrinaria – dopo vent’anni di sonno imposto dalla dittatura – di una sinistra leninista che nelle sue molteplici trasformazioni non ha mai perso il gusto complottardo condannato da Brecht. Ha anche pagato lo scotto della incapacità delle forze e formazioni di cultura democratica, liberal-radicale e socialista, culturalmente ad essa più vicine – non foss’altro che per il comune imprinting critico, per la condivisa esperienza laica –, di farsi organica proposta di futuro alla nazione.

Cosa ne è derivato e cosa ne deriva? Ne deriva che la Massoneria italiana non potrà mai permettersi di essere farsi imprigionare dalle suggestioni e dagli impoverimenti del pensiero debole, o di collocarsi là dove essa – scuola di tradizione per eccellenza – smarrisse il senso della continuità, e sia pure una continuità evolutiva, di una cultura e di una prassi. Per questo pare a me impossibile, estraneo ad ogni paradigma ideale, la militanza d’un massone, che è critico per sua stessa struttura, in formazioni senza storia e senza anima, tronfie del nulla sostanziale, operatrici sul piano della politica in logica puramente contabile secondo induzioni tifose e plebiscitarie, così come era stata impossibile una militanza, nel tempo che fu, in uno schieramento illiberale della gauche dottrinaria o della destra muscolare e incolta.

Come società umanistica di discussione, rimontante a scuole di pensiero (etico-religioso) che hanno accompagnato nei secoli le esperienze delle corporazioni di mestiere specializzato, l’Ordine liberomuratorio europeo si è plasmato, nel concreto, secondo necessità ed influenze nazionali, vivendo – pur con tutti i filtri possibili e immaginabili, nella piena fedeltà ai “principi basici” di taglio universalistico – in osmosi con le realtà sociali di emanazione. In altre parole: la natura intimamente ecumenica della Fratellanza ed il conseguente riferimento a fonti  spirituali comuni non hanno impedito – né lo avrebbero potuto – un coinvolgimento nelle tensioni sociali-ideali dei singoli territori di incardinamento. Il che poi significa – come anche ho prima accennato, ma che avverto utile qui reiterare – che fare pratica massonica in una Italia condizionata dalla presenza del governo centrale della Chiesa cattolica, tanto più nell’Ottocento risorgimentale, o da un massimalismo classista indifferente al dato istituzionale tutto risolvendo nell’economico, o ancora dagli sconvolgimenti totalitari di due lunghi decenni con i devastanti strascichi bellici a tutti noti, non avrebbe mai potuto essere come farla in Germania o in Francia o nel Regno Unito. Ciò ha comportato una rilevante sottolineatura del tratto civile e politico (lato sensu) delle logge, in speculare risposta al temporalismo ribadito come irrinunciabile diritto/dovere dal papato ed espresso nella tenace opposizione al moto unitario promosso dai liberali e democratici dei diversi staterelli dello Stivale, o a quel sistema di tensioni sociali o socio-economiche e anche politiche che qui hanno avuto tanta speciale sostanza e non altrove.

Utilizzata, in parallelo alla Società Nazionale, nel sostegno al disegno cavouriano della unità territoriale e politica – ma sul versante diplomatico prima che militare, e savoiardo piuttosto che garibaldino –, la Massoneria prese le mosse, anche in Sardegna – a far data dal 1861 – riunendo attorno alla tradizione rituale alcuni opinion leader presenti nell’accademia e nella burocrazia, nel giornalismo e nell’arte o nell’imprenditoria, di prevalente orientamento liberal-moderato, e lanciandoli nella missione patriottica che era da un lato educativa (finalmente il “cittadino” italiano non più il “suddito” austro-ungarico, estense, borbone ecc.) e dall’altra direttamente operativa nella logica dei progressivi adattamenti unitari nelle amministrazioni (dai comuni alle università).

Lo sviluppo crescente, all’interno del Grande Oriente Italiano (dal 1864 d’Italia), della componente scozzese di obbedienza mazziniana e garibaldina, ma comunque sempre nel lealismo alle istituzioni monarchiche, portò anche in Sardegna ad una maggiore e migliore sensibilità alla questione sociale, ed al progressivo sostegno di iniziative sia nel campo prettamente mutualistico – si potrebbe ricostruire una mappa delle società operaie di mutuo soccorso d’ispirazione massonica – sia in quello più generale filantropico o dell’assistenza (si parte dai ricoveri di mendicità, o dai dormitori pubblici, o dai comitati d’accompagno degli ex carcerati, e si arriverà alla Croce Verde).

Tale compromissione nella realtà pubblica dell’Italia (e della Sardegna) ottocentesca significherà anche una certa assunzione di giudizio ideologico-politico sul presente da parte delle logge e dei singoli Fratelli che non a caso si impegnano nella promozione, oltreché del mutualismo e delle società ospiziali, anche di strumenti emancipativi sul piano della cultura diffusa, con testate pubblicistiche come ad esempio, a Cagliari, “Il Positivo” (di aggiornamento dei risultati della ricerca ed applicazione tecnologica), o nella semina del nuovo sapere scientifico, come poteva essere – ne ho dato conto – l’evoluzionismo darwiniano a fronte del creazionismo tenacemente difeso, in aggressivo contrappunto, dal pergamo della maggior cattedrale isolana.

Non la voglio far lunga, benché la storia sia fascinosa nei dettagli non meno che nei quadri generali. Mi importava richiamare, in questo contesto, la solenne sconfitta subita dal Venerabile della loggia sassarese intitolata al giovane martire Goffredo Mameli allorché egli, all’assemblea costituente del Grande Oriente  svoltasi nella capitale Firenze, propose la sostituzione del distico iniziatico/programmatico (acronimo AGDGADU) con altro di tratto piuttosto positivista. Perché allora – ne ho già riferito – la stragrande maggioranza dei delegati delle logge, convinti dalle tesi opposte di Floriano Del Zio – filosofo hegeliano che aveva insegnato al Dettori di Cagliari pochi anni addietro, e che dunque nulla aveva da restituire ai cattolici –, optarono per la conferma del rimando deistico/teistico. Il che significa poi molto: che, cioè, pur in un contesto di acceso anticlericalismo – che ancor più avrebbe avuto micce accendiarie dalla convocazione del Concilio Vaticano I da parte di papa Pio IX (a cui avrebbe fatto pendant l’anticoncilio convocato da Giuseppe Ricciardi) –, mai si cedette alla suggestione, o alla tentazione dell’irreligione.

Sarebbe poi venuta, nell’Isola e nel suo maggior capoluogo, la lunga stagione sì notabilare ma anche, per vari aspetti, modernista, sul piano sociale caratterizzata dall’associazionismo che avrebbe segnato inconfondibilmente la loggia cittadina intitolata al martire Sigismondo Arquer, quella compagine simbolica e rituale da cui sarebbero derivate le altre, fra Carloforte e Sassari, Iglesias ed Oristano, Ghilarza e La Maddalena. Sarebbe stato quello l’associazionismo multiforme, come a rivelare e insieme giustificare o appagare le diverse vocazioni presenti: patriottico (Reduci dalle Patrie Battaglie, Tiro a segno nazionale), culturale (Dante Alighieri, Corda Fratres, Università Popolare), professionale (Impiegati civili), sociale (cucine economiche, dormitorio pubblico), ecc. Non granché diverse le dinamiche sassaresi, riportate al titolo distintivo, evidentemente anch’esso di impegno civile, di Gio.Maria Angioy. E con non minori slanci progressisti, culturali e sociali, che nel meridione isolano, si sarebbero sviluppate le presenze anche ad  Alghero e Tempio Pausania e magari Nuoro.

La Fratellanza fu attraversata dalle idealità civili e patriottiche che associavano, pur nella differenza delle sensibilità, democratici e radicali-repubblicani (infine anche socialisti) e liberal-moderati o lealisti savoiardi, governativi d’affetto.  Ecco il punto: l’intesa nasceva dagli orgogli che da assoluti si facevano relativi, generando così un obiettivo non mediano ma superiore, nel nome del bene sociale. Ma erano orgogli che avevano una loro motivazione, una loro storia. I liberal-cavouriani fattisi nel tempo, dopo i travagli del Trasformismo, crispini, zanardelliani o magari giolittiani, si sentivano portatori di una certa idea dell’Italia borghese che nella casa Savoia riponeva la sua legittimazione. I democratici, quelli nati con Mazzini e Garibaldi nel cuore e quegli altri più interni alla transigenza radicale, rimandavano (anche se con sofferenza) ad un tempo fuori calendario il giorno della pacifica rivoluzione istituzionale, e s’appagavano di una, sì contraddittoria ma pure visibile, progressione civile, non soltanto economica: così nell’elettorato attivo, così nella politica scolastica e negli istituti di libertà.

Ci ripenso, da quando mi è stato documentato che dopo il fenomeno di Mani pulite anche in Sardegna molti quadri della Massoneria hanno creduto che potesse essere onore della politica la proposta tanto dei programmi quanto degli stili e infine degli uomini della destra pagana in combinazione con il leghismo antirisorgimentale e il postfascismo missino.  Per quale dignità? da quale storia? La Massoneria come scuola critica, scuola di ricerca del vero individuale ma insieme del bene sociale, come avrebbe mai potuto accogliere nei suoi ranghi belanti passivi? Eppure si è dato.

Ma ricordo, per averne anche pubblicato i verbali ora sono già quasi vent’anni, delle discussioni di quelle logge che nel 1946 si dissero contrarie al qualunquismo di Giannini e cercarono di rendere noti i loro avvisi chiedendo ospitalità – senza ottenerla – agli organi di stampa, e deliberando di schierarsi politicamente laddove il senso della storia, forzatamente bilanciato dalla situazione di fatto, consigliava. E fu allora la lista liberale a Cagliari, come quella democratico-sardista e repubblicana a Sassari. A Bosa tutta la loggia era sardista, e si godeva quel sardismo, di cui poteva farsi alfiere un Melkiorre Melis (che ventenne aveva montato la guardia armata a difesa di Palazzo Giustiniani assediato dai fascisti), con i tratti ineliminabili della coscienza italiana: coscienza nazionale e democratica insieme. Così anche a La Maddalena, terra di cultura e mito garibaldini.

Dal repubblicanesimo, dal sardismo, dal liberalismo, dal socialismo, dal radicalismo, dalle grandi correnti ideali dell’Otto-Novecento allo scadente prodotto di un soviet milionario spalmato nel conformismo plaudente e deodorato di una destra improvvisata e senza storia… Come può essere che il GOI, o il GOI sardo, ne sia coinvolto? Dov’è stata l’interruzione del passaggio ideale, dov’è avvenuto che anche le logge, nate per la unità e bellezza della patria e dai sogni federalistici europei, si siano disorientate così da perdere, o almeno da indebolire addirittura i fondamentali?

Certo si potrebbe osservare, o controbattere, che anche l’ieri non era tutto virtuoso, non sotto il profilo del galantomismo o della probità personale s’intende, ma sotto quello del sentimento politico. E neppure, a voler portare troppo lontano il discorso, soltanto o addirittura nella stagione giolittiana o umbertina, o nella nostra cocchiana e bacareddiana prebellica… No, anche in quella del secondo dopoguerra. Perché è vero che, in specie negli anni ’50 e ancora nei primi del decennio seguente, nelle logge – più in quelle cagliaritane che in quelle sassaresi – non mancavano né erano marginali le presenze di elementi conservatori o politicamente reazionari, perfino nostalgici e non soltanto della monarchia. E se si considera che il Movimento Sociale Italiano nacque programmaticamente dall’appello alla riunione dei fascisti savoiardi (quelli degli anni del regime) e di quelli della Repubblica di Salò, e che gli uni come gli altri avevano irriso ed ostacolato, addirittura perseguitato sempre e comunque la Libera Muratoria, certo fu uno strano aggiustamento ideologico sia personale che delle logge quello volto a realizzare un incontro. Ma così fu. Bisognerebbe approfondire, partendo proprio dalle storie individuali, che per qualcuno erano storie che lambivano trascorsi dannunziani, ardimenti fiumani certo non da disprezzare, non vili, generosi e rischiosi anzi, all’indomani della grande guerra…

Nonostante tutto – è un concetto che ho ripreso tante volte questo – c’erano ideali. Nei primi anni ’50 a Cagliari si era consumata una rottura tra Fratelli progressisti e Fratelli conservatori. Si era tentata la carta di una soluzione organizzativa, allestendo due distinte formazioni, due cosiddetti Triangoli rispettosi l’uno dell’altro, ma pure reciprocamente autonomi. I convegni regionali di Macomer e Sassari, fra 1953 e 1954 e dopo quello anch’esso sassarese del 1947 (presenti il Gran Maestro sardo Guido Laj e il Sovrano Gran Commendatore scozzese Giovanni Mori), avevano portato sostanza di riflessione comune intorno alle materie cruciali della educazione civica delle giovani generazioni, dei programmi formativi della scuola pubblica e laica, non soltanto su questioni interne, peraltro rimaste irrisolte. Poi la soluzione si trovò nel 1958 con la regolarizzazione nel GOI di una loggia importante – la Cavour – già incardinata in un’altra obbedienza chiamata AA.LL.AA.MM.  (ex Palazzo Brancaccio), che si sarebbe fatta lei calamita positiva della sparse forze in permanente contrasto. Da lì sarebbe venuta davvero un’altra storia, la storia lunga e dignitosa, di qualità, di sintesi faticose ma possibili ancora fra moderati e progressisti, fra monarchici e repubblicani, negli anni ’60, e di maggiori slanci civili negli  anni ’70 ed ’80, con una maggiore o crescente prossimità a militanze nell’area socialista e socialdemocratica, oltre che repubblicana, sardista e liberale…

Due convegni massonici regionali. Vorrei però ritornare, ancora un momento almeno, a quelle assemblee degli anni 1953 e 1954, ed alla seconda in particolare, intorno a cui scrissi tempo onorando il cinquantenario della più anziana delle logge sulcitane. Scelgo anzi adesso neppure di parafrasare, ma di riprendere pari pari quel testo pubblicato ora sono già quasi dieci anni (cf. “Nella Valle del Cixerri e del Palmas. La R.L. Giovanni Mori n. 533 all’Oriente di Carbonia 1953-1974”), riproponendo argomenti (interni e di più ampio interesse) e toni come li raccolsi dai verbali fortunosamente recuperati dal mio Archivio generale. Sarà come restituire nella sua autenticità  il sentimento diffuso in una Libera Muratoria di ammirevoli precursori, pensando ai millequattrocento effettivi di oggi…

E’ di domenica 20 settembre 1953 – vigilia quasi del rinnovo elettorale romano – il primo dei due episodi. Convocata nell’albergo “Stazione” di Macomer, la Fratellanza interviene con una rappresentativa invero di numeri modesti: sedici Artieri appena. Presiede i Lavori il Consigliere/Ispettore Rovasio, al suo fianco sono i quattro Venerabili: Emilio Fadda (Risorgimento), Alberto Silicani (Mori), Quintino Fernando (Libertà e Lavoro), Bruno Mura (Angioy). E’ annotata la presenza anche degli oristanesi – vicini di “piazza” – Baldino, Butta, Floris, Loffredo, Manconi, Sini, Usai; dei carboniesi Busonero, Maxia e Marongiu; del sassarese (verbalizzante) Tedesco.

Apre Rovasio, il quale sostiene subito l’urgente necessità di ricondurre la Famiglia massonica isolana «in un binario perfetto», procedendo ad un riordino della sua struttura organizzativa, attraverso l’abbattimento delle Colonne ormai irrimediabilmente sbilenche e l’elevazione e il consolidamento di quelle più promettenti. Non c’è motivo, né sarebbe costituzionalmente ammissibile, di prescindere dagli indirizzi normativi generali del Grande Oriente, al quale peraltro – avverte – è giusto chiedere una certa autonomia operativa.

Tutto l’impegno dell’Istituzione muratoria – insiste – deve essere nel sociale, nel tentativo di limitare lo strapotere democristiano che ha «schiavizzato», ad ogni livello, il cruciale settore dell’educazione delle giovani generazioni. Per riuscire nell’impresa appare evidente che le logge sarde recuperino efficienza, coraggio nel fare e soprattutto lucidità progettuale. Propone perciò di riprendere ed intensificare i contatti tra le officine, dando vita ad un autentico centro culturale, promotore di incontri e periodiche «conferenze istruttive», tese cioè all’approfondimento della peculiare dottrina liberomuratoria, sia pure in una chiave, per così dire, di produttività civile.

Il Ven. Silicani, per parte sua, giustifica la debolezza strutturale della Comunione giustinianea, così nella dimensione regionale come in quella nazionale, con la situazione storica vissuta a causa del fascismo, che aveva ridotto le Logge «in polvere». Ma – avverte – «dar vita novella all’Istituzione significa rinascere fedeli ai principi eterni e significa aggiornarla nei metodi e nelle direttive». Certo, il costume civile diffuso in Italia, anche e soprattutto nella politica – dove dominano formazioni caratterizzate dal dogmatismo –, crea ostacoli all’affermazione dei valori latomistici. Ciò non di meno, il ruolo storico della Massoneria è di porsi «all’avanguardia» del movimento autenticamente progressista del Paese, smentendo nei fatti la nomea di «sentinella del mondo bancario e aristocratico».

Essa non può farsi imprigionare nel banale anticlericalismo di tanto in tanto predicato da varie parti: la coscienza religiosa dei massoni deve poter testimoniare alle Chiese, delle quali la Massoneria in quanto tale non è né avversaria né concorrente («non esalta nessuna religione né può abbracciarne una in particolare»), la giustezza dei propri principi spirituali. E se qualche Fratello si professa non credente, sembra importante che egli valuti autocriticamente i motivi di quel suo radicamento nell’ateismo… «Non si può sperare nulla da gente che si professa atea senza base e senza principio», sostiene ancora, prima di ritornare sugli aspetti organizzativi dell’Obbedienza regionale. All’interno delle singole officine – è il suo monito conclusivo – vanno sanati i dissidi che, sorti magari per equivoci, ne minano l’armonia complessiva.

E’ sicuramente in… dialettica col suo omologo il Ven. Mura, politicamente comunista e portatore (come Rovasio e al contrario di Silicani) di una visione di Massoneria presenzialista sulla scena pubblica e civile. Per lui, «adeguandosi ai tempi», la Libera Muratoria deve accostarsi alle «grandi masse», i Fratelli debbono scendere in politica, anche se certo «non come nelle piazze, ma proprio da Fratelli, con i loro principi».

Insiste sul concetto di fratellanza, sul dovere di alimentare lo spirito di tolleranza e naturalmente conviene sulla esigenza di ravvivare i contatti interloggia, auspicando pure lui l’abbandono definitivo dei troppo frequenti… mormorii (per non dire pettegolezzi) i quali «creano dissidi e malumori che a volte degenerano».

Sull’aspetto religioso, e perciò sull’incompatibilità fra iniziazione muratoria e professione di ateismo, interviene il Ven. Fadda che ricorda l’articolo primo della vigente costituzione del GOI e non manca di rilevare però, con sconcerto, quanto offrono come «spettacolo di intolleranza» i cattolici italiani.

In materia politica egli (che nella vita profana è dirigente sardista) pone alcuni problemi sui quali desidererebbe un pronunciamento dei Fratelli: «La Massoneria è democratica: ma possiamo tollerare quell’ideale politico che contrasta con i principi di democrazia? Possiamo essere tolleranti con tutti?». E dà la sua risposta: «Non si possono accettare idee politiche contrarie alla nostra Istituzione».

Circa lo stato della Massoneria cagliaritana, ammette il caos organizzativo, del quale è, in qualche modo, responsabile l’insufficiente istruzione massonica dei giovani Apprendisti (cresciuti in era fascista e non ancora… svezzati dalla democrazia repubblicana). Osserva al riguardo – testuale – che «è lo spirito della nuova generazione che non sente più quegli ideali che hanno animato i nostri vecchi».

