Antonio Romagnino, un repubblicano nella liberaldemocrazia. Storia di un’amicizia oltre le generazioni, fra «aerei ponti», a Cagliari, di Gianfranco Murtas

Si conclude con questa lunga testimonianza, l’omaggio di Gianfranco Murtas alla memoria del professor Antonio Romagnino, a due anni dalla scomparsa.

Essa segue la rassegna commentata dei numerosi titoli pubblicati dal Defensor Karalis – questo il premio conferitogli nel 2006 dall’associazione Italia Nostra – nel corso di un quarto di secolo, fra 1981 e 2007. I due articoli in cui si è scandita quella ricca evocazione delle oltre cinquemila pagine del professore sono apparsi nel sito di Fondazione Sardinia rispettivamente il 18 ed il 26 novembre. Lo scorso anno, nel sito Edere Repubblicane, uscirono altri contributi, dello stesso Murtas, volti anch’essi a celebrare il grande intellettuale cagliaritano, tanto più negli anni della sua formazione. In particolare si richiamano quelli del 14 settembre, 5 ottobre, 5 novembre 2012 e 15 gennaio 2013.


 

«E’stupefacente che un giornale di così piccolo formato possa contenere tanti stimoli di vita intellettuale e morale, possa ogni volta impegnare una non fuggevole attenzione. Ora il suo arrivo, quasi puntuale, è un appuntamento quotidiano ricreatore in tanta ferocia dei tempi. Credo che meglio non avresti potuto rinnovarmi l’amicizia che ci unisce. Anche per questo credo che abbia buon esito la proposta che verrò a farti nel prossimo gennaio. Non te la preannuncio e spero solo che venga accolta…».

Nei giorni a ridosso del Natale 1984 e capodanno 1985 Antonio Romagnino mi inviò una  lettera per compensarmi, dopo che a voce, anche per iscritto – come se la cosa meritasse la conferma del documento – per l’abbonamento che gli regalai a La Voce Repubblicana, allora a direzione di Stefano Folli. (Analogo abbonamento sottoscrissi allora anche a favore di un altro amico indimenticato, Fernando Pilia: godevo che non-repubblicani, nel senso della militanza, condividessero attraverso la diretta conoscenza quanto di qualificato veniva ancora in quegli anni dal Partito Repubblicano Italiano sostenuto dall’autorevole leadership, in certa continuità con quella di Ugo La Malfa, deceduto nel 1979, di Giovanni Spadolini… il “segretario fiorentino”, come lo chiamò Montanelli).

Ho ritrovato queste righe fra le altre che raccontano, sia pure per rapidi accenni, la mia quarantennale amicizia con il professore – sì, iniziata proprio nel 1971, con il tema scolastico sull’Europa e poi con una tavola rotonda, anch’essa interscolastica, di studenti nell’aula magna del Dettori in vista di volarcene a Strasburgo. E mi è venuto spontaneo ritessere la trama della memoria di questa relazione valorizzandone quegli aspetti che riportano Romagnino, certo non come militante ma negli anni ’70 ed ’80 come frequente elettore, all’area politica della democrazia repubblicana. Gli episodi – rilevanti o no – sono numerosi e ripassarli, pur in velocità, è operazione insieme di racconto personale, autobiografico, e di racconto pubblico, per lo scenario che sempre o quasi ha coinvolto tanti altri.

E’ un ripasso, questo, che ha il valore di una testimonianza resa alla memoria dell’amico – dell’amico ma sempre Maestro, scomparso ora sono già due anni, alla bella età di 94 anni, dopo aver molto, molto lavorato per migliorare il mondo, e nel mondo la sua città, crescendo intere generazioni di studenti, offrendosi poi a tutti quei nessi fra politica e impegno civile che l’attualità e le occasioni gli offrivano: dall’europeismo militante (nell’AEDE, Association Européenne des Enseignants) all’ambientalismo di Italia Nostra ed a quello libero di scrittore e conferenziere, di opinion leader, di difensore sempre dell’interesse generale della comunità nelle diatribe per i trattamenti riservati ora all’anfiteatro romano ora alla necropoli punica di Tuvixeddu, o all’altare barocco del duomo… E come presidente, per tanti anni, dell’associazione Amici del libro – autentico promotore di cultura impegnato a fasciare nello stesso trasporto ideale e gusto allo studio, alla formazione permanente, generazioni diverse di soci –, e recensore di libri e commentatore dei fatti della contemporaneità, vista sempre nel largo spettro, sulle colonne de L’Unione Sarda già dal 1968.

Nei primi anni ’70, fra Europa e Italia Nostra

Scrivo queste prime note senza una scaletta, sfidando la memoria, e ripromettendomi poi di cercare le carte a sostegno del racconto, se e per quanto mi riuscirà, recuperando volta a volta i documenti. Qualcosa mancherà: soprattutto i testi di alcuni suoi interventi da me, o da mie iniziative, propiziati. Posseggo le registrazioni, talvolta anche video, ma non ho avuto la possibilità, in questo periodo, di applicarmi alla sbobinatura. Spero di riuscirci, un giorno, magari con l’aiuto di qualche generoso; così pure mancherà il censimento di numerose sue “uscite” – chiamale analisi o riflessioni, chiamali commenti o giudizi – che su svariate materie d’interesse locale o generale a lui richiesi nelle mie lontane stagioni di fatica televisiva. E certamente ve ne sono di assolutamente pregevoli. Nel novero, da rintracciare fisicamente ma certo nella disponibilità dei miei archivi, un meraviglioso faccia a faccia con Francesco Masala circa la querelle del bilinguismo, registrato nel 1991 per il mio programma “Zibaldone” in trasmissione sulle onde di Sardegna Uno. Anzi, se riuscirò a completare il pilotino d’un reading che vorrei portare quanto prima (magari nell’aula magna del Dettori, o nel teatro sempre ospitale di Sant’Eulalia) all’ascolto meditativo della città, proprio questo documento mi piacerebbe presentare come esemplarmente indicativo dei valori forti della cultura civile del professore: in particolare la italianità nella sua dimensione e proiezione universale e, riguardo alla Sardegna, la originalità e dignità delle produzioni anche letterarie urbane, di fianco e non in subordine a quelle dei più celebrati contesti agro-pastorali. Amandoli sì, Sebastiano Satta e la Deledda, i poeti barbaricini e i galluresi e gli altri magari del medio Campidano o del Marghine o del Logudoro, ma portando a giusti e non minori riconoscimenti i nostri autori di città – con Dessì cagliaritano-villacidrese sullo sfondo – come Alziator o Marcello Serra o Cino Zedda.

Vediamo: 1971, come presidente della commissione di professori europeisti mi seleziona per un tema in cui – posso comprendere, con qualche singolarità rispetto ad altri – ho riferito della conversazione avuta il giorno prima, a Cagliari, con Ugo La Malfa. Debbo raccontare. Era venuto, La Malfa, a Cagliari nel marzo (domenica 21, beneaugurante apertura della primavera) per suggellare con la sua presenza una operazione politica di  rilievo: la formale confluenza del Movimento Sardista Autonomista di Armando Corona e Salvatore Ghirra, di Nino Ruiu e Peppino Puligheddu, di Nino Mele e Bustiano Maccioni, di Giannetto Massaiu e Annico Pau, di Ettore Marletta e Vito Tola, di Tonino Uras e dei cagliaritani – quale che fosse la loro città di nascita –, dei Tuveri e Racugno cioè, dei Frongia e Pinna, dei Casu e Casula e Delogu… la mente galoppa a ripensarli, nomi e volti e voci di una stagione anche per me importante. La Malfa aveva tenuto, quella domenica mattina, il suo ardente comizio politico, tutto sul filo di un meridionalismo produttivo e non assistito, al cinema Ariston di via Grazia Deledda; poi era risalito, verso mezzogiorno, alla sede di via Sonnino 128. Quella sede che frequentavo da neppure tre mesi, e che Bruno Josto Anedda – già segretario regionale, in alternanza con Lello Puddu generoso dirigente fin… da ragazzo – aveva disseminato, stanza dopo stanza, dei ritratti fotografici… grigio Ottocento, stampati su tavolette, dei grandi della democrazia repubblicana, fra risorgimento e postrisorgimento. Tavolette di piccolo formato, poco più d’una mano; grande il ritratto di Giorgio Asproni, sardo, bittese, tutto nostro. Da qualche altra parte Giovanni Battista Tuveri. In un bugigattolo, che era pertinenza della stanza occupata dalla FGR – i giovani del partito, ma autonomi, autonomissimi –, era rinchiuso il busto in gesso pesante e di dimensioni una volta e mezzo il naturale, di Giovanni Bovio, la cui storia allora non conoscevo e che nessuno mi aveva spiegato, e soltanto molti anni dopo avrei scoperto in tutto il suo fascino…, obbligandomi poi a scriverne perfino in un libro monografico e a battermi per il recupero proprio di quel manufatto d’arte, passato per infinite peripezie ed incredibilmente imprigionato in un magazzino… di Forza Italia! (Attualmente si trova nella sede massonica di palazzo Sanjust, dove ottenni di riportarlo, poiché in antico esso era appartenuto alla loggia Sigismondo Arquer, ed era finito male a causa del saccheggio che i questurini fascisti operarono nel 1925 nella casa di via Barcellona).

Noi ragazzi – 17-18enni – ci facemmo attorno al leader che ammiravamo, io forse osai di più e gli chiesi se potevo/potevamo porgergli qualche domanda. Ci sedemmo quasi in circolo attorno a lui nel grande salone derivato dalla unificazione di due stanze con le finestre proprio verso il monumentale edificio della storica legione sarda dei carabinieri. Sapevamo chi fosse Ugo La Malfa: un padre della patria, un resistente dell’antifascismo, uno che a venticinque anni era finito a San Vittore per alcuni mesi, accusato di un attentato al re. Sapevamo quanto avesse contribuito, con gli azionisti e poi i repubblicani, al rafforzamento delle istituzioni democratiche, prima durante e dopo la Costituente, fino alla stagione del centro-sinistra, negli anni ’60. Restammo a parlare quasi un’ora. Delle molte domande e delle altrettante risposte ne ricordo nettamente soltanto una, riguardante la politica estera e il peso degli armamenti in quel contesto di guerra fredda. In me, adolescente occidentalista e sostenitore delle ragioni di Israele nonché (debbo confessarlo con spirito autocritico) delle ragioni americane in Vietnam, residuava una vena pacifista che, applicata alle cose italiane, La Malfa contestò con rispettosa bonomia: «Eh figliolo caro! Tito teme l’invasione della Jugoslavia, potremmo avere i russi a Trieste!…». Per dire dell’importanza dell’ombrello NATO, ricordando che da due anni e poco più i carri armati di Mosca avevano raggiunto e raggelato Praga.

Pausa. Ricerco gli appunti scritti, la brutta di quell’elaborato scolastico adolescenziale e fortunosamente lo ritrovo, datato 22 marzo. Eccone l’estratto : «Mi soffermo sulla NATO: ieri 21 marzo è stata una giornata molto importante per me: ho discusso con Ugo La Malfa che si trovava, per questioni interne di partito, qui a Cagliari. Fra le altre, gli ho posto questa domanda: “E’ essenziale la NATO per la sicurezza dell’Italia? Che funzione ha oggi la NATO?”. Quell’intelligente uomo politico, mi ha così risposto: “E’ molto fresco il ricordo dei fatti di Cecoslovacchia; è recentissima la minaccia sovietica all’integrità ed all’autonomia (sic!) della Polonia. Io viaggio molto, e ti posso assicurare che in Jugoslavia, che ha frontiere continue con l’Italia, si nutrono molte preoccupazioni riguardo al futuro… A soli 200 km. dall’Italia la Cecoslovacchia agogna quella libertà che le appartiene e che le è stata scandalosamente negata dalla teoria della sovranità limitata. Addirittura confina con l’Italia uno stato socialista, la Jugoslavia, che teme per la propria integrità territoriale. In questo quadro è essenziale la presenza delle forze americane in Europa, la quale non ha significato imperialista, ma semplicemente di contenimento del vero imperialismo che oggi tutti conosciamo, e che è quello sovietico”». Così, press’a poco, il leader repubblicano, ed io… osavo, presuntuoso nelle prefigurazioni pacifiste ((intracontinentali, non nel mondo lontano e povero!), postillare nel mio tema scolastico: «Stimo La Malfa, ma non condivido completamente ciò che egli mi ha detto». Per quanto immediatamente dopo riaggiustassi, convintamente s’intende!, il tiro: «Apprezzo maggiormente ciò che in seguito egli ha detto: “Un mese fa circa ho avuto dei colloqui con europeisti convinti in Germania. Il processo di unificazione europea è a buon punto. Occorre buona volontà, tanta quanta è necessaria, prima di tutto per superare l’ostilità francese alla realizzazione del processo di unione europea allargata innanzitutto alla Gran Bretagna. Morto De Gaulle, il gollismo non è morto… la grandeur è in piedi più che mai… Ebbene, ecco allora che cosa la NATO rappresenta per l’Europa: non solo un blocco militare, ma, passando attraverso la concezione d’esso come patto di solidarietà occidentale, esso avrà a breve termine uno sbocco nella costituzione della Europa unita: i sogni dei grandi degli anni ’50, De Gasperi Adenauer Schumann, troveranno negli anni ’80 la loro realizzazione”. Ora concordo con La Malfa. Sono contento di vivere  in quest’epoca così ricca di novità…».

Il professor Romagnino, come detto presidente della commissione interscolastica per incarico del Provveditorato, prescelse questo tema, con pochi altri, confidandomi poi, paternamente, l’apprezzamento per l’originalità che vi aveva ravvisato. (E, aggiungo, almeno 17 anni dopo, alla presentazione de L’Edera sui bastioni, e ancora dopo ulteriori otto, in occasione della presentazione di un mio libro celebrativo del cinquantennale della scelta referendaria repubblicana, egli ricorse a quella memoria quasi privata facendola pubblica e onorando il mio europeismo di ragazzo).

Torno alla sequenza degli episodi che mi legarono al professore, sullo sfondo della politica.

Segue dunque, a metà maggio, nell’aula magna del Dettori, un dibattito con dieci, forse quindici studenti degli ultimi anni di corso, dunque di maturità, o vice maturità, provenienti un po’ da tutta l’Isola. In discussione un tema aperto: «In vista di una graduale organizzazione comunitaria dell’Europa, quale dei settori scolastico, sanitario, della ricerca scientifica, del diritto di lavoro, della difesa dell’ambiente naturale ha carattere prioritario?». Una tavola rotonda moderata dal prof. Giuseppe Meloni, presidente o ex della Provincia.

Romagnino prende nota e segnala i partenti per Villa Lucidi in Castelporzio Catone, e da lì poi, in comitiva nazionale, per Strasburgo… Mi rinnova la sua preferenza, unitamente al cagliaritano Roberto Scarpa ed all’olbiese Giovanni Derosas. (Dovendo io maturarmi a giugno-luglio – periodo della trasferta –, sarò di necessità scalzato, con gli altri sfortunati, dai… vice maturandi).

1972-73, insieme con alcuni allievi… immediati o mediati dello stesso professore (fra essi Alberto Sechi e il citato Roberto Scarpa, entrambi allora d’area o simpatie liberali) m’impegno nelle prime mosse che poi saranno la costante di studio di tutta la mia vita: l’esplorazione delle stratificazioni storiche di Cagliari (a fine 1971 è stato ricordato il cinquantesimo della morte di Bacaredda con un bel libro collettaneo Alziator-Della Maria-De Magistris-Valle-Salis, il che mi ha lanciato in una relazione epistolare anche con Francesco Alziator, al tempo incaricato di Tradizioni popolari presso la facoltà di Magistero dell’università di Sassari. E dovrei qui aggiungere che sul rapporto di colleganza ed amicizia fra Alziator e Romagnino molto scaverò nei decenni seguenti, portando la materia in speciali televisivi, articoli di stampa e libri perfino).

