Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore. Le fatiche letterarie di un Maestro, di Gianfranco Murtas (seconda parte)

 

Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore

Le fatiche letterarie di un Maestro

Seconda parte

A ridosso del secondo anniversario della scomparsa di Antonio Romagnino, chi di lui è stato discepolo e amico e a vario titolo compagno nella militanza civile, fra letteratura, storia e democrazia, fra Sardegna e Italia e il vasto mondo, ne onora come può la memoria.

Prosegue qui il ripasso, titolo per titolo, dei suoi libri, che sono stati alimento di molti cagliaritani che la loro città hanno compreso grazie anche alla ponderosa produzione letteraria del professore, associata idealmente a quella di Francesco Alziator, ma pur da essa distinguibile, perché comunque diverse erano le personalità.

 

di Gianfranco Murtas

Sono dunque tredici i libri che Antonio Romagnino pubblica a partire dal 1981 e fino al 2002: un ventennio pieno di attività per lui, in modo particolare con la presidenza degli Amici del libro per quasi l’intero periodo (degnissimo continuatore di Nicola Valle) e con le collaborazioni assidue e sempre molto qualificate con L’Unione Sarda.

Dopo Cagliari, Marina, dopo Cagliari, Castello, dopo Guida di Cagliari (con Ludovica Romagnino), dopo Giorni e stagioni, dopo Torri e mare, dopo Farfalle & altro, dopo Passeggiate cagliaritane, dopo Chicchi di melagrana, dopo Dessì e Varese dal liceo Dettori a Ferrara, dopo Epigrammi di Stefano, dopo La mano sul mento, dopo Né morsi né carezze, dopo Nuove Passeggiate Cagliaritane, inizia forse una fase di ripiego nello scrittore – scrittore e anche poeta – che si limiterà, in anni che ormai sono per l’età – è ormai prossimo il 90° compleanno – anni anche di stanchezza, a partecipazioni con altri ad imprese editoriali. Il riferimento è a I mercati di Cagliari (con Anna Marceddu) , a Cagliari di una volta (commento alle foto della collezione Orani), a Cagliari (nuovamente e felicemente con la figlia Ludovica).

In questa fase finale, peraltro, non mancano tre produzioni che rappresentano come la conclusione di quel ciclo delle gustose espressioni “frammentarie”, come sarà in parte con Preferisco il rumore del mare, ma soprattutto con Muschi e licheni. Ma quel che mi pare giusto e anzi necessario rilevare è che essa si apre con il titolo forse migliore – ammesso (e non lo credo) che una classifica sia cosa intelligente – della tutta pregevole bibliografia romagniniana. Vale a dire Diario americano. Prisoner of war 1943-1945.

Sarebbe interessante poter indagare – né mancherebbero, in effetti, le possibilità (basterebbero le testimonianze familiari) – le circostanze e i tempi di elaborazione di questo scritto, che tenderei a collocare, in quanto all’ideazione e anche a una certa stesura, in anni anche remoti…

 

Diario americano. Prisoner of war 1943-1945. Cagliari, Edizioni della Torre, 2003.

In trentadue capitoli chiamati soltanto con l’ordinale romano, e senza neppure un cenno di introduzione, si dipana un racconto di vita fra Cagliari e l’America e nuovamente Cagliari: dagli anni della formazione nella città natale alla guerra (e alla partecipazione ad essa da volontario) fino alla prigionia ed al rientro in patria due anni dopo, con le attività pubbliche nelle quali il protagonista – Stefano-Antonio – subito si inserisce, mettendo a frutto la rieducazione democratica americana, anche nella lotta politica: all’interno del Partito Liberale di Francesco Cocco Ortu jr. – ma lui con posizioni repubblicane ed antiqualunquiste –, nella redazione di Rivoluzione Liberale.

Certo, andrebbe anticipato qui e vale anzi questo come proposito dichiarato da chi ora scrive, sarebbe utile censire tutti gli articoli a firma Romagnino apparsi sul periodico diretto da Cocco Ortu, e riprodurli in combinazione con quegli altri, degli anni universitari, apparsi su Sud-Ovest, la rivista dei GUF cagliaritani. Per esplorare e misurare lo spettro degli interessi in quelle due fasi di vita – prima della guerra (e della prigionia, nel “mare democratico” degli USA) e dopo.

In Diario americano – titolo d’eccellenza del catalogo dell’editore Fozzi, che ci dona anche l’immagine dell’autore giovane o giovanissimo –, Romagnino si misura, più che in ogni altro suo titolo, con l’arte narrativa più tradizionale – quella del racconto –, per quanto poi, tanto più in certi capitoli, ritorni al suo modulo preferito, che è quello di stringere il passato e il presente, come a voler assegnare al protagonista la pienezza del suo tempo, cioè della sua vita, nello svolgimento cronologico e in quello etico ed intellettuale (da intendersi come chiave di lettura degli eventi e padronanza del senso delle cose).

Genna Maria – Cagliari cioè – degli anni ’20 e ’30 è raccontata nei primi capitoli di Diario americano e alle sue dinamiche sono intrecciate le vicende personali e familiari di Stefano-Antonio, e quelle dei suoi amici più cari, con i quali condivideva l’età, forse le aspettative di futuro. Sono straordinariamente belli ed efficaci quei tratti rapidi di penna – rapidi ma pensati, non estemporanei, non affidati soltanto all’estro o alla emozione bensì evidentemente alla lunga riflessione – che inquadrano le figure domestiche più care. Ma insieme entrano da protagonisti, subito, anche i libri, le letture che formano il ragazzo, il giovane. E anche quelle della maturità, quelle che si legano ai nomi di un Pasolini, di un Turoldo, di un Balducci o di un Lorenzo Milani.

Nell’andare e venire, in quei flussi e riflussi narrativi, Romagnino ripassa la sua vita, una larga parte della sua vita che affranca dai vincoli cronologici per aprirla alle illuminazioni di tempi che verranno a far comprendere, con strumenti critici, quel che è stato ed è stato vissuto volgendolo ad un presente già orientato, quasi determinato nelle sue grandi linee. I flashback aiutano, sospingono addirittura la narrazione, il racconto non va in divenire, ma in un ripasso – come le onde del mare – che consente gli indugi, talvolta le fughe, ma anche, infinite volte, le riprese, le ripartenze, perché cambia il motivo. Cambia cioè la provocazione di quell’ennesimo inoltro, da parte dello scrittore, nello scandaglio di una relazione sociale o personale, di un impegno preso con se stesso, di un tentativo compiuto per affermare natura ed efficacia di un contributo offerto… per migliorare il mondo.

Per valutare tutto questo, e cogliere insieme l’originalità del taglio narrativo, si potrebbe compiere un esperimento veloce: riprendere gli incipit dei trentadue capitoli, e intuire i percorsi mentali, psicologici, morali, dello scrittore mosso non soltanto da un imperioso bisogno di ridare vita alle memorie consegnandole alla carta – come in un diario di vita che abbia urgenza di oggettivizzarsi, al pari di una fotografia commentata –, ma anche, all’incontrario, dall’intento di socializzare, ormai in tarda età, un vissuto intenso, rappresentativo anche di una certa generazione, per trarne sì elementi di testimonianza ma anche e forse soprattutto i materiali per nuove domande. Le domande che mezzo secolo dopo hanno il profilo del consuntivo, proponendo in forma interrogativa – la più coinvolgente sempre – il senso di quanto è stato compiuto, catalogando quasi le ricadute della propria esperienza almeno negli ambienti più prossimi… Eccola dunque la sperimentazione, stazione dopo stazione, prima all’indietro, poi recuperando i teatri di vita, la casa e la famiglia, la scuola e il vicinato, la chiesa e la Congregazione, i sentimenti dell’infanzia e dell’adolescenza, l’amore finalmente e poi quell’andata volontaria a combattere…

«Che cosa è l’America, si chiedeva Stefano, ancora prima di morire. La sua vita era stata tagliata in due, quando vi aveva vissuto due anni e mezzo da prigioniero di guerra. Un “prisoner of war” speciale, da quando l’Italia aveva accettato l’“incondicional surrender”. E ai prigionieri in mano agli Alleati era stato concesso di poter lavorare, se avessero sottoscritto una domanda di collaborazione. I fascisti li chiamavano “collaborazionisti”, ma Stefano non se ne rammaricava molto. Era stato scelto a far propaganda della cosa negli altri campi che raccoglievano ufficiali e soldati. E quella sua disponibilità consonava con la cultura che si era dato nei più giovani anni. Credeva nella “religione della libertà” che gli aveva insegnato la lettura di Benedetto Croce…».

«Ma io non sono stato solo l’arbitro delle sue partite a palla a volo. Sono ora anche l’arbitro della sua vita, che mi ha raccomandato fino a quando non si è spenta. La sua parola mi ha fatto entrare nella sua casa di bambino, ma anche in quelle in cui ha vissuto, quando siamo rientrati dall’America. Assieme, come insieme avevamo fatto il viaggio di andata, da Orano a New York. Abbiamo avuto lunghe conversazioni. O meglio, io ho più spesso ascoltato, che parlato…».

«La sua casa, intanto, era lontana, anche se sempre più si faceva lucida nella memoria. Non aveva le persiane, neppure dopo le aveva, quando la lasciò per sposarsi. Le ante erano un vetro allungato, interrotto in basso da un quadrato di legno, che si prendeva un quarto dell’intera estensione di quelle finestre indifese…».

«Genna Maria allora non era una città molto grande e i ragazzi e i giovani non conoscevano ancora la consuetudine di pencolare dalle loro motociclette o dai loro motorini, in crocchi ristretti. A Genna Maria si passeggiava per grandi fiumane, e una vasta terrazza, che era stata realizzata all’inizio del Novecento su un antico bastione, e un lungo porticato, su un’ampia via che si affacciava sul mare, facevano grandi radunate dei suoi abitanti per il passeggio serale…».

«Poi ogni giorno subentrava la noia. Ma intanto si era lontani dalla città tirannica e sembrava che si fosse acquistata la libertà. La libertà del sonno di Pietro [Portas, il cugino di Stefano], che portava all’estremo le sue abitudini domestiche e che non sapeva mai neppure che giorno fosse. Non apriva mai il giornale, e neppure guardava mai l’orologio… Era un animale, ma senza rigidi costumi, e tempo e spazi erano misure larghe senza confini…».

«C’era un altro sardo con noi in quei tempi lontani, ed anzi Marcello è stato amico di Stefano, anche più di me. Ancora prima che in America, si erano conosciuti nella polvere dei campi provvisori della Tunisia, in fila a prendere la razione d’acqua che gli inglesi distribuivano, fra molte difficoltà. C’era sempre un vento che infuriava e non allentava il caldo di quell’estate precoce. Avevo appena aperto bocca a mormorare qualcosa, che subito aveva riconosciuto la mia provenienza…».

