Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore. Le fatiche letterarie di un Maestro (prima parte), di Gianfranco Murtas

Gianfranco Murtas (Cagliari, 1952) è uno dei più competenti studiosi viventi della storia della Cagliari contemporanea.

Antonio Romagnino, l’intellettuale e lo scrittore. Le fatiche letterarie di un Maestro. Prima parte

di Gianfranco Murtas

A distanza di due anni dall’attesa ma pur dolorosa scomparsa di Antonio Romagnino, in molti ricordiamo il professore con gratitudine e affetto, spendendo questi sentimenti nel solo modo degno: dando cioè sostanza alla sequela intellettuale e civile di lui che abbiamo frequentato per lunghi anni, decenni perfino, già dall’adolescenza: chi nelle aule del Dettori, chi in quelle del Movimento Federalista Europeo, chi in quelle di Italia Nostra, chi agli Amici del libro, chi nelle triangolazioni personali od epistolari magari con Francesco Alziator, o nelle stanze dell’Unione Sarda ancora a direzione Crivelli…

Mi riprometto di dedicare a lui una serata teatrale, un reading attentamente curato, offrendo al pubblico cagliaritano quanto posso: dalla mia filmoteca, alcune registrazioni effettuate già nei primissimi anni ’80 e continuate dopo. Fra esse – gioiello autentico – una discussione su… lingua e limba, su cultura urbana e cultura agro-pastorale, su Sardegna italiana e Sardegna sarda, con Cicito Masala. E poi naturalmente molte pagine scelte della sua vasta, preziosa produzione.

In più sta procedendo, pur se a molti inevitabili spizzichi, il riordino dei titoli dei suoi mille contributi – con introduzioni e presentazioni o recensioni – a libri di diversi autori, ed il regesto della sua ponderosa attività pubblicistica in almeno cento testate diverse. Confido che anche altri stiano lavorando all’oggetto, ed avverto che non sembra neppure necessario combinarsi già oggi, perché comunque nessuno potrà forse mai completare un repertorio che pochi altri eguali conta nell’Isola (e ciò soprattutto, non esclusivamente, grazie alla continuità della sua collaborazione con L’Unione Sarda durata qualcosa come quarant’anni, e da cui viene il più).

La mia sequela personale s’innesta nell’idem sentire con lui sui fondamentali della democrazia repubblicana, come egli stesso – nato nel 1917 e cresciuto dunque, per obbligo anagrafico, nella scuola fascista – l’ha vissuta ed elaborata a partire dalla esperienza di prigionia in America, ma forse anche intuita per taluni aspetti nei tempi di stesura della sua tesi di laurea, in cui anche il mazzinianesimo (per la questione della paventata cessione dell’Isola alla Francia) s’era affacciato a dire quanto lo spirito di patria differiva da quello patriottardo e nazionalista del regime.

Lo scorso anno e all’inizio di questo 2013, nel sito Edere Repubblicane, ho presentato quattro lavori in onore del professore: il 14 settembre 2012, il testo della lunghissima intervista che pubblicai nel 1999 nel mio La città chantant, monarchica clericale e socialista, in cui richiamavo e riannodavo le esperienze formative e scolastiche del professore stesso con quelle di Francesco Alziator e Giuseppe Dessì (entrambi classe 1909), il cui minimo comune denominatore era costituito dagli studi compiuti nel liceo-ginnasio Dettori, nei complicati anni fra grande guerra e dittatura; il 5 ottobre 2012, il testo della intervista che raccolsi da lui nel 1996 – e apparsa quindi nel mio 1946, l’anno della Repubblica – sulla cruciale svolta referendaria e di rilancio, attraverso l’assemblea costituente, della democrazia rappresentativa, ciò che per lui rappresentò un primo impegno politico nelle file del Partito Liberale Italiano di Francesco Cocco Ortu.