Riprende brevemente la parola, a questo punto, il Ven. Mura, ma soltanto per chiarire che, a suo parere, «per noi tutti i partiti politici sono accettabili», con la essenziale precisazione, però, che «il massone sta al di sopra di tutte le ideologie».

Anche per il Ven. Fernando è necessario guardare alla politica con occhi aperti e interessati, senza neutralità però sui principi e gli schieramenti: vanno infatti appoggiate, secondo lui, nelle forme più opportune le formazioni laiche. Qualche perplessità nutre per la formula – prospettata dall’omologo sassarese – di un «accostamento alle masse», perché – spiega – nella visione massonica la politica interpreta una combinazione «di diritti e di doveri», per cui i lavoratori devono convincersi che la giustizia è possibile solo nella libertà e che essa «è opera educativa più che politica» in senso stretto. Il massone è «educatore» per definizione. Proprio per questa ragione la questione scolastica – cui egli, anche in quanto docente, è particolarmente sensibile – deve essere sempre nell’agenda di lavoro del singolo Artiere e della sua Loggia.

In vista di una effettiva plenaria della Fratellanza sarda, da convocarsi in tempi ravvicinati, i Venerabili si ripartiscono gli incarichi come relatori. Della questione politica si occuperanno i FF. Silicani, Fadda e Mura; di quella scolastica i FF. Fernando e Tedesco; di quella religiosa ancora Silicani, il quale – unitamente a Rovasio e Fernando – proporrà anche alcune linee guida per la migliore riorganizzazione della Famiglia isolana.

Il secondo meeting avviene, a Sassari, domenica 24 ottobre 1954, presenti – come delegati del Gran Maestro dell’Ordine e del SGC del Rito – i Pot.mi Emilio Marchi e Giorgio Tron, accolti con tutti gli onori del grado. Fra i partecipanti, con il Ven. Mura e l’ex Conti, il cagliaritano Fr. Pani (Primo Sorvegliante), i sassaresi Casula, Sini, Bajardo e Chisu (Secondo Sorvegliante, Segretario, Cerimoniere, Diacono), il carboniese Mereu (Diacono) e, fra le Colonne, un’altra ventina – non di più – di Fratelli.

Le prime battute per il doveroso benvenuto agli ospiti, «che portano nel Tempio la luce della loro esperienza e del loro sapere», sono del Ven. Mura e dell’Oratore Rovasio. Quest’ultimo, in particolare, ringraziando tutti gli intervenuti, auspica una più intensa e proficua attività delle officine isolane, le quali – dice – «devono vincere dubbi e difficoltà e, simili a coorti decise e tenaci, combattere per ravvivare l’ideale massonico e per alimentare la fiamma della fede massonica che non potrà mai spegnersi».

I lavori entrano quindi nel pieno con il tracciamento della prima Tavola – quella sulla scuola laica – affidata al Fr. Luigi Pani, competentissimo nella materia, sia per la lunga esperienza come insegnante [fu l’insegnante anche di Paolo De Magistris alle elementari di Santa Caterina!] che per l’attuale assegnazione agli uffici del Provveditorato agli studi cagliaritano.

Egli punta a rimarcare il dovere dello Stato di assicurare un carattere aconfessionale alla scuola pubblica, della quale espone le vicende storiche ed il fondamento ideale e pedagogico: «Mai come oggi – conclude – essa ha bisogno dell’apporto della Massoneria per l’affermazione di quei principi laici che il governo e gli uomini politici sottovalutano e non tengono nella dovuta considerazione».

Le ripetute batterie di plauso accompagnano le ultime battute del Fr. Pani, copia della cui Tavola è chiesta dal Pot.mo Marchi, che loda pure lui quel «frutto di un intenso lavoro», al fine di «sottoporla alle discussioni del prossimo convegno nazionale massonico dei professori», di imminente convocazione a Roma.

Ottiene quindi la parola il sassarese Fr. Antonio Tedesco, anch’egli docente, che convenendo sulle linee generali dell’esposizione del Fr. Pani sostiene essere, quello scolastico, «un problema scottante e d’attualità» bisognoso di urgenti rimedi (che «alle parole subentrino i fatti e che la Massoneria s’infiltri attraverso gli insegnanti nel cuore della scuola per svolgervi un’opera di laicizzazione e di convincimento»).

Bisogna pure – sostiene in conclusione, accompagnato anche lui da giuste batterie di plauso – che sia favorita la nascita di «associazioni laiche giovanili» dalle quali l’Istituzione «potrà attingere» le nuove leve da impegnare negli esercizi dell’ars regia.

Si sarebbe dovuto discutere, a questo punto, di miniere e dell’economia sociale che, nel Sulcis-Iglesiente, ruota attorno ad esse. La Tavola che il Fr. Taddei, a piedilista della Mori, avrebbe dovuto tracciare recava esattamente il seguente titolo: «Il problema del Sulcis nei suoi riflessi economico-sociali» e sembrava un segno di grande importanza nella direzione della sempre reclamata apertura del Tempio ai problemi della vita profana. Un malessere improvviso mentre egli era già in viaggio alla volta di Sassari, ha però riportato a casa il relatore, impedendogli di assolvere al suo mandato…

Si passa quindi a discutere degli annosissimi rapporti fra Massoneria e politica. La Tavola di base è affidata ancora una volta, all’Oratore Rovasio che afferma il diritto-dovere di ogni massone, in quanto cittadino e in quanto iniziato, di prender parte attiva alla vita pubblica e delle istituzioni. Appare dunque necessario – egli sostiene – procedere alla formazione di una salda coscienza politica in ogni Fratello, franca di spirito fazioso e intollerante e invece propensa al dialogo con tutti e al confronto con ogni opinione diversa: passaggio obbligato perché la Famiglia massonica in quanto tale assuma un giorno quel ruolo di autentico protagonista, fattivo e leale, della vita civile che è nelle sue potenzialità attuali come lo è stato nella sua gloriosa storia passata.

Chiosa, sul punto, lo stesso Pot.mo Marchi, osservando che «deve essere bandito l’odio di partito» e che nei Figli della Vedova occorre prima formare una consapevolezza iniziatica che, sola, favorisce quello spirito indipendente e tollerante che nell’agone politico è sovente messo a dura prova.

Interviene a questo punto il Fr. Enrico Floris, della moritura loggia cagliaritana, il quale dice di ritenere necessario definire con grande chiarezza il concetto di libertà: «si può sacrificare la libertà – sostiene ad un certo punto, immaginando scenari comunque improbabili – purché sopravvivano l’uguaglianza e la fratellanza». Si diffonde quindi in un’erudita rassegna dell’opera politica svolta, nei secoli, dalla Libera Muratoria nazionale ed universale, naturalmente sempre per cause di alta civiltà, deducendone l’ovvietà del protagonismo massonico anche nella politica attuale. Un’impostazione questa che sembra a taluno alquanto azzardata e che spinge il Pot.mo Marchi ad un nuovo intervento per alcune messe a punto.

L’argomento al quarto punto dell’ordine del giorno – «Collegamento fra le Logge» – è introdotto direttamente dal Pot.mo Delegato che fa riferimento alla recente circolare del GOI, secondo la quale detti rapporti dovranno essere istituzionalizzati. Circa la Sardegna – ancora sprovvista di un Collegio circoscrizionale – dovrà valere la disposizione che affida provvisoriamente al Venerabile della Loggia sassarese i poteri di coordinamento. […].

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Anni ’60, ’70 e successivi. La ricomposizione delle frazionate energie massoniche, tanto più nell’area cagliaritana, si realizza dunque nel 1958 (sono allora cinque o sei le formazioni chiamate ad unità: con la ex brancacciana Cavour, i ranghi dispersi della Risorgimento, quelli della XX Settembre, quelli della Mazzini o Mazzini Garibaldi… ). Una loggia bipolare sotto il profilo politico, ma sufficientemente coesa e produttiva. La Cavour n. 574, sdoppiatasi l’anno successivo con le formazioni della Nuova Cavour n. 598 e della Libertà n. 599 (con questa seconda però destinata a rifluire presto nella compagine sorella), avrà il merito storico, all’interno della Obbedienza giustinianea della Sardegna, di avviare quel ciclo virtuoso di discussione e di presenza che è arrivato sino ad oggi. Combinando sensibilità diverse, alimentando cultura non soltanto rituale, aggregando altre energie preziose presenti nell’universo massonico cittadino ma ormai fuori da ogni militanza organizzata. Avviene nei primi anni ’60, e fra le personalità più cospicue associate all’impresa non può tacersi il nome del grande scultore Franco d’Aspro, figlio di massone e nipote di carbonaro, com’egli ha modo e volontà di ricordare coram populo quando porta in dote all’abbraccio della loggia Nuova Cavour il suo talento morale e d’artista e la sua esperienza di vita.

Torna un’altra volta ancora, con il suo giuramento di lealtà fraternale, quel rimando alla storia risorgimentale e postrisorgimentale che ancora distingue una generazione e l’apparenta dunque ad una istituzione portatrice di tanta storia nazionale.

Verranno nel tempo altre formazioni nei decenni a seguire, ognuna distinta da un numero d’ordine, come a dare la misura in progress di un’Obbedienza nazionale che si espande facendosi però anche, nelle mutate situazioni della storia, nuovamente e diversamente esigente da se stessa: la Giordano Bruno n. 656, la Hiram 657, la Sigismondo Arquer (ex gruppo P) n. 709, la Risorgimento (in replay di denominazione dell’apripista) n. 770… Così anche altrove: a Carbonia, a Nuoro, ad Oristano, a Cala di Volpe…

Nelle denominazioni torna ancora sovente la memoria della storia patria: Risorgimento a Carbonia, Giuseppe Garibaldi a Nuoro, Caprera in Gallura…  Altri titoli distintivi, in seguito, onoreranno memorie personali di liberi muratori come Ovidio Addis, come Alberto Silicani, come Bruno Mura, per restare alle Colonne più recenti, o come Giorgio Asproni, come Francesco Ciusa, magari come Vincenzo Sulis… Nei titoli distintivi delle logge deve scorgersi l’ispirazione ideale ed un intento programmatico, e sembra perciò interessante come la Fratellanza massonica società di tradizione si sforzi, nel concreto isolano, di onorare tale natura riversando, nel mare sapienziale ricevuto, il tributo originale della sua esperienza corrente. Storia genera storia, ma sempre nella coerenza ai principi basici.

Vengono, nella circoscrizione sarda, altre esperienze arricchenti, interne sempre al circuito nazionale e universale, europeo ed americano: la Lega dei Diritti dell’Uomo – la cui federazione internazionale è accreditata con un seggio di osservatore alle Nazioni Unite –, l’Order of the East Star ancora nei primi anni ’70.

E’ allora, per lunghi vent’anni, trainante la capacità organizzativa e relazionale di una personalità forte, anche ideologicamente stagliata come quella di Mario Giglio, alto dirigente di banca, membro di giunta nel GOI e fra i dignitari maggiori del Rito Scozzese Antico e Accettato, esponente per diversi anni del Partito Socialdemocratico (poi Socialista Unificato), anch’egli saldamente legato ad una cultura massonica tutta intrisa (anche in qualche tardo risvolto anticlericale, mai irreligioso) di richiami democratici risorgimentali.

Qualcosa cambia – relativamente all’associazione ideale con la storia patria – dagli anni ’80 con la gran maestranza Corona. Si afferma allora, infatti, una novità a mio avviso rilevante per le conseguenze che avrà anche nell’immaginario massonico della nuova leva di Fratelli. Stranamente gli autori che si sono cimentati nella storia obbedienziale degli ultimi decenni non hanno colto o valorizzato l’episodio. Ne è autore – ho detto – lo stesso Gran Maestro Corona, che giustapponendo il calendario massonico su quello dell’anno solare, derubrica quella che è stata per un secolo e più l’apertura dell’anno “sociale” – tradizionalmente fissata al 20 settembre, evocante la santa data della presa di Roma – al rango di inizio della sessione autunnale dei lavori post estivi. Considerando che l’appuntamento astronomico dell’equinozio di autunno faccia premio, nel linguaggio universale, su quello del memento storico…

Le nuove generazioni massoniche, tanto più quelle nate nell’ultimo ventennio segnato dagli abbassamenti valoriali e dalla tensione storico-civica della stessa Comunione giustinianea, anche da questo sono indirizzate quasi a saltare il ricordo di Porta Pia con tutti i suoi rilanci valoriali e simbolici. E a dimenticare anche il sangue sardo versato per dare Roma all’Italia e una nazione alla caput mundi. Gli altri indebolimenti vengono poi dal pensiero debole,  o dai suoi scampoli che non danno orgoglio a nessuno, tanto meno nel range della Massoneria .

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Ci sono quelle fotografie. Riguardano la loggia Sigismondo Arquer nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nel primo decennio del secolo nuovo…

Dovevano essere gli ultimi anni ’70 o i primi ‘80 quando incontrai nella sua bellissima casa di viale Merello la signora Maria Pernis Spinas. Una cagliaritana di solida formazione borghese… o, potrei dire, una borghese di gustosa formazione cagliaritana. Morale ed aperta, tradizionale ed ecumenica, tollerante e curiosa, misurata e dinamica. Neppure così  avanti con gli anni elegantemente portati – ma con l’eleganza della sobrietà –, inserita nella vicenda cittadina di cui conosceva il particolare, però con lo sguardo largo e lungo, perché educata alla complessità del vissuto sociale e, per contro, alla sintesi necessaria all’interpretazione delle dinamiche pubbliche, sensibile all’azione eventuale sopra di  esse – azione intimamente politica – nel rispetto orgoglioso delle premesse ideali coltivate in casa. Suo padre, imprenditore multi anime come già i suoi avi e spedizioniere fra i maggiori dell’Isola, era un rotariano-guida, interno alle mille relazioni del club ed esponente garbato del Partito Monarchico Nazionale (poi PDIUM) di cui fu anche, per quattro legislature (dal 1949 al 1965), consigliere regionale a Cagliari.

Sposata con un funzionario di banca in progressivo avanzamento, figlio a sua volta di robuste radici professionali e proprietarie in quel di San Basilio e in quel di Sinnai, ne aveva accompagnato i brillanti percorsi di carriera nel continente, in specie in Toscana (fra Viareggio e Livorno), e s’era fatta esperta delle diversità presenti nella nazione come anime identitarie bisognose però di un riferimento comune: quello che un tempo si chiamava patria.

Ad unirla al marito, ovviamente oltre gli affetti e l’idem sentire civile, erano anche certe storie rimontanti alle generazioni trascorse. Fra esse la comune partecipazione di nonni e bisnonni alla loggia Sigismondo Arquer, impiantata a Cagliari, nella ritualità scozzese, nella primavera del 1890. Un Pernis – Eugenio, iniziato giovanissimo già all’indomani della presa di Roma fra le Colonne della loggia Vittoria e Fedeltà  – ne era stato il Maestro Venerabile da quell’anno al 1895, riservando quindi le sue migliori energie alle cure del Capitolo R+C del Rito Scozzese Antico e Accettato. Così fino al 1899, quando era passato all’Oriente Eterno, purtroppo senza avere la gioia di assistere, o magari officiare l’iniziazione del figlio Romolo Enrico, ufficiale della riserva, che in loggia avrebbe messo piede l’anno dopo, all’età di 36 anni. Romolo Enrico, divenuto a sua volta Maestro Venerabile già nel 1907 e per qualche anno, sarebbe quindi assurto al ruolo leader regionale della compagine liberomuratoria fino all’avvento del fascismo e al forzato scioglimento. Nuovamente avrebbe ripreso la carica, infatti, nel 1911 – alla vigilia cioè di assumere l’ufficio di assessore in una rinnovata e feconda amministrazione Bacaredda e di ricevere, in quella veste, dal comitato promotore, il monumento a Giordano Bruno che la sua loggia aveva contribuito a finanziare – ed avrebbe quindi anche lui riservato le maggiori cure al Capitolo R+C Ichnusa ed al Sublime Conclave dei Cavalieri Kadosh, scalando l’intera piramide rituale, fino al 33.mo grado.

Intanto era stato tra i fondatori di una associazione civico-politica denominata Democratica (con una sua propria testata settimanale, “Il Giornale Democratico”), quando si tendeva a considerare la democrazia una evoluzione del tradizionale liberalismo, passando appunto per quel “liberalismo organizzatore” che era stato fatto proprio, come opzione ideologica dei tempi nuovi, da Ottone Bacaredda. (Sullo specifico mi sono diffuso nel recente studio “La squadra e il compasso. La Massoneria in Sardegna. Storia e cronaca”, Sassari, Edes, 2013).

Dall’altra parte c’erano gli Spinas padre e figlio: Raimondo ed Emanuele rispettivamente, entrambi sanbasilesi. Proprietario terriero (e imprenditore agricolo) il primo, iniziato nella loggia Karales al tempo all’obbedienza della Comunione di Via Ulpiano (Piazza del Gesù) ma nel 1914 regolarizzatosi nel Grande Oriente d’Italia, e promosso Maestro nel 1916, confluito con la sua officina nell’organico della Sigismondo Arquer nel corso del 1921. Anno, quest’ultimo, in cui il figlio Emanuele, medico classe 1894, sarebbe stato iniziato appunto fra le Colonne della maggior loggia cagliaritana. Gli Spinas… agli ordini dei Pernis in loggia. Padre e figlio Spinas nello stesso ensemble simbolico a luce Pernis,  avviati però, nell’arco di pochi anni, alla rinuncia, folgorati entrambi dalla dittatura d’ordine alle viste. E perciò dimissionari  o dimissionati, l’uno il 6 novembre 1923, l’altro il 10 maggio 1924.

Restava, di quella remota esperienza avita, una memoria in casa. Una memoria di racconti appena abbozzati, ed una memoria più cospicua documentaria. Era Maria Pernis l’autorevole depositaria, certamente per quelle più cospicue, sovrabbondanti relazioni degli antenati, nonno Romolo Enrico, bisnonno Eugenio,suocero del bisnonno (l’Enrico Serpieri della Repubblica Romana). E quindi la liberalità della sua educazione si tradusse in generosi prestiti, a me, di documenti, soprattutto (ma non solo) fotografici. Certamente i più suggestivi quelli fotografici.

Mi consegnò, sulla fiducia, diverse istantanee del suo album familiare: particolarmente fascinose quelle rimontanti alle stagioni ormai remote del nonno assessore bacareddiano, e del bisnonno  console per lunghi anni di sua maestà britannica (come anche suo figlio e come già suo padre).

Due delle foto su cartoncino di formato A4 restituivano la loggia Sigismondo Arquer in momenti diversi. Con i Fratelli con indosso i paramenti rituali, le sciarpe scozzesi i Maestri e i Capitolari, i grembiuli gli Apprendisti ed i Compagni d’arte. Nessun cappuccio, su cui tanta letteratura d’accatto s’è sovente soffermata. I cappucci servivano esclusivamente nelle cerimonie di iniziazione e neppure sempre, e restavano sul volto dei presenti pochi minuti. Erano una parte del rituale, non l’abito né feriale né della festa.

E peraltro non compaiono nell’inventario 1910 dei beni mobili e delle suppellettili di quella che fu la grande sede di via Barcellona 29-31 (data in affitto dalla Congregazione del SS. Sacramento della parrocchia di Sant’Eulalia) , fra il febbraio 1907 ed il novembre 1925, quando i dark della questura fascista compirono la loro perquisizione, anzi la loro razzia. Figuravano invece le spade, in un numero di 30, anch’esse utili (peraltro in logica difensiva) in un certo momento del rituale d’iniziazione.