«Sì, Stefano è stato volontario di guerra due volte. Quando si è arruolato, senza aspettare la chiamata, e quando, nominato sottotenente, si trovava in Piemonte, sospeso fra l’Africa e la Russia. Non lo seppero che qualche giorno prima che partissero, che la loro divisione era stata assegnata al fronte nordafricano. E Stefano nel dubbio si era recato a Roma, all’Unione Militare, e si era rifornito equamente di maglioni e cappotti per le distese nevose della Russia e di leggere sahariane per i deserti africani. Ma intanto aveva decisamente rinunciato a rientrare in Sardegna. Il maggiore Columbu, che era un suo conterraneo, lo aveva chiamato e gli aveva comunicato che con una circolare ministeriale era stato disposto che i sardi rientrassero nell’Isola, per difenderla da un minacciato sbarco alleato. Non lo lasciò finire, e irrigidendosi gli disse con fermezza che lui voleva andare al fronte… »

«Giacomo lasciò la stazione e prese pian piano a percorrere l’erta scalinata che portava a casa, lassù nel quartiere medievale della città. Non l’aveva mai sentita così faticosa e non aveva mai sentito prima di essere tanto vecchio e che la paglietta a sghimbescio era fuori stagione. Le chiamavano le scale di Giacobbe, ma non avevano nulla dell’aerea ascensione verso il cielo che gli angeli avevano disegnato a Giacobbe che dormiva, il capo posato sulla pietra dura, nella strada verso Haran. Ricordava che anche Stefano le aveva discese saltellando da bambino, quando per un anno intero l’aveva mandato a frequentare l’ultimo anno delle elementari nella scuola, giù quasi sul mare. Per una ragione rimasta misteriosa per il figlio, forse un litigio del padre col maestro che aveva avuto nell’anno precedente, rimasta inspiegabile per tutto il resto della sua vita…».

«Stefano, con pochi altri della sua età, si era presto allontanato dalle letture correnti. Anche Salgari ebbe in lui una più modesta presenza. Ed era anche andato oltre le Memorie della mia vita di Giacomo Casanova, che per molti di quella generazione finì anche per essere l’unico libro di tutta una vita…».

«Ma i libri non sono solo i loro autori e i loro personaggi. Non sono neppure i lettori, che li macinano e perfino li deformano. Il libro vive anche nelle mani di chi non può leggerlo e anche solo lo custodisce, accontentandosi di accarezzarlo, rispolverarlo. Ci sono tante storie al di là del libro, e quella che all’incirca si chiama la sua “fortuna”, ne racconta appena un poco. Quando Stefano sbarcò a Napoli, di ritorno dall’America, l’Italia, all’indomani della guerra, era un tumulto i viaggi senza regole, con le strade saltate, con le navi e i treni squassati…».

«Ma il padre di Stefano era soprattutto un uomo festoso, che metteva dintorno allegria. Soprattutto quando parlava. La “sua” presa di Gorizia andò così, in una miscelatura estrosa di fatti veri e di colorazioni fantastiche. Era vero, Stefano lo scoprì tanti anni dopo, il particolare del temporale furioso, prolungato, che imperversò in quella giornata di guerra dell’agosto del 1916, con la pioggia, che aveva fiaccato un po’ tutti, uomini e animali…».

«Gli uomini non muoiono più nelle loro case. Quando la morte arrivò per il padre di Stefano, era la guerra a farlo morire in una casa non sua. Ma, oggi, solo la scomparsa improvvisa li trattiene ove hanno vissuto. Gli ospedali attendono un po’ tutti, li ricoverano in stanze senza nomi, appena numerate. Solo le case, dove si viveva, avevano un tempo un luogo preciso. Dove morivano il nonno, il padre, la madre, i fratelli. La zia di Stefano, zia Cheta, fu trovata da Rosina che rantolava, appena aperta la porta della casa dove aveva più a lungo vissuto…».

«Ma è poi vero che le stagioni precipitano? O non è più vero che ci vengono distillate le ore, una dopo l’altra, anzi gli attimi, come tanti puntini neri, accostati, confusi, eppure distinti e diversi? Forse è proprio il tempo il grande ingannatore, che non lascia mai scoprire se sonnolento rallenti o se conosca più spesso la violenza del vento. La madre di Stefano diceva: “Esti arribara cenabara”, ogni volta che arrivava il venerdì. Non c’era allora il fine settimana, la consuetudine del riposo ricreativo, e quella parola aveva perso il significato originario, e non aveva più neppure un solo accenno di festa…».

«Creatura senza tempo, faceva anche le visite, fuori dagli orari codificati. Gli amici e i parenti la chiamavano amabilmente la “signora del mezzogiorno” perché li raggiungeva a quell’ora disusata, a raccontare sempre le sue pene. Anch’esse senza tempo, senza mutamenti o pause, vinte solo dall’anima sua di lotta. Il cielo, quello che si succede sempre uguale, si chiudeva o forse si schiudeva la sera, quando scoccava l’ora del capelvenere. In quelle case povere dure c’era un lampo di luce ed era il balcone, dove fiorivano le ortensie. Ma più di queste le erbe, quasi a continuare di fuori la povertà domestica e a esporla senza più veli, ornavano quasi ogni verone. Le mamme spiavano che cessassero dal servizio le guardie municipali, pronte a punire ogni sgocciolio, l’infrazione più grave nella città siccitosa, da sempre. Allora anche Rosina, spente le luci alle sue spalle, viaggiava come un fantasma da un vaso all’altro del suo capelvenere. Era una felce elegante…»

«Ma il grande amore di Marcello, prima di mettere il piede in Africa, era stato per Angela. Ancora ad A., dove il fiume scivolava senza strappi, come i giorni che correvano con gli occhi chiusi sul mondo orrendo e feroce. Era un fiume largo che sembrava scorrere sicuro fra le sue sponde. Eppure anche straripava con distruzioni gravi dintorno, ed allora sembrava di più corrispondere al suo nome, che significava tuonare, risuonare. Marcello lo avrebbe rivisto quando, con Stefano e il naso sui vetri gocciolanti della baracca, contemplava a lungo le acque sterminate del Missouri, che avevano interamente coperto le piantagioni di granoturco, senza confini…».

«La storia d’amore di Stefano ebbe uno svolgimento parallelo, ma solo nel tempo e quasi negli stessi luoghi. C’era in quel suo amore per Meni la memoria del catechismo che gli avevano insegnato da bambino. Fatto di domande e risposte, rigide, senza ombra di dialogo, senza stimolo di curiosità. Contenute in un fascicoletto sdrucito, che già faceva paura per la sua misura modesta rispetto alla mole di dottrina che voleva investire. Lo si imparava a memoria, per prepararsi alla Prima Comunione. Anche quella stanza dell’associazione cui Stefano apparteneva, e che i gesuiti avevano scelto per la scuola di catechismo, era desolatamente inospitale. Nella parte più alta della chiesa, dove cunicoli oscuri portavano alla cupola e al campanile. Il circolo giovanile rimaneva giù a vociare nelle sale più ampie. Quei piccoli catecumeni vivevano appartati, Stefano accentuava la sua nativa separatezza, accresceva la sua sensibilità melanconica. Prigioniero della parola che non doveva conoscere errori, incertezze…».

«Per Stefano la guerra incominciò con un lungo viaggio attraverso l’Italia, che lo portò dal Piemonte a Castelvetrano in Sicilia. Erano stipati nella tradotta. Neppure alla bandiera del reggimento, che viaggiava infoderata in un’apposita guaina, fu assicurato un posto dignitoso. Scoppiò un litigio fra il colonnello comandante e il capostazione di Messina, che resisteva alla richiesta di aggiungere un vagone che avrebbe risolto il problema. Poi della bandiera non si seppe più nulla, perché la guerra moderna è senza bandiere…».

«Dopo la tentata difesa di Tripoli, la Libia fu un unico viaggio fino al Maheret, senza una tappa anche breve. Tutto di quel volo di fuggiaschi era sparito dalla memoria di Stefano, ed anche quello che ricordava della ritirata fino alla Tunisia non era sicuro se provenisse dai libri o appartenesse ad una reale memoria visiva. Come Misurata e le imponenti rovine di Leptis Magna. Perché la sua guerra era più veramente “tunisina” e la Libia era stato come una marcia di avvicinamento al vero e proprio fronte, dove era stato più a lungo…».

Già nella sua prima parte il libro è questo continuo, brioso, rapido aprire e chiudere la scena, è questo cambiare scena una due tre volte, e ancora in sequenza, perché è la vita stessa nel suo svolgimento ad esigere una narrazione lunga e spezzata o variata, una narrazione che investe i fatti ma anche il loro accompagnamento di pensieri e ripensamenti, di emozioni, contraddizioni e conquiste. Per il protagonista – o il protagonista doppio – è ormai scoccato, tra Africa ed America, il primo quarto di secolo nella espansione regolare della sua vita, il tempo che una volta misurava le generazioni: dopo la laurea, dopo il primo cimento professionale – lui professore di soltanto cinque o sei anni più grande degli allievi –, dopo l’amore – quello della prima esperienza e quello che sarà il motore fecondissimo di lunghi decenni dopo le nozze, ecco la guerra. Fino agli anni ’40 non c’è stata generazione di italiani che se la sia scampata la guerra, dopo tutte le battaglie campali per l’indipendenza nazionale, e quelle le coloniali nell’Africa nera con Crispi e nell’Africa bianca con Giolitti, ed in entrambe con i fascisti negli anni ’30, quella del 1915-18 o del gran macello ma pure obbligata per la nazione e la democrazia, quest’altra adesso…

Il capitolo XIX di Diario americano accenna ad un altro passo narrativo, pare mettere fine ad un certo racconto di testimonianza ed affidare al documento, al carteggio fra due amici, la messa a punto di episodi che hanno lasciato traccia di sé, ma pure abbisognano d’un supplemento di verifica. E qui va detto che il professore ha coltivato sempre la buona maniera e l’arte dello scrivere lettere: carte e cartoncini segnati dalla sua stilografica sono nelle raccolte epistolari di molti con i quali egli ha voluto condividere parte almeno del suo mondo interiore, delle sue riflessioni e delle sue emozioni…

Salda la prima parte con la seconda questo carteggio che ridà carne e sangue a chi s’è perso alla consuetudine, ma resta come un monumento nella memoria di vita.

«[25 novembre 1955] Caro Stefano, avevi proprio ragione tu, quando mi dicevi che in guerra si va senza sapere perché. Sono dieci anni che siamo tornati a casa, ma io non l’ho dimenticata, anche se ancora non so perché ci sono andato. Volontario come te che pure tenevi a rimanere in Sardegna…

«[20 maggio 1956] Carissimo Marcello, non ti ho scritto per tanto tempo, perché c’è un’amarezza che mi accompagna, senza che riesca a liberarmene. Eppure la data della tua lettera (25 novembre 1955) mi era riuscita augurale. Anche se tu non lo sapevi, forse, che quello era il giorno del mio compleanno. Se fossi nato femmina, mi avrebbero chiamato Caterina…

«[28 marzo 1961] Caro Stefano, lo sai che questa non è la mia terra. Sono qui perché i miei antenati, quando hanno lasciato la Sardegna per rientrare in Piemonte, da cui erano venuti giù nell’Isola nel secolo XVIII, si sono fermati a mezza strada, appunto in Liguria. Non siamo ridiventati piemontesi, ed anche per questo io mi sento, per riempire il vuoto che quelle vicende familiari hanno aperto, un po’sardo, anzi, per dirla tutta, più sardo di te. Le donne isolane che i miei antenati piemontesi han sposato hanno fatto più di loro…

«[27 novembre 1961] Caro Marcello, lo sai che questo era l’anno del centenario dell’Unità d’Italia? O anche per te la ricorrenza è passata senza suscitare memorie e riaccendere l’antico amore?…

«[20 luglio 1963] Caro Marcello, tu mi chiedi che cosa sia rimasto dell’America nella mia anima, ora che fa vent’anni che ne siamo ritornati. Molto, ti rispondo. Anche se è più quello che ho letto, di quanto ho realmente visto o vissuto. Eravamo “collaboratori”, ma questo solo per pochi ha voluto dire vivere in mezzo alla gente. E’ il sistema militare americano, che ci ha privato di quella esperienza diretta. I campi di concentramento erano stati concepiti come i “forts” ottocenteschi. Lontani dagli abitati e del tutto autosufficienti. Con cappelle, campi sportivi, spacci, teatro e cinema. Avevamo tutto, meno che la “gente”…

«[13 giugno 1970] Caro Marcello, tu vuoi sempre che ti parli dei sardi, ed invece io continuo a insistere sugli americani. Sono loro che hanno segnato la nostra vita, o solo la mia…

«[10 ottobre 1970] Caro Marcello, non so proprio a chi trasmettere queste ultime memorie. Da quando sono tornato a casa, e sono ormai venticinque anni, l’ho fatto tante volte questo racconto, fra gli amici di qua. Ma intanto le parole si sono logorate, ed anche i ricordi. Sono rimaste le immagini che con l’età sembra si facciano più folte, più lucide. Per questo ti mando un’altra puntata del racconto americano…

«[22 novembre 1970] Caro Marcello, no, non sono così, come ho concluso nella lettera che ti ho inviato un mese fa, gli americani sono diversi. Le mie conoscenze sono ancora libresche, come credo che rimarranno per il resto della mia vita…

«[Natale 1970] Carissimo Stefano, aspetto sempre che tu mi parli della nostra Sardegna e, invece, come hai fatto ancora nell’ultima lettera, torni ogni volta alla tua “ossessione” americana… ».