Ancora: il 5 novembre 2012 ho pubblicato un articolo sugli assetti della nostra facoltà di Filosofia e Lettere negli anni di frequenza del giovane Romagnino, e in coda un… indiscreto resoconto del suo andamento scolastico nel precedente periodo liceale, del quale peraltro egli stesso aveva trattato, sia pure soltanto per accenni, in varie occasioni. Omaggio alla sua adolescenza e gioventù, una modalità anche per rendere il professore… conosciuto professore! un nostro coetaneo…

Il 15 gennaio 2013, infine, ho potuto presentare un corposo stralcio della sua tesi di laurea (discussa in facoltà di Filosofia e Lettere nell’a.a. 1938-39) sul giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870. Un testo che ritrovai nella biblioteca personale del compianto prof. Pietro Melis e che sempre mi ero ripromesso di ripubblicare come omaggio per i suoi novant’anni, senza riuscire purtroppo a dar seguito a quel mio desiderio.

All’intorno alla data del secondo anniversario della morte del mio carissimo professor Romagnino alla sua memoria intendo dedicare, adesso nel sito di Fondazione Sardinia, tre nuovi contributi: diviso in due parti il regesto commentato della sua intera produzione editoriale (si tratta di una ventina di titoli), infine la personalissima testimonianza del mio rapporto con lui, suffragata da alcune lettere private che egli mi inviò e che danno la misura – proprio perché non destinate alla pubblicazione – della sua statura morale e intellettuale. Per me una bussola d’orientamento preziosa e più ancora cara.

 

di Gianfranco Murtas

Una prima volta in strada, in zona di piazza Repubblica, dunque nell’occasione di un incontro forse casuale in città, ed un’altra nella sua casa dirimpetto a Monte Urpinu. Doveva essere il 1973 o il 1974 ed io ricordo il professore che in due circostanze mi prospettò l’idea che egli aveva maturato di scrivere una specie di dizionario biografico dei cagliaritani – anche dei cagliaritani d’elezione –, inserendovi i nomi dei grandi che hanno lasciato una traccia. Nella memoria mi rimane, dei diversi che mi fece, il nome del vescovo Lucifero, di Sigismondo Arquer e forse anche di Angius e Azzolina, cominciando con la A della scala alfabetica; mettendo poi Bacaredda – vado adesso per suggestioni (non incontrollate però, data la confidenza con lui) più che per ricordi –, magari Baylle o Brotzu o Buragna, e poi Claudiano, Gaetano Cima, Giuseppe Cossu… aggiungendo poi Crespellani, Mondino De Magistris, Raffa Garzia, Pietro Leo, Giaime Pintor, Edmondo ed Enrico Sanjust, gli Scano, Sulis, Taramelli, Ranieri Ugo, magari Valle – allora ancora vitalissimo presidente degli Amici del libro –, Cino Zedda e dentro anche fra Ignazio, fra Nicola, fra Nazareno, monsignor Piovella, e magari ad abundantiam Efisio da Elia e Saturno o Saturnino martiri fra i campioni della fede. Per dire di come egli intendeva galoppare nei secoli e anzi nei due millenni tutti interi. Il galoppo è diventato poi trotto, e infine passo. Passeggiata anzi, discreta e graduale, non mille ritorni. E quell’idea si deve essere trasformata, dev’essere diventata un’altra cosa. Che è poi cosa non infrequente in chi scrive senza essere incalzato dalle commesse editoriali, ma liberamente, seguendo un suo istinto, un suo gusto, e restando aperto alle precedenze che la vita, perfino la più ordinaria quotidianità, gli suggerisce in progress.

Credo di poter interpretare la stessa galleria dei cagliaritani illustri da lui proposta, coinvolgendo anche diversi competenti oratori, negli ultimi anni della sua felice presidenza degli Amici del libro, ma altresì molti dei libri da lui ancora dati alle stampe tanto più negli anni ’90 del secolo scorso e nel primo decennio del Duemila, come il compimento, ma per esitarlo e quindi condividerlo, di quella raccolta di notizie che aveva costituito una gustosa fatica di lunghi anni o decenni: non più il dizionario biografico tutto concentrato in un tomo, ma un deposito informativo liberato e distribuito, sparso lungo molte stazioni capaci di recuperare anche – mettendo nero su bianco – i soggetti anticipati in conversazioni, conferenze, interventi pubblici più o meno occasionali…