Il gusto del club borghese, commerciale e professionale o burocratico, con i suoi svaghi leggeri – dal biliardo agli scacchi e alla dama (non le carte) – incrociava allora l’amore vero alla patria e il sentimento sociale. I ritratti di Garibaldi e Mazzini erano affiancati a quelli di Vittorio Emanuele II e di Umberto I, i gessi dell’eterno Garibaldi entravano nella rassegna d’arte con quelli di Giovanni Bovio e di Giosuè Carducci… , le immagini dell’ensemble cagliaritano si combinavano con quelle della loggia America, i ritratti dei primi sei Venerabili cittadini comparivano in gruppo nell’area delle altre effigi: quelle dei Gran Maestri e/o Sovrani Gran Commendatori Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan, quelle dei primi soci del Libero Pensiero cagliaritano…

Sempre la grande dimensione e quella minore locale… L’illuminazione era ancora a gas, così nel Tempio a 71 posti come nei Passi Perduti, nelle Segreterie e nelle sale e salette di ricreazione e dei conversari, e nell’ingresso. I tendoni dovevano difendere la riservatezza di quegli incontri, ma delle attività della compagine la città sapeva tutto, e una parte apprezzava e un’altra contestava e anzi contrastava: così in Consiglio comunale come sulla stampa, negli uffici e in strada. Per quanto ideologicamente trasversale, la loggia godeva di una sua riconoscibilità nell’area che si poteva definire, ed era, laica e radical-liberale o democratica. Era patriottica, la loggia, lo avrebbe manifestato non soltanto con i documenti votati ad ogni ricorrenza di calendario, anche soffrendo i suoi molti lutti, negli anni della grande guerra. Furono decine, in tutta l’Isola, i massoni medagliati, chiamati ad onorare anch’essi chi invece – cominciando dal giovane Venerabile Della Cà era caduto: Romanelli, Sola, Morgante, Camboni…

La loggia faceva politica, non come un partito, evidentemente: sarebbe stato non soltanto ingiusto e fuori dalle regole, ma anche impossibile. Ma un suo protagonismo pubblico non lo negava, i tempi lo richiedevano, il suo stesso animus patriottico lo esigeva come servizio alla comunità. Si doveva pensare in grande, sempre pensare in grande. Una loggia che si perde nelle inezie sarebbe una contraddizione in termini.

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Liberalismo, radicalismo, democrazia, magari socialismo. Entra all’interno delle categorie politiche nazionali il percorso che, evidentemente non la Massoneria in quanto tale ma un numero significativo di massoni – e nel caso, di massoni sardi, portatori anche delle proprie idealità ed esperienze massoniche –, ha compiuto nel proprio affaccio sulla scena pubblica, ora politica ora amministrativa.

Faccio qui esplicito riferimento, intuendo tutta la portata della scelta o della svolta, a due formazioni cui gli Artieri della Sigismondo Arquer dettero una importante adesione nel primo quindicennio del Novecento (ma analogie si potrebbero facilmente trovare a Sassari, nello stesso periodo e oltre, con gli uomini della giacobina Gio.Maria Angioy, o ad Alghero e a Tempio Pausania con gli uomini della Vincenzo Sulis e della Andrea Leoni, o ad Iglesias con gli uomini della Ugolino, come già a Carloforte con gli uomini della Cuore e Carattere…).  Prima di quella data – diciamo pure prima del 1904 – il grosso delle militanze o delle prossimità poteva articolarsi, nel concreto isolano e cittadino, nel campo liberale e in quello democratico. Il primo era a sua volta, e fino al 1900, cioè fino all’involamento all’Oriente Eterno di Francesco Salaris, disposto a favore del partito di quest’ultimo oppure del suo concorrente da sempre, vale a dire Francesco Cocco Ortu. Non solo di militanza o di prossimità potrebbe, nel caso, dirsi, ma proprio di partecipazione ai gruppi dirigenti, e nei comitati elettorali e nelle candidature parlamentari, o nei collegi provinciali, o ancora al Comune (anzi, ai Comuni), ma anche, nel corrente, alla direzione o nella proprietà di organi di stampa che comunque erano espressione di uno dei due partiti. C’era poi, minoritaria sul tutto, ma di grande evidenza comunque anche per la personalità dei soggetti coinvolti, il fronte repubblicano-mazziniano, partecipe di quelle vicende anche di sofferenza politica per l’ostilità, da parte di uno Stato liberale a parole e meno a fatti, anche di quelle manifestazioni simboliche non infrequenti nei discepoli del Maestro, con le commemorazioni sgradite o… non gradite al governo, e giù andando ai prefetti e ai delegati di P.S.: ora della Repubblica Romana ora di Mazzini o Cavallotti, ora di Garibaldi o di Guglielmo Oberdan (scandalo negli anni di vigenza della Triplice Alleanza)…, oppure con una stampa di propaganda ideologica destinata sovente a sequestri di polizia.

Dal 1904 cambia la scena, perché entrano nel gioco, nel capoluogo provinciale e/o cominciando da qui ed espandendosi quindi altrove, in specie a Sassari, da una parte la prima sezione del Libero Pensiero, dall’altra la prima sezione del Partito Radicale. Nell’una e nell’altra tanto l’iniziativa quando poi le maggiori funzioni dirigenti sono in capo a uomini della loggia, o ad essa vicini (Fernando Fara Musio e Roberto Binaghi nel caso concreto, ma con essi numerosi altri Fratelli si impegnano con lo spirito dei massoni attenti ai segni dei tempi  o, se si vuole, dei laici che esprimono nella sede rituale-esoterica e in quella del dibattito civile la stessa credenza ideale).

Con identità politicamente più sfumate, ma collocate sul crinale di un liberalismo orientato alla democrazia e quindi, anche, di un radicalismo transigente e gradualista, sono numerosi i massoni che nel 1907 in particolare, e successivamente, ma seguendo una linea che ha prove fin dal 1865, partecipano alla gara elettorale non smentendo la propria derivazione ideale-ideologica, semmai soltanto considerando che di opzioni individuali si tratta e non di un (impossibile) “partito” della Massoneria.

Si vedrà poi nel 1911, alla ripresa della sindacatura da parte di Ottone Bacaredda giusto nel cinquantennale della unità cavouriana e della proclamazione di Roma capitale, un nuovo e forse ancora più marcato presenzialismo massonico sulla scena pubblica e amministrativa. Si ricorderà già nel marzo (rispetto all’ottobre-novembre del ritorno bacareddiano) una intervista in prima pagina su “L’Unione Sarda” al Venerabile – come tale presentato perfino nel titolo – Romolo Enrico Pernis. Quello stesso Pernis che in autunno entrerà – s’è ricordato – nella giunta Bacaredda, collaborando per un triennio circa.

Quel che sembra rilevante, nel contesto temporale, è la partecipazione e l’attivismo dell’Associazione Democratica, a formidabile presenza massonica, che sarà fra i maggiori protagonisti della scena pubblica cagliaritana fino alle elezioni politiche del 1913 quando molto si impegnerà (anche contro i radicali del Fr. Sanna Randaccio, candidato nel patto Gentiloni e però sostenuto anche, nel collegio di Iglesias, dai clericali!) per appoggiare la candidatura di Antonio  Giuseppe Satta Semidei, avversario, nel collegio cagliaritano, di un Sanjust!

Ecco, sembra interessante osservare questa costante della presenza pubblica della Massoneria sarda e, in particolare, cagliaritana – ma non meno interessante, ripeto, sarebbe il discorso riguardante la Fratellanza sassarese nello stesso periodo –, da cogliersi nell’area del progressismo liberale o liberaldemocratico, fortemente ancorato a idealità forti, patriottiche e laiche. E che torneranno, pur in forme diverse, nel primo dopoguerra, quando però saranno anche di spessore le adesioni dal movimento dei combattenti e del primo sardismo.

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Un documento del 1970. La natura della Libera Muratoria è riservata. Obbligata dalla sua stessa carta fondamentale – gli “Antichi Doveri” – alla lealtà verso gli ordinamenti costituzionali e verso la legge, l’Istituzione in talune fasi della sua storia, anche quando non sospinta da necessità esterne impellenti , ha marcato caratteri lobbistici. Sia chiaro, e fino a prova contraria (che non si è data): sempre restando negli spazi compatibili con i principi della libera dialettica politica, con le prerogative e l’autonomia delle pubbliche istituzioni  e, infine, della democrazia tout court. Non solo, anche e soltanto su materie ideali e generali, cioè di manifesto interesse generale.

Va detto che nel sacrosanto pluralismo ideale-ideologico e nell’assortimento delle sensibilità circa la convenienza o meno di una proiezione profana, le manifestazioni come di soggetto unitario portatore di un determinato interesse non hanno trovato (né trovano oggi) pressoché mai la unanimità. Così anche in Sardegna.

Nel 1970 – si va indietro ormai quasi al mezzo secolo, e cioè a un contesto politico-sociale assolutamente lontano e diverso da quello presente a tutti noto – chi nella Comunione liberomuratoria sarda si faceva vessillifero di questa certa propensione pubblicistica era un massone di gran nome, ancorché con radici nell’Ordine non profondissime (ebbe la sua prima tessera, nel gruppo P2 romano, nel 1966, il 27 giugno). Si trattava di Francesco Bussalai, personalità gentile e forte, pratica e idealista. Già partigiano comunista (galeotto antifascista con Pertini e Saragat a Regina Coeli nel 1944) e consigliere regionale del PCI nella prima legislatura autonomistica, successivamente passato all’area socialdemocratica, professionalmente dipendente delle Dogane e politicamente amministratore dell’ESIT ed anche dell’ente regionale di promozione del teatro di prosa – lui musicista di qualche competenza ed esperienza soprattutto negli anni di residenza continentale –, sarebbe scomparso, a seguito di breve ma crudelissima malattia, nel novembre 1972, pianto da molti. Al camposanto civico di San Michele, una simbolica grande pietra ornata di squadra, compasso e ramo d’acacia segnala la sua tomba e quella di alcuni suoi congiunti, perché  pressoché l’intera sua famiglia, a partire dalla moglie Fides Pilo e dai figli Pino e Bruno, ne condivise l’ispirazione integralmente coinvolgendosi nelle attività latomistiche isolane.

Alla esperienza umana, politica e massonica di Francesco Bussalai dedicai un lungo capitolo, ora sono molti anni, in un libro o libretto fuori commercio dal titolo “La Catena s’è rotta, la Parola smarrita…”, con sottotitolo “Guida massonica ai camposanti di Cagliari”, stampato a cura della loggia giustinianea Alberto Silicani per celebrare il proprio trentesimo di fondazione. Ma è chiaro che, essendo veramente copioso il materiale d’archivio diligentemente conservato e custodito dalla famiglia, è opportuno, doveroso perfino, tornare in argomento.

Il Fr. Bussalai  teorizzò, nero su bianco, la necessità di uno stretto raccordo fra politica, o sistema dei partiti, e Massoneria. In un suo documento, scritto evidentemente con qualche forzatura stilistica, trattandosi infine soltanto di un appunto, o un promemoria di base ad un intervento a voce e meglio argomentativo, così sintetizzò la situazione del momento: «La Massoneria in Sardegna detiene già la direzione su scala regionale e provinciale del PSU e del PSI. Può inoltre efficacemente influire nel PLI e nel PRI. Controlla a livello regionale lo stesso PSIUP tramite due FF. dirigenti regionali». Questo egli scriveva, ripeto, in una nota riservata, schematica ed… esagerata – palesemente esagerata, che peraltro era funzionale alla tesi da lui sostenuta – , rivolgendo la sua informativa alle logge della circoscrizione territoriale isolana. E raccogliendo, va detto,  più riserve che consensi. Restava infatti nella sensibilità massonica della Sardegna, tanto più nel secondo dopoguerra e nel periodo ancora successivo, un approccio discreto e mediato, non strumentale, alla politica che, peraltro, si confermava necessario e perfino naturale. Necessario per la portata programmatica dell’Istituzione liberomuratoria, volta sempre «al bene e al progresso dell’umanità» e dunque al funzionamento delle pubbliche istituzioni in chiave di espansione della libertà e della democrazia sostanziale – si pensi soltanto alla scuola pubblica e laica –, naturale per la presenza nella vita delle logge di un numero elevato di esponenti dei partiti di democrazia repubblicana, radical-liberale e socialista. Sorprende, nell’appunto, l’assenza del riferimento al PSd’A che effettivamente, dopo la scomparsa verso la fine degli anni ’60 di diversi suoi dirigenti frequentanti le tornate rituali, e dopo anche il passaggio al Partito Repubblicano di numerosi quadri impegnati anche con la loggia (così a Cagliari ed a Carbonia soprattutto), aveva in quella fase perduto la sua storica parentela con la Libera Muratoria.

L’episodio meriterebbe un opportuno approfondimento, che mi propongo di effettuare in altra occasione. Ma esso esige, comunque, un richiamo, e quasi una anticipazione, oggi che le cronache regionali e nazionali di varia natura rilanciano, sbagliando grossolanamente, disegni di improprie invadenze delle logge nelle istituzioni come nell’economia, fuori da regole e legittimazioni.

Valga, come premessa a questa nota, una precisazione per la tranquillità di coloro che temono sempre un cedimento dello specifico esoterico in quella svalutazione profana che si immagina inscindibile da una qualsiasi prassi civile. Essi, dall’interno dei loro Templi, escludono perciò tassativamente una soggettività muratoria sulla scena pubblica, limitando rigorosamente la competenza della loggia e della Obbedienza nel suo complesso al lavoro di tecnica morale individuale e comunitario.

Qui non si tratta però di negare la legittimità e anche il valore della posizione riduzionista – intendendo per tale quella che recinta i principi degli “Antichi Doveri“ nella esclusiva pratica rituale – ma di pensare ai “modi” in cui l’affaccio civile sia compatibile con le carte fondamentali della Comunione da una parte, e con le sacrosante autonomie delle istituzioni pubbliche dall’altra. Insomma, trattando di questa materia senza leggerezze e senza pregiudizi da alcuna parte, è necessario introdurre qui la categoria dello… strabismo. Occorre vedere come, nel concreto, una loggia – e tanto più una Comunione nazionale – possa, senza tradire se stessa, occuparsi del civile, e, per contro, come le istituzioni che sovrintendono all’interesse generale (con le note proprietà della rappresentatività generale ora della imparzialità della pubblica amministrazione ecc.) possano accogliere sollecitazioni che salgono dal corpo sociale: quel corpo sociale che, evidentemente, include la Massoneria.

La questione è centrale e fatica però, per il semplicismo invalso in certa dialettica pubblica (giornalismo compreso o capofila), a imporsi per quella che è. La precisazione preliminare si colloca interamente sulla linea della difesa di tale peculiarità, senza la cui integrità la Massoneria – si voglia o non si voglia – non sarebbe quella che è. Ciò non di meno, essendo la Massoneria una scuola di principi e valori che vive il suo tempo e porta i suoi principi e valori attraverso i tempi, non può farsi astrazione dal vissuto storico/sociale delle sue strutture e della sua militanza nel particolare regionale, nazionale o continentale. Le logge non sono e non potrebbero essere, in natura, delle camere stagne, astoriche ed astratte, estranee al vissuto palpitante della società, con le sue dinamiche e anche con le sue contraddizioni. Non per ripeterne dinamiche e contraddizioni, perché la sua missione non è di farsi specchio della società ma, semmai, di produrre uomini leali alla democrazia e competenti nel servizio di qualità, utile e generoso, alla società. Piuttosto per relazionare il suo contributo di amore civico alle necessità reali del tempo, ai bisogni di un corpo sociale conosciuto nella sua effettività, senza cedere a fuorvianti letture dottrinarie.

Le trasformazioni del sistema dei partiti conseguite alle iniziative giudiziarie dei primi anni ’90 ed alle modifiche legislative in materia elettorale a far data dal 1994 (uninominale maggioritario, pur dopo modificato col ripristino del proporzionale con premio di maggioranza) hanno inevitabilmente sortito effetti anche nelle militanze o nei riferimenti ideali/politici della generalità dei Fratelli, in quanto cittadini elettori.

Le profonde innovazioni – per revisioni od adattamenti – introdotte nei lineamenti culturali delle formazioni politiche attive nel dibattito pubblico così come nelle istituzioni hanno costretto la generalità dei Fratelli, in quanto cittadini elettori, a scegliere all’interno di una offerta “chiusa”, mentre quella parte della Fratellanza che era impegnata in prima persona sulla scena politico-partitica, ed ha inteso proseguire nel suo impegno di militanza e/o rappresentanza, ha dovuto, e soltanto in minima parte potuto, operare quelle opzioni di compagine e schieramento che si sono presentate nella nuova realtà della cosiddetta “seconda repubblica”.

Tutto ciò ha significato che, cadute per intima consunzione o per attrazioni in aggregati polari le formazioni partitiche alle quali tradizionalmente era andato, dalla ripresa postbellica e in coerenza con le adesioni dell’era prefascista, il consenso elettorale della larghissima maggioranza dei massoni italiani (vale a dire i partiti di democrazia laica e radicale, liberale, repubblicana e socialista nelle varie declinazioni) si è riversato di necessità – a guardare adesso soltanto gli anni ’90 e i primi del nuovo secolo – sui fronti di sinistra (prevalentemente i DS, in minor misura La rosa nel pugno/radical-socialista) o di destra (prevalentemente Forza Italia, in minor misura, ma non marginalmente, Alleanza Nazionale e perfino UDC), credibilmente con un maggior afflusso nell’area moderata (o sedicente tale) che in quella progressista. Ciò anche a motivo delle sempre ribadite ostilità di statuti o dirigenti di quest’ultima verso una certa rappresentazione delle idealità e soprattutto dell’organizzazione della Libera Muratoria (ancorché non siano mancate, né in AN né nell’UDC, pregiudiziali statutarie oltreché avversioni ideologiche non meno forti di quelle della sinistra ex comunista).

D’altra parte, è intuibile come una considerevole parte delle nuove acquisizioni di Artieri da parte delle logge nell’ultimo quindicennio, tanto più se si è trattato di giovani meno coinvolti delle più anziane generazioni nelle pratiche politico-partitiche sortite dalle vicende nazionali dell’Italia postrisorgimentale e nella ripresa repubblicana novecentesca, neppure si sia posta il problema di una preferenza alla pur variegata tradizione democratico-liberale-socialista, ed abbia direttamente riferito agli aggregati della cosiddetta Casa/Polo della libertà o dell’Unione di centro (di derivazione democristiana) la propria simpatia elettorale offrendo, eventualmente ma non raramente, la propria militanza.

Non è sostanzialmente cambiata la scena negli anni a cavallo fra primo e secondo decennio del Duemila. Con il cambio dei nomi anche in conseguenza alle aggregazioni intervenute nel frattempo – Partito Democratico (assorbente DS e Margherita) da una parte, Popolo della libertà (assorbente Forza Italia e Alleanza Nazionale) dall’altra – il bipolarismo è rimasto quello che era, pur se, in epoca recentissima, complicazioni nuove sono venute dall’irrompere nel teatro delle gare elettorali del cosiddetto grillismo, giusto e fanfarone, sanguigno e demolitivo.

La questione che si pone è se nei lineamenti valoriali, nelle piattaforme politiche e di programma, nei comportamenti parlamentari delle forze protagoniste della cosiddetta “seconda  repubblica” – tanto sul fronte progressista quanto su quello cosiddetto moderato (ma sovente gridato ed estremista) – i massoni consapevoli di sé e della tradizione di pensiero che la loro appartenenza dovrebbe incarnare, riescano ad individuare un luogo compatibile e agibile per le proprie idealità fraternali.