Conclusione: «Stefano, continuava a dirmi Marcello ogni volta che gli telefonavo, non rispose a quella lettera dell’amico. O forse sì. Dopo alcuni decenni che sono trascorsi, ancora frugando fra il mar di carte che mi ha lasciato, con la speranza che potessi io riuscire a riordinarlo, forse troverò qualche scritto, che – se non sarà la lettera che Marcello ha atteso invano – potrebbe contenere le idee che l’avrebbero animata. Anche se aggiunge che quello che segue non è tutto di Stefano, anche se ci siamo impegnati ad essergli il più possibile vicini».

La cavalcata fra gli incipit può ripartire dal capitolo XX, che sembra riprendere, sul doppio livello dei fatti e dei pensieri, il racconto autobiografico, schermato ma riconoscibile, saldatura discreta fra storia e vita: «Stefano si tolse dal taschino la fotografia di Meni, che [il fratello di questa] gli aveva mandato nel fitto scambio delle lettere “africane”. Sedeva su un pianoro inventato, con gli sci ancora allacciati, non lontano dal Po, ancora quieto prima di raggiunger M. e il ponte di mattoni su tre arcate che lo varca. Aveva un viso lieto come sempre, sorridente, luminoso senza bisogno di parole. Stefano la accarezzò, la baciò, la ripose dentro quella custodia segreta. Vi rimase anche quando quelle lettere, che si erano scambiati, e quella piccola fotografia furono bruciate dalla mano tremante di Stefano, la mattina che lasciò la sua casa per andare a sposarsi. La ricordò sempre, ne parlò sempre. La sua prima figlia si chiamò Domenica come Meni, mentre la seconda Enrica come zia Cheta. Ma un giorno che la memoria era, come i luoghi, anche più ravvicinata, volò via da Verona, dove presiedeva la commissione degli esami di maturità, fino a M. Non era cambiato nulla. Rivide la chiesa, sul cui sagrato aveva visto per la prima volta affacciarsi Meni, dalla finestrella della scuola di religione… gli fu indicato il loculo, alto sul muro che circondava il verde quadrato. Non fu necessario accennare alla sua morte tragica, per sentire dintorno una stima intatta, una memoria cara ancora viva. Meni dal marmo sorrideva ancora… Quando se ne staccò, Stefano non ebbe che uno sguardo distratto per il castello del secolo XIV, dimora dei Vassallo di Castiglione, dove aveva abitato prima di partire per l’Africa…».

«Stefano diceva che quella che faceva, piegato dagli inviti degli amici, era la prima e l’ultima crociera della sua vita. Ma non era vero, ce n’era stata un’altra assai più lontana di quella che per sette giorni lo aveva portato per il mare di Grecia. Era stato il viaggio di ritorno dalla prigionia americana. Della crociera aveva avuto il riposo liberatorio, la smemoratezza che lascia lontano tutto quanto ci ha seguito dappresso…».

«Dopo la zuffa della notte del 25 luglio 1943, la navigazione fu uguale. Quei soldati non reagivano più alle notizie dell’Italia finita, invasa. Non conoscevano quasi più contrasti, le discussioni erano sempre meno accese. Erano stanchi, riposavano nei duri “castelli” della stiva della Liberty, quasi ininterrottamente. Vedevano il cielo quando raramente salivano sulla tolda. Il convoglio allora acquistava tutta la sua imponenza. Quasi cento navi da guerra e da trasporto punteggiavano l’Oceano. E tutto era o sembrava quieto, quasi fuori dalla guerra…».

«I gridi che salutarono Lussu, nella leggenda che nella città di Stefano circondò il valoroso combattente della prima guerra mondiale, non furono uno solo ma due. Il più noto è quello del marinaio che, riconosciutolo mentre lo portavano, la mattina del 7 novembre 1927, verso la nave che lo avrebbe trasferito al confino di Lipari, sporgendosi da una barca da pesca, lo saluta a pieni polmoni: “Viva Lussu! Viva l’Italia!”. L’altro è meno noto, eppure non c’è quasi cittadino di Genna Maria, che alimenta questa leggenda da bambino, che non creda di averlo sentito risuonare come una scudisciata nella notte…».

Rimane ancora l’America nel flashback, ma sale con maggiori accenti, d’ora in poi, la nuova storia di Stefano-Antonio: i nuovi incontri e le nuove scelte, le nuove fatiche per le nuove mete. Si allarga l’orizzonte intellettuale che assorbe in sé, nutrendosene, ogni valore civile e democratico che la scuola e la società nella sua interezza esprimono ed esigono. E’ qui, in fondo, il capolavoro della vita di Antonio Romagnino, nella saldatura fra letteratura – ed insegnamento della letteratura – ed impegno civile, non importa se nell’associazionismo o nelle tribune delle libere voci. E risiede proprio in questo l’autorevolezza anche pedagogica della sua più che trentennale docenza, quel dimostrare nell’ordinario il ponte necessario, fattibile e compiuto fra l’aula scolastica e la città larga che prefigura poi la complessità della nazione tutta, le sue tensioni interne, le sue contraddizioni, ma anche la sua sostanza storica, e le sue potenzialità di progresso.

Così continua, rapido e regolare, lo scrittore nella sua testimonianza:

«Ma a Genna Maria Stefano non ne trovò molti altri di uomini politici che corrispondessero a quegli ideali di libertà e di giustizia, di cui si era nutrito negli anni americani. Uno di questi pochi fu Francesco Cocco Ortu junior, nipote del deputato e ministro giolittiano, dello stesso nome. Si conobbero che Stefano era rientrato a Genna Maria da qualche settimana e subito fra i due nacque un rapporto vivo, in cui le coincidenze a lungo prevalsero sulle divergenze. Anche se il liberalismo di Cocco Ortu era accompagnato dalla convinzione che, parallelamente alla “religione della libertà”, che poteva difendere solo i diritti politici e civili, doveva essere ugualmente sostenuta e difesa la libertà economica. Stefano avvertiva che quel nodo andava facendosi sempre più aggrovigliato…».

«Gli storici si sono di recente divisi fra chi fa risalire la profonda crisi della nazione alla sconfitta nella seconda guerra mondiale e quindi alla resa dell’8 settembre, e chi, invece, individua nella Resistenza un tentativo di recupero dell’identità nazionale, chiusasi con il 25 aprile 1945. E sono sempre le une e le altre faticose conclusioni, cui perviene il pensiero storiografico. Cocco Ortu vide con occhi lucidi la crisi devastante di lunghi anni, vivendoli senza illusioni…».

«Quelle due creature, Cesare Bolognesi e Francesco Tumiati, furono protagonisti in quella rieducazione alla libertà che Stefano visse fra la giovinezza e la piena maturità…».

«Quell’intiepidimento dell’idea dell’America si era prodotto in Stefano lentamente. Anche se presto si era sentito insofferente delle forme banali e effimere che aveva assunto nel suo Paese l’americanizzazione. Prima era stata un residuato dell’occupazione militare, ridotta solo a coca-cola, chewing-gum e rock and roll, poi si era consumata l’influenza della NATO contro l’Unione Sovietica. Ma ancor più tardi era sembrato sbriciolarsi lo zoccolo di quell’idea, che era stato il moralismo di una società mantenutasi a lungo puritana e rigorista…».

«Ma quei tre “disubbidienti”, che Stefano identificò come i grandi testimoni del suo tempo, si riconoscevano tali anche fra loro. Operarono diversamente e però si incontrarono, e l’uno sopravvissuto ricordava l’altro che era già morto. Così fece Ernesto Balducci per David Maria Turoldo. Il Padre scolopio aveva tolto alla Grazia di Dio ogni velo. Era diventata da enigmatica ed invisibile un volto, una creatura in carne ed ossa… Anche quando, ricordava lo scolopio, i ricchi si fanno poveri, come accadde a don Milani, che uscì da una famiglia opulenta per confondersi con i montanari di Barbiana, non riescono ad essere ilari. Don Milani appariva sempre immusonito e autopunitivo, e punitivo era ancora con i suoi ragazzi, a cui negava di divertirsi. Invece padre Turoldo custodiva in sé “la sapienza dei poveri”… Stefano aveva raccolto quell’esortazione di padre Balducci, ed aveva fatto di don Milani uno dei sui “maestri”, anche se ai tempi della Lettera ad una professoressa, come insegnante, aveva difeso la “corporazione” e non aveva raccolto quanto vi era di felicemente “sovversivo” in quello scritto… Ma quando Stefano parlava, anche in pubblico, di Ernesto Balducci si rappacificava anche con gli altri due…».

«Proprio l’America tornava nella memoria di Stefano, quando sentiva più imperioso il richiamo di quei tre testimoni. L’America ridiventava attuale nell’età più matura, quando si facevano più sanguinose le lacerazioni del mondo. Tornava insieme con le idee utopiche di Ernesto Balducci, del “villaggio globale” e dell’“uomo planetario”. Senza che il primo volesse dire appiattimento e omologazione. Senza che il secondo si riducesse ad un senza patria o a un senza casa…».

«Me l’ha raccontata lui questa storia. Non ce n’è traccia nelle carte che mi ha affiato, come di quasi tutto quello che era appartenuto alla sua vita più lontana e più segreta. E è ora più difficile trascriverla dalla sua voce, che mormora ancora nella mia memoria. Qui, ho un dovere in più di fedeltà che la parola scritta, seppure disordinata dei suoi appunti, non mi richiede…».

«Marcello era l’amico più caro di Stefano che poi, generosamente, mi ha messo tante volte vicino a quel piemontese-ligure, i cui antenati avevano vissuto per due secoli in Sardegna, e altrettanti ormai ne avevano vissuto nella penisola. Erano venuti giù nel Seicento, dalla Val Sesia, piemontesi prima dei piemontesi…».