Sono brevi le passeggiate per Cagliari con questi amici ma pur ricavo da subito, comunque, come nei miei accompagnatori già vi sia, spiccata e in parte anche elaborata, una conoscenza delle coordinate storiche di almeno sei, sette secoli, quelli che dal tradimento pisano e dalla distruzione della città giudicale sulle sponde di Santa Gilla ci portano dritti dritti a Bacaredda ed al Novecento, alla razionalizzazione e modernizzazione del capoluogo emancipato finalmente dalle fissità del quadrifoglio – Casteddu e le sue appendici medievali – di cui è traccia addirittura nel Dittamondo di Fazio degli Uberti!…

Raccoglievo in quelle rapide battute competenti la prova del fruttuoso seme gettato dal professore che mai staccava il programma ministeriale dalla vita cittadina e dall’attualità del vasto mondo e sapeva incrociare i tempi, ed intrecciare con garbo e logica discipline diverse, dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla religione, dall’architettura alla politica, dall’universale al locale, dal civico al nazionale…

Nella rassegna dei quadri storici come erano portati da quei miei coetanei più esperti poteva esservi spazio, quanto meno a partire dalla fine del Settecento, per alcune delle icone del pantheon democratico sardo e cagliaritano come lo stavo allora almeno orecchiando nelle sue dimensioni quantitative. Icone che, pur ancora poco provvisto, mi sforzavo di collocare ognuna al suo posto: da Vincenzo Sulis ed i tribuni antifeudali od antipiemontesi all’alternos rivoluzionario Gio.Maria Angioy, dal Brusco Onnis pubblicista mazziniano al Tuveri collinese intensamente cagliaritano nel mezzo della sua vita di parlamentare e direttore di giornali, magari fino al Bacaredda stesso – sempre lui! simbolo del “liberalismo organizzatore” che si avviava alla democrazia – del quale era stata scoperta la stagione giovanile nella scapigliatura anticlericale…

1973, invito il professore al congresso regionale repubblicano che si svolge il 1° luglio all’Auditorium di piazzetta Dettori; viene e tiene un intervento applauditissimo, la sera, cui farò cenno in una lettera-articolo inviata al periodico Sassari Sera, che ad essa offrirà due lunghe colonne (il 31 luglio 1973, “L’autonomia tradita”). Dice della comune battaglia civile combattuta da Italia Nostra – di cui egli è ormai il presidente regionale – ed il Partito Repubblicano che uomini come Ugo La Malfa hanno saputo arricchire di autorevolezza innestando nella sua storica base popolare di matrice risorgimentale la modernità delle idee politiche che guardano al nesso di giustizia e libertà nel contesto continentale di un’Europa tesa alla sua integrazione.

Romagnino aveva fondato nel 1971 la sezione cagliaritana (la prima nella regione) di Italia Nostra. Ne aveva riferito L’Unione Sarda con un trafiletto proprio in quella pagina quindicinale cui collaboravo insieme con i due Lecis leader nati e i Gigi Dessì, i Manfredo Atzeni e cinquanta altri…, la “pagina dei giovani” che avrebbe finito la propria serie anzitempo, per aver alcuni articoli di Antonello Mascia e forse di Gigi Dessì – almeno così fu detto – irritato i vertici del Comando militare regionale inducendoli a far pressione censoria sulla direzione Crivelli…

Tutto era cominciato – dico di Romagnino con l’ambientalismo ed Italia Nostra –  con una conferenza alla quale lui aveva invitato, a Cagliari, proprio nell’aula magna del Dettori, Giorgio Bassani, Fulco Pratesi, Bernardo Rossi Doria e altri… Da quella conferenza a più voci, da quel primo affaccio delle tematiche ecologiste in città – difesa del territorio e corretto ed efficace utilizzo delle risorse del suolo e del sottosuolo, delle montagne e delle miniere, delle città e delle piane rurali – sarebbe sorta la sezione cittadina e nella sezione un gruppo impegnato di giovani, numerosi dei quali allievi o ex allievi del professore.

Partecipai anch’io – magari con un approccio ad un ecologismo civico più che a un naturalismo pieno o dei grandi territori – per uno o due o tre anni (ma ormai, dal 1973, vivevo a Villacidro, non a Cagliari, e frequentare mi diventava difficile) alle attività di Italia Nostra in via Mercato Vecchio e altrove, e molto ascoltai le lezioni di Romagnino che ben sapeva inserire anche un impegno organizzativo in un più ampio e dignitoso contesto di necessità storiche e sociali, con inquadramenti didascalici sempre brillanti perché mobili ora fra distinzioni ora fra associazioni, fra originalità da valorizzare e repliche orizzontali e diffusive, comunque costituenti motivo di impegno alla tutela e alla fruizione generale… Ché l’ambientalismo romagniniano non è, né mai sarà, soltanto museale, immobile e puramente estatico (oltreché estetico), ma semmai sempre volto alla socialità, pur nel rispetto rigoroso della integrità della vocazione originaria del compendio – sia esso minerario o boschivo o faunistico – così come del manufatto d’arte, esito del genio e del mestiere.

Andrebbe aggiunto poi che le sue lezioni, godibili per la ricchezza del lessico ed il trasporto oratorio proprio del professore, dunque franco da ogni cedimento alla retorica, erano spesso bene integrate da comunicazioni di specialisti – ora geologi ora storici dell’arte, ora botanici ora esperti di tradizioni popolari – che egli aveva saputo mobilitare con quella generosità tipica dei migliori uomini di scuola…

Va detto anche che, negli anni ’70, i nomi migliori dell’ambientalismo italiano – si pensi ad Elena Croce e Michele Cifarelli, ma anche agli stessi Giorgio Bassani, Fulco Pratesi ecc. – politicamente guardano con simpatia al Partito Repubblicano Italiano, e talvolta vi sono direttamente impegnati, magari anche nelle candidature d’onore o nei consigli d’amministrazione della RAI, a cui il PRI designa una volta la Croce-Croveri, un’altra proprio Bassani…  Non è questione di ideologismo ecologista, qui c’è una corrente culturale che – come dimostrerà Giovanni Spadolini (difensore di Venezia, insieme con Montanelli, negli anni della direzione del Corriere della Sera) fondando nel 1974 il dicastero per i Beni Culturali e Ambientali, poi onorato da ministri e sottosegretari come Oddo Biasini e Giuseppe Galasso – capisce e argomenta come, nella distinzione tipologica, beni naturali e beni dell’ingegno partecipano ad una stessa dotazione che costituisce ad un tempo l’intangibile ed orgoglioso patrimonio morale e materiale della nazione.

1974-76, come presidente regionale di Italia Nostra il professore ha una intensa interlocuzione con la soprintendente ai monumenti Margherita Asso, impegnata non senza avversari nella difesa di valori paesaggistici del Cagliaritano: è ministro per i Beni Culturali Giovanni Spadolini, ed a lui insistentemente va la richiesta di conservare alla Sardegna quel validissimo funzionario purtroppo (?) destinato – per una causa che parla da sola – a Venezia. (Anche lei, negli anni terminali della carriera o forse subito dopo impegnata politicamente vicino ai repubblicani: s’intende, ai repubblicani di quel tempo, i repubblicani che ci credevano!).

Una candidatura in marcia e il mercato dei mignon

1975-76, in ripetute occasioni, nei fugaci rientri in città da Villacidro (sempre più la Villacidro dessiana – Norbio cioè od Olaspri, Ordena o Pontario, Ruinalta o Cuadu, San Silvano o Parte d’Ispi, nuclei tutti centrali dell’universo, secondo un’applicazione leibniziana – che varrà anch’essa a cementare la relazione personale),  il professore mi esprime concordanza e incoraggiamento circa le analisi politiche che affaccio su L’Unione Sarda, anche in prima pagina, riguardo ai destini della democrazia italiana, agli equilibri fra le forze politiche tradizionali, dopo che i turni amministrativi e politici hanno portato al grande successo delle liste comuniste, in uno allo sforzo compiuto dal PCI di “occidentalizzarsi” accettando la NATO e  gli statuti federalistici europei, marcando la propria distinzione ed alterità rispetto all’insopportabile sistema tirannico del sovietismo ed all’imperialismo del Patto militare di Varsavia, promuovendo il cosiddetto eurocomunismo, ampliando le garanzie di democrazia interna e le sperimentazioni positive degli “indipendenti di sinistra”.

1979: la candidatura del professore come indipendente nelle liste del PCI alle regionali – forse favorita dalle crescenti sue relazioni con Umberto Cardia, e la partecipazione con scritti e discorsi a svariate iniziative culturali o ambientaliste promosse nell’Isola dal Partito Comunista Italiano, talvolta accompagnate dagli speciali della rivista Rinascita Sarda – diviene l’occasione per entrare nelle più riposte confidenze di Antonio Romagnino, illuso e poi deluso dal comportamento di un partito rivelatosi in quella circostanza non degno della sua fama “ecumenica” o nazionale – nel senso che all’aggettivo dava un Giorgio Amendola! –, rispettoso e anzi promotore (con l’offerta del suo corposo sostegno elettorale) di presenze libere nelle istituzioni: Romagnino è un coerentissimo liberaldemocratico, o meglio un democratico liberale, e tale rimane quando accetta quella candidatura, e dopo.

Dal 1976 io non ho tessera di partito in tasca, mi muovo – nella stretta (ma sempre libera e gustosa fedeltà agli ideali) – nell’osservazione e, quando utile, nell’affiancamento alle iniziative della variegata sinistra italiana e sarda, molto collaborando con la stampa locale, in particolare, negli ultimi anni, con TuttoQuotidiano a gestione cooperativistica. Recensioni in pagina culturale e molta analisi politica in prima pagina o nella foliazione interna.

Avvicinandosi dunque i turni elettorali della tarda primavera 1979 – politiche, europee e regionali – rifletto su come spendere il voto: e penso di sostenere, per quel che conta un solo segno sulla scheda elettorale, quella candidatura che molto subbuglio sta creando in città. Ne scrivo allo stesso professore, il quale ne riferirà (anni dopo la sfortunata esperienza) in un suo libro, e intanto però ringrazia con un biglietto del 26 maggio:

«Caro Gianfranco,

«grazie di cuore per le belle parole, per aiuto generoso, per l’acuta comprensione.

«Con viva cordialità».

E così annoterà in La mano sul mento. Racconti, memorie, pensieri, Cagliari, Edizioni della Torre, 2001 alle pp. 107/108:

«Ma un’altra lettera è ancora più cara, anche se, quando me la rileggeva, fino a qualche anno fa, riaprisse in Stefano una vecchia ferita, per una bocciatura elettorale subita ingiustamente, e procuratagli dai grossolani maneggi dei funzionari dl partito che lo aveva candidato. E’ di Gianfranco Murtas, il valoroso studioso della storia contemporanea della Sardegna ed è datata 18 maggio 1979, e indica un ventaglio di orientamenti nella scelta dei candidati da votare, che rivela uno spirito liberissimo. “Alle elezioni per il Consiglio Regionale voterò il suo nome, e perciò il partito che saggiamente le ha offerto la candidatura come indipendente. Mi sono convinto dell’onestà morale ed intellettuale alla base della sua decisione semplicemente rilevando che il suo articolo su Ciccio Cocco Ortu, apparso sull’Unione nel decimo anniversario della morte – articolo magnifico – era senz’altro successivo ai contatti avuto col PCI, relativi alla candidatura. Per il Senato voterò il dott. Peppino Fiori, alla Camera l’amico Lucio Lecis, candidato liberale; alle europee l’avv. Alberto Mario Saba, repubblicano. Spero naturalmente  che i quattro votati siano anche eletti. Tutto questo per la stima che nutro nei loro confronti».

A causa proprio di quei «maneggi» di uomini senza ideali, militanti balordi ed inospitali, la candidatura cadde. E la cosa, per le particolari situazioni che l’avevano preceduta ed accompagnata, prese per molti mesi, nel diretto interessato, il colore del dramma personale. Perché si trattò, da parte del professore, di un errore di ingenuità, anzi di un doppio errore di ingenuità: credere che bastassero il riconosciuto galantomismo e la provata qualità delle idee a legittimare e meritare una promozione elettorale unicamente orientata al bene comune, e credere che il PCI sardo fosse immune dai travagli di miseria morale presenti nella generalità delle altre formazioni sulla piazza. Sicché qui soltanto l’elezione riuscita avrebbe dimostrato agli increduli, ai diffidenti del vasto e variegato fronte di provenienza del professore, amici od estimatori liberali o liberal i quali avevano considerato temeraria e scriteriata, e forse opportunistica, quella candidatura in partibus infidelium, che invece quell’affidamento era ragionato, morale e nel senso della storia. Perché facilitava l’alternativa al governo o malgoverno democristiano, equilibrando il portato e gli obiettivi propri della sinistra di classe con i contributi originali di personalità progressiste formatesi in altro ambiente ideale e valoriale. E la si sarebbe vista l’indipendenza fiera e sostanziale di Antonio Romagnino legislatore regionale, tanto più nei settori di sua maggior competenza, come la cultura o l’ambiente…

E invece quella bocciatura era intervenuta a impantanare tutto in un resistente equivoco, che confermava lui – il protagonista – in un apparente cedimento alle venali convenienze dell’ambizione e il PCI in una inaffidabilità tante volte certificata.

Qualche pur incidentale osservazione critica sull’episodio-candidatura l’avevo espressa in un articolo sul Cagliaritano (n. 6, luglio 1979) dal titolo “Sta nascendo un nuovo costume politico”. Così argomentando o proponendo: «Intanto un segno efficace della propria “diversità” (nel senso buono s’intende), il PCI potrebbe alla Regione darlo consentendo, nel corso della legislatura appena iniziata, un avvicendamento nel suo gruppo consiliare fra quei consiglieri che dovessero dimostrarsi inidonei al compito (e quanti ce n’erano nella vecchia assemblea!), con i primi candidati non eletti, fra i quali è un nome di assoluto prestigio, il prof. Antonio Romagnino, che non è stato compreso dall’elettorato e, segnatamente, dalla base comunista. Il prof. Romagnino è un liberaldemocratico che non tradisce il proprio impegno culturale e civile, e lodevole mi era sembrata l’iniziativa dei dirigenti locali comunisti di accoglierlo nelle proprie liste, assicurandogli il pieno rispetto della sua indipendenza».

Intanto, l’8 settembre dello stesso 1979 così risponde, il professore, ad una mia lettera che gli conferma stretta vicinanza ideale ed affettiva, dopo il voltafaccia dell’apparato comunista («Le furberie di bassa lega però hanno ormai straripato dai consueti alvei fino a contagiare un grande partito che – seppure ideologicamente ahimè ancora antioccidentale e politicamente incerto e contraddittorio – sembrava poter vantare dalla sua una grande riserva morale»):

«Caro Gianfranco,

«grazie ancora di cuore: non solo per quanto di lusinghiero mi hai voluto generosamente riservare, ma anche e soprattutto per l’intuizione che hai avuto della grande amarezza che ancora dolorosamente mi tormenta. E non per l’insuccesso personale (che è il prodotto di un clamoroso infortunio di un’efficienza evidentemente solo mitologica), ma per la melanconica conclusione cui l’episodio costringe: che cioè in questo disgraziato Paese non c’è posto se non per una militanza rigida e per le ideologie esasperate. Non c’è speranza alcuna invece per un liberal-democratico (come mi hai voluto gradevolmente definire) e cioè per la ricerca senza restrizioni e per la fedeltà alla ragione, che è la sola che meriti di essere considerata umana. In questa mia ora buia un po’ di consolazione mi procura il fatto che sia un giovane, che stimo molto, a suggerirmi tutto questo.

«Molto cordialmente».

La prima stagione televisiva, l’omaggio ad Alziator

Nel corso del 1981 collaboro intensamente – e sempre gratuitamente – con l’emittente televisiva La Voce Sarda, sola concorrente di livello (per le produzioni proprie) che lo scenario dell’antenna isolana sa opporre a Videolina, con qualche anno di maggior anzianità e esperienza. Partecipo in primavera ed inizio estate, con servizi settimanali, al rotocalco “Controluce” curato da Paolo Latini; in autunno e sino alla fine d’anno (ma con registrazioni effettuate in gran parte fra luglio e settembre) produco io stesso una serie di ben quattordici trasmissioni della durata di circa un’ora e mezza ogni puntata – “Vagabondo” è il titolo – con servizi che, in quanto a Cagliari, giocano fra storia ed attualità dei suoi quartieri e, in quanto al territorio provinciale, associano il vissuto d’una comunità al nome di un grande come potrebbe dirsi di Lussu per Armungia e di Dessì per Villacidro… Altre rubriche – ora di medicina sociale ora di religione – aggiungono al menu, in cui pure s’affaccia l’intervista al personaggio, ed offrono al pubblico un prodotto di conoscenza e approfondimento. Questo il menabò. E il professore, così nei servizi di “Controluce” come in quelli di “Vagabondo”, è ospite frequente, ricercato e sempre disponibile. Come anche in diversi “Speciali” che mi è concesso, nello stesso anno, di realizzare. Fra essi, quello addirittura di un’ora dedicato a Francesco Alziator. Quando egli si fa coprotagonista, con la signora Dolores Ghiani, del ricordo affettuoso e documentato della personalità umana ed intellettuale dell’autore de La città del sole e di innumerevoli altri lavori sospesi fra storia e demologia, nell’incanto sempre di una narrazione che conquista.

Intensi i contatti per la preparazione di quel programma, originale per molti versi. Alziator era nelle fibre intellettuali e sentimentali del professore e l’occasione di quella registrazione nel bellissimo attico di via Gio.Maria Angioy, a Cagliari, costituì un impegno particolarmente gradito a chi all’opera postuma di Alziator L’elefante sulla torre aveva donato, con l’arte dello studioso e non soltanto con lo spirito dell’amico e confidente, una illuminante prefazione.