Si tratterebbe quindi di enucleare, da un più largo dibattito, quelle idee-forza della Libera Muratoria nel flusso dal Tempio al mondo profano, nel rispetto dell’assoluto individuale ma in logica sempre democratica e sociale, secondo il dettato costituzionale del GOI. Si dovrebbe quindi procedere a valutare, con spirito critico e senza pregiudiziali né a favore né contro, la effettiva rispondenza – per enunciati e per comportamenti – dei due aggregati polari a quelle solide idealità.

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Riprendo il testo del documento Bussalai. Esso è qui da intendersi, va ribadito, come sunto del suo intervento alla tornata dell’8 febbraio 1970 al Collegio circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Sardegna. Eccolo nella sua integrità, sottolineature comprese (e pur con qualche interrogativo a segnalare tratti illeggibili):

Premessa: crisi della società moderna e di tutte le sue strutture e sovrastrutture (economiche e politiche, giuridiche e ideologiche, morali e religiose) – cause ed effetti che finiscono per confondersi: scadimento dei valori morali tradizionali – decadimento delle istituzioni civili e politiche – corruzione della vita politica

Reazione giovanile e contestazione globale da parte delle giovani generazioni con tutte le sue clamorose manifestazioni contraddittorie

Arrigo Levi tenta un’interpretazione: «Tutte le forze politiche ed economiche che si muovono nella nostra società – dalle più integrate alle più contestatarie – agiscono oggi senza modelli reali o ideali, storici utopistici».

[?]  - «Prima viene l’azione e poi il pensiero – prima operano le forze impersonali [?] e poi le idee dei filosofi. Questo è il segno che viviamo in un’epoca di grandi rivolgimenti non dovuti al fatto che le ineguaglianze e le ingiustizie siano maggiori che nel passato – giacché invece la ingiustizia sociale è minore d’un tempo – ma la gente ne è più cosciente: poiché la gente oggi si sente più uguale – più libera».

Di fronte a questa situazione – densa di  [...] libera società e della democrazia – la Mass. quale grande forza spirituale libertaria del mondo – non può assolutamente essere indifferente né chiusa in se stessa.

L’attuale momento le impone un ruolo ed una missione storica insostituibile – con un imperativo categorico: la salvaguardia del più prezioso bene dell’uomo: la libertà ed il contemporaneo rilancio del trinomio inteso come sintesi dei valori universali  immutabili eterni della civiltà umana intesi come messaggio vecchio ma sempre nuovo ed attuale.

Per assolvere a questo alto compito – che presenta naturalmente anche aspetti squisitamente politici – l’Istituzione deve seguire attentamente gli avvenimenti recependone i fermenti […] per contrastarli e dominarli senza lasciarsi sovrastare da essi. In altre parole la Mass. deve ridiventare – come di certo lo fu nel passato – una forza illuministica che irradi la sua luce nel mondo contemporaneo.

Urgenza e necessità – quindi di un adeguato potenziamento qualitativo e quantitativo, urgenza e necessità di una sua strategia e di una sua tattica (politica).

A tal fine (potenziamento):

a) intensificazione dell’attività formativa dei suoi uomini[?] tendente al perfezionamento spirituale – sforzo permanente autocritico per la eliminazione di tutte quelle incrostazioni [?] – instaurazione di una costituzione improntata e ispirata alla tolleranza ed alla più stretta fratellanza fra M.–  solidarismo e mutuo appoggio; liberazione dalla “paura” derivata inconsciamente dall’assimilazione dell’etica cattolica della quale dobbiamo pure liberarci secondo [?] il recente insegnamento del G.M. Gamberini apparso recentemente nella Rivista Massonica.

b) campagna di proselitismo oculata quanto intelligente favorita dalla crescente sfiducia nei partiti e nelle ideologie – creazione di organizzazioni paramassoniche fra le quali il Capitolo delle Stelle d’Oriente riservato alle donne – penetrazione nelle organizzazioni profane culturali, ricreative, economiche e sindacali; conquista degli organismi direttivi dei Rotary e dei Lions – inserimento soprattutto nei partiti politici democratici quali strumenti attuali più efficaci per portar avanti la nostra azione e conquista delle cariche direttive a tutti i livelli – servirsi dei partiti come “cinghia di trasmissione” della Istituzione.

Particolari compiti della M. italiana ed obiettivi politici di vitale importanza: sostegno incondizionato alla battaglia per il divorzio fino alla vittoria finale; lotta per la laicità dello Stato; campagna contro l’invadenza – la corruzione ed il malcostume clericale e le loro principali cause: il concordato fascista e la religione cattolica imposta allo Stato – mobilitazione politica, morale, culturale per l’abolizione dell’art. 7 della Costituzione – vera vergogna nazionale – azione moralizzatrice della vita pubblica italiana.

Situazione organizzativa della M. in Sardegna.

Motivi di conforto per il suo attuale potenziamento (con) uomini di valore – intellettuali e artisti di notevoli dimensioni – parlamentari assessori e consiglieri regionali – pubblici amministratori, dirigenti politici – docenti universitari e medi etc.

La M. in Sardegna detiene già la direzione su scala regionale e provinciale del PSU e del PSI – Può inoltre efficacemente influire nel PLI e nel PRI – Controlla a livello regionale lo stesso PSIUP tramite due FF. dirigenti regionali

Necessità di coordinare in seno ai partiti ed a tutte le organizzazioni profane di appartenenza dei FF.

Infine.

Obbiettivo immediato dell’Ist. in Sardegna: grande mobilitazione a Caprera per onorare le spoglie del V. G.M. italiano: Garibaldi nel centenario della Breccia di Porta Pia – occasione per un solenne rilancio della Istituzione mediante una mobilitazione organizzata – occasione per misurare le nostre capacità,  il nostro influsso [...]

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La P2, il CRD, Botticini e Licio Gelli prima di Licio Gelli. Non è impossibile fornire una lettura critica del testo, inquadrandolo tanto nella concezione che della Istituzione massonica aveva Francesco Bussalai quanto nel sistema di relazioni sviluppatosi nella Massoneria italiana nell’ambito temporale che anticipava o accompagnava la affermazione di Licio Gelli all’interno della famosa P2, di cui egli era inizialmente il segretario organizzativo e successivamente, traendo la carica – forse non pacificamente – dallo stesso Gran Maestro Lino Salvini, Maestro Venerabile.

Vien da dire, intanto, che la vicenda della P cagliaritana cui Bussalai lega la parte principale della sua personale esperienza prima di dar corso, secondo decisioni del Gran Maestro e pressioni insistite delle altre logge sarde, alla loggia Sigismondo Arquer, prende corpo e si espande integralmente in una fase che precede, e precede di molto – almeno sei-sette anni – le note degenerazioni della loggia gelliana. Loggia fattasi nel tempo centrale di potere opaco, fuori da ogni regolarità massonica e ritenuto giustissimamente  inquietante dagli organi dello Stato una volta scoperti i suoi intimi meccanismi di cooptazione, organizzazione ed attività.

Converrà dire qui che fra le carte riguardanti l’anno stesso della sua scomparsa figurano, di Francesco Bussalai, la copia di un articolo sull’antifascismo resistente isolano da lui pubblicato su due diverse testate del tempo (una nazionale ed una regionale), alcuni ritagli stampa riguardanti Edgardo Sogno – il leader partigiano di area liberal-monarchica accusato, molti anni dopo, di intenzioni golpiste in chiave anticomunista (e censito fra i “piduisti” gelliani del 1981) –, una lettera personale del medesimo Sogno relativa alle attività dei Comitati di resistenza democratica da lui stesso lanciati. (Dirò che anch’io, al tempo poco più che ragazzo, ricevetti regolarmente, a casa, corrispondenza e la rivista mensile recante la testata “Resistenza democratica”).

L’articolo di Bussalai compare sul n. 3 del marzo 1972 appunto di “Resistenza democratica”, sotto il titolo di “Migliaia di sardi contro il fascismo”. Esso è ripreso sul n. 3 dell’aprile successivo – «numero speciale per la Resistenza» – di “Sardegna socialista”, periodico diretto da Rinaldo Botticini, che lo pubblica in prima pagina sotto il titolo “Anche per noi fu librazione quel lontano venticinque aprile”.

La lettera di Edgardo Sogno, datata 10 gennaio 1972, reca il seguente testo: «Caro Bussalai, ti invio qui unita la relazione politica approvata dal primo convegno nazionale dei Comitati di resistenza democratica tenuto a Bologna il 18 e il 19 dicembre ultimo scorso.

«Questo convegno ha fatto rivivere, fra cittadini di formazione e d’orientamento diverso, uno spirito di solidarietà molto vicino a quello dei tempi migliori delle lotte di indipendenza e di liberazione e ha messo in rilievo la frattura fondamentale che ci separa oggi da una parte della classe politica. Noi, fautori della volontà di costruzione democratica, continuiamo a credere che, con la restaurazione della responsabilità e dell’autorità dello stato, si possano e si debbano ricreare il consenso e le premesse obiettive per la vitalità di un regime libero. Contro di noi stanno coloro che per varie vie sono giunti alla conclusione che nel nostro paese un regime libero sia impossibile o inadeguato e che sia inevitabile ricorrere o rassegnarsi al compromesso coi fautori della violenza di parte e della costrizione permanente.

«Tuo E. Sogno».

A proposito della rivista “Resistenza democratica”, delle iniziative di Edgardo Sogno e dell’area politico-ideologica alla quale possono connettersi, negli anni a cavallo fra ’60 e ’70, le “riflessioni” della loggia coperta P2 – ripeto: quella ancora regolare a comando del Gran Maestro, ma certo non esente da crescenti perplessità e diffidenze che si manifestano in seno alla stessa Obbedienza giustinianea – merita una segnalazione un articolo che il Fr. Rinaldo Botticini – intellettuale e poeta finissimo, iniziato sulla spada, a Cagliari, dal delegato P2 per la Sardegna e inseritosi successivamente nel piedilista della Sigismondo Arquer n. 709 – pubblica sul periodico del CRD nel dicembre 1972.

Titolo dell’intervento: “Lettera dalla Sardegna”. Dallo scritto emerge il disincanto per una democrazia sempre più debole (a fronte delle crescenti prove del terrorismo bombarolo, che qualcuno chiamerà poi “strategia della tensione” e perfino, alludendo a operazioni sporche dei servizi segreti, “stragismo di Stato”) e, con toni anche lirici (e molte ingenuità), l’ansia di concorrere al suo rafforzamento.  Eccone alcuni stralci:

«Miei cari politici delle grandi città, da questo angolo molto sperduto e molto imperfetto dell’universo, anche noi sardi pensiamo a quello che farà e dove andrà l’Italia in questo scorcio di secolo.

«Qui da noi, con la vasta pianura del mare che ci divide dal resto del mondo, le voci rimbombano più che nelle grandi vaste città e gli echi che ci giungono da fuori talvolta hanno una ripercussione raccapricciante. Essendo, inoltre, chiusi nella rete della solitudine, sappiamo prima essere autocritici, e poi spaziare oltre gli steccati e le dogane delle nazioni.

«Ecco: in questo momento di dissoluzione dei valori a noi sembra che anche i partiti politici stiano per esaurire la loro funzione. I partiti dell’arco democratico e naturalmente quelli che sono fuori dell’armonia del gioco luminoso della libertà. Fuori da questo gioco certo non è il socialismo, il quale, però, finora, non ha saputo coordinare la propria funzione di alternativa storica liberatrice nei confronti delle società della fame da una parte e dell’opulenza e del benessere dall’altra.

«In mezzo stiamo noi, L’Italia. In essa, ma paurosamente pendente verso le società della fame, il meridione e la Sardegna. Ora se il socialismo avesse saputo imporsi come soluzione radicale, rovesciando le dittature e ponendosi come perfetto sistema democratico, noi vivremmo nell’ottimo dei mondi. Ma il fatto drammatico è che anche il socialismo è in crisi…

«Voglio dirvi che non dispero, però, in un rovesciamento dell’attuale stato di cose. Il sistema che è stato in vigore fino ad oggi ha mistificato tutto e quindi ha inquinato e minato non soltanto la sua base ma la stessa base della politica. I maggiori responsabili di questo guasto sono i politici che finora ci hanno governato, cioè i manipolatori. Essi sono ben spalleggiati, nella loro irresponsabilità, dall’anonimità delle masse, guidate dal monopolio del potere, fine a se stesso.

«E’ vero che ogni funzione dirigente presuppone l’esistenza di alcuni che si trovano alla testa e di altri che li seguono. Ma i rapporti dovrebbero fondarsi sull’apprezzamento e rispetto reciproci e non sulla dipendenza unilaterale e sulla sottomissione forzata.

«E i dirigenti dovrebbero avere qualità intellettuali, morali e di carattere, maturità di pensiero politico, capacità di formulare idee vere, “coraggio, gusto e generosità”… Mentre al contrario, oggi assistiamo al trionfo dei gruppi privilegiati dei politici che risolvono i loro interni conflitti con l’intrigo, con il compromesso e perfino con la truffa…

«Oggi (beati loro) gli scolari vanno al mare e in campagna e nessuno gli insegna, forse, che questo stato di benessere (sempre ancora apparente) l’abbiamo conquistato con i denti, 25 anni fa. Tanto meno glielo insegnate voi, miei cari politici delle città, perché a voi poco importa dei fanciulli che non votano.

«Ma lo faranno sentire, con eloquente voce, i fatti che seguiranno la “caduta degli dei”. Ai quali sostituiremo uomini che vorranno rinnovare “un patto d’amore e non di odio”, ristabilire una società giusta e non corrotta. Uomini che abbiamo in mente il passato e il futuro per innestarvi il presente. Non il presente che viviamo, certo, ma quello che noi vogliamo creare… Sappiano che molte gemme sono cadute dall’albero, bruciate dal gelo, quando avete confuso tremendamente queste due parole (“socialismo” e “democrazia”); ma le saprete di nuovo unire e innestare, l’albero tornerà a fiorire ed a irrobustirsi, e sopra vi si poseranno gli uccelli e anche vi faranno il nido».

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Bussalai 1, Un ex comunista in loggia. Centrale resta, nella storia della Libera Muratoria sarda nel lungo settantennio che ormai ci separa dalla ripresa delle attività latomistiche del  1944, la personalità di Francesco Bussalai. Soltanto percorrendo, ancorché qui soltanto per brevi tratti ma con aggancio sicuro alle carte del suo archivio (con generosa liberalità passato in copia, tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90, dalla vedova Fides Pilo e dalla figlia Anita Bussalai al mio storico generale della Massoneria sarda), la sua vicenda umana e massonica è possibile comprendere – io credo – il perché di quel documento datato 8 febbraio 1970.

Nell’Assemblea regionale della prima legislatura (1949-1953) Bussalai figura fra i consiglieri iscritti al gruppo del PCI. Nuorese, classe 1913, partecipa intensamente all’attività legislativa. Una rapidissima rassegna delle materie di cui si occupa nel corso della legislatura di esordio dell’autonomia speciale dà un’idea del suo impegno come esponente di una formazione di opposizione, e della concretezza del suo ruolo di controllo, critica e stimolo alla/e giunta/e di governo (a presidenza Crespellani).

Egli prende posizione su un’infinità di disegni di legge predisposti dall’esecutivo, preferendo peraltro soffermarsi sulle materie che, per ragioni professionali, conosce meglio nei loro aspetti amministrativi ed operativi: dallo sviluppo dell’industria piccolo-cantieristica e peschereccia (incluse le autorizzazioni alla costruzione dei porti di IV classe) alle promozioni mercantili (fiere, mostre ed esposizioni).

Davvero imponente è altresì la sua attività di interpellante, che spazia dalla rivolta sociale dei contadini che occupano le terre incolte, ai danni provocati dalle frequenti alluvioni nell’Isola – in particolare quella tragica dell’autunno 1951 –, alle dubbie modalità di distribuzione dei sussidi ECA ad Alghero, all’arresto di lavoratori ad Ozieri, all’istituzione di un ufficio regionale dell’IGE…

Con i colleghi dell’opposizione di sinistra firma mozioni politiche impegnative per la giunta, taluna di grande importanza, come è, ad esempio, quella per il Piano di Rinascita socio-economica della Sardegna. Interviene sul documento sardista riguardante i diritti di pesca nelle acque pubbliche regionali, e così – da musicofilo di merito – su progetti di legge (sia regionali che nazionali) relativi al funzionamento del Civico Liceo Musicale sassarese Luigi Canepa e, per tornare alla sua competenza professionale, alla varia e complessa disciplina tributaria e doganale sui prodotti minerari, alle tabelle sui prezzi medi dei vini, mosti e prodotti vinosi, ai fini dell’IGE, alla devoluzione a favore della Regione sarda del 9/10 delle imposte doganali e di fabbricazione di tutti i prodotti che ne siano gravati, percette sul territorio della Regione, e così via.

La vicenda umana e politica di Francesco Bussalai Fratello in pectore è straordinariamente interessante e, per i suoi fermenti libertari – condivisi nella loro maturazione dalla sua compagna di vita Fides Pilo, prossima Venerabile della loggia femminile Libertà (fondata nel 1976) –, sembra naturalmente confluire nella mistica civile che innerva, nella particolare esperienza storica, la Massoneria italiana. Che, appunto, associa al filone più spirituale un indirizzo più operativo, volto alla politica ed alla presenza sociale, nelle istituzioni culturali e nell’associazionismo.

Non sarà un percorso semplice, né forse mancheranno cadute e contraddizioni, ma certo è che, sia pure in nuce, l’Artiere di loggia sboccia singolarmente nella fedeltà marxista-leninista degli anni della guerra e della resistenza.

Nel suo testamento datato 5 ottobre 1943 – in un momento nel quale egli è gravemente consapevole della precarietà della sua sorte – scrive, riferendosi ai figli che crescono, di desiderare che «vengano su retti  –liberi da ogni pregiudizio – vero nemico dell’evoluzione umana – animati di buona volontà verso il prossimo – e sopra tutti nemici di ogni forma di tirannia – sopruso – arbitrio. Considerino il prossimo come se stessi: rifuggano da ogni forma di sfruttamento … credano nel mondo nuovo – nella Giustizia – nell’equità – nella fratellanza degli uomini così come ho creduto io». Concetti che, perfino nella loro enunciazione testuale, sentirà proclamare dal Venerabile nella pur rapida cerimonia di iniziazione che segna il momento del suo ingresso nella Fratellanza liberomuratoria.

Nel PCI sardo è sempre meno tollerata la sua indipendenza di giudizio e non potrà dirsi del tutto sorprendente il processo che lo inchioderà davanti al tribunale interno del suo partito nel febbraio 1957, imputato di “frazionismo” e condannato infine alla radiazione del partito. Dai giorni, press’a poco, dell’invasione sovietica dell’Ungheria – che tante crisi aprirà nella coscienza dei militanti più consapevoli – egli collabora, sia pure marginalmente, ad un giornale – “Azione Comunista” – il quale, pur all’interno di un certo rigore di dottrina che vuole addirittura riportare a Lenin (magari al Lenin della NEP) ed al documento di fondazione del PCd’I gramsciano, critica e contesta opportunismi ormai invalsi nella vita interna del partito. Opportunismi di cui è protagonista – scriverà – «una ristretta oligarchia di funzionari degli apparati con diritto a pensione».

E’ una storia lunga, complessa, avvincente. Ad essa, come anche alle sue vicende personali e familiari, fui introdotto ora sono una ventina d’anni fa dalla fiducia della famiglia, da cui ebbi copioso materiale, oltre alle confidenze domestiche. Una parte – quella specificamente massonica e quella appunto familiare – feci in tempo a metterla su carta con qualche tempestività, e ne ebbi il placet da Fides in vista di una pubblicazione che presto o tardi sarebbe venuta. Ma naturalmente anche le diverse stagioni della esperienza politica di Bussalai (sempre condivisa da sua moglie) entrarono in diversi appunti che furono valutati da chi conosceva, per averli vissuti, quei passaggi non tutti di rettilineo fra la militanza comunista e quella riformista. Quel che segue è appunto lo stralcio delle sequenze politiche successive all’abbandono del PCI, o che da esso prendono le mosse.