Nell’incontro che qualche tempo fa si è tenuto, patrocinato dall’associazione Innovando Tradere e dall’associazione Amici del libro nell’aula magna del Dettori, per onorare Antonio Romagnino a pochi mesi dalla morte, e dove la sua figura è stata ottimamente delineata da Franco Masala, Giuseppina Cossu Pinna, Gianni Filippini e Paolo Fadda, è stato quest’ultimo ad evocare un momento di svolta – sì preparato, ma comunque fattosi passaggio fra un prima ed un poi – nella vita del professore, il quale ne aveva fatto memoria addirittura pochi mesi prima della morte, telefonando e quindi scrivendo a Fadda: «è merito tuo se ho scritto, se sono stato scrittore, se ho pubblicato tanti libri»… E il riferimento era ai due volumi essenzialmente fotografici (opera rispettivamente di Gianni Berengo Gardin e di Luciano d’Alessandro) editi dalla Electa di Milano e commissionati appunto da Fadda come “strenna” sociale della SAIA, l’immobiliare Bastogi ch’egli allora presiedeva. Il primo – del 1981 – sulla Marina (Memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere), il secondo – del 1982 – su Castello (Passato e presente di un centro storico). Sì, da allora Antonio Romagnino ci ha lasciato una ventina di libri, qualcuno collettaneo, il grosso a sua firma esclusiva, monumento di cultura e di affabulazione, di partecipazione del suo sapere a chiunque amasse entrare, foss’anche soltanto per un esperimento, nel suo mondo cittadino stratificato ed evolutivo, fatto di masse e persone, di istituzioni e luoghi fisici emancipati dai rigori della pietra e fatti, al modo di Francesco Alziator, soggetti palpitanti anch’essi di vita.

Non certo come critico letterario ma come lettore ordinario che ha avuto il privilegio non soltanto di frequentare il professore per quarant’anni – e davvero quante datate registrazioni televisive potrei offrire alla città per onorarne la migliore memoria! –, ma di essere a lui stretto in un patto collaborativo ricco di episodi, ripasso nella mia fornita biblioteca i titoli che portano la sua firma.

I libri di Antonio Romagnino nascono dalle esperienze, quelle sociali e quelle intellettuali; nascono dagli incontri, quelli reali – personali cioè – e quelli virtuali, materializzati nella pagina di un tomo, di cento e mille e diecimila volumi, e anche di più, molti di più, quanti possono essere stati – non tutti censibili –  quelli carezzati con la mano sul dorso, carezzati all’interno con l’occhio nello sfoglio ora rapido ma rabdomantico, ora sapientemente riposato, lento e graduale; nascono dalle lunghe pause che il pensiero impone ai fatti, dalle riflessioni che si distendono – linee o curve – su un piano presidiato dalle sicure coordinate di spazio e di tempo, nella ricerca dei nessi. Perché è vero, secondo l’ammonimento dell’Ecclesiaste, che «nulla di nuovo sotto il sole», ma è vero anche che sono le relazioni fra elemento ed elemento, fra figura e figura, fra accaduto ed accaduto, a creare il nuovo, a vivacizzare il mondo e la nostra e l’altrui giornata.

A tua volta apri un libro di Antonio Romagnino e ci trovi il suo mondo e i suoi dialoghi, ci trovi annotazioni ora descrittive ora mirate solo al tanto che giustifica il richiamo, e talvolta possono bastare appena cinque righe. C’è Cocco Ortu ma c’è anche Tommaseo, c’è o ci sono Nicola Valle o Cino Zedda ma anche Leopardi – una volta Giacomo, un’altra Monaldo – e Manzoni, o Gadda, magari il Gadda cagliaritano, Raffaele Mascolo Ciusa – creatura appena scoperta e già perduta – e Le Lannou o Tocqueville, e la Deledda e Satta uno e Satta due, il mondo del mondo e il mondo locale, dei quattro quartieri e degli altri che dalla radice medievale sono gemmati nel Novecento… Stefano – l’alter ego di Antonio – di tutto e di tutti è stato esploratore e confidente e anche ispiratore dello scrittore, ora in chiave più intimistica ora in chiave di ribalta pubblica.