Appartiene a questo stesso quadro temporale, collocandosi ai primi di febbraio1982 (perché risposta alla mia del 28 gennaio, con la quale gli consegnavo il testo della “preghiera civile” che avevo letto in televisione alla vigilia del trascorso Natale) questa lettera:

«Caro Gianfranco,

«quanto mi sia stata gradita la tua lettera lo dice lo spontaneo raccordo che la memoria ne ha fatto con un’altra tua lettera (quella umanissima che mi facesti giungere durante quel cruciale periodo della mia vita che fu la vicenda elettorale di qualche anno fa: la mano di un amico gettata verso chi era quasi sommerso dalla mareggiata delle incomprensioni e delle ostilità). Ci muoviamo ancora nell’area dei grandi affetti e delle più solide idealità: la tua bella e fervida “preghiera civile” mi rinnova quella fratellanza, che si è svelata in più di una occasione, e mi persuade ancora una volta di quanto sia vero che le dimensioni più grandi (le nostre europee p.e.) partono sempre da misure e orizzonti minori. Tu li hai cercati e trovati, e ti muovi ormai con tutta sicurezza nella nostra ricca, forte e ben radicata “cagliaritanità”. In fondo, anche se non lo abbiamo detto per non suscitare polemiche fratricide, abbiamo provato e continuiamo a provare come il tessuto urbano sia non meno ricco e vitale del mitizzato mondo agro-pastorale. Anche la tua “preghiera” promuove questo recupero, scava in quella direzione, in cui il nostro dilettissimo Francesco Alziator ci ha trascinato come “quei che va di notte, che porta il lume dietro, e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte”.

«Ti abbraccio con molto affetto».

Quel riferimento ai comuni sentimenti verso un autore come Francesco Alziator avrebbe avuto conseguenze in altre puntate del sodalizio ideale e amicale, perfino in un impegnativo libro del 1999…

Certo, appena possibile mi sarebbe estremamente gradito poter rubricare, e magari anche sbobinare, tutti gli interventi di Antonio Romagnino nei miei programmi televisivi, ad iniziare da quella prima stagione del 1981 ed a proseguire con la seconda del 1991. Quel che è stato già fatto ha riguardato, come accennato, soltanto lo speciale su Alziator, pubblicato in La città chantant, monarchica, clericale e socialista. Diario cagliaritano del 1909, la cui corposa seconda parte comprende – dopo le descrizioni cittadine e la lunga intervista sul Dettori della memoria (di Antonio Romagnino) – appunto il tanto che avevo scritto o variamente prodotto sull’opera alziatoriana e di Dessì…

A seguire ancora la stretta cronologia degli eventi, e dunque della collaborazione, e della corrispondenza, ecco, datata 26 ottobre 1983, un’altra lettera. Occasionata, questa, dalle confidenze che gli avevo consegnato circa le emozioni suscitate dalla lettura del suo libro dedicato al maggior quartiere – Castello, libro di «poesia descrittiva» e «poesia partecipativa» – bellissimo anche per il supporto fotografico. Avevo osato accennare ad un’«emozione intimistica, quella della propria vicenda personale filtrata dalla memoria» che doveva sommarsi e intrecciarsi, «per non essere sterile», «con il vigore civile di chi sa che la cultura ha una vocazione sociale, che la politica senza una visione culturale e una spinta morale non serve al popolo, non lo aiuta nella sua liberazione». E la conclusione era nel senso della perorazione a pro di qualche iniziativa nuova («Professore caro, a questa città noi dobbiamo dare ancora di più di quel che finora abbiamo dato. Lei… inventi per favore qualcosa di nuovo…»):

«Carissimo Gianfranco,

«quando siamo precipitati nella convinzione che sia inutile quel che facciamo, c’è sempre un’anima generosa che ti ghermisce e ti salva dall’ultimo accoramento. A me è toccata questa fortuna, sono state le tue parole a procurarmela, immeritatamente. Ci vorrebbe più fede e più giovane età per rispondere convenientemente a questo cordiale incoraggiamento, ed in me mancano o scricchiolano l’una e l’altra. Che fare? Io non lo so più, tanto tutto degrada e si fa opaco. Tu ricordi spesso Alziator, ma Cucuccio era rimasto giovane fino agli ultimi giorni della sua vita e sapeva dare letizia alle cose anche quando forse l’avevano per sempre perduta. Quella voce si è portata via l’ultima speranza della nostra città, e quello che ci è rimasto da fare è forse solo commemorazione, verso cui hanno facile gioco l’indifferenza e il cinismo dei più. Grazie, grazie di cuore per le luci che sai riaccendere così fraternamente, tuo».

“La Voce” spadoliniana, stupefacente concentrato d’intelligenza civile

Nel dicembre 1984 donai al professore l’abbonamento per un anno a La Voce Repubblicana, quotidiano a cui presto avrei offerto una collaborazione sempre valorizzata graficamente dal giovane direttore Stefano Folli e apprezzata, per quel che mi si disse, da Giovanni Spadolini. (Alla fine del suo secondo governo, nel novembre 1982, avevo richiesto la tessera repubblicana che avrei tenuto per un decennio intero, seppure la mia rinnovata militanza, più matura adesso della precedente adolescenziale, non si sarebbe mai persa nei fuochi polemici in cui tutto parve allora consumarsi, in Sardegna, fra “coroniani” e “ghirriani”, ma sarebbe stata attiva e perfino protagonista nei dibattiti sulle idee e i programmi, e in specie sull’intangibilità delle istituzioni pubbliche, allora coinvolte, per il vero e per il pretestuoso, nelle dispute circa la Massoneria italiana post-P2, magari nelle discettazioni riguardo alle ombre nell’Amministrazione civica evocate dal sindaco De Magistris nel 1986).

Le tematiche della mia collaborazione riguardavano la vicenda bisecolare del movimento democratico isolano, singolarmente partendo dalla fine, dalla storia vissuta o partecipata cioè – la relazione fra repubblicani e sardisti negli anni ’60 e ’70 del Novecento – per viaggiare all’incontrario, nell’Ottocento risorgimentale e perfino pre-risorgimentale…

Rispondendo alla mia del 10 dicembre, ribadiva il professore, il gradimento di quell’omaggio:

«Caro Gianfranco,

«ti ripeto quanto ti ho già detto a voce: ho gradito molto l’omaggio de La Voce Repubblicana. E’stupefacente che un giornale di così piccolo formato possa contenere tanti stimoli di vita intellettuale e morale, possa ogni volta impegnare una non fuggevole attenzione. Ora il suo arrivo, quasi puntuale, è un appuntamento quotidiano ricreatore in tanta ferocia dei tempi. Credo che meglio non avresti potuto rinnovarmi l’amicizia che ci unisce… Con i più cari saluti, ti invio i più fervidi auguri per il Nuovo Anno».

Ci fu, in quella lettera tanto garbata e anzi affettuosa, una promessa – «Anche per questo credo che abbia buon esito la proposta che verrò a farti nel prossimo gennaio. Non te la preannuncio e spero solo che venga accolta» –, di cui però non ricordo, al momento, il contenuto preciso, benché sia portato a pensare trattarsi di un impegno personale nel direttivo dell’associazione Amico del libro, della quale egli aveva raccolto la gravosa ma prestigiosa eredità da Nicola Valle, ritrattosi dalla presidenza negli ultimi anni della sua vita. Ho un ricordo soltanto generico della cosa, ma conoscendo il carico degli impegni che mi gravava in quegli anni, sono propenso a credere di aver frenato quel generoso allettamento.

L’Edera sui bastioni nell’età di Bacaredda

Il 1988 costituisce un avanzamento importante nella trama di amicizia e confidenza intessuta con il professore: venerdì 10 giugno, egli presentava agli Amici del libro (e a un più vasto pubblico), eccezionalmente nella sala conferenze del Banco di Sardegna, la mia L’Edera sui bastioni: un corposo studio-racconto sulla Cagliari bacareddiana diffuso su oltre seicento pagine. Numerosi i convenuti, pressoché il pieno della capienza di 250 posti a sedere; al tavolo, con Romagnino ospitante e primo presentatore, anche Paolo De Magistris (sindaco in carica), Lorenzo Del Piano e Marcello Tuveri.

Dal suo discorso d’apertura, secondo il suo solito a braccio, ho tratto il seguente passo (e spiace veramente non poter espungere quanto di laudativo – quanto cioè la circostanza forse imponeva – egli indirizzava al sottoscritto): «Prendo la parola solo come ospite, come presidente degli Amici del libro, che hanno organizzato questa manifestazione. Come ospite vi ringrazio di essere intervenuti, e ringrazio il Banco di Sardegna che con la sensibilità che ormai abbiamo collaudato da tempo ha risposto alla nostra richiesta.

«Credo che l’occasione per la quale siamo riuniti qui stasera sia di notevole rilievo. Il libro che è innanzi a voi, che sarà illustrato dal sindaco Paolo De Magistris e dal professor Del Piano, è un bel libro, ecco, fatemelo dire, e diciamo senza che mi faccia velo l’amicizia che mi stringe da molto tempo a Gianfranco Murtas.

«Credo che possa dirlo, io l’ho conosciuto ragazzo, e questo ricordo di lui giovinetto delle scuole medie superiori mi è estremamente caro farlo perché mi suggerisce un’idea di grande coerenza: Gianfranco Murtas quando lo conobbi io partecipava a quel concorso annuale che l’Associazione degli insegnanti europeisti indiceva fra i giovani delle scuole medie superiori e inferiori di tutt’Italia. Gianfranco Murtas quell’anno, un anno che non saprei ricordare, ma neppure molto remoto data la giovane età dell’autore che stasera celebriamo, vinse bellamente. Ricordo che mi si rivelò – ero nella commissione, sono stato tante volte nella commissione esaminatrice di questo concorso – vinse bellamente Gianfranco Murtas quel concorso. Era il democratico che nasceva. Ed era l’europeista che in perfetta coerenza con la sua idea democratica si faceva avanti. Credo che sia rimasto tale e quale fino ad oggi.

«E d’altra parte, il libro che io non ho letto interamente, che ho seguito nella sua genesi, nel suo formarsi, quando è tanto bello vedere i fogli nei quali si scrive, e quando è tanto bello anche vedere le prime bozze – il libro, dico, trasmette questo sentimento della vita, questa idea fondamentale che ha animato Gianfranco Murtas nella sua giovane vita.

«Io ricorderò ancora un’altra cosa di lui che mi è caro. Questo exploit giovanissimo ha avuto un seguito: ricordo che Crivelli, Crivelli – Fabio Maria Crivelli della prima stagione non della seconda – ebbe tra i suoi fondisti Gianfranco Murtas. Allora era proprio giovane, mi pare che fosse ventenne, e i suoi articoli di fondo nell’Unione Sarda erano di straordinaria bellezza, di straordinaria chiarezza.

«Ma io rischio di interferire nel compito che è di altri. Io, ripeto, ho del libro una conoscenza approssimativa: L’Edera sui bastioni. I repubblicani a Cagliari nell’età di Bacaredda. Diciamolo francamente: siamo anche qui chiamati a rinnovare un mito, un mito che è nella coscienza collettiva. Tutti, qualunque sia la nostra età, abbiamo vissuto di questo mito. Quando abbiamo voluto ricordare una bella età, abbiamo chiamato questa bella età “l’età di Bacaredda”. Quell’età per Gianfranco Murtas è un’età di lotte, di conflitti, qualche volta esasperati, e però è lì la sua grazia, la sua mano, nello svuotare di qualsiasi ferocia quei conflitti, quelle lotte.

«Guerra di monumenti: si innalzava il monumento all’Immacolata Concezione in piazza del Carmine, e la risposta tanti anni dopo era il monumento a Giordano Bruno nella piazzetta che porta verso Castello…

«L’Edera sui bastioni… ed è questo anche il senso democratico di Gianfranco Murtas perché questa è la storia di una minoranza, è la storia non di chi ha vinto, ma di chi è stato sconfitto, di chi ha lottato ed è pure caduto. Ecco questo mi pare che sia un altro segno dell’autore che è qui fra noi con quanto di meglio si possa sempre esprimere in un’esistenza: lo scrivere. Gianfranco Murtas l’ha fatto in giovane età di questo gli siamo grati.

«Ma prima di finire un appunto: L’Edera sui bastioni è un titolo che come tutte le metafore poetiche riesce a non corrispondere alla realtà: e in realtà non vi corrisponde perché l’età di Bacaredda – 1890 – 24 dicembre 1921 quando morì – era in realtà senza bastioni. I bastioni erano caduti, non c’erano più da quanto erano stati demanializzati nel ’60, avevano cominciato a cadere tutti: quelli di San Francesco, di Sant’Agostino, lungo il Largo di adesso, quelli di Monserrato e di Gesus, lungo su Stradoni in viale Regina Margherita. E però questa metafora gliela perdoniamo perché il libro è bello e vale la parola di Paolo De Magistris e di professor Del Piano. Grazie».

Queste le parole affettuose e gratificanti del professore, il cui ripasso, adesso, suggerisce una ripresa o una chiosa non meno affettuosa  e grata: il riferimento ai “bastioni” non era, nelle mie intenzioni, alle fortificazioni abbattute lungo gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento, antecedentemente alla età bacareddiana dunque,  ma a quel giro sì proprio dei bastioni al plurale come, descrivendo Castello – sede del municipio bacareddiano almeno fino al 1914 –, li aveva elencati Francesco Alziator in alcuni sui saggi e articoli rifluiti anche in L’elefante sulla torre

Omaggio al sindaco De Magistris

L’anno successivo – è il 20 febbraio 1989 – all’Auditorium comunale di piazzetta Dettori il professore partecipa unitamente a Umberto Cardia ed a Enrico Marongiu alla presentazione di Un uomo il sindaco, De Magistris, un libro-intervista da me curato insieme con Paolo Matta.

E’ un’altra occasione, questa, per cementare la relazione, nutrendola dei nostri amori, quelli morali e civili della comune cagliaritanità: potrebbe dirsi, di quella cagliaritanità della quale anche l’aristocratico Paolo De Magistris – personalità, e anzi persona che ho molto amato – esprimeva, eccentrico tanto quanto autentico, sostanza e spessore.

Aggiungo, riguardo a De Magistris, dal quale evidentemente la visione politica corrente mi differenziava e teneva lontano, che di lui apprezzai sempre – riportandolo anche in una dichiarazione di testimonianza che mi fu richiesta da L’Unione Sarda per i suoi settant’anni, nel 1995 – la scelta repubblicana che compì quando, ventunenne, venne chiamato alle urne per il referendum istituzionale. E trattandosi di una famiglia, la sua, di spirito cavaliere e monarchico, la cosa esprimeva evidentemente una capacità di giudizio autonomo assai apprezzabile, che sempre e comunque, anche nelle contingenze della polemica corrente, ho riconosciuto ed ammirato.

Aggiungo ancora – a mitigare le distanze e innervare le prossimità – che del cattolico/democristiano De Magistris condividevo l’ispirazione alta degasperiana, quel suo sentimento dell’alleanza, anche quando non necessaria numericamente alla conta dei seggi, con le forze politiche del centro riformatore e/o della sinistra non comunista: mi riferisco insomma ai partiti di vario riferimento al repubblicanesimo come alla socialdemocrazia, al liberalismo come al socialismo autonomista, in una prospettiva di integrazione per il buon governo.

E per sovrappiù, guardando alle ascendenze insieme familiari (del versante materno) e ideali, apprezzavo il rimando compartecipativo (o complementare della linea De Magistris) alla tradizione liberale dei Ballero – tradizione che valeva oro in anni in cui la “questione romana” era aperta e ardente perfino – e quell’inclinazione al gradualismo proprio e distintivo dell’Amministrazione municipale che fu, in anni remoti, di Ottone Bacaredda.

Torno al professore. Ecco alcuni passaggi del suo brillante, colloquiale intervento alla presentazione del libro-intervista, partendo giusto dalle prime battute. Merita osservare qui, o qui più ancora in altra occasione, l’approccio positivo del professore alla materia, agli animatori di quella materia, e la rivelazione della sua sensibilità al “fare comunicazione” attraverso le pagine di un libro:

«Vorrei chiedere scusa per questa mia insistente presenza di presentatore di libri che è diventata la mia professione finale e però a chi mi ha offerto questo nuovo impegno non ho potuto dire di no: e perché la materia del libro mi era particolarmente cara, mi è stata particolarmente cara immediatamente, perché questo libro è un libro su Paolo De Magistris, e perché autori ne sono due giovani a cui da tempo va la mia simpatia, e infine, ma direi primissima ragione, perché questo libro ha come protagonista la mia città, la vostra città.

«Ci aggiungerei un piacere in più, del tutto personale: ho letto il libro con questi fogli sciolti; mi ha procurato questa condizione la stessa sensazione piacevole che mi procurano i libri intonsi, i libri di cui si devono tagliare le pagine o di cui si usava tagliare le pagine un tempo e che era un modo per entrare nel libro.