Gli approdi anche teorici saranno, inaspettatamente, nella socialdemocrazia, cui il gruppo giungerà attraverso molte elaborate fasi di messa a punto ideologica e politica. Fra i leader di Alleanza Socialista – la formazione cui aderirà Bussalai – sono nientemeno che Eugenio Reale (già membro della direzione del PCI e delegato alla riunione di Varsavia che nel 1947 ha portato all’intesa del Cominform) e Tomaso Smith, giornalista, deputato e poi senatore, direttore de “Il Paese” di Roma, massone dal 1915 e Maestro dall’anno successivo.

E’ nel salone Brancaccio della capitale che si svolge il 23 e 24 novembre 1958, il primo convegno nazionale degli ex comunisti, presenti centinaia di delegati. L’obiettivo è di operare per un «partito unico dei lavoratori» aperto al proletariato come ai ceti medi ed al mondo della campagna, capace di battere «il prepotere dei ceti conservatori» e monopolisti. Sempre sul terreno legalitario e pienamente democratico.

L’obiettivo tattico ed immediato è l’adesione alla sinistra socialdemocratica in vista di un più largo processo di unificazione socialista (il sogno, presto infranto, della metà del decennio successivo).

L’approdo riformista trova forse matrici remote di natura morale nella esperienza di vita di Francesco Bussalai. Si badi a queste frasi:  «Chiedo perdono a mia moglie ed ai miei piccoli figli Turi – Pino – Irene – Bruno – Anita di quanto posso averle arrecato di danno…

«Queste povere creature mi perdonino se non ho potuto lasciare loro di che sostentarsi in mia mancanza.  Credano nel mondo nuovo – nella Giustizia – nell’equità – nella fratellanza […]. Ricordino che per questi ideali mi sono sacrificato e questo sacrificio mi auguro cancelli qualche mia colpa dovuta, credo, alle circostanze ed all’ambiente corrotto esterno.

«Riconosco in mia moglie la migliore delle compagne dotata di uno spirito di abnegazione e di sacrificio non comuni…».

E’ la lettera-testamento che Bussalai riempie su quattro facciate numerate da lui stesso, in alto a sinistra: 93 righe di scrittura ora fitta ora larga, con le disposizioni testamentarie rivolte alla famiglia, con gli ammonimenti etico-morali e – a 30 anni soltanto di età – il consuntivo di vita, il tutto «nell’imminenza di avvenimenti nei quali – scrive – potrei incontrare morte violenta».

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Bussalai 2. Le tenerezze di un credente, artista e guerrigliero. Lasciato il servizio a Milano per sfuggire alle rappresaglie nazi-fasciste incrudelitesi all’indomani dell’8 settembre, egli – giovane bruciato dalla volontà di lottare per la santa causa della giustizia e del socialismo – s’è rifugiato a Roma, dove è braccato ed è prossimo a cadere nella rete.

Ma c’è pure un’altra lettera, non meno significativa, precedente soltanto di qualche settimana quella romana. E’ partita da Milano il 25 luglio, giorno del golpe ordito dal Gran Consiglio, ed è indirizzata all’adorata compagna e moglie.

«Mia cara, ti scrivo con le lagrime agli occhi e con un nodo alla gola dalla gioia. Come ti vorrei avere con me in questo momento! Da ieri notte Milano è insorta. L’ora della tanto agognata liberazione finalmente è suonata. Il fascismo è morto! Milano ha un grande cuore ed è degna delle Cinque Giornate. Ci siamo veramente divertiti: pensa che sono entrato al “Covo” quasi per primo per distruggere tutto. Qui è andato bene tutto; invece ad un gruppo rionale fascista ci hanno accolto alla mitragliatrice ed abbiamo avuto diversi morti. Ora non si fa altro che dare la caccia spietata ai fascisti (gerarchi). Vedessi che risate! Abbiamo occupato e distrutto il “popolo d’italia” di quel sudicio, il guf, i sindacati. Di tedeschi neanche l’ombra; così pure della milizia. Si cominciano ad organizzare i partiti d’azione social-democratica. Gli aderenti sono innumerevoli, il Popolo di Milano l’è un gran bel popolo. Ma superiori ad ogni elogio sono le donne: pensa che hanno avuto il coraggio di affrontare le mitragliatrici fasciste: sono stupende, degne compagne degli uomini. Abbiamo anche liberato i prigionieri politici. Piangevamo tutti! Stamane in ufficio ho fatto piazza pulita di tutti i quadri. Molti vigliacchi mi facevano i sorrisini. Abbi fiducia in me. Fra poco ci riabbracceremo. Infiniti abbracci a Marianna, ai miei piccini ed in particolare a te. Tonino (Ritira Brunetto da Nuoro)».

Tonino. Il diminutivo del secondo nome è entrato nelle abitudini di casa fin dall’inizio, reso necessario per mettere rimedio agli effetti della… distrazione paterna. All’ufficiale dell’anagrafe, a Nuoro, quel certo giorno dell’agosto 1913, il signor Salvatore ha denunciato la nascita del piccolo Francesco Antonio, ed ha replicato la scena – facendo registrare un’altra Francesca – pochi anni più tardi…

La madre, una Quesada, è la terza moglie di Salvatore Bussalai, rimasto vedovo due volte. Dal primo matrimonio è nato Salvatore jr., impiegato postale, antifascista penalizzato nella carriera, i cui figli muteranno negli anni avvenire il cognome in un più corto Bussa (ed è il filone che si riconosce nel noto attore Ubaldo Lay, che così recupera in arte la frazione… perduta del cognome).

Dal secondo matrimonio sono nate ad Orani Marianna e Ignazia, pasionarie del sardismo invise al regime. Marianna, la poetessa lussiana dei “battor moros”, scomparirà ancora giovane nel 1947.

Ed infine ecco la terza unione, appunto quella con Giuseppina Quesada, da cui nascono in successione Pasquale Tomaso, Francesco, Francesca (Cicita: che si laureerà in medicina e sposerà il vice prefetto Giorgio Flagiello), ed Assuntina infine (che andrà a nozze con Antonio Sanna, veterinario e direttore del mercato comunale a Nuoro, anche lui Fratello: all’inizio all’obbedienza di Piazza del Gesù nella loggia Ortobene, poi nel gruppo P nuorese, infine nella nuova compagine giustinianea).

Appaltatore dell’ufficio postale nel capoluogo barbaricino, Salvatore Bussalai è entrato nei ruoli statali all’atto della costituzione della Provincia di Nuoro, nel 1927. E’ stato allora trasferito nella vacante sede di Porto Torres, comune presso cui la famiglia ha preso residenza per diversi anni.

Francesco (Tonino) studia a Sassari, ginnasio e poi liceo (il glorioso Azuni): non prenderà però la licenza, distolto e coinvolto da altri e più forti interessi, e soprattutto dalla musica: segue la banda civica ovunque si posizioni per i suoi pubblici concerti, ed ancora ragazzo si cimenta in un’orchestrina che, nel cinema del capoluogo turritano, accompagna con un gradevole sottofondo la proiezione delle pellicole mute. E dal loggione non è allora raro che qualche divertito spettatore lanci insieme il reclamo e la preghiera in stretto dialetto: «ingrassa lu biffaru». Frequenterà anche un corso triennale organizzato dall’Accademia di Santa Cecilia, nella capitale, acquisendo un patentino che lo accredita già come musicista di un certo livello. D’estate suona nell’orchestrina che si esibisce allo chalet “Lo scoglio lungo”, a Porto Torres…

Intanto irrompe nella sua vita di adolescente super attivo una coetanea, studentessa all’Istituto tecnico, che ha un nome che è tutto un programma: Fides.

Si conoscono nel cortile di casa, a Porto Torres, in occasione di una visita di Fides ad un’amica torresina, la cui famiglia è proprietaria dell’appartamento abitato dai Bussalai. Amore veloce e contrastato, a casa Pilo, dal fronte paterno più che da quello materno, più dal severo burocrate del municipio sassarese – Giuseppe – che dalla moglie di questi, la maestra Grazietta Perantoni, piuttosto propensa a comprendere i fuochi giovanili.

Ma nel 1930 – quando lui ha 17 anni e lei 18 – la coppia sfida tutti, comprese le guardie sguinzagliate per la sorveglianza, mettendo la famiglia davanti al fatto compiuto. Fuggono insieme, si rifugiano in un albergo di Alghero e da lì spediscono un telegramma a casa: se ci volete, ma con le nostre decisioni, venite a prenderci. E loro vanno a prenderli, la famiglia capitola e i ragazzi, neosposi, trovano alloggio proprio di fronte ai Pilo. Sarà matrimonio religioso, pur con tutte le… riserve sacramentali. Credenti nella realtà ultraterrena, ma indefinibile, fuori dogma, e anche fuori chiesa… Prende vita un sodalizio umano ed esistenziale che reca netti caratteri di idealismo ed anticonformismo. I figli che verranno non saranno portati al fonte per il battesimo.

A casa del funzionario municipale i ragazzi conoscono tale signor Carta, un anziano impiegato del Comune, celibe e solitario, espulso dall’Amministrazione civica per palese, ancorché non declamato, antifascismo. Ai giovanissimi Francesco (Tonino) e Fides il signor Carta tiene lezioni clandestine di marxismo. Così sarà, con qualche assiduità, per alcuni anni, almeno fino a quando – siamo ormai nel 1933 – il giovane capofamiglia, cui Fides ha già dato i primi bambini (Salvatore e Pino), non vince un pubblico concorso presso l’Amministrazione doganale, ottenendo l’assegnazione alla sede di Reggio Calabria. (Bisogna tener presente l’abilità di Francesco Bussalai nel dribblare le richieste di esibizione della tessera fascista ovviamente necessaria per l’ammissione nei ruoli pubblici: non ha la camicia nera, ma non ha bisogno di confessarlo né di giustificarlo, perché gioca sull’equivoco delle residenze sparse fra Sassari e Reggio, fra Reggio e poi Livorno…).

Apostoli del comunismo, nelle catacombe imposte dal fascismo. Al porto di Reggio Calabria, negli anni fra il 1935 e il 1936, Francesco e Fides assistono all’imbarco di tanti giovani (e meno giovani) volontari, che per il soldo s’intruppano alla volta dell’Abissinia. E fanno opera di sobillazione, cercano di insinuare almeno un dubbio nella mente dei tanti che s’affollano entusiasti sui moli: non è una festa, ve ne accorgerete… il colonialismo, l’imperialismo, lo sfruttamento dei popoli poveri…

Nel 1937 arriva il trasferimento a Livorno. La famigliola, ormai sempre più numerosa – a Reggio è nata anche Irene e in Toscana vedranno la luce Bruno ed Anita –, prende casa proprio davanti al cantiere navale, e la posizione è ideale per la semina del verbo rivoluzionario, perché facilita l’incontro con gli operai, semplifica la pur guardinga distribuzione dei manifestini di propaganda. Si può contare pure su un alleato interno al cantiere, un Jean Valjean – questo è il suo soprannome – che funziona da staffetta.

Anche Fides tiene accesa, in proprio, una miccia, ancorché a combustione lenta. La mattina presto, già alle quattro, lei si mette in fila con i popolani che, tessera alla mano, attendono il proprio turno davanti alle botteghe. Si sa di accantonamenti di merce, di viveri, per l’utilità dei privilegiati del regime… Sobilla la gente, alimenta lo scontento, diffonde i suoi consigli che scontano una conoscenza esperta della psicologia popolare. I gerarchi della milizia la richiamano all’ordine più volte. Lei ha sempre la risposta pronta: mandatemi pure al confino, mi farete un piacere, ho cinque figli da mantenere!

Si avvicinano i giorni della guerra mondiale. Francesco è richiamato e spedito a Cividale del Friuli, dove è inizialmente incaricato della direzione dello spaccio nonché di quella, più gradita, della banda musicale.

A proposito di bande ed orchestre. Nell’anno scolastico 1942-43 ha acquisito, come privatista, il diploma di “licenza e magistero” di flauto presso l’Istituto Musicale pareggiato G. Pacini di Lucca. Ha sostenuto ben cinque prove nelle materie principali (concertino di Chanimade, studio n. 5 op. 60 e studio n. 12 op. 5 di Andersen, interpretazione dell’andante op. 20 di Porzio, lettura e trasporto, esame di cultura), riportando la media dell’8 e 30/10. Bene anche nelle materie complementari tecniche.

La guerra, dunque. I comandi vorrebbero inviarlo al fronte: lui è però abile nel defilarsi, accusando un inoppugnabile carico di famiglia il quale, infatti, gli vale l’esonero dal servizio. (E’ in qualche modo il bis di quanto occorsogli dieci anni avanti, alla convocazione per la leva. Una protezione all’Ospedale militare di Sassari ha saputo riscontrargli una “sordità bilaterale” – patologia alquanto bizzarra in un musicista, seppure alle prime armi! – sicché è stato assegnato a servizi sedentari, per i quali è rimasto in attesa d’una chiamata che però non verrà mai).

Mentre anche Livorno, come Cagliari e mezza altra Italia, entra nei piani di bombardamento dell’aviazione alleata, Fides e i bambini lasciano la città riparando prima a Sora, in provincia di Frosinone, dove vivono alcuni parenti dei Pilo, e successivamente in Sardegna. Sarà allora necessario addirittura un lasciapassare prefettizio (del titolare di Livorno, amico di Giuseppe Pilo), dato che l’emergenza bellica impone lo stop ai traghettamenti di civili, attraverso un mare che è cosparso di mine esplodenti. Gli spezzonamenti a Livorno sono rovinosi nei loro effetti di lutto e distruzione materiale. La famiglia perde tutto fra le macerie della città.

1943. Francesco Bussalai è mandato dalla Dogana in missione d’ufficio a Milano. Ha giusto trent’anni e già, però, un consuntivo di vita notevole: cinque figli, un lavoro impegnativo, residenze in varie città d’Italia, un hobby che vale una professione, una robusta fede politica e un fervoroso apostolato clandestino… Ora può aggiungere un’altra esperienza, un nuovo capitolo: l’antifascismo attivo e l’azione partigiana.

La delazione di qualcuno ne causa l’arresto, con quanto – date le circostanze – l’accompagna: sevizie d’ogni genere. Dopo due mesi di detenzione, a metà gennaio 1944 cioè, evade al seguito di Pertini e Saragat dal carcere di Regina Coeli, braccio tedesco, e partecipa a varie azioni di sabotaggio contro il nemico, comandando il 1° GAP della VI zona del PCI (ex PCd’I). A febbraio parte da Roma per raggiungere i partigiani dell’Abruzzo, dove dirige un distaccamento di patrioti attivo nel circondario di Avezzano e fa parte della divisione Marsica. Gli sarà concessa la medaglia di bronzo al valor militare sul campo.

Il 12 giugno – una settimana dopo la liberazione della capitale – torna a Roma: non ha mezzi, non ha neppure un capo di vestiario per il cambio. La puntata è poi ad Orani, dove brilla la stella di Marianna Bussalai, la sorella sardista. Si ricongiunge a Fides ed ai bambini e con loro si trasferisce a Porto Torres dove è distaccato dall’Amministrazione doganale.

Qui fonda la locale sezione del Partito Comunista, mentre Fides diventa la responsabile del settore femminile (così sarà a Cagliari, quando la famiglia dovrà trasferirsi nel capoluogo per l’inizio della prima legislatura autonomistica). Ricopre, Francesco, incarichi importanti nell’ambito della Federazione provinciale che contribuisce a strutturare. Prende parte ai primi congressi del partito di Togliatti. Assume, con C. Vallino, la responsabilità dell’organizzazione nell’ambito del Comitato federale di Sassari, dopo l’assise del marzo 1945 (il segretario è Renzo Laconi, deputato costituente).

A Porto Torres organizza lo sciopero degli scaricatori del porto, e partecipa poi, con Fides sempre in primissima fila anche lei, all’occupazione delle terre da parte dei contadini. Si comincia nelle aree incolte del largo Baratz, nella zona di Fertilia, nella Nurra (per dormire la notte vengono utilizzati i capannoni liberati dai lucchetti)… La polizia ferma, porta in caserma, interroga. Per Fides arriverà una condanna a otto mesi con la condizionale. Contesta: «siete peggio dei tedeschi!», e si prende un’altra condanna per oltraggio. In carcere compie una esperienza politicamente, oltre che umanamente, maturante.

Con la polizia tutta la famiglia avrà a che fare nel 1948, nei giorni dell’attentato a Togliatti. Un altoparlante è posizionato fuori dalla Camera del lavoro per un comizio. Gli agenti intervengono prontamente per disarmare l’apparecchio. In tribunale verrà un’assoluzione, ma solo per… insufficienza di prove.

L’8 maggio 1949 Francesco Bussalai viene eletto, per il collegio di Nuoro (dove supera per qualche voto il compagno-avversario Girolamo Sotgiu), al Consiglio regionale – l’assemblea del debutto autonomistico della Sardegna – insieme con altri dodici compagni.

Non è ricandidato dal partito nel 1953 alla seconda legislatura. E’ già inviso a taluno di quelli che contano, nel PCI, e hanno la forza di tirare le fila: Girolamo Sotgiu, il più stalinista di tutti, lo accuserà perfino di autopropaganda; c’è poi l’accusa, o l’imputazione d’esser titoista, ecc.

Ma è fra il 1956 ed il 1957– all’indomani dell’invasione dei carri armati sovietici a Budapest – ed ancora nel 1958 che egli decide di alzare, così come aveva fatto contro il fascismo, la bandiera della libertà: ora contro il conformismo e l’arrogante faziosità della dirigenza comunista, non solo locale. E’ una svolta di vita. Esce dal partito, si avvicina alla socialdemocrazia: non con un processo indolore e piano, ma piuttosto con la sofferenza che lo strappo non può che provocare e qualche passaggio ideologico ancora non perfettamente definito: parte dalla dissidenza del gruppo di “Azione Comunista” e dal sogno di un certo ripristino leninista per arrivare poi al pieno revisionismo riformista.

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Bussalai 3. Lo strappo da un mondo chiuso. Il percorso compiuto da Francesco Bussalai dal comunismo alla democrazia, definendosi in un posizionamento ideale o ideologico nel campo della socialdemocrazia ma singolarmente partendo da una contestazione “da sinistra” della classe dirigente comunista, è effettivamente complesso e prende diversi anni.

Come detto, all’inizio egli partecipa alle riflessioni e alle attività del gruppo di dissenso che si coagula attorno al periodico “Azione Comunista”, il cui promotore è Bruno Fortichiari. La testata e naturalmente, prima ancora, il gruppo che la edita e diffonde hanno nei loro obiettivi essenzialmente «il ritorno del Partito Comunista alle direttive leniniste… di Lenin» (così Bruno Fortichiari nella sua circolare, inviata anche a Bussalai, del 25 agosto 1956).

La prima manifestazione pubblica della Sinistra comunista all’insegna  della «rinascita di un partito comunista veramente rivoluzionario» (lettera a Leone del  7 gennaio 1957) prende la doppia forma di un comizio ed un convegno nazionale. Siamo a metà dicembre 1956, giusto un mese dopo la invasione dei carri sovietici in Ungheria.

Il movimento frazionista include militanti che desiderano restare ancora nel PCI e compagni che ne sono usciti o non sono mai entrati nel partito, essendosi piuttosto limitati a fiancheggiarlo nelle iniziative di cultura o di propaganda. Esso conviene di persistere sulla riservatezza da assicurare ai nomi degli aderenti. L’orientamento che si afferma netto – così in una lettera del 20 gennaio 1957 di Fortichiari a Bussalai – è che l’espulsione dal partito «proposta o decretata» dai vari dirigenti centrali o periferici debba trovare «un’eco nelle formazioni di base: cellule o sezioni. E ciò è importante per l’informazione e la meditazione dei compagni».