«Quando quell’anno stava per spirare, e ne mancavano una ventina prima che Stefano morisse, il suo parroco in quella cerimonia di fine d’anno detta del ringraziamento, che più di qualsiasi altra lo restituiva alla Chiesa, si tenne strettamente ai dati di quella stagione che periva. Informò i fedeli del numero esatto delle nozze che aveva celebrato, dei morti che aveva benedetto e accompagnato al cimitero, dei nati che aveva battezzato… Non aveva fatto i nomi dei Pistis, dei Melis, dei Porcu, che erano nati, si erano sposati, erano morti. Stefano che lo ascoltava attentamente, sapeva solo che non li avrebbe più visti, o appena se ne sarebbe accorto, come di quelli di cui già appena s’accorgeva, sulle pendici del colle, dal quale digradavano le case, dove abitava. Che quasi non riusciva più a riconoscere, che gli passavano zitti accanto…».

Ha reso tutto più facile, fra tante avversioni e tante necessità, lo sdoppiamento. Perché le anime più sensibili e problematiche, quelle che non possono contentarsi di quanto appare esigendo di… appagare, sono destinate quasi ineluttabilmente alla solitudine. Sembra troppo difficile, fuori quasi dall’umano, quello di intercettare chi possa associarsi intimamente, e per l’intero, ad una vita che pretende molto da sé e dal mondo. E allora una salvezza dal rischio incombente di ridursi a monade folle, viene dal gioco della mente che si concede un fratello-amico, e volendo anche più di uno. La salvezza è nell’immagine riflessa dallo specchio, è nella figura raccolta dall’inconscio e, insieme, pensata e costruita con gli artifici di un virtuoso utilitarismo. Uno specchio dell’anima e della mente rispondente non per automatismi, rivelatore invece dei livelli diversi della coscienza e della mente inquieta, sempre insoddisfatta nel concreto e sempre soddisfatta della sorte benigna, felice della cornice e inappagato o deluso del disegno.

In assoluto non è stato Romagnino il primo, ma lui è stato il nostro scrittore che, sul modello di un Dessì – il Dessì di Giacomo Scarbo –, ha portato nella nostra letteratura sarda contemporanea l’alter ego che muove la scena anche quando non c’è più, quando di lui rimane – azzardo creativo raddoppiato – soltanto il ricordo.

Quando sarà maturo il tempo, credo che proprio questo modello narrativo scelto e praticato in crescendo, nello sviluppo progressivo della sua produzione, dal professore nostro amico e Maestro entrerà nella analisi e nel giudizio dei competenti, chiamati a dare a noi chiavi interpretative più approfondite del suo genio e della sua talentuosa originale produzione.

E questo ci aiuterà ad entrare, utilizzando ancora e meglio i materiali che egli ci ha lasciato, quelli cioè certificati dalla sua firma, nella complessità del suo mondo morale e spirituale, fuori dalle regole delle religioni e delle Chiese, ma pur mai indifferente ai tratti e alle suggestioni della sua prima educazione, delle grandi opere di letteratura portate a lezione nelle aule del Dettori, delle provocazioni conciliari e profetiche dei disubbidienti ai quali l’intellettuale cittadino del mondo si è associato ad un certo punto della sua vita, aggregando alla compagnia religiosa, ben a ragione, anche un Pasolini…

 

I mercati di Cagliari (con Anna Marceddu). AGE Roma, Carlo Delfino Editore, 2004.

Volume di grande formato e copertina dura, come a reggere e custodire un patrimonio che è anche di immagini e non soltanto di parole, questo edito da Carlo Delfino vede Antonio Romagnino autore del testo “Votato al progresso” muovere i suoi argomenti – ben sopportati dalle fotografie in bianco e nero delle collezioni Salvatore Nicosia e Nino Solinas – da “su connottu”, dal Partenone del largo Carlo Felice con le sue folle, i suoi piccioccus, le sue cromature e le sue voci (raccolte e rilanciate a beneficio dell’universo mondo da David Herbert Lawrence nel 1921), per aprire ad Anna Marceddu la possibilità di presentare l’oggi, i mercati popolari degli anni Duemila: da Sant’Elia a Santa Chiara, da San Benedetto a Via Quirra a Is Bingias di Pirri, ed agli ingrossi, dall’Ortofrutticolo ancora di viale Monastir all’Ittico di viale La Playa (in ultimo passati e migrati anch’essi).

Basterebbe rileggere quel che l’autore ha scritto tante volte proprio sull’umanità e i traffici del grande e storico mercato che, giusto alla vigilia della trentennale stagione amministrativa bacareddiana, era stato disegnato dall’ingegnere Enrico Melis Romagnino, padre del grande pittore/incisore e poeta Felice Melis Marini (quest’ultimo nipote, a sua volta, del medico mago della pietrificazione dei cadaveri Efisio Marini), per comprendere la passione di Antonio Romagnino per questo “tempio” civico, popolare, interclassista, luogo di relazione quotidiana e saldatura fra la città ed il suo entroterra.

Monumento di evidente pregio architettonico e insieme basilica riunitiva di quelle architetture umane (chiamata fare sistema) che sono gli slanci ed i motti spontanei degli avventori, il Partenone cagliaritano è valso… la cattedrale di Santa Maria, tanto più nei lunghi anni in quest’ultima aveva perduto – per bestemmia di piccone saggiatore – la sua solenne facciata barocca… Per tre decenni, fino all’impresa Giarrizzo, questo era capitato a Castello, umiliando per intero gli episcopati Balestra e Rossi, e la prima metà di quello Piovella. A valle rispondeva, intatto e prosperoso, il tempio laico, innalzato alla metà degli anni ’80 dell’Ottocento – alla vigilia quasi degli sconquassi bancari e dell’ascesa risanatrice e progressista di Ottone Bacaredda – e durato infine quasi ottant’anni. Tanto quasi la vita d’un uomo. Passando per le stagioni dello sviluppo civico come in quelle anagrafiche dell’umano: l’adolescenza nella tarda belle époque cagliaritana, la giovinezza e prima maturità nel ventennio di dittatura con l’appendice degli affronti dai bombardieri nel 1942-43, la terza età nel mezzo delle fatiche della ripresa postbellica, finalmente in democrazia.

Come una cattedrale quel Partenone costituiva una centrale raggiunta e frequentata da tutti, da castellani e lapolesi, stampacini e villanovesi, e da altri ancora per l’abbondanza delle derrate e l’assortimento della scelta, a sua volta conseguenza della varietà territoriale delle produzioni.

Del tutto merita, concentrato e godibile, l’apertura, perché dà la misura e il tono del viaggio garbato cui il letterato si appresta, rispettando e anzi amando questo originale percorso de-accademizzato:  «Ogni città, anzi ogni luogo, ha un suo mito che la fascia a lungo e non sembra poter tramontare. Il ventre di Cagliari, questo mettere sopra ogni altra cosa, la possibilità di soddisfare il proprio appetito, sembra avere da sempre caratterizzato  i suoi cittadini. Così si spiega che nella sua storia abbiano avuto più importanza le botteghe degli alimentari e i mercati, ora centrali ora rionali, che non gli ospedali, che pure risalgono, a Cagliari, al Medio Evo e le assicurano un posto notevole nella storia sanitaria del Paese. Così si spiega anche che il mercato, eretto nel cuore della città e inaugurato nel 1886, abbia anche rappresentato fra i due secoli, con cui il secondo millennio si è chiuso, uno dei più importanti suoi monumenti e la funzione di soddisfare la passione gastronomica dei cagliaritani abbia avuto anche influenza per rilevarne il valore architettonico…».

Romagnino, come lo stesso Alziator, ha spiccata la sensibilità ai simboli, alle raffigurazioni esemplificative. E il mercato nella declinazione anche dei suo insediamenti, che porta alle distinzioni per specificità, è proprio uno di quei compendi che meglio si presta a convogliare e riassumere valori identitari, esperienze rivelatrici del costume di famiglie e ceti e quartieri, che ben possono definire i tratti essenziali di una realtà urbana in un tempo storico perfino secolare: o tratti di una umanità verace (anche quella del dialetto, che essa raccoglie come un arricchimento, e senza aria di sufficienza, da chi viene in città, con le proprie merci, dai paesi).

Il miracolo del Partenone infatti si replicherà a San Benedetto – il megamercato del quartiere ormai più popoloso della Cagliari nuova e dei suoi ceti di mezzo, impiegatizi e professionali. Ma anche altrove: a Santa Chiara e in via Pola, siti opposti di doppio quadrato di Stampace, l’uno nel raccordo alto con Castello e la Marina, l’altro sull’asse territoriale più basso, quasi di perimetro, orientato verso di Sant’Avendrace e contornato dai rioni a densa e stratificata edificazione fra il viale Trieste ed il corso Vittorio Emanuele… Né questo chiude l’elenco, perché il policentrismo annonario cagliaritano ha giustamente guardato – nel tempo che ha preceduto l’era delle città mercato – ai quartieri diffusi, evidentemente anche ai nuovi, come quello di Is Mirrionis/San Michele noto come di via Quirra… che di umori cittadini ne ha di suoi particolarissimi, o quello di Is Bingias o di Sant’Elia, periferie o già città in sé.

Ma Romagnino l’unico allungo che si consente è a San Benedetto, più per raccontare il prima – il prima dell’insediamento del mercato, nel quartiere che ha preso il nome dal convento antico sulla strada per Quartu – che non per descrivere quanto invece saranno le fotografie della Marceddu a raccontare con fascinosa efficacia (e fra esse una, bellissima con fra Lorenzo Pinna).

Voluto e presentato dal sindaco Emilio Floris e dall’assessore Luciano Collu, il libro si apre, come detto, con il testo di una quarantina di pagine inframmezzate dai bellissimi scatti documentari dei fotografi d’un tempo. Se possa valere come indicazione almeno della sequenza degli “scenari di memoria” aperti e offerti al gusto del lettore, eccone i titoli: “Le figure popolari”, “Su piccioccu de crobi”, “Una controversa questione” (sulle ipotesi che negli anni ’70 dell’Ottocento coinvolsero l’Amministrazione civica e non solo lei circa il sito in cui costruire il nuovo mercato, dopo la decisione presa di superare quell’allestimento precario di baracche nella parte alta del Largo), “Anche il mercato di Cagliari entra nel grande tour”, “Il nuovo mercato di San Benedetto”, “Le commissioni comunali”, “Il dialetto ritrovato”, “Chi l’ha raccontato e predisegnato”.

C’è spazio in tale contesto, o almeno lo scrittore se lo ricava seguendo antiche propensioni di curiosità e anche interessi di studio, per una zoomata sui nomi scientifici e i nomi dialettali in particolare di quei pesci e molluschi che più spesso fanno bella mostra di sé sui banchi umidi e odorosi del mare della città, che è appunto città di mare: dai “fisostomi” (Anguilla Vulgaris o Anguidda) agli “anacantini” (Merlucius Vulgaris o Merluzzu), dagli “acantoperigi” (Heliases Chromis  o Mongixedda o Mongia niedda) ai “cefalopodi” (Sepia officinalis o Sepiedda, Octopus macropus o Prupu giudeu), ai “lamellibranchi” (Tapes decussatus o sa Cocciula niedda, Mactra stultorum o sa Cocciula imbriaga)…

 

Preferisco il rumore del mare. Antonio Romagnino racconta la storia culturale di Cagliari degli ultimi due secoli. Cagliari, CUEC, 2005.