«Il libro non era ancora fatto quando me l’hanno dato, e quindi l’ho preso così, a fogli sciolti; ha procurato, ripeto, questa sensazione piacevole, di un libro ancora non finito, di un’opera aperta come ha detto un famoso studioso, con altro senso ma anche con questo senso particolare, che il libro è sempre qualcosa che cresce nelle nostre mani, che si arricchisce dal nostro contributo. Quando l’ho letto, ieri, ho tenuto presente una pagina di Paolo De Magistris, e c’è una risposta di Paolo De Magistris a una precisa domanda dei suoi intervistatori. Che cosa, mi pare gli abbiano chiesto, leggesse da ragazzo e lui ha ricordato, rispondendo, l’esperienza della Congregazione Mariana: era la Congregazione quella – lo ha ricordato in un altro punto mi pare – di padre Bacigalupo, e questo mette già la distanza anagrafica fra me, fra noi e Paolo De Magistris: allora bastava qualche anno per fare un’altra generazione.

«La Congregazione Mariana sua è di padre Bacigalupo, la nostra era di padre Pasta, e di padre Abbo, e di padre Galliano. Ebbene ricordando quegli anni della Congregazione Mariana Paolo De Magistris ha ricordato le letture che la Congregazione gli offriva l’occasione di fare: e le letture erano due, i libri che gli venivano forniti erano due, ogni volta che lui si presentava a questa biblioteca fornita: uno di carattere religioso, e un altro diciamo di lettura diversa, varia, anche amena: Verne ma non Salgari, precisa Paolo De Magistris.

«Il particolare è questo: che lui leggeva quei due libri in una stessa giornata. Io ho letto invece un solo libro ieri, domenica, questo: che intendo brevemente presentare – perché devo dare la parola ai veri e propri relatori. L’ho letto – usiamo una parola comune, un’espressione comune – senza un momento diciamo di distrazione e di divagazione psicologico-mentale: preso dalla precisione e dalle domande ficcanti che facevano gli intervistatori e preso anche dalle risposte limpidissime che ogni volta, alla domanda, dava Paolo De Magistris.

«E così è volata questa mia giornata. Io ho segnato via via questo brogliaccio di una matita azzurra, di un evidenziatore come si chiamano queste matite moderne, come non mi capita, mi sono trovato d’accordo con Kiki Marongiu che ha fatto a sua volta questo stesso lavoro, con un altro colore, verde anziché azzurro, sullo stesso brogliaccio che ha avuto fra le mani e mi sono fermato così con questa matita su alcune cose. Prima di tutto sulla massima con la quale il libro si apre, che è una massima biblica tolta dal libro di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”, e mi pare abbastanza evidente un messaggio di pace in un libro appuntito, dove si dicono anche verità fastidiose, si sottolineano carenze, responsabilità, si mettono in evidenza problemi insoluti, e però si ha anche questa apertura verso la speranza e verso il futuro migliore.

«Mi sono fermato su questa massima e mi sono fermato sul titolo. Non l’avevo, veramente, il titolo, l’ho appreso dal giornale, ecco. E siccome ho sempre fatto sempre un po’ grammatica, grammatichetta, nei miei quarant’anni di scuola, non mi è certo sfuggito l’uso dei due articoli: “un” uomo “il” sindaco. Di uomini ce ne sono tanti, e questo libro che apre a umanità le più diverse, e però si usa un altro articolo per presentare la professione, l’impegno civile, l’amministratore.

«Paolo De Magistris è vero – l’ho detto prima di iniziare questa presentazione – ebbe un bel successo quando ha presentato, ha inaugurato il ciclo dei cagliaritani illustri rievocando la figura di Ottone Bacaredda. L’ha fatto da par suo, e ancora oggi, e ieri e ancora l’altro ieri sono stato raggiunto dai rallegramenti per questo successo suo e, diciamo, anche, diviso in piccola parte, toccato anche a noi. Ecco, dichiariamola questa ragione, questa associazione si è voluta fare: affidandogli il compito di rievocare questo personaggio che è ancora così presente nella coscienza dei cagliaritani: dico dei cagliaritani doc e di quelli che si sono fatti cagliaritani. Tutti sanno chi è stato  Ottone Bacaredda e tutti o quasi, almeno i più vecchi, certo ancora rivivono la casa di Ottone Bacaredda, lì all’inizio, dove una volta era campagna, la casa di via Giardini… Ecco, affidando a Paolo De Magistris l’incarico di trattare la figura di Ottone Bacaredda abbiamo voluto anche noi usare l’articolo “il”, l’articolo determinativo. Questa associazione era implicita, d’altra parte in questo libro Paolo De Magistris svela questa parentela ideale. A chi gliel’ha chiesto, nel libro egli dice che Ottone Bacaredda è per tanti versi il suo modello.

«Questo è un libro quindi anche frequentemente di ascendenze, in particolare nel libro – parla uno che è nato in Castello, ha vissuto buona parte della sua vita in Castello –, in questo libro hanno un posto rilevante gli ascendenti. Ho vissuto in Castello e sono stato dirimpettaio, quasi dirimpettaio, per tanti anni di Paolo De Magistris e quindi ho conosciuto questi suoi ascendenti, sono informato di questi suoi ascendenti, so chi è stato Mondino De Magistris il medico dei poveri, so della madre, so dei parenti Ballero, e qui si mette tutto in chiaro, che cosa deve al padre: l’amore alla lettura, il senso della carità, che cosa deve ai parenti Ballero: questa ascendenza liberale che si sposa, sia pure con qualche sforzo, alla religione, alla fede, alla posizione di cattolico. Ascendenze dunque. E questa ascendenza è  anche il modello che abbiamo indicato, il modello di quel sindaco indimenticato che è stato Ottone Bacaredda.

«Ma io vorrei soprattutto, e mi avvio rapidamente alla fine,  leggere un passo fra le risposte, tante – se mi riesce, non ho segnato – che ricorda questo ambiente nel quale Paolo De Magistris si è formato e in cui si colloca la sua giornata. Mi pare di non riuscire a trovarla, ma è una giornata, questa sua, ritagliata nell’ambiente del Castello, e che ha quindi il senso del lavoro e insieme del riposo, del raccoglimento, del ritiro.

«Io in un altro passo ho rivissuto una esperienza di quegli anni remoti: accadeva – e anche questo è un giudizio di un altro cagliaritano vissuto in Castello, Francesco Alziator, che nei suoi scritti l’ha più d’una volta affermato – che le classi allora non esistevano… Ho ricordato, leggendo di quei saluti che Paolo scambia con i popolani e con i molti, con i più che non conosce, ho ricordato questa specie di sfilata che si faceva inerpicandosi nelle strade di Castello allora: il popolano, il piccolo borghese, il borghese, il nobile saliva per queste vie con continue scappellate, continuamente levandosi il cappello. Era un segno della vita comunitaria, era il segno di questo quartiere che era poi la città per gran parte, la città che si raccoglieva, non si divideva, era come fusa in un unico sentimento. Ecco, la giornata di Paolo De Magistris – la riduco con mie parole, non leggo il passo perché non l’ho ritrovato – inizia alle 5,30 in quella casa che ha fondamenta antiche, architettoniche, una casa che risale al Cinquecento e che poi è stata rifatta nell’Ottocento da un altro grande cagliaritano quale fu Gaetano Cima: si alza alle 5,30, ascolta dopo la musica la messa nelle chiese, una delle quali particolarmente cara perché è la chiesa del collegio dove egli ha fatto i primi anni delle classi elementari, e poi, dopo queste prime ore della giornata, alle otto è nel suo ufficio di sindaco. Fino alle 14. Poi a casa, a farsi il pranzo, a chiacchierare col figlio, e poi ancora all’impegno di lavoro nel Comune, e poi la risalita, ancora con la gente che lo saluta, con la gente che lo riconosce, fra la gente che lo onora. Risalita in questa sua casa, questa sua casa silenziosa, raccolta, dove non lo raggiunge certo il trillo del telefono – quel numero non lo conosce nessuno nella città – , e iniziano le sue letture…

«Ecco l’alta ascendenza. Mondino De Magistris – e lo ha ricordato questo in un opuscoletto fuori commercio che Paolo pubblicò molti anni fa – era un uomo di grandi letture, conosceva il francese, conosceva il tedesco, e il figlio ricorda questo che deve a questo padre che lo familiarizzò con il libro, in particolare con il francese… C’è in sostanza, spesso, nei discorsi di Paolo la vanità della citazione dei francesi, in particolare degli illuministi che sembrerebbero così ideologicamente lontani e che sono da lui, per quelle ascendenze liberali, ravvicinati e fatti propri.

«Io dovrei dire forse qualche cosa di più, perché la lettura è così vicina che l’onda delle impressioni è notevole. Voglio soltanto dire un cosa che non riguarda Paolo De Magistris ma riguarda i due autori Paolo Matta e Gianfranco Murtas. Questo libro è stato scritto, direi, alla luce del sole: se un simbolo questo libro si merita è un simbolo solare. Questo libro è estremamente chiaro, estremamente limpido. Non ci sono messaggi segreti, non ci sono allusioni: cose e persone sono chiamate con il loro nome…».

Questo l’intervento del professore, oratore gustoso e coinvolgente, che si conclude con i riconoscimenti agli intervistatori. E sono nuovamente – pur riprese pari pari dalla introduzione firmata al libro – parole di riconoscimento e d’affetto. Penso alle mie, in questa circostanza, e ne ritrovo, nella sua voce e nella sua intonazione, e nei suoi incisi, il sapore ed i colori appunto dell’amicizia da lui sempre dichiaratami con tutta generosità: «… dal mondo della banca, allievo di banchieri-umanisti – è un accenno a Bachisio Zizi, affettuoso accenno a questo romanziere di valore – s’è sforzato di cogliere ed interpretare gli infiniti nessi fra economia e potere, fra cultura e società, ed ha secondato la vocazione alla scrittura coniugandone l’esercizio all’indagine della storia civile di Cagliari, della storia delle minoranze sconfitte e – su un altro fronte d’impegno – alla scommessa su nuove geometrie politiche: quelle dell’alleanza a sinistra, fra le moderne forze di progresso, quelle che si nutrono della linfa europea, fuori da ogni populismo».

Parole che, ho detto, erano già di autopresentazione nel lungo corsivo introduttivo al libro-intervista, e che anzi s’aprivano con un richiamo ancora più netto alla personale identità ideale: «muovendo dal suo solitario liberalismo cristiano, ha vagato fino a raggiungere sponde di remota origine democratica e mazziniana, confermando anche negli approdi ultimi la sua totale indipendenza intellettuale».

Tutto questo era ritornato nella interlocuzione con il sindaco guelfo temperato dal liberalismo delle ascendenze Ballero in chiave bacareddiana, con il sindaco elettore della Repubblica nel giorno fatale del 1946 che onorava doppiamente Garibaldi, e trovava come un suggello nell’armonia oratoria di Antonio Romagnino, nei suoi riconoscimenti, perfino nel suo riconoscibile, non nascosto, idem sentire.

Sardismo e sardoAzionismo, democrazia e repubblica

Nel 1990 do avvio ad una serie di studi (e di libri) che, disseppellendo dalla dimenticanza, documenta ampiamente la vitalità di quel certo sardismo anni ’40, animato da spirito patriottico italiano ed impegnato, con le altre correnti della democrazia, del liberalismo, del socialismo e del popolarismo, nella grande battaglia per la Repubblica e la Costituzione. E’ mio non celato intento quello di opporre a certo neosardismo etnicocentrico e nazionalitario, distruttivo di ogni vincolo perfino civile (e non solo politico) con l’Italia, la storia provata delle stagioni di compromissione sardista con i valori chiamati “universali”, oltre il mito angusto della “piccola patria”, e dunque di marcia affiancata (e talvolta interna, integrata in termini di militanza) al movimento antifascista di Giustizia e Libertà e poi all’Azionismo lussiano e parriano/lamalfiano.

Il primo volume della serie è Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano. E quando capiterà, pochi mesi dopo, che l’associazione Amici del libro dedichi alla figura di Pintus – primo sindaco di Cagliari nel dopoguerra e nel dopo liberazione – una conferenza di Maria Rosa Cardia, ecco il professore accompagnare l’evento su L’Unione Sarda con un articolo che richiama esplicitamente, e non senza un cenno autobiografico, il mio libro. Succede il 7 maggio 1990 (“Storia di un sindaco-bambino che amava la religione della libertà”, con occhiello “L’impegno civile di Cesare Pintus” e sommario “Redattore di questo giornale e primo cittadino in anni molto difficili lascia affiorare una grande figura di antifascista”). Lo scritto è poi ripreso in Farfalle & altro, Cagliari, Edizioni Castello, 1997, pp. 86-88, con il titolo di “Un sindaco bambino”. Eccolo:

«Una volta Massimo Cacciari ha detto di non capire in nessun modo il significato della differenza fra “laico” e “religioso” e che insomma quell’antitesi è artificiosa e superficiale. Se lo avesse potuto conoscere, quella diversità-identità gli sarebbe parsa vivente nell’avvocato cagliaritano, che fu sindaco della sua città fra il 1944 e il 1946, e prima redattore de L’Unione Sarda. Del laico, Cesare Pintus aveva la lucidità del pensiero, la fede in un’umanità associata, la crociana “religione della libertà”; della pratica cristiana aveva la solidarietà, la nativa capacità di consonare con il prossimo, di coglierne quanto di meglio riesce ad emergere.

«Nel libro di Gianfranco Murtas Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano pubblicato nelle edizioni Alternos fra le tante testimonianza raccolte su questo personaggio ce n’è una che sembra assommarle tutte. “Uno spirito di bambino buono e onesto” ha detto di lui Andrea Borghesan, che conosce Pintus nello studio dell’avv. Mario Pino dopo qualche anno che era ritornato dal carcere di Civitavecchia dove aveva scontato una parte della pena inflittagli per antifascismo il 23 giugno 1931 e quando tentava di riprendere la professione dopo essere stato anche espulso dall’Ordine degli avvocati per le stesse ragioni politiche. E il giudizio di Borghesan concorda con quello di Giovanni Lay, cui una militanza politica diversa e financo remota rispetto a quella mazziniano-repubblicana di Pintus non fa velo per questo riconoscimento: “Fece bene” egli ha detto con riferimento all’esperienza del sindaco espresso dal CLN che fu Pintus  “perché era uno che sapeva legarsi alla gente. Era uno che riceveva  tutti. Si attivò fino all’esaurimento di tutte le sue energie”. Queste erano state minate gravemente dal carcere e in quell’anno e mezzo che guidò la città, il lavoro per restituire Cagliari ad una misura umana accettabile dopo le distruzioni della guerra, era enorme. Non sorprende che le fatiche di cui si caricò con la umiltà di sempre lo abbiano poi travolto facendolo morire nel sanatorio di Prà Catinat presso Fenestrelle alla fine d’agosto del 1948.

«C’è una memoria che lo rivede quasi scomparso dietro un cumulo di carte in un ufficio del palazzo comunale appena un poco rialzatosi sulle macerie. Sono le domande e ancor più le suppliche di decine di migliaia di sfollati e di senzatetto che chiedono una casa. La commissione esaminatrice è ristrettissima: il sindaco appunto, mons. Mario Piu il parroco di Sant’Anna, e un reduce che l’Associazione dei combattenti, presieduta da Virgilio Caddeo, ha designato a questo compito. Il giovane veste uno splendido abito di gabardine che nelle strettezze generali è quasi un insulto e che non è altro invece che quanto la sorte gli ha procurato facendogli utilizzare più opportunamente per l’uso civile un taglio di stoffa acquistato nella prigionia americana per farsi una divisa. Nella stanza di quel rigido inverno fra il 1945 e il 1946 fa un freddo cane e il sindaco sembra quello che sta peggio di tutti e tre: ha le scarpe che l’assistenza del tempo gli ha assegnato quando era sfollato, non veste lo splendido abito di taglio “inglese” del giovane “reduce” che gli siede accanto. Ma la prestazione che fino a notte inoltrata riversa su quelle carte è esemplare: le legge ad una ad una senza concedere deleghe, e se ne levano grida di dolore, miserie senza confine, l’immagine di tutto un popolo che la tragedia ha disumanizzato. Cesare Pintus in quella gelida solitudine sembra ancor più Cesarino, come lo chiamavano affettuosamente gli amici ed ancora lo chiama la memoria cittadina men sorda, e cioè il sindaco che nella impotenza cui lo condannano i bisogni dell’ora può porgere a quei derelitti solo la sua mano di “bambino”. Una mano gelida, che si farà ancora più fredda, quando varcherà la soglia di quell’atroce carcere senza ritorno che fu per lui Fenestrelle, nella lontanissima Val Chisone».

Ancora su Cesarino Pintus, mazziniano e lussiano

Ritornerà, il professor Romagnino, a scrivere di Cesare Pintus, prendendo spunto da un nuovo libro monografico da me stesso stampato soltanto per dare onore al protagonista nel centenario della nascita e donato in qualche decina di copie ai consiglieri comunali ed agli assessori della giunta – da me non stimata né amata – di Emilio Floris (incapace perfino di ringraziare). Ne scriverà ancora su L’Unione Sarda, sì dandomi meriti (in questa ripresa antologica non espungibili), ma essenzialmente riportando la figura del sindaco della liberazione, mazziniano repubblicano-sardoazionista, alla considerazione della città dimentica.