Si tratta di un’azione un po’ carbonara. Fortichiari sollecita dal suo corrispondente sardo, per il giornale, una lettera, «sia pure firmata con pseudonimo», illustrativa dei disagi della base comunista nei confronti della politica della dirigenza, e gli consiglia di «scrivere sempre impersonalmente a Editrice…». La corrispondenza si fa fitta. Da Cagliari parte una periodica rassegna della stampa locale che alle vicende del PCI regionale va dedicando larga attenzione.

Nei primissimi mesi del 1957 vengono finalmente in superficie disagi e malumori che da tempo corrono in seno alle federazioni provinciali del PCI isolano, nello stesso Comitato regionale e nel gruppo consiliare. Sono Sebastiano Dessany e Basilio Cossu, consiglieri regionali nuoresi, a funzionare da mosche cocchiere della dissidenza interna. Rinunciano ad intervenire nel dibattito della IV conferenza regionale del PCI, in svolgimento ad Oristano il 16 e 17 febbraio, ma depositano al banco della presidenza un documento di forte critica sugli indirizzi politici e gestionali del partito. Il quale – attraverso un ordine del giorno predisposto da alcuni dirigenti fra cui Umberto Cardia e Luigi Berlinguer ed approvato dall’assemblea – reagisce deliberando il deferimento dei dissenzienti agli organi provinciali.

L’accusa rivolta al PCI è di «doppiezza» («l’attuale struttura del PCI rappresenta l’errore di fondo sul quale prospera la crisi generale del movimento operaio italiano»), quella che il partito indirizza  ai suoi critici è, al minimo, di mancanza di serietà. Nel PCI «libertà e democrazia sono vane parole», la sua struttura «burocratica e dogmatica» ha soffocato ogni istanza di rinnovamento.

Ore 19 del 22 febbraio. L’ufficio di presidenza della Commissione provinciale di controllo avvia finalmente le procedure di giudizio contro l’icesberg della dissidenza: Sebastiano Dessanay, Pietro Agus, Umberto Giganti, Peppino Are… E Francesco Bussalai. “l’Unità” già l’indomani ne dà pur sommaria notizia informando anche delle decisioni del gruppo consiliare che destituisce dalla propria segreteria Dessanay «essendo incompatibile la sua permanenza a questo incarico di responsabilità, dopo la sua inammissibile presa di posizione» e lo rimpiazza con Girolamo Sotgiu.

Il segretario della Federazione di Cagliari formula una serie di quesiti che sono veri e propri capi d’imputazione:

«E’ esatto che giunge un pacco di giornali “Azione Comunista” alla Federazione Provinciale degli Statali, ove vengono poi diffusi?

«E’ esatto che la stampa viene diffusa e commentata in gruppi?

«E’ esatto che in alcuni gruppi di compagni viene svolta una azione denigratoria nei confronti dei dirigenti?

«E’ esatto che vi è in corso un’azione per indurre dei compagni e compagne a dimettersi dal Partito?

«Qual è il pensiero del compagno Francesco Bussalai sull’opera svolta contro il PCI da “Azione Comunista” e quale azione intende svolgere per contrastare l’attività di “Azione Comunista” in questo particolare momento?».

L’imputato raccoglie le domande postegli, quelle sull’ortodossia e quelle sull’ortoprassi, medita i suoi argomenti; e tre giorni dopo risponde per iscritto al “pubblico ministero” e alla “corte”. «Cari compagni…», protesta lui, per intanto, per l’indiscrezione di stampa – qui l’imputata è “l’Unità”– circa il suo deferimento all’organo disciplinare. Egli s’è tenuto riservato, discreto, quieto. Perché allora è stato dato in pasto al commento magari impertinente di un pubblico chiacchierone e fors’anche propenso alla speculazione di parte?

Sul merito: sì, “Azione Comunista” circola nelle sedi del partito; sì, fra compagni si discutono le posizioni della testata e del gruppo politico che la edita; sì, il 16 luglio 1956 egli ha indirizzato a Bruno Fortichiari la richiesta «di qualche numero del giornale contro assegno».

Denigrazione della dirigenza del PCI da parte di “Azione Comunista”? No, «se per “denigrazione” vuole intendersi diffamazione o calunnia».

Nessuna volontà corrompitrice: “Azione Comunista” «si propone, attraverso una azione di lotta, di chiarificazione politica e ideologica all’interno del Partito e fra compagni di Partito, di riportare l’Organizzazione in quella giusta via del marxismo-leninismo dalla quale metodi, errori e uomini, hanno fatto allontanare» militanti e simpatizzanti.

Quale la sua opinione sulle tesi di “Azione Comunista”? Premesso di esser stato impedito (e come delegato – non eletto – e come ospite – non invitato) di parlare al recente congresso del Partito, premesso di esser stato censurato dall’“Unità” che non ha pubblicato un suo recente articolo, osserva: «l’VIII Congresso, ribadendo la cosiddetta “Via Italiana del socialismo”, anziché chiarire la situazione correggendo i molti errori del passato e riportare il Partito alle sue origini marxiste-leniniste rivoluzionarie, tradendo l’ansiosa aspettativa degli operai e dei contadini, ha definitivamente trasformato la organizzazione della lotta di classe per eccellenza, che è il Partito Comunista, in un vero e proprio movimento elettorale al servizio di una ristretta oligarchia di funzionari degli apparati burocratici con diritto a pensione. Di qui il consolidamento di quella mentalità parlamentaristica ed elettoralistica che aveva da tempo avvelenato l’atmosfera del Partito corrompendo uomini ed organizzazioni…».

E più oltre: «Assistiamo oggi allo sfacelo organizzativo delle nostre cellule, delle nostre sezioni, dei sindacati, al silenzioso allontanamento dal Partito di compagni che non rinnovano la tessera, allo sbandamento dei piccolo-borghesi e degli intellettuali [...], al doloroso e mortificante spettacolo [... di] dover subire l’umiliante ma spesso “provvidenziale” protezione della polizia “scelbiana” dalle provocazioni fasciste e studentesche in occasione dei dolorosi avvenimenti ungheresi».

Ancora: «Assistiamo oggi costernati all’abbandono degli ultimi alleati, i socialisti di Nenni, all’allontanamento dal Partito di tutte le forze della Resistenza che del Partito erano l’orgoglio (in Sardegna su 1.200 partigiani combattenti, la maggior parte dei quali era iscritto al Partito, solo pochissimi, non più di 10, hanno conservato la tessera del PCI). Conseguenza questa di una lunga politica opportunistica , [...]  nullista, che ha condotto il nostro Paese da un lato alla restaurazione dello stato borghese permettendogli il suo mostruoso sviluppo monopolistico, alla totale clericalizzazione della vita italiana, e dall’altro, al progressivo arretramento delle classi lavoratrici dalle posizioni strappate alla borghesia con la lotta partigiana di Liberazione…».

Bussalai proclama il suo j’accuse alla dirigenza del PCI: doppiezza, astrattezza, equivoco, opportunismo, e così via. «Quando si vuol aprire il dialogo con i cattolici ed il giorno dopo si stringono taciti accordi con i monarchici contro la Democrazia Cristiana; quando si tratta con le forze retrive della borghesia agraria perché si dichiari “neutralista” e subito dopo si chiamano alla lotta contro gli agrari i ceti medi delle campagne; quando si impegnano tutte le forze dell’organizzazione in campagne propagandistiche ed elettoralistiche sperando nei voti dei malcontenti e si abbandonano alla più feroce persecuzione i dirigenti operai nelle fabbriche; quando si promettono appoggi ai dissenzienti del partito di Nenni, senza riuscire a controllare la dissidenza interna del partito. Una politica di questo genere non solo [non] accresce l’influenza della classe operaia e del suo partito, ma perde anche quella che l’abnegazione, lo spirito di sacrificio, l’attaccamento alla causa dei militanti di base ha faticosamente conquistato».

Ecco allora la funzione profetica dei dissidenti, funzione di “grillo parlante”, di “coscienza critica” che vorrebbe preparare il terreno a una nuova costituente comunista per «salvare il movimento operaio da una sicura disfatta, per riportarlo in quella strada, tracciata da Lenin, indicata nei 10 punti del Congresso di Livorno, sotto la guida del P.C. e in seno ad una nuova Internazionale Comunista che non sia strumento di un solo Stato, in quella strada che conduce all’abbattimento rivoluzionario del potere borghese ed alla edificazione dello Stato dei consigli dei Lavoratori, in una società senza classi».

Conclusione etico-politica e confessione esistenziale: «Per questi ideali ho combattuto anche con le armi, ho cospirato, ho rischiato la vita, ho affrontato galera, persecuzioni e condanne assieme a tutta la mia famiglia. Per questi ideali continuerò a combattere sempre a contatto con gli operai, i contadini, i lavoratori».

I provvedimenti cautelari ed inquisitori diventano ora – marzo 1957 – sentenze disciplinari. Il suggerimento che dalla Centrale milanese viene all’imputato-condannato Francesco Bussalai (cfr. lettera del 30 marzo) è di non lasciarsi isolare dagli altri compagni: «La disposizione draconiana del PCI non deve impedirvi di mantenere rapporti cordiali coi compagni di base. Non è cosa facile, sappiamo, tuttavia bisogna cercare di riuscirci. E’ questo contatto che più preoccupa l’apparato togliattiano. D’altra parte non dobbiamo lasciarci trasportare da risentimenti, né cadere nella trappola di provocazioni a carattere personale. Dobbiamo dimostrare la gravità dei provvedimenti presi per il loro significato di conferma dei metodi dispotici stalinisti nonostante la conclamata democratizzazione data all’VIII congresso del Partito». E ancora: «Bisogna anche stare attenti al pericolo di farci confondere con quei compagni che si sono staccati dal PCI perché non è piegato abbastanza a destra. E dobbiamo anche controllarci severamente per evitare che la stampa borghese di ogni tinta possa tentare una qualunque speculazione. Parli pure delle nostre espulsioni, ma sappia che la classe capitalistica avrà veramente in noi gli avversari implacabili».

Ad aprile “Azione Comunista” pubblica un resoconto sulla base delle notizie-stampa inviate dalla Sardegna.

Circa la posizione di quanti operano nelle organizzazioni sindacali, Fortichiari consiglia di non farla dipendere dal provvedimento preso a carico di Bussalai, ma – scrive allo stesso Bussalai – di metterla piuttosto «a disposizione eventualmente dei compagni di base delle organizzazioni stesse qualora intendessero esaminare il tuo caso. Noi non ci dobbiamo mai sottrarre al giudizio della base quando questo giudizio ci metta in condizioni di discutere il nostro operato sotto tutti gli aspetti, di sostenere le nostre posizioni, i nostri principi».

E ancora: «Noi operiamo e opereremo nelle organizzazioni sindacali facenti capo alla CGIL [...]. Sosteniamo il diritto alla nostra corrente di sostenere compagni di nostra fiducia [...]. Reclamiamo democraticità nel senso delle organizzazioni sindacali della CGIL e rifiutiamo la dipendenza codina verso i partiti che ora ne hanno il monopolio» (così il 10 aprile).

Vigilia dell’incontro, il primo, fissato per domenica 12 maggio – l’anno è sempre il 1957 –, a Cagliari, fra due esponenti della Centrale milanese e i compagni sardi. Seniga, nella sua lettera dell’8 maggio, accennando alle imminenti elezioni regionali, scrive che «l’opposizione, che [...] dovrebbe riunire tutti i dissidenti del partito e fuori del partito su una base minima di impostazione classista, dovrebbe sostenere la parola d’ordine di votare scheda bianca»: «dovremo presentarci – egli aggiunge – come interessati ad intervenire nella campagna elettorale per manifestare la nostra protesta contro l’illusionismo che è solo in funzione di interessi personali, di clientele di gruppo e di partito». Solo così, afferma, «potremo raccogliere l’adesione della parte più sveglia e cosciente del proletariato e di tutte le persone intelligenti che hanno ormai capito come i vertici vadano da un decennio ingannando tutti».

E poi ancora: «Coi compagni cosiddetti “destri” noi pensiamo sia indispensabile arrivare ad un accordo per un’azione comune. Pertanto vi confermiamo il nostro appoggio concreto, come già avemmo occasione di parlare».

Il gruppo cagliaritano trova un locale per le prossime riunioni: 20.000 lire al mese di fitto non sono poche. Milano è diffidente sull’iniziativa: «Il locale avrebbe, semmai, dovuto essere il “punto d’approdo”di tutta un’azione tesa a smascherare l’opportunismo dei dirigenti PC e PS, a propagandare la sfiducia nelle elezioni fini a se stesse e le nostre posizioni rivoluzionarie. Limitarci ad aprire un locale senza prima aver lanciato il seme rivoluzionario fra le masse lavoratrici, significa, a nostro giudizio, cominciare il lavoro alla rovescia».

Nell’Isola le elezioni si svolgono senza che gli ex comunisti abbiamo potuto svolgere l’azione di propaganda che era stata ipotizzata. La fragilità organizzativa è assoluta e, per ora, quasi paralizzante. Nonostante questo, al PCI va piuttosto male: «Senz’altro, i risultati delle elezioni sarde sono salutari, perché varranno almeno a sgonfiare un poco la boria dei teorici del “cretinismo elettorale” (per dirla con Gramsci), che misurano i rapporti di classe esistenti nel paese dal numero delle schede», scrivono dal Centro Nazionale del Movimento della Sinistra Comunista.

Nel n. 21 di “Azione Comunista”, che porta la data del 10 agosto, si legge: «D’accordo con te: le informazioni che possediamo sui “meriti” dei dirigenti massimi del PCI le tireremo fuori goccia a goccia, con giusta dosatura». Così il Centro Nazionale.

Il riconoscimento viene il giorno di ferragosto: «l’isola è all’avanguardia  e non possiamo che complimentarci con voi. Da parte nostra anche se un po’ mortificati perché altrettanto bene non riusciamo a fare nei centri del Nord dove il proletariato sembra dormire “il sonno dei giusti”, vi assicuriamo che non mancheremo di darvi tutto l’aiuto che ci sarà possibile…».

E in vista delle elezioni politiche previste per la primavera 1958? «Concordo con la posizione espressa dal compagno Bussalai nella sua lettera inviataci in data 6/8/57, anzi penso che dovremmo approfittare delle condizioni più favorevoli della Sardegna per concentrare lì tutte le nostre forze, onde ottenere un risultato positivo che, in quanto positivo, verrebbe ad assumere importanza nazionale».

Quale la posizione del compagno Bussalai? Un’intesa anche coi “destri”, una presenza elettorale comune.

Intanto nell’Isola sono sempre più numerose le dimissioni dal PCI di quadri che per anni hanno offerto la loro disinteressata e qualificata opera. Fra essi Giorgio Bellisai, a lungo confinato dal fascismo.

Un chiarimento, sempre nella lettera del 15 agosto a firma di Senise, tocca la natura del movimento: «non vogliamo minimamente apparire come una chiesa o una società che vivono e fanno della concorrenza, siamo usciti dal “Partito-chiesa” e non vogliamo affatto prendere atteggiamenti e posizioni di chiesuola, per noi i compagni troskisti li consideriamo come degli alleati, anche se purtroppo i nostri sforzi per far convergere i due movimenti in un unico movimento [...] non hanno approdato ad alcun risultato». Distinti fra l’altro anche sulla tattica elettorale (i trozkisti fanno infine propaganda per il PCI!).

Pier Carlo Masini si prepara a un gran comizio a Cagliari, che dovrà segnare l’esordio pubblico della Sinistra Comunista come formazione autonoma. Fervono i preparativi, così pure di un convegno regionale che «deve riuscire benissimo». E’ in tale contesto che Bussalai è invitato a «predisporre anche un incontro con gli elementi delle “destre”». La sua linea passa integralmente.

Domenica 15 settembre 1957. «Perché siamo usciti dal PCI e cosa vogliamo?». Questo il tema della conferenza che Masini tiene al cinema Astra di Cagliari. Ognuno dei militanti che tanto hanno “osato” guarda allo scenario nazionale, ideale o ideologico ed organizzativo, ma non può negarsi di riflettere anche sullo spazio concreto che il movimento può strappare nella regione o nella propria provincia o città.

Sulla vasta scena italiana eccelle Antonio Giolitti, anche lui dimessosi dal PCI, che rende noto l’imminente passaggio al gruppo parlamentare socialista e la prossima candidatura, come indipendente, nella lista del PSI.

Francesco Bussalai è uno dei leader del movimento in Sardegna, ma guarda ovviamente alla sua Porto Torres con un occhio di particolare attenzione (in città vive il suo primogenito Salvatore). E da Porto Torres, dal compagno Bartolomeo Laconi, apprende che contro di lui si stanno alzando nuovi venti di calunnia: «i “compagni” PCI dicono che anche tu non hai versato mai le prebende regionali, e con ciò è giustificato per loro il comportamento dei burocrati togliattiani»; «insinuano sotto cenere che tu ti saresti appropriato dei fondi della sezione di Porto Torres. Comprendi cosa dicono i lustrascarpe dei carrieristi?».

La corale riflessione svolta dai partecipanti al convegno organizzato a novembre a Livorno porta ad escludere la possibilità di una diffusa presentazione di liste in tutt’Italia. La Sinistra Comunista vive nel suo interno la difficile dialettica fra quelli che propendono per la ricerca ideologica e quelli che invece preferiscono l’operatività politica. E comunque – scrivono da Milano il 22 novembre – «la linea di fatto che il movimento seguirà, sarà la stessa che ha contraddistinto l’azione di questi ultimi anni: denuncia dell’opportunismo delle attuali direzioni operaie, reclutamento dei compagni al movimento [...], diffusione del giornale e dell’altro materiale che a cura del Centro verrà editato».

In vista delle ormai imminenti elezioni per il rinnovo parlamentare si tiene a Milano, domenica 9 marzo 1958, un convegno nazionale, non senza, però, defezioni. Da esso emerge l’invito (o chiamalo pressante… consiglio) ai compagni dell’Isola – assenti all’assemblea – «di adottare, anziché quella della partecipazione diretta, la linea della scheda bianca». Si vorrebbe evitare una difformità di atteggiamenti fra l’organizzazione sarda e quella nazionale, possibile «fonte di malintesi e di confusione». Come utilizzare poi “Azione Comunista” per la diffusione di due diverse parole d’ordine: una negativa in continente e in Sicilia e una positiva in Sardegna?

A maggio, Giuseppe Averardi – il leader del gruppo che si riunisce attorno a “Corrispondenza Socialista”  («settimanale d’informazione e di orientamento politico») – spedisce in Sardegna ben 400 copie del rapporto Krusciov al XX congresso del PCUS: un opuscolo recante note storiche ampiamente esplicative, destinato soprattutto al target comunista o ex comunista per motivarlo elettoralmente a favore del socialismo certamente democratico.

Nell’immediato post-elezioni, il 27 luglio precisamente, Bussalai partecipa, a Roma, a una riunione nazionale della sua frazione: una riunione preparatoria di un convegno da tenersi in autunno, press’a poco nel secondo anniversario della sollevazione ungherese. E lungo tutta l’estate egli si attiva per diffondere la notizia dell’iniziativa.

A Cagliari il gruppo ha intanto preso una modesta sede nella via Torino, punto di ritrovo di compagni che dibattono sugli sbocchi da dare al movimento: c’è chi punta ancora a non lasciare il PCI ed a continuare la battaglia all’interno di esso, contro il cosiddetto “centralismo democratico”, e chi invece, calibrando le poche forze, si orienta verso più decisi sbocchi in una composita, articolata area socialista.