E’ questo il primo volume che, data almeno la matrice della casa editrice, associa l’autore al mondo universitario. E, sul piano almeno nominalistico, lo riporta alle densità delle forniture della Biblioteca universitaria, da lui frequentata da studente e da professore, sempre, ed esplorata nei fondi manoscritti non meno che nelle rassegne dell’emeroteca, comprese quelle da cui trasse i materiali per la sua tesi di laurea.

Impostato su due soli capitoli – “L’Ottocento” ed “Il Novecento” –  l’opera si spande nella creazione di gallerie nominative delle maggiori personalità della cultura, non soltanto quella letteraria o storica, ma anche civile e politica, dell’Isola e di Cagliari in particolare nel secolo “continuato”. Ché appare evidente una specie di prosecuzione ideale o di timbro etico, fra i protagonisti pubblici dell’Ottocento – soprattutto del secondo Ottocento – e quelli del Novecento – soprattutto del primo Novecento. Rassegna di testimoni, potrebbe anche dirsi, di un certo filone, largo e variegato, ma non senza un’evidente intima coerenza – almeno per il grosso – attorno ad alcuni valori di base: sentimento di sardità, approccio umanistico, idealità liberale e/o democratica, perfino obiettivi autonomistici (o travagli autonomistici in chi s’è fatto volontariamente prigioniero di una militanza in forze non regionaliste od autonomistiche e, per sovrappiù, a… democrazia limitata).

Uomini di penna tutti quanti, anche se non soltanto di penna ma altresì, taluno almeno (soprattutto nel Novecento), di impegno civile e perfino istituzionale. «Li abbiamo ricordati perché con i loro scritti ci hanno fatto migliori: i loro saggi, le loro fantasie sono anche l’opera educativa che ha influito su Cagliari e la Sardegna tutta – annota Romagnino –. Il capoluogo dell’Isola non è solo la città delle torri medievali di San Pancrazio e dell’Elefante, dei dieci colli e del mare, ma anche la patria di nascita o d’adozione di tanti scrittori creativi e di tanti saggisti, di poeti e di prosatori, di pensatori e di inventori».

Potrebbe anche dirsi che i contenuti di Preferisco il rumore del mare sono, per certi aspetti, una ripresa del bellissimo saggio che lo stesso Romagnino consegnò nel 1996 a Cagliari alle soglie del Novecento, un volume collettaneo (Silvia Martelli, Franco Masala, Antonello Sanna, Antonio Romagnino) prefato da Pasquale Mistretta e pubblicato, con grande finezza grafica, dalla Demos editore (Cooperativa area Urbana). Il contributo di Romagnino porta il titolo di “La cultura a Cagliari tra Ottocento e Novecento”.

Questa parentesi consente un ulteriore inciso, recuperando anche quanto già accennato. Occorrerà riunire in un unico organico regesto le partecipazioni del professore alle opere collettanee, cui con la generosità sua propria e dell’uomo di scuola non si è mai negato. E ai contributi ben si possono assimilare le presentazioni, come prefatore. Tutto sarà più complicato che non a stendere gli elenchi dei libri a sua firma esclusiva (o con Ludovica), ma pure sarà necessario, perché proprio da quei contributi sparsi emergerà con nettezza, e come conferma, quanto già ormai sia noto: l’ampiezza dell’arco tematico degli interventi dello scrittore, e insieme l’unitarietà degli svolgimenti che rimandano infine ad una stessa matrice originaria – la fonte creativa –, all’impasto umile e orgoglioso di Cagliari con i valori universali della cultura e della libertà.

Il risvolto di copertina di Preferisco il rumore del mare anticipa nomi, contenuti e linee interpretative per la comprensione profonda degli apporti recati alla vita morale della città lungo molti decenni, quelli che hanno preparato, accompagnato o guidato la modernizzazione di Cagliari, fra le molte complicazioni offerte o imposte dalla storia, le due guerre mondiali e la dittatura fra esse… Eccone alcuni passaggi, che sono poi la composizione degli stralci tratti dalle diverse schede:

«C’è una figura nuova nella vita culturale della Cagliari dell’Ottocento, quella dell’intellettuale che non si estrania dalla vita pubblica e, pur senza ricoprire cariche politiche e amministrative, vi partecipa col suo pensiero e con gli scritti, spesso vivacemente polemici. Fra i molti che meriterebbero di essere citati vi è Efisio Bacaredda, padre del celebre Ottone, romanziere e sindaco della città, nell’alta carica per circa trent’anni. Con lo pseudonimo di Emilio Bonfis, Bacaredda senior pubblica nel 1884 Cagliari ai miei tempi, che si rivela un documento di quella pratica della partecipazione che agli inizi del secolo Alexis de Tocqueville aveva teorizzato nel suo saggio Della democrazia in America (1853), nato da un lungo soggiorno negli Stati Uniti. Quando Emilio Bonfis scrisse il suo saggio, Cagliari aveva appena trentamila abitanti ma presto, all’inizio del nuovo secolo, ne avrebbe avuto cinquantamila. Era una città commerciale e l’aumento della popolazione proponeva due problemi impellenti: la creazione di un pubblico mercato e l’incremento dell’edilizia»…

«Francesco Zedda si è formato a Cagliari, in una giovanissima facoltà di Lettere che esprimeva vivacità di interessi e un grande amore per la letteratura. Come l’intera città, del resto, che si segnalava, in un periodo concluso nella seconda guerra mondiale, per un clima caratterizzato dalle stagioni di prosa e del teatro lirico, dalla passione per il cinema e per le esecuzioni musicali, per la poesia, il futurismo e Marinetti, la presenza di Salvatore Quasimodo. E’ una pagina di storia cittadina che dovrebbe essere studiata e descritta, sottratta alle rievocazioni nostalgiche e alle polemiche sottovalutazioni, messa in luce perché meglio si comprenda l’apporto che dalla città capoluogo è venuto alla civiltà letteraria sarda».

Sono due nomi – quello di Efisio Bacaredda e quello di Cino Zedda – che editore e autore hanno concordemente assunto come emblematici delle due ere alle quali guarda, o nelle quali indaga, il libro. Il secondo dei due poi si salda, in qualche modo, per anagrafi contigue, alla vicenda di vita – di università e di fervore intellettuale – dello stesso Romagnino. Ma certo l’elenco è lungo…

Ecco così, a seguire, la sfilza dei nominativi richiamati, il che costituisce la prova di quanto affacciato. Nell’Ottocento: “Tre precursori” (il riferimento è a Francesco Ignazio Mannu, Domenico Alberto Azuni e Vincenzo Sulis), “Giovanni Spano, cagliaritano d’adozione”, “Un pensatore solitario” (cioè Giovanni Battista Tuveri), “Un celebre architetto, Gaetano Cima”, “Filippo Vivanet”, “Dionigi Scano”, “La narrativa. Carlo Brundo e Ottone Bacaredda”. Ma nel mezzo ecco gli approfondimenti tematici: “I primi decenni del secolo XIX”, “Cagliari e il dialetto”, “Il libero intervento dei cittadini” (riferito al dibattito pubblico sulle trasformazioni urbane del capoluogo e l’offerta anche di proposte e piani precisamente confezionati, come quello del Todde Deplano), “Storia dell’Università”, “La poesia”, “La stampa. Periodici, riviste, giornali”.

E poi il Novecento: “Cagliari nel nuovo secolo. Antonio Scano”, “Antonio Gramsci”, “Raffa Garzia”, “Raimondo Carta Raspi”, “Emilio Lussu”, “Nicola Valle”, “Giovanni Battista Melis”, “Sebastiano Dessanay”, “Luigi Pirastu”, “Renzo Laconi”, “Umberto Cardia”,. “Gli ambientalisti. Manlio Chiappini e Siro Vannelli”, “Giuseppe Dessì”, “Francesco (o Cino) Zedda”, “Antonio Puddu”, “Marcello Serra”, “Michelangelo Pira”, “Giuseppe Fiori”, “Giulio Angioni”, “Francesco Masala”, “Bachisio Zizi”, “Antonio Cossu”, “Sergio Atzeni”. Anche stavolta con molte zoomate tematiche, per allargare il giro uscendo dai recinti biografici: “L’archeologia”, “La filosofia”, “Poeti e narratori”, “Patrimonio storico-artistico”, “La storia dell’Università”, “La stampa: quotidiani e periodici”, “Gli intellettuali e i caffè letterari”, “Il teatro”, “L’ultima stagione. Il noir e la poesia”. Ed è mettendosi proprio sull’onda degli autori che talento e sensibilità di natura hanno promosso al rango di poeti, che così Antonio Romagnino conclude il suo libro, riprendendo una sua battaglia di sempre: «Quello che, invece, sembra negativo è piuttosto l’unica direzionalità del lettore, per il quale “scrittore” sembra voler dire solo “romanziere” e il narratore è prevalentemente noir. Scompaiono il saggista, il memorialista, il diarista, il frammentista, ecc. Con una rimozione più dolorosa, sempre più accentuata, della poesia. Eppure di poeti, che a Cagliari, per tutto il secolo che si è appena chiuso, hanno scritto poesie sia in italiano che in sardo, ce ne sono stati… Torniamo, dunque, anche alla poesia.

«Perché è la poesia che più concorda con la quiete del mare. E alla poesia, come scelta personale, pensavamo quando a questa rievocazione storica, che ha anch’essa soste e riprese, si è dato il titolo metaforico di “Preferisco il rumore del mare”.

«Ora sospiroso, ora violentemente affannato».

Il libro, che presenta nella parte conclusiva tre schede “ospiti” – “Museo archeologico nazionale”,   “Pinacoteca nazionale Museo siamese e Collezione delle cere” e “Le collezioni d’arte nel palazzo dell’Università” (a firma rispettivamente di Carlo Tronchetti e, la seconda e la terza, di Gianni Murtas), raccoglie – secondo un modulo già abbondantemente collaudato e assai opportuno, perché evita la dispersione degli affidamenti al giornale quotidiano – numerosi scritti anticipati su L’Unione Sarda e non solo; altri, riferiti a personaggi magari biografati in libri usciti più di recente, sono invece inediti.

Un inserto fotografico con 20 istantanee seppiate favorisce la lettura sentimentale, riproponendo alcuni dei luoghi (e dei pezzi di umanità) distintivi della città: da su mercau becciu, con i suoi piccioccus de crobi a su Siccu e in lontananza la basilica di Bonaria, sa Costa (cioè la via Manno) e i tetti di Stampace e Castello, il Politeama Margherita e la passeggiata alberata della via Roma, le distruzioni belliche e i bagnanti sulle dune del Poetto più prossime alla costruzione dell’Ospedale Marino, il treno a vapore del Campidano e i traffici portuali, l’interno del Civico, la doppia scalinata del Bastione di Saint Remy e ancora l’impianto incompiuto della basilica mercedaria.

Non può non aggiungersi che il libro è gemellato a un dvd della durata di 36 minuti – omaggio alle nuove tecnologie – in cui l’immagine e la voce dello scrittore sono fissati per la storia. Egli parla della città, sempre della città di ieri e di domani, della città presente che non sa forse pienamente cogliere e valorizzare quanto le è venuto dalla sua storia trascorsa, e anche quanto pur le si presenta come tesoro potenziale per il suo futuro. «Je préfere le bruit de la mer», documentario curato da Peter Marcialis nel gennaio 2005.