Ecco così, con semplice occhiello “Memorie”, “La forza di Cesarino”, il 3 agosto 2001:

«Gianfranco Murtas è un valoroso studioso che non solo scrive i suoi libri di storia politica, ma anche li pubblica. Intendiamo dire, a sue spese, senza la fatica delle attese e delle difficoltà editoriali. Così è anche di questo suo ultimo saggio, intitolato Cesare Pintus e pubblicato dalla Biblioteca del sardo-Azionismo, che è già esso stesso un titolo che prefigura il personaggio che nell’opera campeggia, il cagliaritano Cesare Pintus, che nacque cento anni fa, il 4 agosto 1901, studiò al Lice “Dettori”, si laureò in Legge nella nostra Università, conobbe l’esilio e il carcere dell’antifascista, fu Sindaco di Cagliari dal 9 ottobre 1944 al 17 marzo 1946, morì nel Sanatorio Agnelli di Prà Catinat il 1° settembre 1948.

«Politicamente si era formato nel Circolo giovanile repubblicano, il suo Mentore fu il coetaneo Silvio Mastio, che Murtas giustamente chiama “l’arcangelo della democrazia repubblicana, il Gobetti sardo”. Si arricchirono l’un l’altro, fin dalle prime classi elementari, insieme traversarono nella vita politica l’etica mazziniana. C’era in loro qualcosa di religioso e l’antifascismo attingeva a quella mistica della libertà che proveniva dal Risorgimento.

«La sua lotta si fa aperta dopo la morte di Matteotti, e il movimento interpartitico di Giustizia e Libertà, insieme laico e repubblicano, liberale, socialista e radicale, lo ha come number one dell’organizzazione nell’Isola. Lussu viene arrestato nel 1926, e nel 1930, quando nel resto d’Italia vengono arrestati Ferruccio Parri ed Ernesto Rossi, a Cagliari viene arrestato anche “Cesarino”, come lo chiamavano gli amici, con altri sardi altrettanto combattivi: a Sassari e a Nuoro, Luigi Battista Puggioni, Dino Giacobbe, Michele Saba, Anselmo Contu.

«Il 27 giugno 1931, processato insieme a Francesco Fancello, arrestato a Roma, fu condannato a dieci anni di reclusione, dal Tribunale Speciale. Ne fece cinque, per l’indulto che fu concesso dal fascismo per la celebrazione del decennale della marcia su Roma.

«Da allora cominciò a praticare, tra grandi difficoltà, la professione di avvocato. Ma quando Cagliari fu tra le prime città d’Italia a conoscere la libertà, poté anche realizzare la sua vocazione più profonda. Entrò nella redazione de L’Unione Sarda, diretta, fra il 1943 ed il 1946, prima da Jago Siotto, e poi da Giuseppe Musio, dove, fra gli altri, pubblicò tre articoli dal titolo significativo: “Uscire dal limbo” (8.12.1943), “Mazzini” (10.3.1944), “Saluto a Emilio Lussu” (23.6.1944), e il libro di Murtas è anche particolarmente ricco di testimonianze di questa vita breve e ricca, dolorante e altamente educativa.

«Sono numerose le lettere raccolte, che Pintus scambia con gli amici, dal luogo delle sue sofferenze: voci di dolore, ma sempre anche di speranza. Pure cospicua è la testimonianza postuma. Accanto a Giovanni Lay, Virgilio Schinardi, Fausto Cara, Antonino Lussu, c’è anche Andrea Borghesan che così lo ricordava: “Uno spirito di bambino, buono ed onesto… Povero, anzi poverissimo, Pintus – espulso dall’Ordine degli Avvocati nel 1931 – ha bisogno di tutto: e dai suoi colleghi di studio riceve perfino gli abiti di cambio. Gli vengono affidate alcune cause, benché l’esperienza professionale – proprio a motivo dei condizionamenti politici subiti (arresto, processo, carcere) – non sia grande”… Ma Cesarino la pensava come Ferruccio Parri che, ricorda Enzo Biagi, diceva: “Che cosa importa se ho la cravatta storta, il colore del mio vestito, se mangio pane e salame?”».

Il bilinguismo negli speciali di Sardegna Uno

Mentre procedo nella pubblicazione degli studi sul sardoAzionismo – in ciò spinto dall’associazione Cesare Pintus, costituitasi a Cagliari nel 1988 sotto l’abile presidenza di Salvatore Ghirra e cui fornisco per variati anni una intensa collaborazione (escono in successione Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, Bastianna, il sardoAzionismo, Saba, Berlinguer e Mastino, ed infine Titino, il PSd’A mazziniano, Fancello, Siglienti, con i due allegati Alla fabbrica della Repubblica e dell’Autonomia), riprendo nel 1991, per qualche mese, il trascorso (e sempre gratuito) mestiere di curatore di rubriche televisive, realizzando per l’emittente Sardegna Uno, con un gruppo di giovani amici (Maurizio Battelli, Vito Biolchini, Elio Masala, Massimiliano Rais ed Armando Serri) una trasmissione settimanale della durata standard di mezz’ora (tranne uno speciale) dal titolo “Zibaldone”, che guarda al mondo della editoria, della stampa, delle biblioteche e del dibattito sulle idee in Sardegna. Ancora una volta il professore – generosamente concessosi ad ogni altra chiamata – non può mancare.

Unendo gli sforzi della redazione, promuovo un dibattito serrato, concettoso e di grande effetto, fra Antonio Romagnino e Francesco Masala circa lingua e letteratura italiana e lingua e letteratura sarda, sullo sfondo delle grandi questioni, non prive di uno specifico peso politico, sull’identità regionale (o nazionale) sarda in rapporto al vasto mondo ed in primo luogo all’Italia e all’Europa. Particolarmente efficace la difesa compiuta dal professore della piena originalità sarda da riconoscersi alla cultura urbana, intendendo egli – svincolato dalle suggestive categorie ideologiche anticolonialiste di Masala – sottrarre la “sardità” alla stretta giustapposizione alla cultura ruralista, agricolo-pastorale, ritenuta invece parte e non il tutto della dimensione identitaria isolana.

Quando si potrà sbobinare il nastro registrato, sarà estremamente interessante godere anche della lettura di quel dibattito, acceso e insieme cordiale, fra i due intellettuali, e trarne motivi nuovi di riflessione. Per intanto c’è, da parte mia, il proposito di presentare quella registrazione nel reading programmato per il prossimo 2014.

Nella memoria di Titino Melis

Nel 1993 do alle stampe un volume che sfiora le ottocento pagine e vuole suonare la campana dell’indistruttibile italianismo del Partito Sardo d’Azione: si tratta della raccolta di tutti gli interventi parlamentari di Giovanni Battista Melis nella prima e nella quarta legislatura repubblicana. Titolo: Con cuore di sardo e d’italiano…. La copertina allude, con i rimandi formali e cromatici alla bandiera dei Quattro Mori ed al Tricolore, ai necessari nessi storici e costituzionali, ma prima ancora ideali, fra Sardegna ed Italia.

A questo libro fa sobrio riferimento, ancora una volta, il professore scrivendone, molti anni dopo, in Preferisco il rumore del mare, Cagliari, Cuec, 2005. Eccone il testo:

«E’ stato il più autorevole rappresentante delle idealità sardiste nel secondo dopoguerra. “Più giovane – rispettivamente di 13 e 21 anni – di Lussu e Mastino” ha scritto Gianfranco Murtas nel libro da lui curato e intitolato Con cuore di sardo e d’italiano… Giovanni Battista Melis deputato alla I e IV legislatura repubblicana, “Giovanni Battista Melis recò al dibattito civile e politico della massima assemblea legislativa dello Stato repubblicano  l’apporto di un’esperienza che si era nutrita degli impoverimenti di un isolamento coatto, imposto dall’egoismo delle volontà umane più ancora che della natura”. Un libro di ben 763 pagine contenenti interventi di Gianni Filippini, Lello Puddu, Maurizio Battelli, Elio Masala, Marco Piredda, Massimiliano Rais, Elena Melis e dove si legge anche questa pagina, intitolata “Civis calaritanus, per la Sardegna”, del deputato nuorese e avvocato nel foro cagliaritano, particolarmente legato alla città capoluogo della Sardegna: “Ho riportato la bandiera sardista nel Comune di Cagliari. Al popolo di questa città capitale avevo rivolto un appello dal giornale L’Unione Sarda, in cui sostanzialmente si diceva che finora gli amministratori di Cagliari avevano fatto una politica spicciola, mortificando il ruolo di una città  che è la sede dell’autonomia sarda…”. E’ uno dei ricordi e speranze che aveva fissato in un diario, dove s’augurava che anche le comunicazioni della città migliorassero con la creazione di una metropolitana e che Cagliari, nell’immediato si affacciasse di più sull’Isola, attraverso un più stretto legame con l’hinterland. E aggiungeva : “Io ho posto il problema del porto e del suo sviluppo, un porto canale e container, come consigliere comunale. Anzi ricorderò che per le mie continue insistenze  si istituì una commissione regionale, a cui chiesi che venisse aggregato il sindaco di Cagliari di allora (De Magistris), commissione che fu ricevuta dal ministro Caron… Io esposi il problema di una città come Cagliari, stretta fra due stagni e il mare, che ha perciò un porto angusto, senza facilità di estensione e di raccordo con il retroterra”.

«Lo disse anche il 25 maggio 1962, alla seduta del Consiglio Comunale di Cagliari: “io parlo, rappresentante del Partito Sardo d’Azione che ha combattuto da oltre 40 anni con generosità, con competenza e l’anima ribelle e amorosa, fino ad oggi, sempre presente, sempre fedele, senza tentennamenti per questo traguardo storico, questo glorioso sardismo a cui tutti sono così avari di riconoscimenti, e che è l’onore e la dignità della Sardegna cha ha posto questo problema di giustizia e si avvia a realizzare questa conquista. E’ questa città di Cagliari che deve avere il ruolo di stimolo e di guida. Perché è la città che raccoglie gli interessi massimi politici ed economici e deve avere il cuore se vuole bene meritare della Sardegna ed essere degna del suo ruolo perché la Sardegna rinasca. Questa città con tutti i centri (Sassari, Nuoro, Tempio, Olbia, Oristano, Carbonia, Iglesias, Lanusei, Ozieri, Alghero, ecc.), che caratterizzano la vita e gli aspetti economico-sciali dell’Isola, deve intervenire per interpretare le zone omogenee, per stimolare, consigliare, indicare le soluzioni nello spirito dell’ordine del giorno, che io ho sinteticamente illustrato, come in questa solenne assemblea”».

Nel cinquantennale della Repubblica sognata

Un altro importante appuntamento d’incontro con il professore lo realizzo nel 1996, cinquantesimo del referendum istituzionale e delle prime elezioni politiche dopo la lunga vacanza della dittatura, quelle per l’Assemblea Costituente.

Coinvolgo il professore in una doppia fatica: in una intervista-conversazione sulla sua esperienza di prigionia di guerra in America, fra 1943 e 1945, e sul suo rientro in Italia e a Cagliari, con la sua complicata e problematica partecipazione anche alla lotta politica con il Partito Liberale di Francesco Cocco Ortu (complicata e problematica per via della sgradita confluenza che si avrà presto dei qualunquisti di Giannini). E dopo ancora, nella presentazione del libro, che il testo di quella conversazione avrebbe compreso, unitamente a molte pagine dedicate ai programmi politico-amministrativi dei maggiori partiti nella Cagliari del 1946. Né, in verità, solo a loro: anche all’atteggiamento di due grandi istituzioni morali od etico-civili – come la Chiesa cattolica e la Massoneria – rispetto alla questione istituzionale. Avviene il 17 giugno nella sede degli Amici del libro, nel palazzo municipale, lunedì 17 giugno, con Gianni Filippini, Walter Angioi, Ottavio Cauli, Giovanna Crespellani, Simonetta Giacobbe, Salvatore Pirastu, Achille Sirchia e Marcello Tuveri.

Parla il professore, con signorile rispetto carezza l’autore, ma poi soprattutto entra nel merito, con un inquadramento storico delle vicende del 1946, illuminate da uno sguardo non provinciale, ma continentale e perfino mondiale, coinvolgendo le sue personali esperienze americane e le riflessioni, forze parziali e contraddittorie, di politologi e storici nazionali come Galli della Loggia o Panebianco, o più condivise come quelle di Gian Enrico Rusconi, e le interpretazioni di studiosi stranieri di diversa scuola come un Hobsbawm od un Aron…

La sbobinatura del testo – un parlato mosso, lucidamente magistrale e affabulatorio insieme – è costata forse qualche imprecisione, qualche aggiustamento, che però non ha alterato il documento, il suo rilascio ragionato e misurato. Essa meriterebbe il ripasso di uditi più fini, e sarebbe cosa preziosa perché pare evidente trattarsi di una testimonianza orale di un Romagnino intimamente preso dalla centralità di quelle discussioni apertesi circa l’identità nazionale, e perfino sulla sussistenza della nazione, quale appariva all’indomani della firma dell’armistizio e della dispersione delle forze militari regolari e, anche, dell’invasione tedesca. Il clima sociale e politico del De profundis di Salvatore Satta, insomma. Osservazioni importanti, quelle del professore, che per arrivare al 1946 partiva dal cruciale 1943, e che pareva chiedere, sollecitare l’opinione “a confronto” degli altri presenti, suoi coetanei, in quella sala di riunione degli Amici del libro. Osservazioni di verità soggettiva espresse in quegli stessi anni, e più ancora avverrà negli anni successivi, in diversi dei libri consegnati all’editore e confezionati dal professore secondo la modalità del “frammento”.

Soprattutto questa riflessione miscelante vita vissuta ed elaborazione sarà presente in Diario americano, che è del 2003, utilmente preceduto da numerose anticipazioni lungo un intero decennio. Credo che gli anni ’90, con il crollo partitocratico senza la rigenerazione della democrazia – ché passare dal malgoverno dei De Mita e dei Craxi a quello di Berlusconi non poteva rappresentare alcuna svolta in meglio –, abbiano costretto il professore a rifare i conti con le origini profonde della democrazia italiana postbellica e le sue contraddizioni.

Alcuni dei passaggi del racconto-diario che proporrà nel suo bellissimo Prisoner of war, 1943-1945, torneranno in vario modo nell’intervento a braccio, misurato e appassionato insieme, svolto nell’incontro per la presentazione del mio 1946, l’anno della Repubblica. Forse questi soprattutto, del suo bagaglio di ricordi personali: «Gli storici si sono di recente divisi fra chi fa risalire la profonda crisi della nazione alla sconfitta nella seconda guerra mondiale e quindi alla resa dell’8 settembre, e chi, invece, individua nella Resistenza un tentativo di recupero dell’identità nazionale, chiusasi con il 25 aprile 1945. E sono sempre le une e le altre faticose conclusioni, cui perviene il pensiero storiografico. Cocco Ortu vide con occhi lucidi la crisi devastante di lunghi anni, vivendoli senza illusioni…». «Quelle due creature, Cesare Bolognesi e Francesco Tumiati, furono protagonisti in quella rieducazione alla libertà che Stefano visse fra la giovinezza e la piena maturità…».

Eccolo dunque il testo come sono riuscito a recuperarlo (con le sbrecciature di cui ho detto, e in attesa di collaborazioni per ottenere finalmente l’integrale):

«Lasciate che io aggiunga alle lodi che sono state legittimamente dedicate all’autore, all’ideatore di questo libro, che è Gianfranco Murtas, la mia… Io sono lo scopritore di Gianfranco Murtas, perché era un ragazzo, e allora la scuola si occupava dell’Europa, molto: eravamo federalisti, eravamo europeisti, credevamo che l’Italia si sarebbe fatta anche nel più vasto mondo dell’Europa… E questo ragazzo, questo ragazzetto, che sarà stato all’ultimo anno della scuola media superiore, vinse le gare che venivano organizzate dalla scuola con un determinato svolgimento, lo svolgimento di determinati temi. E da allora, credo che ci siamo sempre frequentati seppure con certe inevitabili intermittenze. E quindi ho gradito molto, non lo nascondo, che nella vecchiaia mi venisse chiesta un’intervista, mi fosse chiesto che rilasciassi un’intervista… Di fatto era una confessione, una testimonianza, anche se la parola testimone mi sta stretta, nel senso che non la merito e la metto invece accanto ad esempio a Michele Columbu e ad altri che vedo qui, che hanno vissuto da protagonisti quel tempo e quello successivo che è legato strettamente al 1946…

«Io non ho fatto attività politica se non a lunghi intervalli e poi, ogni volta che mi sono affacciato ad una elezione, sono stato bocciato, quindi non posso, non potete caricarmi di responsabilità. Però, ecco, questo credo di poterlo estrapolare dalla vita che è giunta all’ultima volata: si sono sapute sempre le mie idee. Non ho mai nascosto come la pensavo e forse è per questo ha creduto Gianfranco di consultarmi nell’evocazione del 1946. Aggiungerò che ho avuto una breve militanza politica… Credo di poter dire qualche cosa, che può anche uscire nuova…

«Io sono legato ai libri e questo non costituisce solo una forza ma anche un limite preciso, insomma la cultura libresca non fa molta pace e rapporto facile con la politica e direi che proprio da un aspetto della cultura contemporanea si può prendere lo spunto per una qualche meditazione utile sul tempo irrequieto, tempestoso che viviamo. Poi politologi agguerriti, sicuramente di grande forza, accademica anche, forza di cultura accademica, si occupano in questi anni di un male che è centrale nella malattia del paese: se esista una nazione. Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Gian Enrico Rusconi… Ecco, devo dire, io mi sono trovato spesso presso questi giovani interpreti dove… – giovani rispetto a chi vi parla e che sono illuminati – mi sono trovato con qualche disagio: m’è sembrato che il quadro che essi ricostruivano di quegli anni drammatici che ricordo, dal 1943al 1945, quasi essi non fossero quelli che avevo vissuto…

«La domanda che corre presso i politologi, da quei politologi, è se la crisi della nazione italiana discenda dal 25 luglio, oppure dall’8 settembre. Sembra una questione puramente cronologica. Non lo è. Dalla caduta del fascismo abbiamo cessato di essere in una nazione oppure abbiamo cessato di esserlo…  secondo l’interpretazione pessimistica, dal momento in cui abbiamo ceduto le armi e ci siamo arresi agli eserciti che risalivano dalla Sicilia fino al cuore dell’Italia. E’ una domanda che rischia di avere risposte parziali e di parte.