Lo sforzo di questi ultimi va in direzione del proselitismo nella provincia, nei centri minerari. Né manca qualche contributo finanziario: 50.000 lire al mese possono bastare a fronteggiare le spese vive dell’apostolato.

Si avvicinano i tempi del convegno: si vorrebbe organizzare 70-80.000 ex comunisti (quadri intermedi, operai e contadini) in un «movimento di ispirazione socialista, nella più larga accezione del termine. Il movimento – scrive Averardi a Bussalai il 27 settembre (l’anno è sempre il 1958) – può diventare lo strumento per inserire, in modo organico, nella vita politica quei dissidenti che intendono riprendere la lotta politica».

Non si vuol accelerare la scelta finale fra PSDI e PSI: «Se il congresso, come Nenni ha promesso, farà piazza pulita dei “carristi” e dell’apparato filo-comunista tutta la sinistra socialista e democratica italiana si porrà in movimento per la ricerca di quell’unità politica che è il presupposto delle lotte future. In questo quadro noi avremmo un compito ben definito e preciso: agevolare la confluenza e l’unità di tutte le forze socialiste reinserendo gli ex nella politica attiva».

In caso di sconfitta degli “autonomisti”, invece, la Sinistra Comunista come soggetto autonomo rappresenterebbe «la forza catalizzatrice» non soltanto degli “ex”, ma «di tutti i socialisti non più disposti a lasciarsi gabbare dai comunisti camuffati e dai loro ingenui amici o avversari».

Bussalai spinge per un «nuovo movimento politico organizzativo». Dessanay per parte sua ribadisce la propria estraneità dal nuovo progetto movimentista: egli è già confluito, per scelta personale, nel PSI.

Ma intanto, anche nel campo degli “ex” i malumori non mancano, alimentati dall’incertezza sullo sbocco politico da centrare. La sfiducia interna monta, così sulle prospettive di presenza come sull’organizzazione. Il gruppo dei liguri e poi quell’altro dei romani, ciascuno con i propri argomenti, attaccano il Centro Nazionale (di Milano appunto) accusandolo di indifferenza rispetto all’esigenza prospettata dalla base. E nel dopo elezioni, in particolare nella capitale, si lavora per una conferenza degli “ex” che viene fissata inizialmente per il 15 ottobre a Genova.

«Bisogna prima – scrive Senise a Bussalai l’8 settembre – che noi di “Azione Comunista” disincagliamo il “movimento” dalle secche in cui l’hanno portato le asinerie di certi nostri compagni “dottori d’ideologia” per immunizzarci dalle troppe trappole che ci sono tese dagli scaltriti nemici». Il n. 37 di “Azione Comunista” pubblica un articolo in cui questo stato di confusione trova espressione plateale.

Il 20 ottobre è ancora Senise a scrivere a Bussalai in risposta ad una lettera inviatagli il 4 dello stesso mese: «… vediamo un po’ la vostra attività di isolani ribelli. Sono contento che la rispondenza per il vostro (il tuo) lavoro in preparazione del convegno degli ex ti dia soddisfazione e credo bene che non avrai difficoltà a portare a Roma quanti ex o ex ancora nel PCI che vorrai. Mi dispiace molto invece del doppio incidente Dessanay – quello di macchina e quello politico – ma vedrai che il tempo rimedierà a tutto…».

La grande assemblea delle decisioni, e forse della svolta, si tiene sabato 23 e domenica 24 novembre 1958, nel salone Brancaccio della capitale. E’ questo il primo vero convegno nazionale degli ex comunisti, dopo gli altri raduni riusciti a metà. Duecento i presenti in rappresentanza ideale del mezzo milione di ex militanti del PCI usciti dal partito dopo il rapporto Krusciov e i fatti d’Ungheria. Tutte le province italiane hanno voce. Fra i delegati stranieri è Auguste Lecoeur, già segretario del PCF.

Alleanza Socialista è il maggior frutto dell’assemblea che per due giorni si confronta in un appassionato dibattito, dove forse le emozioni sovrastano, in qualche momento, la lucidità del ragionamento politico, ma dove la riscoperta degli ideali, del fremito idealistico, di necessità attraversato e mitigato da una consapevolezza laica e problematica, ha per fortuna la meglio su preconfezionate definizioni dottrinarie. Alleanza Socialista è «per stimolare la formazione d’un partito unico dei lavoratori», strilla il periodico “Corrispondenza Socialista” nella sua prima uscita successiva allo svolgimento dell’affollato incontro.

Fra gli interventi che di più scuotono l’assemblea è quello del senatore Tomaso Smith, già ricordato direttore per un decennio del “Paese” e di “Paese sera”, che apre i lavori leggendo poi la relazione politica di Eugenio Reale, impedito da improvvisa malattia. Confessa Smith: «La crisi era in me già latente da tempo. Il colpo di grazia che fece cadere la benda che avevo sugli occhi fu prima il rapporto Krusciov e poi, definitivamente, la rivoluzione ungherese [...]. La rottura con i comunisti fu inevitabile».

Bussalai, primo dei 22 delegati isolani, interviene nel dibattito con un discorso molto seguito, che sfora la mezz’ora.

Ricostruendo gli eventi nella loro sequenza e nel loro nesso, naturalmente per dar conto poi dello specifico isolano, egli distingue le due grandi aree ideologiche in cui la dissidenza comunista s’era raccolta: quella revisionista e intellettuale, qualificata anche da passate esperienze di dirigenza nel PCI, e quella cosiddetta «settaria e massimalista» (secondo la definizione togliattiana), presente nel Partito Comunista fin dal 1955 e collegata al gruppo milanese editore di “Azione Comunista” (ex partigiani, dirigenti sindacali, militanti della prim’ora).

«Le due correnti dissidenti, pur partendo da diverse premesse, – afferma Bussalai – giunsero ben presto alle medesime conclusioni e cioè:

«a) il PCI non essendo né rivoluzionario né riformista, è diventato uno strumento della conservazione in Italia, immobilizzando ingenti forze e potentissime energie con la sua equivoca politica nullista e confusionaria; esso non solo è responsabile della sconfitta della classe operaia in Italia ma è soprattutto la più seria remora per qualsiasi ripresa dello stesso movimento operaio ed il principale ostacolo per il socialismo;

«b) impossibilità – in un partito controllato totalmente da un potente apparato privilegiato ed asservito alla direzione centrale [...] – di una ripresa della base volutamente tenuta nell’oscurantismo politico ed ideologico;

«c) necessità di rompere definitivamente con il PCI e di uscirne clamorosamente, denunciandone il tradimento degli ideali del socialismo e degli interessi nazionali della classe lavoratrice».

Le clamorose rivelazioni del XX congresso del PCUS e la sanguinosa repressione ungherese hanno fornito ampia copertura alle tesi della dissidenza.

Uscite entrambe dal partito, le due correnti, in modo autonomo, hanno cercato di realizzare il proprio progetto: quella di sinistra, attraverso piccoli gruppi sparsi un po’ ovunque, ha richiamato il PCI all’ortodossia leninista contro le incrostazioni staliniste e gli opportunismi togliattiani; un affollatissimo comizio pubblico a Cagliari, al termine di un convegno regionale, ha sancito la rottura definitiva e l’attacco frontale al partito d’origine. E alle regionali del 1957, svolgendo un’efficace campagna astensionista, ha contribuito al suo arretramento elettorale (meno 21.000 voti!).

I revisionisti, pur non organizzati se non attorno ad alcune personalità carismatiche, hanno guardato al PSI come polo di attrazione politica, capace di bilanciare, a sinistra, l’ancora eccessivo peso del PCI, anche attraverso la progressiva aggregazione di tutte le forze del socialismo democratico.

Certo il sogno dell’unità a sinistra, attorno a valori di democrazia e di libertà, all’interno però sempre di un progetto modernamente classista, ha affascinato tutti ed è parso comunque inevitabile che a dargli concretezza si giungesse dopo l’unificazione dei ranghi sparsi della dissidenza. Compito di questa – al di là della corrente d’appartenenza – era ed è diventata perciò, sostiene ancora Bussalai, testualmente, «quello di aiutare le forze autonome di questo partito a liberarsi degli ostacoli che ne condizionano lo sviluppo»: cioè l’area cosiddetta “carrista” e filo-PCI.

Avvicinandosi le elezioni politiche del 1958 si è proceduto così all’unificazione delle due correnti in un unico raggruppamento, il quale ha preso contatto con i gruppi dichiaratamente autonomisti del PSI e con il solo candidato della lista socialista pubblicamente impegnatosi in direzione antilussiana: Gonario Pinna.

Gli ex comunisti hanno lanciato un loro manifesto che la stampa e la radio hanno raccolto ampliandone l’eco, tanto che l’apparato comunista e socialista si è visto costretto ad orientare molte delle proprie bordate polemiche in direzione degli “ex” definiti, in tutti i comizi, «traditori» e «transfughi della classe operaia». E’ stato un successo enorme: Pinna ha superato di ben 700 voti il concorrente sponsorizzato dall’apparato socialista e dalla sotterranea intesa PCI-PSI. La dissidenza comunista è riuscita a sfondare nella politica regionale e, infine, anche nazionale.

Le esitazioni di vari esponenti dell’area autonomista del PSI unitamente alla sorda ostilità dei comunisti militanti hanno impedito peraltro al Partito Socialista quel “salto” che avrebbe potuto consentirgli, realisticamente, di essere spendibile in posizioni di preminenza nella vita politica italiana.

A questo punto, allargando il suo orizzonte, Bussalai attacca, persino con brutalità, tutti coloro che ritiene siano, nonostante le apparenze, fattori di conservazione: così la CGIL «grossa agenzia padronale», così la Lega Nazionale delle Cooperative «anonima speculatori», così quelle «fantomatiche associazioni di massa che sono notoriamente organizzazioni di comodo per mascherare le losche attività della “nuova classe” al servizio della politica estera russa, organizzazioni tutte ove la corrente unitaria socialista svolge la funzione di copertura, in cambio di un inacidito piatto di lenticchie»: leggi ANPI, UDI, ecc.

Accantonata dunque, pur a malincuore, l’ipotesi d’intesa col PSI, gli ex comunisti sardi si sono incontrati con i compagni di “Corrispondenza Socialista”. Ripresa l’attività di raccolta delle energie sparse, in vista di un convegno regionale capace di dar vita una vera e propria organizzazione autonoma, essi sono giunti ormai alla certezza di avere fra le mani «non tanto un movimento di comunisti dissidenti, ma l’ossatura e la base – con le sue ramificazioni nei sindacati e nelle cooperative – di un vero e proprio partito politico». Hanno raccolto ben 2.350 adesioni, fra cui quelle di 17 dirigenti ANPI, di tre dirigenti della Federcooperative, di sette dirigenti sindacali, di 47 comitati di sezione, di 60 “ex” già impegnati nelle istituzioni rappresentative e nei massimi organi del PCI.

Il movimento inoltre «controlla e dirige» le seguenti organizzazioni: l’ANPI provinciale di Cagliari e di Sassari (840 aderenti), il sindacato provinciale sanatoriale CGIL (113 iscritti), quello dei dipendenti autotrasportatori e spedizionieri UIL e quello dei dipendenti della Difesa-Marina-Finanza-Saline (rispettivamente 210 e 312 tesserati). Altre presenze si stanno precisando nei settori terra, miniere ed edilizia.

Sono già funzionanti due cooperative di lavoro, una a Carbonia (tra operai e tecnici ex Carbosarda) ed una a Sinnai (operai salinieri) aderenti all’AGCI, mentre stanno costituendosi società ortofrutticole, di pescatori e di artigiani.

Contatti sono stati presi con i gruppi radicali dell’Isola, con i quali si è data vita a un’associazione regionale «per la libertà della cultura». Parimenti con i sardisti, la socialdemocrazia e settori di malcontento socialista…

«Il nostro movimento annovera nelle sue file – ricorda ancora Busssalai – vecchi militanti, perseguitati dai tribunali speciali, che hanno trascorso nelle galere fasciste i migliori anni della loro vita, intellettuali di grande valore, molti dei quali hanno pagato il loro contributo di sacrificio alla causa dei lavoratori, campagne coraggiose che hanno affrontato persecuzioni e carcere nel corso delle lotte sociali».

Ma il fiore all’occhiello sono i partigiani: «Possiamo oggi pubblicamente affermare che su circa 2.000 reduci della lotta partigiana, una volta quasi tutti appartenenti al PCI, non uno solo, dico non uno solo, è rimasto nel PCI. Anche recentemente i Partigiani hanno pubblicamente manifestato la loro posizione politica, lanciando un manifesto…».

Anche questo passaggio sarà da tenere a mente, quando si vedrà che la sede del “gruppo di lavoro P”, o loggia coperta denominata P, a Cagliari sarà la stessa, gentilmente concessa, dell’Associazione partigiani.

Proposta conclusiva della delegazione sarda: sembra una urgenza la costituzione di «un movimento nazionale organizzato, d’ispirazione socialista, aperto non solo agli ex comunisti, ai dissidenti socialisti, ma a tutti coloro che intendono contribuire alla rinascita del socialismo in Italia, alla ripresa del movimento operaio, al di fuori di qualsiasi politica o interesse di potenza». Obiettivo della nuova organizzazione deve essere una realtà federativa «di tipo laburista», articolata territorialmente, connessa alla UIL e a quelle strutture parasindacali (ITAL) e cooperativistiche (AGCI).

A questo deve portare anche la memoria, che merita gli onori, di «coloro che sono caduti per la causa della Giustizia e della Libertà, dei martiri dell’idea, di quanti hanno lottato invano per una società senza classi – ove non vi siano più despoti e schiavi – ricchi e poveri – sfruttati e sfruttatori».

E le novità vengono. La rappresentanza isolana, che assume anch’essa in via formale il nome di Alleanza Socialista, dà vita al primo coordinamento regionale: affitta nuovi locali, al civico 4 di piazza Dettori, per il circolo cittadino e il comitato regionale, organizza una conferenza stampa per la presentazione ufficiale del movimento e un pubblico comizio di Tomaso Smith.

Il programma prevede l’apertura di circoli attivati da uno o più tutor locali anche a Carbonia, Sant’Antioco, Iglesias, Porto Torres, Sinnai, Cabras, Sassari. La segreteria del comitato regionale è costituita da Agus, Bussalai e Motzo. Si dà vita anche alle commissioni, fra quelle femminile e giovanile (Antonello Satta, un nome che tornerà nella P e poi nella Sigismondo Arquer, come peraltro, e sia pure in diverso contesto, quello già citato di Motzo).

Nel cartoncino informativo della propria costituzione come autonoma formazione, Alleanza Socialista sarda avverte di avere come prospettiva «la unificazione di tutte le forze che si richiamano al socialismo» insieme con l’emancipazione «alla vita democratica e alla libertà (di) quanti ancora militano, in buona fede, nel PCI, rendendosi inconsciamente strumenti dell’imperialismo sovietico». E intanto si cerca l’inserimento nella Camera sindacale UIL e nel patronato ITAL.

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Bussalai 4. Da sinistra verso la socialdemocrazia. «A dodici anni dalla liberazione del territorio nazionale dalla tirannia fascista le speranze della classe operaia, dei ceti medi e contadini, degli intellettuali sono andate deluse e la democrazia italiana presenta lacune e insufficienze tali da metterne in pericolo l’esistenza.

«La involuzione reazionaria dello stato, il prepotere dei ceti conservatori, l’affermazione dei monopoli come prevalente forza dirigente dello stato e dell’economia, non sono stati contrastati dai partiti di sinistra nonostante la coraggiosa resistenza della classe operaia, dei ceti medi e contadini, degli intellettuali.

«Gravi responsabilità pesano, a questo proposito, sul gruppo dirigente del PCI che ha immobilizzato la classe operaia in una politica che, se giovava agli interessi dello Stato sovietico, era però in contrasto con gli interessi della causa socialista nel nostro Paese…».

Smarcandosi dalle strettoie dottrinarie dell’operaismo, peraltro non compiutamente rimosse, gli ex comunisti guardano più alla società, alle dinamiche sociali, ai nuovi soggetti attivi nell’economia reale e nella vita morale del paese, che non alla politica dei partiti, e di quei partiti che di più sembrano irreggimentati entro schemi fissi e dogmatici.

Perciò il convegno al Brancaccio sposa l’idea di «un’Alleanza Socialista articolata su circoli socialisti autonomi, che fonderà il proprio programma sui seguenti tre punti:

«1) ripudio della concezione dello stato guida e del partito guida ed elaborazione di soluzioni socialiste per i problemi della società italiana;

«2) riaffermazione del socialismo e della libertà come termini inseparabili; e validità della democrazia come fine, come metodo e come costume;

«3) impegno a contribuire alla realizzazione dell’unità socialista in un grande partito ispirato agli ideali di socialismo e di democrazia, nonché dell’unità sindacale nelle forme organizzative che i lavoratori riterranno più opportune».

Aperta a singoli ed a gruppi, Alleanza Socialista non tace sull’ipotesi di una presenza alle gare elettorali: l’opzione è, ma solo per le amministrative, per proprie liste o per blocchi con altre formazioni «socialiste e democratiche». Non vuole fare concorrenza al PSI, ancora travagliato dalle lotte intestine fra autonomisti e carristi lussiani (saranno nel 1963 i fondatori del PSIUP), prefigura per sé un ruolo come di ponte fra un socialismo autonomista e una socialdemocrazia agganciata però a una più marcata consapevolezza dei bisogni materiali del proletariato. (E infatti, come rileva ad esempio “L’Ordine Nuovo”, «tribuna della base comunista», nel suo numero del 20 dicembre 1958, «la grande maggioranza di coloro che hanno preso la parola al Convegno, pur non nascondendo le proprie simpatie per il PSI, si è pronunciata per l’adesione alla sinistra socialdemocratica allo scopo di portare tutto il PSDI nel PSI o in un nuovo grande partito socialista». Da osservare il riconoscimento che il giornale – complessivamente perplesso sulla concretezza e fattibilità del progetto – dà «all’unico gruppo veramente ben organizzato» – quello sardo cioè, «capeggiato da Francesco Bussalay» –, «gruppo sorto prima di quello di Reale ed organizzato su un piano autonomo»).

E’ di quasi un anno dopo la conferenza nazionale di Alleanza Socialista convocata a Roma, nella sala YMCA. Il 17 ottobre 1959, sono 111 i delegati dei vari gruppi e circoli presenti nelle varie regioni si ritrovano per ascoltare e discutere la relazione di Eugenio Reale ed approvare l’esito delle trattative svolte col PSDI per l’eventuale confluenza nel partito. Ciò che avverrà formalmente al congresso socialdemocratico di novembre.

Bussalai interviene come portavoce di 12 circoli e 20 circoli isolani. Definisce la prossima confluenza una «favorevole occasione» (e anche «l’unica scelta possibile») per l’intero movimento socialista», rilevando che, pur forse fra molti limiti, il PSDI saragattiano ha un indubbio merito: «quello di aver saputo veder chiaro nel 1947, al momento della scissione di Palazzo Barberini, e avere evitato così all’Italia il regime sovietico». Nel filone gradualista del socialismo italiano, è sempre stata prioritaria l’opzione morale per la libertà…

Merita peraltro aggiungere qualche altro passaggio.

Da metà agosto dello stesso 1959 su “Corrispondenza Socialista” è apparsa una “tribuna libera” sulla discussa confluenza nella socialdemocrazia (argomento dibattuto dal Comitato Nazionale di Alleanza Socialista nella sua riunione del 9 e 10 maggio). Un manifesto a forti colori rosso e nero è stato diffuso da Alleanza Socialista con un appello ai lavoratori «traditi dal Partito Comunista», perché si unissero al movimento.