Immagini di periferia desolata e deserta, attraversata soltanto da qualche carretto, e di centro affollato e tutto movimento, di mare piatto solcato da qualche barca di pescatori, di tetti e cupole, di case e monumenti, di strade e traffico, tutto questo apre e accompagna il documentario. Parla, il professore, dal suo studio nella casa alta che riceve nella terrazza gli umori e gli odori degli alberi di Monte Urpinu: e la videoregistrazione da quell’elegante interno domestico si miscela, nel montaggio, con gli ampex delle passeggiate al bastione di Saint Remy – lo sguardo sul porto, la darsena e lo scalo industriale di Macchiareddu – e in via Sardegna e via Roma, nel viale Buoncammino, in piazza Indipendenza e via Lamarmora, e si miscela anche con gli inserti delle fotografie del protagonista ancora giovane, di quaranta o cinquant’anni, e forse più, fa.

Sono una decina i temi su cui il professore è chiamato a dare una sua opinione, oppure a donare un pezzo di memoria per accompagnarla però con un elemento meditativo, valido per l’oggi e anche il domani: s’inizia con la dimensione comunitaria della città che egli ritiene perduta per sempre, e cui pare mettere parziale od occasionale rimedio… l’autobus, il mezzo pubblico alternativo alla vettura privata: capace appunto di favorire gli incontri, uno sguardo, un sorriso, una chiacchiera magari estemporanea…

Ci sono poi, a riempire o dare legittimazione al tratto civico, propriamente comunitario della Cagliari d’un tempo, le memorie del mercato-Partenone (quello del pesce, della carne e della verdura) frequentato dai residenti in tutti e quattro i quattro i quartieri, da is meris de domu delle appendici e di Castello, e con le memorie la mitologia sempre dei piccioccus de crobi, come aiuto soprattutto de is meris più agiate e spesso domiciliate più lontano dal Largo, magari proprio a Castello, nei palazzi aviti della nobiltà o quelli della borghesia professionale…

Altre memorie, pur indirette, s’affacciano nel racconto delle distruzioni del 1943, quando le fortezze volanti sganciavano il fuoco sulla città; allora, lui, il professore, era lontano dall’Isola, combatteva con le truppe regolari la guerra sul fronte libico o tunisino, e le devastazioni le avrebbe viste e toccate al suo rientro in patria, a guerra finita, e anche a prigionia finita…  Si sofferma sul racconto di quella esperienza limitativa certo della propria libertà, ma preziosa in massima misura perché occasione di autentica rieducazione democratica per lui, e forse per una generazione cresciuta pressoché interamente sotto le leggi e i costumi della dittatura fascista: erano 50mila gli italiani prigionieri ceduti dalla Gran Bretagna, che già aveva fatto il pieno nei suoi campi magari in Africa, in Kenia o più a sud, agli Stati Uniti; i quattro quinti accettarono la proposta dello sforzo o dell’impegno collaborativo, della riconversione democratica, del lavoro perfino retribuito nelle “unità di servizio” attivate in aree sostanzialmente rurali del continente americano, presso popolazioni democraticamente mature, consapevoli del proprio diritto-dovere alla partecipazione al governo della cosa pubblica…

Si riaffacciano qui le memorie del rientro nella città devastata, a fine 1945, del ritorno a casa in quella parte alta della via Larmarora, e dell’abbraccio piangente con la mare che gli confida «T’appu salvau is librus»: i libri, tanti quanti potevano starcene forse in due valigie al massimo, ma che erano la ricchezza vera della casa. «E’ da lì forse, anche da lì, che in me è cresciuto l’amore ai libri, ai libri che mia madre aveva richiamato senza averli letti»…

C’è poi il capitolo scolastico imperniato sul «padre-fratello-amico-compagno di viaggio di quelli che ti sono stati affidati», estrapolato dalla magistrale Lettera ad una professoressa di don Milani: e la confidenza si apre qui alle cronache dei cosiddetti “colloqui”, ai contenuti degli incontri dell’insegnante con i genitori dei suoi allievi, non per dire di voti ma per scambiarsi notizie proprio sui ragazzi: un discorso largo, la rivendicazione della scuola come «un bene perduto», della condizione altra degli insegnanti rispetto ai dipendenti pubblici od agli impiegati degli uffici, perché essenzialmente «educatori: capaci di dare all’altro e praticare quello in cui si crede…».

Si ritorna alla città: ai luoghi delle passeggiate collettive, espressione di quel sentimento comunitario che ancora ha resistito per qualche decennio dopo la seconda guerra mondiale, per tramontare poi forse per sempre: al bastione, nella via Roma, sotto la protezione dei portici o sui marciapiede sotto il cielo, à plein air, di fronte al mare.

Poi i teatri, le strutture materiali che una città di medie dimensioni come Cagliari s’era data sfidando in virtù i più grandi capoluoghi, l’amore per la prosa e soprattutto per la lirica, l’amore per Schiavazzi e l’ammirazione per De Muro… E un altro amore nell’alta classifica della vita morale, un amore dato e ricevuto, e riassunto nel nome di fra Nicola da Gesturi: la creatura che sapeva ascoltare e consolava ascoltando, non parlando, «ché la sua voce nessuno l’ha forse mai udita: lui che accosta la testa, l’orecchio, alle labbra di chi piange il dissenso, la malattia, la disgrazia domestica…».

Quindi torna la scuola, ma per dire di una libertà intellettuale che può sfiorare la profezia: la poetica di Pier Paolo Pasolini portata in aula al di là dei programmi ministeriali fin dagli anni ’50 e ’60, «quando anche la critica più illuminata mormorava e non si sentiva di esprimersi sul ribelle che urtava la tradizione».

Ancora: la sofferenza per i momenti di ingiustizia che sembra si vadano moltiplicando nel mondo, anche a causa dei fondamentalismi, delle guerre di religione che paiono affacciarsi sul più grande scenario che tutti coinvolge (è ancora tempo della presidenza Bush, il tempo di echi vendicativi o punitivi dell’11 settembre): con l’assurdo che dalle religioni venga non un segno od una testimonianza di pace, ma il suo contrario…

Riflessioni sulla democrazia: data, come dogma morale, una professione antieconomicista, Romagnino confessa una visione politica che guarda ai successi sociali in termini non di prodotto interno lordo ma di servizi utili condivisi, si pone in logica inclusiva in cui la parola chiave è quella appresa nell’esperienza americana e dalla lezione di Tocqueville: partecipazione. «Perfino la pubblica amministrazione, una pubblica amministrazione che amasse essere giudicata sulla sua efficienza ed imparzialità, gradirebbe o forse solleciterebbe di essere accompagnata dal consenso, dal dissenso nel buon servizio alla cittadinanza» (questo è press’a poco il suo pensiero).

L’ultimo sguardo è alla città che deve riconquistarsi il mare come bene prezioso costitutivo della propria identità. Fonte anche di ricchezza, pur se in forme diverse che nel passato…

Tutto si fa riposato e dolce, dolcemente malinconico, nella riflessione di Antonio Romagnino, e il regista, nella scelta delle immagini e delle musiche che accompagnano le sue parole, riesce bene a sottolinearne la densità morale. E valgono bene, a chiudere, i versi di una poesia proprio del professore, che egli stesso legge mentre procede per il Fossario: «Ita bellu / a ti sciacquai sa facci, /non cussa chi si biri, / ma cussa tutta aintru, / asutta, asutta. / E contai, contai, / cussu chi no si contara, / cussu chi no si biri. / S’ora chi prus s’adattara / a custa operazioni / esti sa mesanotti. / Candu s’insonnia / non ti lassa paxi, / forzisi è s’arrimorsu / a ti donai sa paxi».

 

Cagliari di una volta. Foto della collezione privata di Sergio Orani. Cagliari, Zonza Editori, 2005.

Prezioso volume di grande formato e 160 pagine, Cagliari di una volta vede impegnato Antonio Romagnino, dopo che in una robusta prefazione, nella stesura di 180 (salvo errore) didascalie che accompagnano il curioso od appassionato osservatore nell’inquadramento sia tematico o ambientale che temporale del manufatto o della scena fissata nella lastra fotografica.

Sul piano generale è da dire che il percorso fisico suggerito è quello che va per quartieri, partendo dal centro storico per concludersi, dopo molto andare, emblematicamente, ai piedi della torre dell’Elefante, per alludere forse a un ritorno a casa.

Ecco così partire, magari col tram degli anni Venti e Trenta da piazza Arsenale, e lambire – scatto dopo scatto – le torri pisane ed i palazzi dei nobili di Castello, il Viceregio e la cattedrale senza facciata e con la nuova facciata, la piazza Carlo Alberto il giorno dello scoprimento della statua di San Francesco d’Assisi (1926), esterni ed interni del teatro civico o dell’università, i bastioni (in costruzione o già trionfanti) ripresi da svariati angoli d’osservazione ad iniziare da piazza Costituzione, ed il monumento ai caduti risorgimentali in piazza Martiri, il Terrapieno e i giardini pubblici, la passeggiata di Buoncammino e il viale Merello, piazza Kennedy a Is Stelladas e Villanova nel totale, il palazzo Brusa nel viale Ciusa in vista di Pirri, altre piazze ed altri edifici in San Benedetto, le elementari Riva di piazza Garibaldi ed il nuovo palazzo di Giustizia – e nel mezzo, con un ritorno che sembra ammonire a non dimenticare mai il passato, la chiesa di Santa Caterina alessandrina (quella frequentata dalla Deledda fattasi cagliaritana per un anno nel passaggio di secolo) e porta Stampace, la via Manno, la piazza Jenne e il Largo, il mitico Partenone naturalmente con i suoi immancabili piccioccus de crobi, le strade della Marina e l’interno (perduto per sempre) di Santa Lucia in via Sardegna, sa passillara del Corso, i tetti di Stampace, l’imponente facciata di Sant’Anna, la piazza del Carmine e il viale Trieste (già viale San Pietro), il viale Trento, Sant’Avendrace e, in rientro cittadino, la stazione, lo square (oggi mortificante piazza Matteotti), palazzo Vivanet e la via Roma versione antica e versione moderna, prima della palazzata e dopo, il municipio in costruzione e dopo, prima dei bombardamenti e dopo, la piazza Deffenu col suo orgoglioso palazzo Tirso sede della prima Unione Industriali e della SES, la via Sonnino (già via Nuova), il mattatoio, la basilica di Bonaria ancora cantiere e finalmente completata e fattasi accogliente della Sardegna tutta, il Poetto e il Lido, la Sella del diavolo e i bagnanti… Nel mezzo anche un’istantanea di papa Paolo VI in piedi sulla vettura che passa in via Roma in occasione della sua visita il 24 aprile 1970.

A rappresentare il tutto – toni e mezzi toni – o quasi, una didascalia, presa a caso: «La folla, che percorre la Via Università, è la più “cagliaritana” che si possa immaginare, patita per la musica e frequentatrice delle stagioni dell’opera lirica e della musica sinfonica. E’ avviata a prendere posto nei palchetti del Teatro Civico, negli anni Trenta, quando quel teatro, insieme con il Politeama Regina Margherita, premiava quella forte passione. E una decina di anni prima che di quel teatro i bombardamenti aerei facessero un cumulo di rovine. Queste sono state pietosamente raccolte, ma il Civico non è stato ricostruito».

 

Muschi e licheni. Racconti, Memorie, Personaggi. Cagliari, Zonza Editori, 2006.