«Si mettono insieme problemi diversi, il problema della pacificazione del nostro paese è una cosa a sé stante. La pacificazione è un dovere della democrazia. Non importa con chi si sia stato, importa se condividi gli ideali fondamentali del vivere libero. Questo. E invece riapplicare quegli schieramenti è un argomento diroccante nelle prose di Panebianco, Ernesto Galli della Loggia; meno, anzi senz’altro no, nella prosa di Gian Enrico Rusconi, il cui libro è stato significativamente pubblicato dal Mulino che è la casa editrice che adombra il traguardo che dobbiamo raggiungere: l’incontro tra laici e cattolici, che tormenta tutta la storia d’Italia dal suo sorgere, dal sorgere dell’unità, fino ad oggi. Pubblicato dal Mulino, questo libro di Gian Enrico Rusconi che ha un titolo significativo – “Se cessiamo di essere una nazione” – … E cosa accadrebbe se cessassimo di essere una nazione? Perché? Un testimone, come ho detto di essere in sostanza… non correggo certo niente, di esserlo, certo non si trova nell’interpretazione di una generazione giovane di quegli eventi che ha vissuto. Perché dire che noi avremmo conosciuto… la vergogna della sconfitta?

«Io non ho conosciuto la vergogna della sconfitta. E non l’hanno conosciuta gli altri molti che combattevano in Africa, che conclussero la guerra in Africa nel maggio del 1943. Noi sapevamo che la guerra avrebbe portato la sconfitta, e quella sconfitta avrebbe prodotto la riabilitazione e la resurrezione dell’Italia. Di questo come si fa a non tenerne conto? … E il sentimento di tanti italiani. Ci sono volontari di guerra, non bisogna nasconderlo pure questo, che sono andati per un dovere morale.

«Io porto la testimonianza di un mio compagno d’armi. Si chiamava Bolognesi, si chiamava Cesare Bolognesi, era un emiliano, era anzi in particolare un romagnolo. Collaboratore giovane di Capelli. Doveva fare delle pubblicazioni… e la madre che veniva a trovarci… e il padre che veniva a trovarci nella caserma di Porta Pisa a Siena, invocava a suo figlio di non partire perché un altro fratello era morto tempo prima e Cesare – Manara Valgimigli era il suo professore all’università di Padova – disse: io parto perché altri non sanno niente, contadini, operai, sono dovuti partire.

«Ecco, il senso morale, del volontariato, con l’altra testimonianza di un ferrarese, Francesco Tumiati, appartenente a una famiglia di alta borghesia, da cui c’erano usciti scrittori, da cui erano usciti teatranti… agognavano, o forse no…  la madre capì che… maturavano una scelta drammatica.  E quando ci fu il rastrellamento , questo giovane… e si fece fucilare dai tedeschi ed era stato due anni prima, volontario di guerra. Questa è la valutazione lenta e deve lasciare circa qualche dubbio dei conti, circa l’altezza dei conti.

«… C’è un lungo e faticoso percorso per quelle generazioni che ha fatto la guerra dal 1940 al 1945 … e c’è anche l’altra, la guerra civile, come si chiama adesso, la resistenza. Io ho avuto una fortuna: sono stato catturato e sono stato mandato in America e gli americani, i prigionieri americani, erano la minoranza rispetto alla folla dei prigionieri di guerra, negli anni precedenti, erano stati catturati dagli inglesi. In Kenia, in India, in Egitto, erano pieni di campi di concentramento italiani in mano agli inglesi… Perciò chiesero, gli inglesi agli americani, che se ne prendessero un po’. Gli americani non si sprecarono, se ne presero soltanto cinquantamila.

«Nei campi di concentramento è continuata quella rieducazione democratica, magari libresca… Un parroco di non so quale paese o villaggio dell’America, ci diede una quantità di libri, per fare la biblioteca di campo. Erano in maggioranza vite dei santi. Quando sono rientrato dalla prigionia sapevo dei santi più oscuri, sorprendevo tutti, con piccolezze, poi la mente ha cancellato tutto… Ma leggevamo sopratutto i giornali.

«Come si fa a non pensare che dal 1943/1945 la generazione si è informata attraverso i giornali, leggendo il New York Times, il Washington Post, magari lo sconosciuto e sottile Crystal shine moscow giornale bostoniano della città di Kel  di democrazia più attiva, più precisa?

«E come si fa a negare…, e qui i prigionieri di guerra non erano degli stupidi, erano delle creature che crescevano nella libertà e nella giustizia… come si fa a negare le scelte che avevano fatto dopo l’8 settembre? Erano le stesse scelte, cruente quelle, che facevano i partigiani nel resto d’Italia. Questo è il sale che dobbiamo compattare, non demonizzare, chi ha fatto un’altra scelta. Noi non abbiamo pianto mai, abbiamo svezzato collaboratori, siamo diventati collaborazionisti. Noi collaboratori siamo rimasti nei campi a lavorare, o altrove, dal Missouri al Nebraska, ma gli uomini di altri [fronti], che rifiutavano le collaborazioni, che magari si chiamavano Giuseppe Berto lo scrittore, oppure Troisi il commediografo, e magari Gaetano Tumiati, il fratello di Francesco, che morì fucilato dai tedeschi, e che poi lui – Gaetano – diventò giornalista del Corriere della sera, un elettore del partito socialista… Drammatiche scelte… Quello che viene a sapere, tornato da Ferrara, che il fratello è morto fucilato … Ma si è cresciuti attivamente, cresciuti alimentati dalle speranze.

«Gianni Filippini con grande sottigliezza ha ricordato quegli eventi, con grande accortezza data la sua giovane età allora: monarchia o repubblica, misuriamola qui, in questa città che conosciamo, che punzecchiamo tante volte, dei suoi ceti, delle sue classi, della sua borghesia. I repubblicani erano pochi, nel partito nel quale io ho militato, il Partito Liberale, io ne contavo tre, eravamo certamente i più… io, Nicolò Fara Puggioni e il dottor Marcello. Gli altri erano monarchici, era una scelta che rispettavamo, ma eravamo anche repubblicani in America, questo era il punto. Nei campi di concentramento è nato il problema presto, perché si doveva sapere cosa si sarebbe fatto, ritornati in Italia, e questo problema era tramato dagli ufficiali effettivi. Gli ufficiali effettivi avevano giurato: tutti abbiamo giurato, ma non avete giurato alla chiesa, ma avete giurato allo stato…

«Sono stato cresimato in America, dall’arcivescovo di Saint Louis, e si mise il problema del padrino. Avevo fatto amicizia con questo ufficiale in servizio permanente effettivo, un capitano, a cui chiesi. Lui all’inizio fece resistenza, poi accettò… Era di quelli che aveva il dubbio ed era un ufficiale che avrebbe fatto una splendida carriera. Ora è morto. Fu il comandante dell’arma dei carabinieri durante il sequestro Moro. Si chiamava Pietro Corsini. Leggeva Shakespeare e lo recitava con grande efficacia e altre letture avevano riempito la sua vita. Questa è forse cronaca, non storia, ma la storia non si può imporre, senza avere anche un po’ frequentato, zappettato, queste esperienze minori, per nulla taglieggianti… La funzione c’era, ma era tormentata insomma… E volevo dire perché, quando quei prigionieri tornarono, avevano realizzato una rieducazione democratica.

«Quei prigionieri non furono estranei ai dibattiti del 1945/1946 che si tengono in questa città. Certo era libresca la conoscenza che essi avevano della democrazia, anche quando collaborarono, nei luoghi dove operarono. I militari vivevano come avevano vissuto i militari americani. Le forze erano autosufficienti, solo noi abbiamo i militari nelle città. Gli americani li hanno distanti, non li conoscono, non li vedono mai. La nostra è una organizzazione d’impresa, non avevamo conosciuto ancora gli americani, avevamo conosciuto quello che degli americani s’era scritto. E ci accompagnava alle lezioni di Tocqueville, della Democrazia in America. Pensate che ha scritto… più di un secolo fa, un secolo e mezzo fa, nel 1830/1840, e già da allora gli americani davano più importanza al sindaco che non al rappresentante dell’assemblea politica. Sapevano che la democrazia vera era quella data dal vicinato. Da quegli anni, da alcune testimonianze di Tocqueville, avevano già a scuola le menti all’habitat, corrispondenti alle regioni come noi le chiamiamo. Avevano le scuole di contea. Questo era e questo ci faceva vivere di speranze, la scelta democratica repubblicana aveva questi punti.

«Quando la stampa americana, democratica, salutò, non con la gioia del vincitore, ma con la simpatia del democratico, l’“unconditional surrender” dell’Italia, la resa incondizionata dell’Italia, nei giornali, apparvero due immagini indimenticabili: una era di Luigi Sturzo, e l’altra era di Emilio Lussu. Dei militari ribaltavano il futuro, credevano fermamente che l’Italia sarebbe stata l’Italia democratica incarnata da Emilio Lussu, la parte laica, e da Luigi Sturzo, la parte cattolica. E in parte è stato tutto questo, ecco perché il 1945/1946 fu più complesso di quanto si possa pensare.

«Io non insisterei sulla vergogna che ci avrebbe perseguitato e diviso, che sarebbe arrivata sino a noi nella sconfitta e spiegherebbe la crisi della nostra nazione. In realtà il nostro paese ha pagato conti al materialismo che ha trionfato; ha pagato conti altissimi all’economicismo che ha trionfato o sta per trionfare. Le idealità sono uscite dai cicli nazionali, dalla scuola, dalla famiglia, e li dovrebbero rientrare. Io mi auguro…

«Volevo dire solo queste cose e aggiungervi una cosa in particolare: accanto a questa pubblicistica più attenta e più sofferta nei confronti del travaglio del nostro paese in questi tempi, c’è una pubblicistica, più internazionale che nazionale, ch e guarda, dagli anni, millenni precedenti, al buco nero del terzo millennio. Qui c’è stata la presentazione di un libro fondamentale, che è il libro di Eric J. Hobsbawm e cioè Il secolo breve, breve non perché sia durato o durerà meno dei cento anni, del secolo, ma breve per l’accelerazione che sembra avere avuto, una densità, una intensità, un’accelerazione che però sembra negativa, di stragi, di persecuzioni, di sconfitte degli ideali comuni.  Si salvano due valori, due eventi: si salva – un marxista, ma un marxista anche influenzato da altre culture, dice che si sono salvate, nel Novecento, due questioni – … l’avvento delle donne, la vittoria del femminismo, e l’avvento del quarto stato. Può non essere così, è una visione amara.

«Ma non è il solo che si è occupato della fine di questo millennio e dell’avvento dell’altro, ce n’è stato qualcuno un po’ prima e però l’ha sentito gli ultimi anni, il titolo della sua opera, ed è Raimond Aron, …che era un collaboratore di Malraux, quindi una posizione di destra, liberale di destra, … e dice che non bisogna essere illusoriamente pacifisti, né illusoriamente catastrofisti, né pendere o far affacciare, sugli ultimi anni, la minaccia della catastrofe e neppure pensare che l’uomo diventi tutto buono, incapace di qualsiasi conflitto, incapace di qualsiasi errore. In fondo, a percorrere quell’evento che va dal 1943 al 1945 e che poi ci tramanda il cinquantennio che abbiamo vissuto con la scelta repubblicana, può servire il messaggio di Aron: si deve vivere il tempo nella lotta, nel conflitto, senza però demonizzare e senza ipotizzare catastrofi».

Il tricolore ed i quattro mori

Giovedì 12 dicembre dello stesso 1996 presento in una sala del Mediterraneo a Cagliari il libro Storia del cavaliere senza macchia e senza paura, con gli appunti autobiografici di Giovanni Battista Melis e supporto di note introduttive e di commento. Il professore interviene nel dibattito che si apre dopo le relazioni di Tito Orrù, Vindice Ribichesu, Salvatore Cubeddu, Vito Biolchini ed Armando Serri. Interviene impreziosendo – al pari di Mario Melis – un approfondimento che può aiutare a comprendere l’opera scritta e il suo protagonista, ma anche gli scenari nuovi che si aprono nella contemporaneità, nella dialettica democratica corrente fra Stato e Regione e che richiedono coscienza civile e sentimento politico forse scomparsi nelle dotazioni elementari di chi pur è chiamato alla rappresentanza o alla guida dei partiti.

Quando possibile vorrei procedere allo sbobinamento dell’intervento (così come di quello reso al convegno, di cui dirò, in onore di Lucio Lecis Cocco Ortu), sospeso fra storia e cronaca, in quella logica che ancora una volta si fa largo, della storia sempre contemporanea. Rivede la Cagliari remota, il professore: la Cagliari del primo fascismo e del primo antifascismo (che è poi, sul piano personale, quella della sua prima infanzia), e la Cagliari della ripresa postbellica, del rilancio democratico, teatro della istanza autonomista che recupera ragioni e strumenti, pur se non tutto sembra ancora chiaro in quella seconda metà degli anni ’40. Il tempo dell’uscita dei primi giornali di partito, dei partiti risorti a vita nuova: Il Solco sardista, proprio con Giovanni Battista Melis direttore e columnist (e Pietro Melis facitore pratico del giornale), ma anche Rivoluzione liberale a direzione Cocco Ortu e con il reduce Antonio Romagnino, allora trentenne, come redattore capo, autore di molti articoli non tutti firmati, che meriterebbero una ripresa completa (cosa che pure è nei miei propositi).

Il quadro è ampio, variegato, mosso. Perché nella vita pubblica di Giovanni Battista Melis – di Titino il cireneo, l’apostolo leader e servitore idealista, finito nella galera fascista a 23 anni e tenacemente “anti” lungo l’intero ventennio – entreranno poi molte cose: due deputazioni, la prima negli anni degasperiani, la seconda (al fianco di Ugo La Malfa) all’esordio del centro-sinistra moroteo; un decennio pieno di fatiche non compensate, di avarizie elettorali sempre confermate a danno di un partito forse oppresso dai suoi limiti, ma generoso sempre come nessun altro, fra il 1953 ed il 1963; l’incontro sfortunato nell’epilogo, certamente incompreso, con Adriano Olivetti nel 1958; la crisi nei rapporti con i repubblicani, un po’ per le pressioni di un certo (e inaccettabile per i repubblicani) separatismo che Fidel – Antonio Simon Mossa cioè – aveva iniziato a predicare nel partito, un po’ per la comprensibile agitazione di una certa dirigenza che si sentiva non ascoltata e non valorizzata a Nuoro e Sassari, ma anche a Cagliari… Fino alla prima esperienza di consigliere regionale, giunta nel 1969 e protrattasi fino alla fine, sette anni, ma stretta anche fra le difficoltà dolorose della malattia…

La passione di una vita: questo vedeva Romagnino in Giovanni Battista Melis e in ciò raccoglieva,  percepibile, l’idem sentire dei molti che eravamo lì riuniti per onorare un grande sardo e un grande democratico, ma anche per riflettere sulla stagione che, dopo lo sfascio partitocratico e l’ondata di mani pulite, aveva aggiunto altre inquietudini e rabbia: l’abbrivio berlusconiano alla piena decadenza della patria, del suo costume civile, del decoro delle sue istituzioni…

Ho memoria di una successiva conversazione telefonica con in professore, per ringraziarlo della presenza e di quell’intervento prezioso.

1997. Una lettera, «mente e cuore» insieme

Fa riferimento all’ottantesimo compleanno del professore uno scambio epistolare dell’anno successivo. La lettera del professore è datata 14 dicembre 1997 e merita anche essa una resa pubblica che dimostra come anche nell’epistolario privato, oltretutto con una persona di seconda e terza fila, egli sapeva volare alto, uomo morale in permanente dibattito con se stesso:

«Carissimo Gianfranco,

«non me ne volere, se ti rispondo con così grave ritardo, e anche più grave, se proprio la tua lettera è della “vigilia”e scritta dalla tua personale ricerca, senza le sollecitazioni dei “festeggiamenti” che sono venuti dopo. Anche per questi particolari personalissimi te ne sono grato, ma è dell’atmosfera alta che si respira nel tuo scritto che ti sono affettuosamente riconoscente.