Durante l’intera estate, una commissione nominata dal Comitato Nazionale ha trattato con la dirigenza del PSDI le modalità della confluenza. Fino a quella nuova assemblea del 18 e 19 ottobre, presso l’albergo YMCA di Roma, con la partecipazione di tutti i segretari dei circoli di Alleanza Socialista chiamati a dar forma definitiva all’operazione politica.

Il XII congresso nazionale socialdemocratico si svolge a Roma a cavallo fra novembre e dicembre dello stesso 1959. La confluenza prende forma ufficiale con l’entrata di alcuni esponenti di Alleanza Socialista nel Comitato Centrale del partito. Bussalai raccoglie 68 preferenze – sesto della lista, dopo Reale, Tomaso Smith, Michele Pellicani, Giuseppe Averardi, Sante Semeraro . Entra a far parte pure delle Commissioni sindacale ed elettorale. Così in sede locale.

Fra dicembre 1958 e gennaio 1959 la situazione politica nazionale si ingarbuglia, provocando disorientamento: cade il governo, si spacca il PSDI, la UIL si dissocia da Saragat. Vigorelli, ex ministro socialdemocratico, avverte del suo rientro nel partito d’origine, il PSI cioè. Da parte della sinistra socialista di Vecchietti cresce la diffidenza verso eventuali confluenze moderate e riformiste (fossero pure di derivazione… marxista-leninista!). Da Roma, ad aprile, Averardi (di padre sardo, con altre parentele isolane) suggerisce ai compagni di Alleanza Socialista di prendere contatti con la sinistra del PSI regionale. Poi osserva: «Il PSI si è impantanato, completamente e definitivamente; l’unificazione è ormai caduta; il MUIS è in un ridicolo trabocchetto: accetteranno tutto, anche di abbandonare i compagni della UIL già usciti dal PSI, sono scoraggiati…».

Ma anche per il Partito Comunista Italiano il periodo è di indubbia difficoltà, in Sardegna non meno che altrove. E’ in crisi il tesseramento: in provincia di Cagliari gli iscritti nel 1959 sono 6.000 contro i 9.800 dell’anno precedente, nella FGCI 1.680 contro 2.600.

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Bussalai 5. La musica, il teatro, finalmente la loggia. Tutto questo protagonismo si staglia in una fase di vita che, per Francesco Bussalai, non è avara di soddisfazioni. Campa di musica, il suo amore di sempre. Insegna, infatti, arte musicale alle scuole medie, a Maracalagonis, a Burcei, a Settimo San Pietro. Purtroppo è però costretto a rinunciare a suonare, e ad esibirsi in pubblico, perché non ha più tempo per esercitarsi, per far prove.

Il mondo culturale ed artistico rimane comunque sempre, insieme con la politica, al centro dei suoi interessi extrafamiliari. Dopo la pensione, nei primi anni ’60, dà vita a un comitato di promozione teatrale con personalità importanti della vita cagliaritana come Dario Ferrari – direttore del liceo musicale – e il direttore de “L’Unione Sarda” Fabio Maria Crivelli (e diversi altri che troverà o accoglierà poi in loggia: da Botticini a Rodriguez, a Tocco…). Entra anche nel  Consiglio d’amministrazione dell’Istituzione dei concerti e teatro lirico Pierluigi da Palestrina e nel Collegio sindacale dell’ESIT.

Le prime tessere del GOI intestate a Francesco Bussalai sono, ho ricordato, della P2 romana. Nella mente del Gran Maestro Gamberini, nella seconda metà degli anni ’60, e del suo successore Lino Salvini, nel decennio successivo, si afferma il proposito di espandere regionalmente la loggia coperta, proprio spalmandola sul territorio nazionale. Insomma, non più raccogliere in un unico piedilista un tot Fratelli da proteggere rispetto ad ogni indiscrezione o invadenza, ma impiantare in ogni circoscrizione regionale un gruppo di lavoro, o di discussione, affidato alle cure di un delegato del Gran Maestro stesso. Tutti all’insegna della fantomatica, famosa, famigerata, ecc. loggia P romana.

Così nasce, affidato al Fr. Bussalai (e ad altri per estensione), il gruppo P cagliaritano. Con un imprinting: il senso civile dell’arte muratoria, lo sguardo politico come sviluppo applicativo del rituale appreso nel momento della iniziazione. Ed è questo, appunto questo, che segnerà la visuale massonica, anche dopo la regolarizzazione della P in loggia ordinaria (la già richiamata Sigismondo Arquer in replay fine Novecento col numero d’ordine 709), di Francesco Bussalai. La prossimità alle elaborazioni o ai deliberati politici per la personale esperienza maturata negli anni e poi il battesimo ricevuto nell’Ordine massonico forniscono gli elementi per una possibile pratica lobbistica. E si dirà poi: di un lobbismo virtuoso, civile, che ha come sponda, o come interlocutore, il sistema dei partiti di democrazia laica, riformatrice e socialista, quelli di nobile derivazione risorgimentale.

Nel DNA della cagliaritana Sigismondo Arquer n. 709, quale si è presentata al noto convegno del settembre 2009 per celebrare il suo quarantennale, è integralmente rifluita l’esperienza umana e magistrale di Francesco Bussalai.

Il suo carattere costitutivo di loggia civile deriva direttamente dalla pratica dialogica e di analisi propria del gruppo P degli anni 1966-69, che guarda ed affronta tutto senza negarsi nulla… E quanto c’è di Sardegna materiale, di Sardegna sociale ed etnica, economica e istituzionale o politica nelle discussioni fra Bussalai e gli altri trenta, personalità le più varie che si incontrano periodicamente nella sede dei partigiani bianchi (o dell’Unione autonoma dei partigiani sardi) del corso Vittorio Emanuele!

Ribolle la Sardegna, e quanto ribolle ha una eco nella sala non rituale della P cagliaritana. Si pensi alle questioni allora all’ordine del giorno: dal banditismo di speciale matrice barbaricina, con la spettacolarizzazione delle imprese di Mesina, ai cruenti conflitti in cui spesso i caduti sono gli uomini dell’Arma e della Pubblica sicurezza (al tempo ancora corpo militare), dai primi tentativi di compensazione di una crisi che non s’arresta, nonostante le ristrutturazioni, nelle miniere, con la industrializzazione per poli di sviluppo attraverso lavorazioni sporche che rischiano di ferire il territorio e, ad essi speculari, i primi ma già rilevantissimi investimenti nel comparto turistico per la valorizzazione delle coste, tanto più nel nord isolano. Il ’68 ha regalato la memoria delle grandi manifestazioni di contestazione globale e pacifista.

Nella scheda che segue ho tentato, con qualche obbligato azzardo di sintesi, di riepilogare quanto emerge, nella società e nella economia, nell’ordine pubblico e nella politica della Sardegna nel lustro che precede il radicamento della loggia, ed accoglie interamente l’esperienza della P che proprio a quell’attualità della questione sarda, ai suoi antefatti, ai suoi sviluppi ed alle sue proiezioni, porta la sua attenzione e qualche sforzo di analisi.

La Sardegna agricolo-pastorale, la Sardegna dei salassi migratori di sempre, con il Piano di Rinascita divenuto legge nel 1962 e con le formule politiche vocazionalmente riformatrici che allora esordiscono, sembra poter e saper scegliere nuove strade per il suo futuro. Le nuove direttrici del suo sviluppo sono nel segno del turismo costiero e dell’industrializzazione che da una parte rilanci le miniere e dall’altra vada con alte tecnologie e per livelli di lavorazione in circuiti integrati fra stabilimenti distribuiti sul territorio, anche in chiave di arresto dello spopolamento delle zone interne. Le contraddizioni saranno infinite, anche per la inadeguatezza della classe dirigente politica ed amministrativa che tale processo dovrebbe guidare.

Agosto 1964, gennaio ’65: inaugurazione del porto turistico di Porto Cervo; inizio delle produzioni della Saras di Sarroch (gli impianti saranno poi benedetti nel giugno 1966 dal ministro Andreotti).

Aprile 1965: avvio della produzione SIR a Porto Torres e assorbimento totale da parte dell’Enel, titolare delle concessioni, delle miniere dell’intero bacino del Sulcis-Iglesiente; ma anche lunga marcia da Ollolai a Cagliari di Michele Columbu, sindaco barbaricino del PSd’A, per denunciare alla politica regionale la sofferenza delle zone interne.

Maggio 1965: avvio della costruzione a Villacidro dello stabilimento delle Tessili Sarde Associate; verrà presto anche  la SNIA, e il suo stabilimento sarà benedetto pure esso dal ministro Andreotti nell’ottobre 1968.

Stagioni anche di grandi processi – in Corte d’Assise, nel 1965, va il dibattimento per il giallo di Borore – e di azioni banditesche (evasione da San Sebastiano di Mesina e Miguel Atienza nel settembre 1966).

Supportata anche da letture sociologiche che derivano il disagio di ampie aree di popolazione dalla debolezza della struttura economico-produttiva isolana, la politica regionale esita, per alcuni anni, tutta una serie di amministrazioni rivendicative verso il governo nazionale (presidenze Dettori e Del Rio); nel maggio 1966 il Consiglio approva il piano quinquennale esecutivo a valere sul Piano di Rinascita, nel novembre un’assemblea di sindaci dà corpo alla politica contestativa, cui lo Stato non sa rispondere che con forme repressive del disordine sociale che monta: nel gennaio 1967 sbarcano in Sardegna 600 celerini e 300 carabinieri.

Nello stesso gennaio 1967 viene occupata la facoltà di Chimica a Cagliari, seguono le altre; idem a Sassari, a partire da maggio, capofila Farmacia; il corpo docente si divide, fra la paura del nuovo che rimane indefinito, ed il pieno coinvolgimento anche ideologico con i protestatari.

Il 1967 è anno di speciale sofferenza economica: le gelate dell’inverno uccidono 8mila pecore e 500 capi vaccini soltanto nel Goceano; d’estate le devastazioni del territorio boschivo e a pascolo vengono dagli incendi; i minatori inscenano una protesta dopo l’altra; di speciale sofferenza civile c’è che ad aprile la SIR compra il pacchetto di maggioranza, poi la totalità del capitale de “La Nuova Sardegna” (e lo stesso Rovelli comprerà, con altri e attraverso una finanziaria svizzera, “L’Unione Sarda”, monopolizzando l’informazione quotidiana).

Ancora 1967: inquieta sempre più il numero dei sequestri di persona, e quello degli scontri a fuoco con le forze dell’ordine: a maggio il presidente della Repubblica Saragat presenzia a Nuoro al funerale di un agente di PS, uno dei sei i caduti nella lotta ai fuorilegge e latitanti (con essi cadrà anche Atienza sodale di Mesina); Orgosolo ed Orune sono circondate da polizia e carabinieri.

La RAI, nella stessa estate 1967, impedisce alla sua sede di Cagliari di accogliere un intervento del presidente Del Rio, e intanto una giornata di protesta contro i ritardi governativi a pro della Sardegna è proclamata dal Consiglio regionale: scioperi e manifestazioni attraversano l’intera Isola. Il Parlamento nazionale approva il Piano quinquennale di Rinascita in un testo che Consiglio regionale e Giunta hanno definito ampiamente inadeguato.

Nuovo conflitto a fuoco, con morto, in Barbagia, a capodanno 1968. Viene il ministro dell’interno Taviani, ma dalla Regione si denuncia ancora l’arretramento complessivo della economia locale – miniere, agricoltura, pesca (è sospeso l’esproprio delle peschiere di Cabras), industria sporca a sovvenzione pubblica e ad altissimo rapporto capitale/addetti –, alla base di tutto o quasi tutto il malessere sociale.

Nelle città, a Cagliari soprattutto, la contestazione anticipata nel gennaio 1967 esplode ora alimentata da circoli ideologizzati extraparlamentari e spesso terzomondisti e da gruppi cd anticolonialisti a rimando latosardista. Occupazione di aule universitarie e scuole superiori. A Lettere scoppia una bomba. In autunno nuove manifestazioni popolari esplodono in Goceano e Barbagia con occupazione dei municipi. Nasce il fenomeno dei murales politici, sospesi fra ideologia identitaria e minaccia. S’affacciano pulsioni etnocentriste, rivendicazioni delle “lingue tagliate”, ecc.

Proseguono i sequestri di persona: tocca a Cagliari a Moralis, ad Ozieri a Campus e Petretto padre e figlio; viene catturato Mesina che dal suo nascondiglio ha mesi prima rilasciato lunga intervista a puntate a “L’Unione Sarda” e alla stampa nazionale. Alla Camera viene depositata una proposta di legge per una commissione di inchiesta sul banditismo.

Nella stessa settimana delle elezioni regionali (quelle che segneranno la prima importante affermazione del prossimo Fr. Armando Corona, il quale sarà iniziato a Carbonia quattro mesi dopo), ben 7.000 militari della Brigata Trieste sono trasferiti per esercitazioni nel salto di Orgosolo. Il territorio si ribella, la protesta dei pastori coinvolge famiglie intere, centinaia di donne – madri moglie e figlie – partecipano al fronte che vuol rompere l’accerchiamento: è la  rivolta di Pratobello. Allontanati verso i confini di Fonni, i militari s’addestrano in una specie di guerra simulata con bombe e tiro di proiettili.

Nel 1969 il malessere è quello stesso del biennio precedente e la instabilità politica, con i cambi frequenti di giunta, ne è insieme concausa e conseguenza. Viene comunque approvata una legge importante: il piano della pastorizia. Pur ormai industrializzata (ma ancora non c’è Ottana e quel che significa, nel bene e nel male, l’industria nella media valle del Tirso), pur ormai lanciata nello sviluppo costiero a nord e a sud (dalla Costa Smeralda ad Alghero, a Santa Margherita e a Villasimius), la Sardegna tiene il comparto agricolo-pastorale come un asset rilevantissimo del suo PIL: verrà presto, esito di intese assembleari fra maggioranza e minoranza, la legge nazionale sui fitti agrari, che tante tensioni determinerà nelle campagne e nella politica protettiva se non del latifondo certo della proprietà sterile.

Quei Fratelli che nella P sarda e cagliaritana hanno forse fornito un contributo maggiore in termini di lettura dei fenomeni sociali isolani qualche attenzione continueranno a porla anche nel nuovo contesto di loggia – perché intanto il gruppo P s’è trasformato in loggia –, ma certo con minor libertà espressiva che nelle tornate bianche precedenti. La fatica degli ultimi anni ’60 non può infatti scomparire per magia nei primi anni del decennio successivo, che sono quelli di esordio della Sigismondo Arquer che pur ama la discussione e il fronte civile.

Vittima d’un sequestro è la cognata del Fr. Gardu, nel settembre 1970 – una Calamida, figlia del medico più santo che Nuoro abbia mai avuto dai tempi del Fr. Giuseppe Cottone, protagonista della Massoneria barbaricina e sorese di cento anni addietro! – e con lei sono altri quattro i sequestrati dell’anno.

Eventi come la visita di papa Paolo VI e lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva con le coeve imprese anche del basket Brill confortano tante pene e aiutano senz’altro a porre l’Isola e il suo capoluogo all’attenzione della opinione e della politica nazionale più che prima. Non verranno miracoli, perché tutto va conquistato, ma qualche più concreta speranza sembra giungere dal lavoro compiuto dalla Commissione Medici con impegno rigoroso e interessato di parlamentari d’ogni schieramento.

Al malessere sociale si capisce che deve rispondersi con iniziative di sviluppo economico e sostegno alle istituzioni scolastiche in generale. Nel 1971, fra le proteste di massa, chiudono però le miniere, e massive operazioni di polizia (200 militari perquisiscono interi paesi ogliastrini) continuano a riempire le pagine dei giornali.

Proseguono i sequestri di persona, i tentativi talvolta finiscono nel sangue (come a Villa d’Orri). Al disagio giovanile che s’esprime anche con l’occupazione delle aule universitarie, la Regione risponderà con una legge (dai tratti forse anche demagogici) di elargizioni nel nome del “diritto allo studio”. Non cessa la sofferenza delle zone interne che certificano il sostanziale fallimento – al meglio l’insufficiente riuscita – del Piano di Rinascita e l’inutilità di quel pletorico assetto che esso s’era dato per governare il territorio (i comitati delle zone omogenee).

Ma qualche fattore di dinamismo si vede: SIR e Rumianca, che pur hanno inquinato e consentito o imposto cattivo giornalismo, e distratto i malinconici finanziando i successi nazionali del Brill Cagliari, sono state fra le prime industrie in Italia ad abolire le gabbie salariali, e comunque hanno favorito una emancipazione di cultura, nel segno del modernismo, di giovani e meno giovani altrimenti senza futuro e indirizzati ad una emigrazione dequalificata.

Si sa, ogni fenomeno sociale può avere chiavi di lettura diverse e si presta al chiaroscuro: come nel 1972 sarà per l’insediamento a Santo Stefano della base militare per sommergibili americana. Certo è, però, che pur con le sue neppure leggere contraddizioni, l’Isola ha intrapreso, con evidenti accelerazioni nel passaggio fra anni ’60 e anni ’70, una corsa verso la modernità, di cui magari sono stati segnali la prima donna diventata pretore, il lancio di una compagnia aerea regionale, il primo congresso degli emigrati sardi, una progressiva coscientizzazione della identità di popolo degli isolani.

Così scorre la storia della Sardegna, così essa è registrata ed interpretata da uomini che sentono l’obbligo morale del servizio alla loro terra. A tanto si sentono impegnati dal giuramento di fedeltà ad una Istituzione che rimanda, con vincolo ideale assoluto, alla democrazia e agli ordinamenti dello Stato, alla sua costituzione repubblicana in cui si ricapitola la storia migliore della comunità nazionale passata per il primo e per il secondo risorgimento, per l’opposizione – nelle sue avanguardie più illuminate e coraggiose – al fascismo e per le fatiche della ricostruzione.

E’ dunque da tutto questo che deriva il documento dell’8 febbraio 1970 presentato all’interloggia giustinianea della Sardegna dal Fr. Bussalai. Questo l’intento. Discutibile, certamente, la modalità suggerita per il raggiungimento del fine del rinforzo democratico in una fase storica assai critica: discutibile dal punto di vista politico, per il timore di una indebita invasione di campo, discutibile dal punto di vista massonico, per lo speculare timore di una profanizzazione eccessiva del portato etico-morale proprio della Istituzione liberomuratoria. Ma questo è.

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Sono dunque stati resi noti i risultati dello scrutinio dei voti per l’elezione del Gran Maestro giustinianeo: a fronte dei 16.059 aventi diritto, si sono presentati alle urne, nei seggi allestiti Oriente per Oriente – città per città – in 11.490, pari al 71,55 per cento. La lista uscita vincitrice “Presenza, laicità, tradizione” guidata da Stefano BIsi ha ottenuto 5.315 voti, pari al 46,26 per cento (in Sardegna, dai 669 votanti a fronte dei 937 aventi diritto, 249 suffragi, pari al 37,22 per cento ). Seconda classificata la lista “Il futuro nella tradizione” guidata dal siciliano Silverio Magno, con 3.468 voti, pari al 30,18 per cento delle preferenze (in Sardegna invece 272, pari al 40,66 per cento). Ultima la lista “La Massoneria semina l’umanità raccoglie” guidata dal toscano Massimo Bianchi, con 2.716 voti, pari al 23,64 per cento (in Sardegna 137, pari al 20,48 per cento).

Non conosco di persona il nuovo Gran Maestro. L’ho incrociato soltanto imitandolo nella predisposizione di una guida massonica cittadina – egli ha esitato quella di Siena, io sto lavorando a una guida cagliaritana – ma spero sia all’altezza dei migliori. Saranno i tempi a dirlo. Siena è città di grande storia (e un capolavoro d’arte nel suo insieme) ma pure di problematico presente.

 

 

 

 

 

 

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