Se il sottotitolo di La mano sul mento portava «Racconti, memorie, pensieri» questo nuovo e ultimo – nuovo e ultimo zibaldone – di poco si discosta, alludendo a «Racconti, Memorie, Personaggi», il che poi è vero, o è stato vero, dell’intera produzione letteraria di Antonio Romagnino. Anticipato fra i capitoli di Giorni e stagioni (1995), di La mano sul mento (2001), ma presente anche nelle citazioni d’invito (iniziando dal Tommaseo) e nelle classifiche scientifiche (quelle del Tosco), il titolo è qui nuovamente spiegato dall’autore in prima persona, nella dedica ideale – «Alla mia città che è nata ed è durata sui muschi e sui licheni delle sue rocce» – e nelle due epigrafi, la prima di Alberto Moravia, la seconda di Camillo Sbarbaro: «Mi piaceva osservare il musco vellutato, tutto imperlato in gocciole brillanti e costellato di fiorellini rosa che ricopriva le rocce», «Il lichene prospera nelle regioni, dalle nubi agli scogli spruzzati dal mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto, non lo sfratta il ghiacciaio».

Il libro (sono 158 pagine tutte godibilissime) si articola proprio in tre capitoli: la terza – che impegna la parte quantitativamente prevalente – dimostra il sottotitolo (appunto Racconti, memorie, personaggi), mentre le prime due si svolgono sotto quel cappello – rispettivamente «Muschi» e «Licheni» – concedendo all’autore di sfogare quella creatività tutta del pensiero e della sua conoscenza umanistica, e realizzare quei corpi “frammentati” che portano in viaggio il lettore. Dove?  da Ernesto Ferrero a Robert Pinsky, da Lucien Fabvre al vescovo di Le Mans, da Giaime Pintor a Proust, dai meteorologi agli eretici, da Sant’Antonio a Kieerkegaard… Appunti di diario, anticipati anche in altre opere, ma qui ripresi in una riscoperta vitalità, com’è ad esempio per il personale infortunio elettorale o per i funerali di Alberto Rodriguez…

Così va, dopo quella «Muschi», anche la sezione «Licheni»: qui il viaggio parte da Chateaubriand e Leopardi a Jacopo della Quercia, da Aron a Valery, da Wilde a Luigi Russo, da fra Nicola a Jean Hus e Savonarola e Giordano Bruno, dai roghi tutti a don Milani e Sandro Penna, da Tagore a Montaigne, da Gobetti a Marinetti, dalla limba («Un’intera pagina de L’Unione Sarda in limba sarda») al Parsifal-Lawrence, al “padrinato” (o comparaggio) di battesimo o cresima, al lupanare di Baudelaire… Anche stavolta, s’è detto, non sono rare le riprese dai testi che lo stesso Romagnino ha firmato e già offerto al suo pubblico in precedenza (si pensi sempre agli eretici bruciati vivi dall’Inquisizione ed a quelli della modernità conciliare, o ad autori come Lawrence o Penna…), ma sembra questo, ancora una volta, un modo per confermare un ragionamento logico, una riflessione morale, una osservazione civile che ben merita una nuova condivisione. Così come farebbe un conferenziere – e il professore è stato forse il più facondo e generoso conferenziere, con Nicola Valle e Francesco Alziator, dell’ultimo mezzo secolo cagliaritano…

Anche le pagine che danno corpo alla terza parte sono in gran parte conosciute, ma valgono, oltre che per il merito corporativo, perché raccolte finalmente, salvate cioè dalla dispersione cui inevitabilmente il foglio grande del giornale, che le ha nel tempo accolte ad illustrazione della storia maggiore e di quella minore della città, le avrebbe consegnate. Valgono anche qui – a dare almeno una idea della varietà dei temi trattati (biografie di uomini e luoghi, e cronaca di eventi) – ripassare l’indice: “A lezione tra i vetri rotti” (negli anni di guerra), “Giaime Pintor, il germanista, il poeta, l’eroe”, “Uno studioso della natura” (Siro Vannelli), “Il Terrapieno si affaccia nella memoria della città”, “Gli antichi porti di Cagliari”, “Vuillier, un attento viaggiatore ottocentesco”, “Tra i vicoli di Bagnaria. I colori dell’antico porto”, “La via Dritta che dritta non è”, “Viali e passeggiate verdi cagliaritane”, “La chiesa di Santa Chiara”, “La grotta della vipera. Una storia d’amore d’altri tempi”, “Saturnino, il santo che contese ad Efisio il primato a Cagliari”, “L’antica via dei pescatori dedicata a San Pietro”, “Mercati, negozianti, acquirenti e…”, “Un cagliaritano illustre: Francesco Alziator”,  “Alberto Lamarmora. L’amore per la Sardegna senza confini”, “Bonaria, un monumento storico e civico lasciato in abbandono”, “La strada dedicata al grande giurista Enrico Pessina”, “L’albero della vita e il ricordo dei caduti nei bombardamenti del 1943”, “Quando Elio Vittorini si innamorò di Castello”, “Via Garibaldi, cuore sempre vivo”, “Un intellettuale poeta ai piedi di Monte Urpinu” (è il Vidal)…

Ancora: “Sant’Avendrace. Un rione popolare abitato sin dall’antichità”, “Monte Urpinu e Castello sulle orme di San Francesco”, “I prestigiosi palazzi della via Roma”, “I pionieri del surgelato prima del frigorifero” (i Pernis, i Capra, i Viganigo, poi i Marzullo e i Marchisio…), “La Madonna e la piazza del Carmine”, “Il monumento ai caduti sardi nelle guerre di indipendenza”, “Le belle dimore dei nobili cagliaritani”, “Sant’Antonio da Padova e la statua di Santa Rosalia”,  “Quando alla Marina Balzac cercava albergo”, “Lawrence e l’ape-regina incantati dai cagliaritani”, nuovamente “Sant’Avendrace e le ragazze dai modi gentili”, “Sidney Sonnino nobile e ministro”, “La città del sole difesa da un’antica fortezza” (il castello di San Michele, Santu Miali), “Fra le vie dei musicisti: gl’illustri e i dimenticati”, “Largo Patrizio Gennari, un prato nel cuore della città”, “Francesco Cocco Ortu, un maestro e il suo erede”, “Sant’Avendrace, storie di un quartiere popolare” – terzo affaccio del borgo cresciuto sulle rive della laguna –, “Le antiche vie di Bonaria e il suo mare dimenticato”, “Due strade lontane con un nome molto simile” (Fara e Farina).

Non è ancora tutto, perché altro incalza, suggestivo altro connubio di luoghi e tempi, e di ritorni sempre motivati in luoghi e tempi già attraversati: “La vittoria della maestrina. Un profilo di Maria Giacobbe”, “Piazza Yenne. Un luogo il cui fascino è rimasto immutato nel tempo”, “La Vega. Il quartiere dei giardini e degli orti”, “Gli aristocratici palazzi di piazza del Carmine”, “Madre Bruna Maxia e la chiesa del Cristo Re”, “L’omaggio a Cavour, l’avversario più stimato”, “Un monastero dove l’arte incontra la fede popolare” (quello delle cappuccine), “Pasca de is froris e le gitarelle fuori porta”, “La vita dei tornitori”, “Quell’appartato antico silenzio. Il Convento delle Cappuccine di Sa Costa” (è il bis), “Da borgo a quartiere: l’evoluzione di Sant’Avendrace” (è il quater), “Quell’architetto che difese l’antico” (è il Cima), “Quando via Ospedale si chiamava s’arruga ’e monti”, “Galeotti e filo spinato nei due borghi sul mare”, “La corte dei miracoli di Carrilloni e Palabanda.Ovvero memorie negative e positive della città”, “Una colonia di genovesi nel cuore di Castello”, “Antonio e Dionigi Scano: una strada per tutti e due”, “A Villanova tra i giardini e gli orti ormai scomparsi”, “Nel presepe il muschio raccolto a Buon Cammino”, “Dai Giardini Pubblici alla piazza Yenne”, “Le vie che cambiano nome”, “Sulle cime più alte”, “Stampace: due antiche vie ricche di memoria e storia”, “Genneruxi tra passato e presente”, “Platea, piazza e prazzitta: tre nomi per un unico ambiente cittadino”, “Il fascino mai remoto di rime mai dimenticate”, “Il mare dimenticato di Cagliari. Da Sant’Elia a su Siccu”, “Due celebri sassaresi” (Enrico Costa e Annunzio Cervi), “Aquilino Cannas. Profilo di un cagliaritano di rango”, “Sant’Elia, il monastero diventa borgata popolare”, “Ottone Bacaredda. Il sindaco che traghettò Cagliari nell’evo moderno”, “L’epifania, festa di allegria”, “Stagni e bacini intorno al tessuto cittadino”, “Giuseppe Garibaldi: da eroe dei due mondi a contadino sardo”, “Il mare eternamente nuovo”, “D’Annunzio e la Sardegna”, “Uno storico e un grande scrittore. Giuseppe Manno”.

Ritornano le emozioni ma anche le libere evasioni del passeggio per i quartieri, i grani del rosario toponomastico, le traversate nella città nuova, dopo che nell’antica, per capire se e quanto tutto sia e rimanga sempre Cagliari. Variazioni sul tema, Cagliari declinata nel terzo millennio ma comunque richiamata alle realtà – magari non tutte virtuose – del secondo e del primo, per obbligo di continuità…

Aiuta forse a penetrare il range poetico – l’aggettivo non pare casuale – di Romagnino una bella, seppur rapida, intervista che Alessandra Menesini raccoglie con il professore  per L’Unione Sarda del 19 gennaio 2007 (“La memoria poetica che si nutre di curiosità”). Ecco, in sequenza, alcune delle battute dello scrittore che, giunto ormai alle soglie dei novant’anni, apre, con spirito confidenziale – quello, peraltro, suo proprio da sempre –, al mondo delle idee e del sentire da cui egli ha preso le energie del suo impegno letterario oltre che di quello civile: «Sono stato sempre libero e autonomo nella scelta degli argomenti e dei toni sulle pagine dell’Unione Sarda. Nessuno ha mai esercitato pressioni o espresso timori». «Io sono nato in Castello: la vastità dei quattro quartieri mi è bastata e io l’ho raccontata ai suoi stessi abitanti. L’invenzione non era necessaria ad un complesso sociale e architettonico che è il punto dal quale si doveva partire. Il resto si è disposto come un ventaglio, intorno ad un rione costruito come una torre».

Ancora, riguardo alla sua formazione. «Negli anni mediani leggevo gli stranieri. La prigionia in America, dal ’43 al ’45, ha determinato molto nella mia vita. Fui catturato in Africa dagli inglesi e poi trasferito oltreoceano con altri migliaia di italiani. Mi sono aperto al mondo, allora. Ero nel Missouri, in un piccolo villaggio e lì ho capito il valore della partecipazione. Accanto al campo dei prigionieri, c’era il Comune e vedevo la gente che vi si recava, senza nessuna soggezione nei confronti del potere. Non sono mai più tornato negli USA, ma devo a quell’esperienza la mia educazione democratica».

Sull’oggi e le memorie della scuola. «Ora colloquio con i libri che non ho letto. Parlano, li prendo in mano, scorro una pagina, li ripongo, Non ho autori prediletti». «[Se negli anni dell’insegnamento, ci sia stato un allievo difficile o riottoso] Se c’è stato, l’ho rimosso, i miei ex studenti sono affettuosi e la scuola è stata la cornice della mia giornata. Mi piaceva, mi consolava. Nelle vacanze diceva la mia famiglia, ero insopportabile». «Confesso di avere vissuto immerso nei classici. Nei confronti dei contemporanei, mi dichiaro inadempiente».