«Hai percorso la “nostra” storia personale, che è incancellabile per la lezione semplice che se ne trae: che il conflitto generazionale (anche se è eterno) è spesso un alibi, e che creature, che s’affacciano nel mondo a distanza di decenni, possono ben incontrarsi, capirsi, legarsi mente e cuore. A noi è  accaduto anche con la levità, con cui pure ciò che è profondo dovrebbe essere vissuto, senza nebbie, senza le oscurità,  che lo fanno “profondismo” incivile, asociale. E la generosità, con cui hai ricostruito quei due percorsi paralleli, che si sono gettati l’un l’altro, nel tempo, non sottopassaggi, ma aerei ponti, mi ha permesso di incontrare come un biografo attento a quello che è al di là dell’immagine, più ovvia e più  consunta. In quella penetrazione acuta hai sentito/ho sentito come sia una felicità, che non ha premi alternativi, capire ed essere capiti. Scoprire, come hai fatto, che il pensare, il dire, l’operare laico, è parente stretto della religiosità. Sono appena una voce dei colloqui sommersi, gelosamente silenziosi. Questo, lo confesso, mi ha avvicinato di più, nel secolo feroce, che si chiude, a personaggi discreti e più spesso “fuori campo” o liquidati come “eretici” o sospettati di esserlo. Penso a David Maria Turoldo, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, tutti bollati come “anti-preti”. Nel secolo, che sta per accendersi, cesseranno le persecuzioni? Forse basterebbe che accadesse quello che Guido Morselli ha inventato/sognato nell’ultima pagina del suo Dissipatio H.G.: un’apocalisse ha distrutto tutto ed un uomo solo si è salvato, condannato all’infelicità della solitudine, quand’ecco da una distanza senza confini si fa sentire un tic tac, un segnale,una voce… la vita è rinata.

«Ti abbraccio molto caramente».

Ancora Alziator e Dessì, e la questione della lapide

In vista del 90° –  ché non ho pazienza di aspettare altri dieci anni per arrivare al secolo! – della nascita di Francesco Alziator e Giuseppe Dessì, fra 1998 e 1999 mi dedico intensivamente alla stesura di un libro che illustri le caratteristiche fisiche e sociali di Cagliari nel fatidico 1909. A seguire una antologia dei miei scritti sparsi per giornali e riviste, ma anche per servizi filmati televisivi, volti a presentare vari aspetti della personalità dei due autori a me particolarmente cari e tanto significativi o incisivi nella mia formazione umana e intellettuale. Sarà La città chantant, monarchica, clericale e socialista. Diario cagliaritano del 1909, prima cennata.

Poiché uno degli elementi per me qualificanti quella doppia presentazione di Alziator e Dessì è data dai comuni tratti di vita e comuni esperienze – e dopo l’anno di nascita e la Marina come  quartiere dell’infanzia, e la chiesa del Santo Sepolcro come sede del battesimo (per l’uno a marzo, per l’altro ad agosto) – considero di speciale rilievo gli anni di studio al liceo Dettori, quasi il clou del … debutto di entrambi, seppure con modalità tanto diverse, nella società degli adulti. E’ in tale contesto che reputo estremamente interessante una intervista ad Antonio Romagnino, non al professore dettorino, ma allo studente dettorino degli anni 1928-1935.

Il tempo lento che rappresentava la misura dinamica delle istituzioni, e fra esse della scuola pubblica, ancora nei primi decenni del Novecento, poteva far credere che il liceo-ginnasio frequentato da Antonio Romagnino (classe 1917) potesse essere sostanzialmente lo stesso conosciuto da Alziator e Dessì. Così per i programmi di studio, per la prassi didattica, per il collegio degli insegnanti, per quell’umanità di bidelli e segretari che accompagna sempre il percorso nobile di docenti e discenti… In più, una intervista-conversazione con il professore, che anche come critico letterario molto aveva approfondito la creatività della scrittura di Alziator e Dessì, poteva concedere allunghi in direzione delle stagioni successive, e anche di molto successive, a quelle della frequenza delle aule severe e per il più buie dell’antico collegio gesuitico.

Bellissima l’intervista raccolta e proposta anche come un affresco narrativo della Cagliari degli anni fra ’20 e ’30 e perfino ’40, fino cioè agli sconvolgimenti bellici. Purtroppo mancò quanto avrei molto desiderato potesse compiersi, anche per onorare il professore, quasi alla vigilia del suo discreto e sorridente ritiro da ogni attività pubblica: la presentazione del libro agli Amici del libro. La proposta formulata alla presidenza non ebbe seguito… Rimane però nei propositi quello di spostare al Dettori stesso una presentazione, tardiva certo rispetto a talune esigenze ormai superate, ma comunque opportuna e anche doverosa.

E a proposito degli autori amati – dal professore e da me – e di Giuseppe Dessì. Una pur modesta battaglia ci unì proprio nel nome dello scrittore cagliaritano-villacidrese nel corso del 2002. La lapide che gli Amici del libro avevano affisso, unitamente alle Amministrazioni comunali di Cagliari (sindaco Paolo De Magistris) e di Villacidro (sindaco Angelo Concas), nel giugno 1987 – cioè alla vigilia del decennale della morte dell’autore di Paese d’ombre –, sulla parete del bastione del Balice che dà sulla via Mazzini, era diventata illeggibile. Il nero passato nella scanalatura della lastra riportante una frase di Dessì che cantava Cagliari e la Sardegna s’era ormai asciugato e spento. Con alcune lettere all’assessore comunale alla Cultura e una intervista al quindicinale villacidrese La Gazzetta del Medio Campidano (il 26 luglio 2002) avevo segnalato il caso e invitato a rimediare, mettendo a disposizione, ove fossero servite, risorse personali. Al mancato riscontro del pubblico amministratore, e più ancora – in quel frangente – alla sua negligenza, avevo replicato scrivendo un articolo su La Gazzetta di cui inviai copia, il 10 giugno, al professor Romagnino. Il quale – con la generosità sua propria – spalleggiò la mia campagna con una dichiarazione a L’Unione Sarda. Poche settimane e finalmente il Municipio di Cagliari provvide al ripasso del nero e alla fruizione di quella lapide.

Dai ritagli conservati per la buona memoria di una giusta battaglia e di una cattiva amministrazione (di destra chiacchierona), traggo, fra le altre, le parole del professore che giustamente rivendicava alla sua associazione il primo merito di quel ricordo marmoreo: «Gli Amici del libro si associano a Gianfranco Murtas che ha chiesto che questa lapide venga restaurata e resa leggibile» (cf. “Erano stati gli Amici del libro a sistemare la lapide nella casa cagliaritana di Dessì”, in L’Unione Sarda, 10 settembre 2002).

L’arte morale di un liberale autentico

Sabato 15 novembre 2003, all’ex Lazzaretto di Sant’Elia Antonio Romagnino presenta il mio libro Lucio Lecis Cocco-Ortu, l’arte morale di un liberale autentico, pubblicato nel decennale della scomparsa dolorosa di un amico dalle infinite risorse etiche e intellettuali. Partecipano alla serata, con il sindaco Emilio Floris, invitato dalla famiglia Lecis per onorare l’istituzione, anche Valerio Zanone ed Eugenio Aymerich; intervengono con libere testimonianze Gianni Filippini, Benedetto Ballero, Sergio Del Giacco, Pierpaolo Vargiu e Gianni Loy; introduce e modera la discussione Nicola Scano.

Da par suo l’intervento del professore incanta tutti: analitico e insieme appassionato, capace di sguardi lunghi sullo sviluppo culturale e democratico della città e insieme perfetto nelle sintesi del gioco civile fra le più varie componenti partecipanti, dalla scuola alla religione (la Congregazione Mariana!), dall’accademia alla stampa, dalle professioni all’arte…

Spiace che anche di tale intervento – di cui peraltro esiste la registrazione audio/video su internet, pubblicata dall’ottima, professionalissima Aservice Studio di Andrea Meloni che ha prodotto il filmato – non abbia ancora pronta la trascrizione (che resta nei propositi e anzi nelle promesse). Ma basti qui cogliere due o tre elementi portanti del discorso svolto tutto a braccio, e non senza qualche fatica, dal professore ormai 86enne. L’indugio sul titolo del libro, con quel riferimento specifico all’ «arte morale» come definizione della creatività del protagonista; i rimandi di tratto ideale alle ascendenze familiari, allo zio Ciccio deputato liberale, al nonno avvocato Giuseppe, al bisnonno il ministro giolittiano che seppe – ottuagenario – spendere le residue risorse contro il volgarissimo fascismo in arrivo, inutilmente chiedendo a Vittorio Emanuele III la dichiarazione dello stato d’assedio per fermare gli eversivi marciatori sulla capitale…

Questo e altro ancora: quel concetto di democrazia come partecipazione, appreso da Romagnino negli anni della prigionia in America che si realizzava, nella contingenza postbellica, anche in Italia ed a Cagliari, la Cagliari dell’amato Ciccio Cocco Ortu. I cui migliori insegnamenti – certo non la transigenza verso il qualunquismo in cerca di casa – erano poi stati indirizzati sui nipoti più attenti, i maggiori per età, e su Lucio nato proprio nell’anno della risurrezione: il magnifico 1945.

La partecipazione, questo carattere costitutivo della democrazia e rivelatore della sua autenticità, sarebbe stato nel tempo, già dai primi anni, il tratto umano e di generosità sociale di Lucio Lecis Cocco Ortu (negli avanzamenti personali e in quelli del binomio che lo stringeva al fratello-quasi-gemello Enrico): nella scuola, nell’associazionismo studentesco e in quello dai gesuiti di padre Cravero, nello sport, nel giornalismo anche giocoso prima delle stagioni più impegnate, tanto più nella politica. Nella politica che del giornalismo e dell’associazionismo si valeva come luoghi di formazione e insieme di raccordo sociale, di proiezione – come si trattasse di cerchi concentrici in espansione – per sensibilizzare, sempre controcorrente, al bene comune, alla responsabilità condivisa…

Queste nel giovane Lucio Lecis di formazione coccortiana erano – nella visione certificata dal professor Romagnino – le modalità della sua «arte morale», che in età più matura avrebbero cercato applicazione anche nella professione di ingegnere e dirigente d’azienda, tanto più nel polo industriale di Villacidro. Fino alla malattia terribile e invalidante affrontata con spirito nobile, di martire cristiano, esemplare nella combinazione di consapevolezza e dignitoso coraggio.

Antonio Romagnino lo dichiara, di aver avuto fra i più cari, nella generazione che era infine quella stessa delle sue amatissime figlie, questo vero giglio cagliaritano, ed anche a me piace qui adesso associare negli spazi più alti della memoria civica il professore con l’amico mio Lucio.

I novant’anni alle viste, il canto dell’amicizia

Trascorrono troppo in fretta gli ultimi anni Quel ritiro alla vita in esclusiva familiare, di cui mi aveva reso edotto un pomeriggio che ci s’incontrò forse per caso in piazza Martiri, la volta che volli offrirgli – omaggio alla sua storia personale prima di studente poi di studioso e di quanto prestigio! – un mio libro recentissimo sul mito bruniano a Cagliari, e in quel contesto sul monumento al frate abbrustolito dall’Inquisizione, io l’ho rispettato integralmente. Astenendomi perfino dal telefonargli, limitandomi a pochi messaggi scritti, i soli che ero certo non potevano capitare indiscreti.

Così per i suoi novant’anni scrissi due articoli – uno per Chorus, un altro per La Gazzetta del Medio Campidano – che raccontavano di lui, e glieli mandai. Questi, rispettivamente.

Su Chorus del 1° ottobre 2007 (e successivamente nella raccolta Una voce nel Chorus), con il titolo   “Alla vigilia del novantesimo compleanno di Antonio Romagnino, finissimo biografo della nostra Cagliari” ed occhiello “Auguri grandi, e sempre grazie, professore!”:

Era l’anno della Rivoluzione leninista a San Pietroburgo e negli sconfinati territori dello zar. Era l’anno, per l’Italia, della disfatta di Caporetto, che metteva a rischio le sorti del conflitto contro l’impero già di Francesco Giuseppe… I cagliaritani seguivano quelle vicende del teatro politico e militare internazionale scorrendo i dispacci pubblicati sulle due striminzite pagine dell’Unione Sarda per tre quarti dedicate alla guerra continentale, con colonne di piombo sovente interrotte da spazi bianchi. Era Anastasia, la censura governativa.

 

Dal novembre di quel 1917 al prossimo mese del 2007 saranno giusto nove decimi di secolo, e tanta è anche l’età dell’anagrafe di uno dei nostri padri comuni – guida morale, per quel tanto che la cultura sa farsi rielaborazione originale di un vissuto condiviso, e per l’autorevolezza della persona – , a Cagliari. E’ ad Antonio Romagnino, il professore nato castellano di via Lamarmora – quasi dirimpettaio del carissimo nostro Paolo De Magistris –, che mi sto riferendo. Un intellettuale impegnato sulla scena civile come pochi altri e con così lunga, tenace, qualificata militanza, che molti di noi abbiamo incontrato ancora adolescenti, chi al Dettori chi nei concorsi scolastici per l’Europa, chi all’Unione Sarda chi ad Italia Nostra, chi nelle presentazioni letterarie o nei dibattiti di quartiere, sempre dalla parte giusta, e in chissà quanti altri ambienti.

Ai suoi allievi, raddoppiando gli spunti magari dal calendario bacareddiano, insegnava la storia millenaria della città, del quadrifoglio postgiudicale, dei rioni divisi da fossati, mura e porte, della svolta urbanistica dopo la dismissione della piazzaforte militare… Tutte rappresentazioni che uscivano dall’aula e entravano negli articoli di giornale, e nelle conferenze ambientaliste, o anche soltanto nei conversari con noi giovani di quegli anni che per lui erano già di piena maturità e, finalmente, di pieni riconoscimenti. Anni che, insieme, segnavano una cesura fra un prima e un poi: perché il professore si accingeva a lasciare, dopo trent’anni e più, l’impegno assorbente e quotidiano della scuola per montare, sempre con signorile semplicità, su una cattedra più ampia: quella dei sodalizi civico-ecologisti (nasceva allora il dicastero dei Beni culturali e ambientali), dei libri – oltre venti, pensati e lavorati negli anni! –, delle presenze in ogni luogo ove fosse richiesta, per nobilitare il nuovo, la memoria del passato …

A molti, forse, verrebbe da scrivere una enciclopedia soltanto dei rapporti personali intrattenuti con lui nei decenni, sempre con spirito di allievi, anche oggi che pure noi siamo quasi vecchi. E sempre con l’affetto dei primi giorni. Ma con più matura riconoscenza, che non nei primi giorni, verso il professore.

Spero di potergli dedicare, il prossimo anno, un libro bio-bibliografico con taglio anche antologico: con il testo (spererei integrale) di una delle due tesi di laurea da lui discusse nel nostro Ateneo (quella in Lettere e Filosofia, anno 1938-39) – un saggio sul giornalismo politico sardo dal 1848  al 1870 – che ritrovai molti anni addietro a casa del compianto prof. Pietro Melis, dotto umanista ed illuminato assessore della Regione Sarda negli anni ’50 e ’60; con i testi dei suoi primi articoli pubblicati, ancora giovanissimo, nelle riviste studentesche degli anni del regime, alla vigilia bellica; con i testi dei pezzi offerti a Rivoluzione Liberale, la rivista che nell’immediato secondo dopoguerra fu fondata da Francesco Cocco-Ortu e Giuseppe Susini, e in cui egli difese una linea che meglio rifletteva il proprio approdo al liberal-repubblicanesimo, superando quel liberalismo che in Italia allora troppo concedeva al conservatorismo monarchico e all’equivoco qualunquista…

Un libro che raccolga anche i numerosi contributi a me offerti per mie produzioni televisive e più ancora per quelle tipografiche ad edizione carsica, magari sul Dettori della memoria – affascinato da Giordano Bruno nei primi anni ’30 – e sulla intima e definitiva “conversione” alla democrazia nei campi di prigionia americani, fra 1943 e 1945: una conversione del giovane 25enne cresciuto negli anni della dittatura, ed ora finalmente emancipato, promosso anzi ad una cattedra di docenza civile che comprendeva quella del liceo in migrazione dalla Marina al quartiere nuovo fra il Tribunale e il Monte Urpinu, e s’espandeva, fin dagli anni fra ’40 e ’50, nelle adunanze degli Amici del Libro …

La collaborazione con L’Unione Sarda inizia negli anni ’60, quando più assiduamente si affaccia sulla terza pagina del quotidiano anche la firma dell’amico Francesco Alziator (c’è un filo di parentela, ancorché non prossima, che unisce Romagnino ad Alziator ed a Nicola Valle stesso). A lui compete soprattutto recensire i libri, all’inizio quasi soltanto il sabato… Le cose buone, però, marciano da sole, e ad un certo punto non ci sarà più né calendario né recinto di scrittura. Sarà la direzione della pagina culturale affidata ad Alberto Rodriguez a spingere Romagnino in un set giornalistico-letterario il quale, pur con caratteristiche assolutamente peculiari che sposano anche le cadenze progressive della sua oratoria, elegante con le sue mille virgole, eppur sempre confidenziale ed accessibile, si gemella e poi sostituisce quello di Alziator come raccontatore della città storica e sociale, quella della “architetture umane” che superano le “architetture di pietra” che erano state descritte dal can. Spano un secolo addietro.

Alla fine degli anni ’70 a lui uomo sempre di minoranza, elettore per tanti anni, dopo l’esaurimento della fase liberale “pura”, dei repubblicani di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini e di altre forze della sinistra, viene la proposta di candidatura come indipendente alle regionali, da parte del PCI dell’amico Umberto Cardia. Sarà una delle esperienze più ardue e brucianti – per l’esito infausto determinato da un boicottaggio scellerato di molti mignon attivi nelle sezioni comuniste – ed il professore ne resterà a lungo penosamente impressionato. Non aveva ricevuto la comprensione che di pochi di noi, che pur lontani dalla ideologica marxista comunque rielaborata, guardavano con simpatia alla compartecipazione del PCI al governo dell’Italia e a quello della Regione (in alternativa ai democristiani). Non doveva chiedere autorizzazioni, il professore, per quel cimento, per ardito o azzardato che fosse; ma fu ferito dalle incomprensioni di quelli che bissarono sgradevolezze, fossero anche silenziose, dopo lo stolido verdetto delle urne.

Vi sono, nella vasta produzione letteraria, storica e memorialistica di Antonio Romagnino, pagine di sapienza morale che mi paiono magiche: si pensi soltanto a quelle da lui – laico cercatore di verità – dedicate a figure come Lorenzo Milani, David Maria Turoldo ed Ernesto Balducci: ma non figure raccontate soltanto nel loro profilo di testimoni di un tempo di contraddizioni, e più ancora di profeti di un tempo ancora ignoto eppure già incombente; personalità, invece e soprattutto – intelligenze e cuori –, attraversanti il suo personale vissuto. Il vissuto anche del docente ed educatore, dell’intellettuale impegnato nelle vicende della sua comunità.

Grazie, professore, per l’offerta delle sue conoscenze come tavola di valori e codice d’interpretazione di questo nostro tempo difficile: una tavola interpretativa che ci ha aiutati ad essere più consapevoli dei luoghi in cui consumiamo la nostra età e, come conseguenza, ad essere portatori di un sentimento come di responsabilità civica, o politica – nel senso alto del termine –  di cui, alla fine, si impregna ogni nostra azione, per modesta che sia.

 

La ricerca spirituale di Stefano, il suo alter ego

Questa, su Chorus, l’appendice alla nota biografica e gratulatoria. Sempre per ridare la parola a lui…

Nel suo Diario americano. Prisoner of war, 1943-1945, che forse è il suo libro più bello, – Antonio Romagnino indugia, particolarmente negli ultimi capitoli – dolci e insieme robusti per il nerbo degli affondi intellettuali –, sulle sue esperienze religiose o di fede. Sono pagine che conducono al racconto del rapporto, complesso e profondo, con le figure di don Milani, padre Turoldo servita e padre Balducci scolopio.

Tutto nasce dagli echi di memoria della cattività americana. Nel campo di Scotts Bluff, nel desertico Nebraska, celebrò il primo natale di prigionia: «Quando arrivò il momento del Gloria, dal fondo di quel magazzino grigio… si levò il coro altissimo degli americani, che travolse il biascicare senza vita degli oranti delle prime file. Erano a cantare cristiani ed ebrei, cattolici e protestanti, credenti e scettici, bianchi e neri. Era un coro a Dio, di miseri e assetati. Stefano non lo dimenticò più che cercavano tutti un’acqua sola. La stessa che molto più tardi faceva  brillare all’orizzonte, come sa scintillare solo l’acqua che disseta, il “villaggio planetario”… era stata uno scoppio improvviso che aveva rotto i recitativi monotoni, che Stefano e i compatrioti si erano portati fin là. Non se ne dimenticò più ed anche quando le chiese nel Paese presero a introdurre più ampiamente l’accompagnamento musicale, nulla gli parve accostabile a quelle voci che non cantavano solo, ma proprio dicevano messa, quasi più dell’officiante…».

A Cagliari, Genna Maria. «Il resto, nella vicenda religiosa di Stefano, lo fece una Chiesa sempre più politicizzata. Non fu mai un anticlericale, anche se qualcuno mormorava che lo fosse. Nei suoi atteggiamenti in quella più tormentata materia c’era incancellabile un’eco delle esperienze americane, delle chiese di laggiù operose nel sociale, nella formazione della morale civica, ma immuni da impegno politico, da una scelta di parte. Divenne sempre più laico ma, se anche ci fu mai, il laicismo deputato e divenne solo laicità capace di comprendere la fede dei credenti e però anche persuasa di essere utile ad un Paese sempre più lacerato, senza più valori»…

Dopo Chorus, La Gazzetta villacidrese

E così su La Gazzetta del Medio Campidano del 10 novembre 2007, con titolo “Romagnino, Villacidro e Dessì” ed occhiello “Alla vigilia del novantesimo compleanno del professore, maestro di studi e di vita civile di due generazioni di cagliaritani (e non solo)”:

Alla vigilia del suo novantesimo compleanno, è bello che anche dal territorio della provincia, non soltanto dalla città capoluogo della quale è stato raccontatore – biografo della sua “architettura umana” come lo fu il suo amico e fratello maggiore Francesco Alziator – giungano ad Antonio Romagnino gli auguri e un omaggio di gratitudine.

Fra i motivi che possono, con maggior evidenza e spessore, legare il suo nome a quella parte di Campidano del quale la Gazzetta è, ormai da molti anni, la maggior voce nell’edicola dell’informazione (e della formazione civica), c’è ovviamente il rimando a Giuseppe Dessì. Per molte ragioni. Per gli articoli, numerosi soprattutto quelli usciti sull’Unione Sarda, che il professore ha dedicato allo scrittore da noi – villacidresi di nascita o di elezione – tanto amato; per un delizioso libretto offerto alcuni anni fa alla larga schiera dei dettorini (così usano chiamarsi, simpaticamente, gli allievi del liceo-ginnasio intitolato al padre latinista Gio.Maria Dettori e frequentato da Giuseppe Dessi nella seconda fase dei suoi studi superiori, dopo la crisi di cui lui stesso racconta in tante pagine autobiografiche; ma liceo anche del grande Alziator, a Dessì unito da alcune singolari coincidente di calendario: stesso anno di nascita, nel 1909, stesso fonte battesimale, nella chiesa del Santo Sepolcro, vicaria della parrocchiale di Sant’Eulalia chiusa per importanti restauri, nel quartiere cagliaritano della Marina; stesso anno di morte, il 1977, appunto trent’anni fa…); e anche per le conferme d’attenzione fornite, nel tempo, a Villacidro e al suo romanziere come presidente di lungo corso dell’associazione Amici del libro, ultima delle quali pochi anni è stata l’autorevole pressione anche da lui esercitata sull’Amministrazione civica del capoluogo per il recupero di leggibilità della targa marmorea che, ora sono due decenni, proprio la benemerita associazione ed il Municipio di Villacidro vollero affissa alla parete del bastione del Balice dove sorgeva una delle prime case cagliaritane di Dessì bambino (se ne fa ripetuto riferimento nei Diari usciti alcuni anni fa).

Ricorderei anche il riconoscimento speciale, a lui, nel 1996, nell’ambito del Premio Dessì per il libro Torri e mare, ma dovrebbe dirsi, per tutta una carriera (al tempo ancora in pieno sviluppo: se è vero che, dopo quello, sono usciti in libreria altri suoi dieci titoli, esito di ricerca e riflessione non di anni ma di decenni).

Aggiungerei, stavolta a titolo più personale – ma sempre nelle coordinate villacidresi e dessiane – una lunga intervista (30 pagine!) concessami per un mio libro ormai antico, che puntava proprio a dire della Cagliari del 1909 – l’anno di nascita dell’autore di Paese d’ombre – per finire appunto con molti specifici riferimenti a questi e al suo mondo poetico, alle relazioni larghe e feconde con scrittori dei quali il critico letterario s’era occupato in infinite occasioni nei suoi studi, lezioni e scritti.

«Ricordando Ferrara e Sassari, tra fascismo, antifascismo e postfascismo», riporto qui un lungo passo della nostra conversazione (cf. La città chantant, monarchica, clericale e socialista. Diario cagliaritano del 1909. Corrispondenze da Villacidro ed Arbus, Cagliari, 1999):

«Dessì credo di non averlo mai visto, e quindi ho un ricordo remotissimo. La prima volta che ho sentito il nome di Dessì ero sotto le armi ed ero a Siena. C’era un ufficiale villacidrese il quale mi disse: “Legga San Silvano”. Il libro era del 1939, mentre l’incontro al quale mi riferisco si deve collocarlo nel ’41. Io non lo avevo letto ancora, lo lessi più tardi, e lessi anche la presentazione che ne fece, lusinghiera, Claudio Varese.

 

«Lui era già provveditore agli studi a Sassari, però la formazione di Dessì era già avvenuta, perché erano già passati gli anni cagliaritani, per quanto turbatissimi, ed erano già passati anche gli anni pisani, ma ancora più importanti di tutti – l’ho scritto in un libretto che è uscito proprio questi giorni per i novant’anni di Varese – erano passati anche gli anni ferraresi».

 

Anni cruciali nella vicenda anche umana, non solo intellettuale, di Dessì… «Quando Claudio Varese e Giuseppe Dessì si incontrano e con loro c’è Dessì Fulgheri, il fratello di Giuseppe, e c’è l’altro sardo che è Mario Pinna, ispanista più tardi all’Università di Urbino, allora erano tutti e quattro insegnanti alle superiori. E il loro amico più caro è Giorgio Bassani, il quale riconosce, qualche anno più tardi, che senza quei sardi non avrebbe risolto i suoi gravi problemi politici, lui, il reo, il perseguitato dal fascismo… L’educazione alla libertà l’attribuisce a questi mentori che sono i quattro che ho citato e senza di loro neppur sarebbe stato lo scrittore che è divenuto… riconosce a Dessì ed a Varese e agli altri – ma non facciamo graduatorie –, insomma a tutti e quattro, impulsi straordinari nella sua vita. Erano i sardi di Ferrara. E dunque per Dessì, compiutasi già l’esperienza pisana e quella ferrarese, l’esperienza sarda sassarese è un ritorno, un ritorno molto importante: perché c’è in lui quello che ha detto Bassani, ma anche perché quella sua consolidata umanità è provata da una fonte coeva».

 

Si riferisce forse a Riscossa, il settimanale di Spanu-Satta, il cattolico che però militava allora nell’azionismo dei Mario ed Ines Berlinguer, degli Stefano Siglienti… per dire soltanto dei sassaresi che però avevano messo tenda a Roma, magari anche in via Tasso… «Sì, proprio nel 1944 – e durerà fino al ’46 – si stampa a Sassari una delle cose più belle che abbia prodotto la Sardegna post-fascista ed antifascista: il settimanale Riscossa. Dessì ne è fra i promotori, lui di professione socialista. E la cosa più bella è che vi sono molte mani d’oltre Tirreno, e fra esse quella di Lanfranco Caretti, che era un ferrarese anche lui, e quelle che ancora si stringono fra loro, di Bassani, e Dessì Fulgheri, e Varese, e Pinna. Si ritrovano a pochi anni di distanza. Gli anni ’30 sono finiti, c’è, in sostanza, la presenza di un antifascismo sofferto. Poi per Dessì, dopo il 1948, ci sarà il salto definitivo a Roma, e quindi la sua più salda fortuna letteraria».

Dal repertorio del critico

A conclusione dell’articolo uscito su La Gazzetta, propongo il repertorio (non saprei in quale misura esaustivo) degli articoli di Antonio Romagnino dedicati a Giuseppe Dessì, apparsi sull’Unione Sarda dagli anni ’70, e poi a ridosso della scomparsa del grande romanziere e fino agli anni più recenti:

-“Dentro il paese delle ombre” (2 novembre 1975): “Sia in campo editoriale che tra i lettori sta crescendo un rinnovato interesse per l’opera di Giuseppe Dessì. Eccone gli aspetti principali ed i legami più significativi con la nostra Isola. Una biografia tra impegno civile e ricerca: immagine segreta della libertà. Le opere ed il loro rapporto con la Sardegna: un destino in movimento

-“Tornare alle radici” (16 febbraio 1978): “Ricordo di Giuseppe Dessì”

-“Dessì, un cuore strappato” (28 giugno 1987): “ Anniversari. Dieci anni fa moriva a Roma l’autore di Paese d’ombre. Lo scrittore passò tutta  la vita in opposti orizzonti: si sentiva straniero durante i soggiorni nella penisola ma il sentimento del Nord lo assaliva quanto ritornava nell’amata Cagliari e a Villacidro

-“Quattro sardi per Giorgio Bassani” (11 settembre 1996): “L’amicizia dello scrittore ferrarese con Dessì, suo fratello Franco, il critico Claudio Varese e l’ispanista Mario Pinna”

-“Tra letteratura e impegno politico” (18 settembre 1996): “Si conclude con questa seconda puntata il ricordo del rapporto che legò Giorgio Bassani a Giuseppe Dessì”

-“Dessì, un amore chiamato Fanny” (10 maggio 1998): “La tenera e timidissima passione giovanile dello scrittore sardo per un’adolescente incontrata a Villacidro e che morirà poco più tardi di tubercolosi”

-“Un mentore per Giuseppe Dessì” (21 agosto 1999): “Ritratto di un letterato che ha segnato con i suoi interventi la rinascita della prosa italiana. Claudio Varese, il critico che gli fu amico e complice compie novant’anni”

A complemento ricorderei anche un articolo biografico dedicato ad un altro illustre villacidrese del tempo che fu – Giuseppe Todde – , apparso sull’Unione Sarda del 2 novembre 1999, come puntata della fortunata, seguitissima rubrica “Memorie cagliaritane” (destinata a ripubblicazione in volume):

“Giuseppe Todde, economista d’altri tempi”: “La città d’adozione gli ha dedicato una vita. Nato a Villacidro, ha insegnato nell’800 in varie città italiane. E’ stato per tre volte Rettore dell’università battendosi per dare lustro all’Ateneo cittadino”

Così rispose il professore a quelle pagine, anzi a quei ricordi, il 3 marzo 2008:

«Caro Gianfranco, Caro Amico,

«debbo soprattutto scusarmi per aver lasciato passare più di un mese per rispondere alle affettuose parole,con cui hai saluto i miei novant’anni.

«La vecchiaia può anche immalinconire, ma se la buona sorte ti fa risuonare l’affetto, quei giorni ti riportano alla giovinezza. Lo hanno fatto le tue parole ed io ti abbraccio, augurandoti ogni bene.

«Molto caramente ARomagnino».

In conclusione

Chiudo questo lungo, e forse per dieci lettori utile o comunque interessante, contributo alla conoscenza della personalità ricca e cara del professor Antonio Romagnino, confessando che altre carte, o sbobinature, sono nel mio archivio, senza che la depressione mia di questi anni mi dia però speranza di recuperi solleciti. Non importa. Egli è entrato nella mia vita come un Maestro autentico di democrazia e passione civile: nei fondamentali civici, nelle coordinate ideali della mia esistenza egli è stato come una guida discreta per tocchi intermittenti ma di lunghe coerenze. Abbiamo condiviso molti amori dentro la nostra Cagliari e la nostra Sardegna italiana: Alziator e Dessì, i quartieri storici e Bacaredda, i letterati minori e quasi sconosciuti, la pubblicistica anch’essa minore e quasi sconosciuta o ignorata ma pure segretamente feconda, i passaggi incrociati di tempo e spazio riflessi in una storia collocata su un terreno che si vede e si tocca, il capitano Lussu e il sardismo a vocazione musiva, non separatista… Abbiamo condiviso anche molti amori nelle grandi latitudini: Giordano Bruno per la sua simbologia, o mitologia, più ancora che per il suo pensiero o il suo carattere, e Sigismondo Arquer come lui e prima di lui vittima della inquisizione, Manzoni sì, ma anche Pasolini, e anche e quanto! i disubbidienti del clero italiano, i profeti nostri del Novecento, come Balducci e Turoldo, e Lorenzo Milani…

Confido di poter tenere nel prossimo 2014, in un teatro – mi è già stato offerto quello di Sant’Eulalia, ospitale sempre – il luogo in cui presentare un reading delle sue cose: l’intellettuale certo, prolifico quanto pochi altri da noi, ma con l’intellettuale anche il cittadino e il democratico, il liberale repubblicano, l’uomo di pensiero e il testimone cui tanti di noi debbono molto, il meglio di quanto portano nella loro missione civica.

 

Condividi su:

    Comments are closed.