Quali le preferenze fra i libri che ha firmato? «La guida di Cagliari, scritta con mia figlia Ludovica, Nuove passeggiate cagliaritane, Torri e mare. Forse, su tutti, Diario americano. Prisoner of War».

 

Cagliari (con Ludovica Romagnino). Cagliari, Edizioni della Torre, 2007

Si tratta, con qualche aggiornamento o aggiustamento soprattutto grafico e fotografico, della bella guida già presentata, ora sono trascorsi già tre lustri buoni, con il titolo di Guida di Cagliari, a cura degli stessi autori. E anche, bisogna dire, con la riproposta delle schede a tema, talvolta con doverosa messa a punto di Gianni Murtas, Carlo Tronchetti, Aldo Lino, Siro Vannelli, ai cui testi ha messo mano, per il post 2007, Antonio Scrugli, e il ricambio nominativo fra M. Paola Masala e Maria Carrozza).

Uscito nella collana de “Le Guide Della Torre” il volume – che giustamente marca la doppia singolarità degli autori – Antonio Romagnino, Ludovica Romagnino – propone la sequenza dei territori e dei compendi, degli eventi e delle caratteristiche della città così riassunte nella quarta di copertina: «La storia. I quartieri storici. I musei e le collezioni. L’Orto botanico. I nuovi quartieri. I parchi di Monte Urpinu e Monte Claro. Il castello e il parco di San Michele. Il Poetto. Il parco di Molentargius. San Bartolomeo, Calamosca e Sant’Elia. La laguna di Santa Gilla e il borgo di Giorgino. La festa di Sant’Efisio. I riti della Settimana Santa. Il carnevale. La cucina. I cagliaritani illustri. Le parole e i detti popolari. Le notizie utili».

Una curiosità: a segnare una qualche variazione (sempre in meglio) rispetto alla prima edizione della guida, entrano nella rassegna dei “cagliaritani illustri” tre nuovi nomi, e cioè Anna Marongiu, Francesco Masala e  Tarquinio Sini. L’elenco non poteva evidentemente avere alcuna pretesa di esaustività, e semmai poteva rispondere ai gusti essenziali degli autori/curatori…

A recensire il libro su L’Unione Sarda è, come già nel 1992, Carlo Figari, vice direttore del giornale e fine interprete dell’opera di molti autori isolani, Romagnino certamente non ultimo (“Romangino, la mia Cagliari”, 29 settembre 2007). «Il professore, come tutti lo chiamano, è lui stesso un monumento cittadino. Alla veneranda età di novant’anni non si stanca mai di scrivere, raccontare e parlare di Cagliari, dei cagliaritani, di letteratura, di arte, di politica e qualsiasi argomento lo si interroghi. Un tuttologo, si direbbe oggi, e di certo nella lunga carriera culturale ha spaziato in ogni campo. Basta dare un’occhiata alla bibliografia…». Fino alla nuova guida cittadina per il cui titolo si è pensato, semplicemente, al nome della città da illustrare.

«La nuova pubblicazione – sottolinea l’editore Fozzi – è stata ampliata e aggiornata nei contenuti grazie all’attento e approfondito lavoro di Ludovica Romagnino». Di Ludovica, che non è solo la figlia del professore – il che è un merito in sé, a voler considerare i succhi di lettura, pensiero ed impegno che l’hanno formata in casa, ma anche collaudata giornalista pubblicista e responsabile delle eleganti edizioni dell’Ente lirico cittadino.

Un sodalizio felice, interno a una famiglia di gran prestanza tutt’intera, associazione di talenti tutti diversi e reciprocamente complementari, anche oltre gli affetti di natura: con Annamaria, con Carla, figure insostituibili e necessarie nell’armonia della compagine che ormai si è espansa alle nuove generazioni. Scrive ancora Figari, combinando ancora Cagliari allo scrittore, alla sua vocazione o alla sua aspirazione ormai delegata: «“Una città – dice Antonio Romagnino – da scoprire a piedi, da esplorare passo passo con la curiosità di un Lawrence contemporaneo”, esattamente come lui ha sempre fatto sino a quanto l’età glielo ha consentito. Sino a poco tempo fa era facile sorprenderlo a zonzo nei pressi dell’Unione Sarda dove ogni mattina puntuale si presentava per prendere il giornale e ne approfittava per informarsi e aggiornarsi su tutto. Ora che gli anni gli pesano non poco, si accontenta di passeggiate più brevi, ma sempre attento ai cambiamenti e alle novità. “Cagliari è per me come un mosaico da ricomporre nella memoria”, dice. Ed ecco nelle pagine della Guida notizie e dettagli da offrire a chi ama appassionatamente la città..».

Ripassano i nomi a decine e decine fino ai Valle, De Magistris, Alziator Pilia… Al lungo elenco dei cagliaritani illustri efficacemente biografati, fa degna chiosa quel che, licenziando il suo articolo, certifica come cosa dimostrata il recensore: «Romagnino si considera amico e compagno di viaggio di ciascuno di loro con i quali ha condiviso l’amore per la cultura e per Cagliari».

 

 

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Antonio Romagnino finora l’abbiamo letto (oltre che, naturalmente, ascoltato). Da adesso credo dovremo studiarlo. Quel che avremmo dovuto fare, e soltanto in parte abbiamo fatto a più di trent’anni dalla morte, con Francesco Alziator, alla cui lezione e al cui genio hanno meravigliosamente corrisposto, in crescendo da quel congedo  del 1977, la lezione pubblica e civile ed il genio letterario del nostro Romagnino.

Il testimone formale se lo erano passato con il postumo alziatoriano “L’elefante sulla torre”: perché ad esso il professore aveva donato una introduzione che meritava da sola i galloni del saggio. Come saggi di storia e demologia urbana erano quegli articoli ricomposti per quartiere che erano usciti a pagina intera sulla terza de L’Unione Sarda lungo gli anni ’60 e ’70. E quel metodo del racconto storico, sociale e monumentale nel passeggio cittadino che era stato di Alziator era stato ripreso, come lascito ricevuto e però anche come vocazione propria, da Romagnino.

Capitò a me, nel 1981, di registrare uno speciale televisivo dedicato ad Alziator, nella casa  tutto cielo di via Angioy,  proprio coinvolgendo, con la vedova Dolores Ghiani,  il nostro professore, come amico e studioso del grande che se n’era andato ormai da quattro anni. Ne era venuta una conversazione profonda nei contenuti ma leggera nel registro della interlocuzione: perché nel rimbalzo degli interventi, a fronte delle pagine lette dalla professoressa Ghiani, Antonio Romagnino andava, al suo solito, a braccio e ogni capitolo di quella biografia narrata si sistemava così in modo, nonché perfetto, anche gustoso.

Ma c’è un altro campo che meriterebbe di essere esplorato e che fa simili Romagnino ed Alziator: è la loro anima laica che pur si nutriva della “domanda”. Quel filo esile, impalpabile eppure reale di religiosità, che rimandava direttamente al senso dell’esistenza. Necessità ineludibile, ovvia perfino, per un umanista che il cristianesimo lo deve penetrare in ogni disciplina del suo studio e proporre nel corrente della sua docenza: dalla poesia all’arte, dalla filosofia all’architettura o alla musica…

Quello che Giacomo Scarbo era stato per Giuseppe Dessì – l’alter ego da mettere in scena per raccontarsi nelle illusioni senza follia e nei dolori senza pianto – Romagnino se l’era scelto in Stefano. Presente nelle sillogi di epigrammi, nei capitoli di “La mano sul mento” e di “Chicchi di melagrana”. (A proposito: si vedano qui le pagine dedicate a ”Cucuccio, il poeta di una città” e quelle altre riferite al tanto “che non si cancellerà mai”, il ricordo cioè della prigionia americana fra 1943 e 1945 di cui avrebbe poi scritto in “Diario americano”, dopo quanto aveva voluto anticipare a me per “1946, l’anno della Repubblica”, per la prima volta riferendo distesamente di quella esperienza drammatica e più ancora istruttiva. Perché, accettando di collaborare alla “rieducazione” democratica nei campi di prigionia, aveva – giovane di 26-27 anni – fatto la sua, non indolore, scelta di campo: contro la dittatura e per la libertà. Piace vedere qui un parallelo con la ancor più critica vicenda umana di Fabio Maria Crivelli che, all’armistizio del settembre 1943, sceglie – giovane ventiduenne – la prigionia nei lager nazisti piuttosto che intrupparsi nella Repubblica di Salò).

Dicevo della “domanda”  religiosa. Tanto più in “Diario americano” essa si fa presente, quasi insistente, quando si richiamano uno dopo l’altro «quei tre disubbidienti che Stefano identificò come i grandi testimoni del suo tempo»: lo scolopio padre Ernesto Balducci, il servita padre David Maria Turoldo, il prete con sangue ebreo don Lorenzo Milani. Sì, il sacerdote controriformista che, scoperta «la funzione rivoluzionaria della scuola, trafiggeva tutti i tempi che sono venuti dopo e che verranno… Ci son tradizionalisti che marciano anche più avanti e rapidi degli innovatori». E i due religiosi: Turoldo, il poeta del Vecchio e del Nuovo Testamento, l’anticipatore del Vaticano II, e Balducci, il dotto profeta dell’«uomo planetario». I disubbidienti, rimossi e umiliati da una gerarchia d’apparato senza Vangelo, ma vincitori nel teatro della storia.

La religiosità di Antonio Romagnino – ne vorrei dare un giorno una più personale testimonianza – si affaccia, sobria e pudica, in numerosi passaggi della sua sterminata produzione, ma soprattutto in una frase del capitolo XXIX di “Diario americano”: «Stefano non fu mai un anticlericale, anche se qualcuno mormorava che lo fosse. Nei suoi atteggiamenti in quella più tormentata materia c’era incancellabile un’eco delle esperienze americane, delle chiese di laggiù operose nel sociale, nella formazione della morale civica, ma immuni da impegno politico, da una scelta di parte. Divenne sempre più laico ma, se anche ci fu mai, il laicismo fu depurato e divenne solo laicità capace di comprendere la fede dei credenti e però anche persuasa di essere utile ad un Paese sempre più lacerato, senza più valori. Era questa posizione che lo faceva riconoscere in quei tre uomini di Chiesa … cui aggiungeva il religiosissimo Pier Paolo Pasolini. Un “santo” che non è santo perché è amato dagli dei, ma è amato dagli dei perché è santo… ». Come Giordano Bruno – l’amato Giordano Bruno –, finito con il fuoco purificatore.

In una lettera del 14 dicembre 1997, Antonio Romagnino mi scrisse: «Hai sentito/ho sentito come sia una felicità, che non ha premi alternativi, capire ed essere capiti. Scoprire, come hai fatto, che il pensare, il dire, l’operare laico, è parente stretto della religiosità. Sono appena una voce dei colloqui sommersi, gelosamente silenziosi. Questo, lo confesso, mi ha avvicinato di più, nel secolo feroce, che si chiude, a personaggi discreti e più spesso “fuori campo” liquidati come “eretici” o sospettati di esserlo… tutti bollati come “anti-preti”. Nel secolo che sta per accendesi, cesseranno le persecuzioni? Forse basterebbe che accadesse quello che Guido Morselli ha inventato/sognato nell’ultima pagina del suo Dissipatio H.G.: un’apocalisse ha distrutto tutto ed un uomo solo si è salvato, condannato all’infelicità della solitudine, quand’ecco da una distanza senza confini si fa sentire un tic tac, un segnale, una voce… la vita è rinata».

 

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