Seleziona, e come, i suoi materiali Antonio Romagnino? Una domanda giusta per un convegno specialistico della durata d’un anno. Perché sembra che niente mai sia escluso, neppure il negativo o il parziale o il malriuscito, dalla sua attenzione, perfino dal suo rispetto: perché anche a dirne male – e male, poi, come? le sue certificazioni valgono come quelle pazienti e positive di un Francesco Alziator – c’è comunque, al fondo, un riconoscimento d’esistenza e di diritto alla esistenza, ad esprimere identità, percorsi comunque legittimi e meritevoli di riguardo: siano anche i qualunquisti contro cui s’è fatto il sangue amaro il giovane Stefano appena tornato dall’America, siano anche e addirittura i fascisti che hanno attraversato molte stagioni, ed altrettante ed amare ne hanno fatto attraversare all’Italia… Anche gli “uomini senza qualità”, gli indecisi a tutto e i ritardati o ritardatari per paura…, espressioni non rare di reali tipologie sociali, entrano nel vaglio, nella considerazione di un autore che nulla perde, perché questo sembra sia il suo patto con la vita: che nulla vada perduto, ed entri comunque nelle pagelle, nelle griglie dei giudizi, nella macchina delle miscele o dei contrasti…

Nei libri di Antonio Romagnino c’è questa vibrazione dell’analista e insieme del sapiente che va per sintesi estreme, cogliendo l’essenza delle cose e degli uomini; e c’è questa capacità che qualcuno chiamerebbe “glocalista”, che insomma sa cogliere i nessi fra il particolare e il generale, fra l’Isola, anzi addirittura la città o il quartiere, e il vasto mondo, fra il microterritorio e lo spazio dei continenti con le sue ricchezze di varietà e originalità.

Quasimodo e Lawrence, Dionigi Scano e Tolstoj, Benedetto Croce e Dante Alighieri, tutti entrano in relazione nell’ecumene storica – che comprende ogni categoria spirituale e letteraria, intellettuale e civile o politica – dei protagonisti che comunque hanno segnato, per via diretta o mediata, il suo tempo, e il nostro tempo.

Stefano si racconta raccontando della Sardegna e dell’Italia e del mondo di qua e di là dell’oceano. Ammette ad un certo punto, con qualche insistenza rivelatrice, nuovi personaggi, come Pasolini e i tre disubbidienti della Chiesa, che sanno donare fede speranza e carità al papa e alla sua corte più o meno indifferente: i padri Balducci e Turoldo, e con loro, torturato prima e più di loro, don Milani. Ingressi trionfali per le suggestioni che emanano dalla loro vita oltre che dai loro scritti, pur nella mancanza di ogni enfasi laudativa… Stefano è morto, scrive Romagnino. Ma Stefano che aveva capito soltanto in parte, e scontando qualche ritardo, le virtù d’intelletto e di vita di quei grandi, ha passato ad Antonio il tanto per concludere, in vecchiaia, l’adesione al progetto da essi delineato.

Davvero è il caso di ripeterlo: nulla si perde nella stanza dei pensieri di Stefano-Antonio. E quel che sembra trascurato oggi, torna protagonista domani, o dopodomani. Nei tempi personalissimi dello scrittore che ripassa voci e volti della storia grande e della storia domestica, a ciascuno riconoscendo la sua misura, le figure è come se giocassero a confondere quelli che prevedono tutto e invece non sanno nulla… perché ha anche questo dono, lo scrittore, che non è estemporaneità ma creatività originale e giustificata che si esprime o materializza, sulla carta, rispondendo ad impulsi troppo intimi per essere indagati…

Cerco di ripassare almeno la sequenza dei suoi titoli ed i riferimenti bibliografici. Spero un giorno di poter dedicare una mirata lettura a ciascuno di essi, cogliendone quella traccia non sempre visibile che è la traccia del percorso intellettuale dell’autore, inestricabilmente compromesso con il suo percorso di vita. Ecco dunque…

 

Cagliari, Marina. Memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere. Con foto di Gianni Berengo Gardin ed un testo di Magda Arduino. Milano, Electa, 1981.

Realizzato per iniziativa della SAIA (Società per le Attività Immobiliari ed Alberghiere di Cagliari), il libro – di formato grande quadrato – consta di 148 pagine. Oltre la breve presentazione di Paolo Fadda (presidente della Società committente), il testo firmato da Antonio Romagnino – che introduce con poche righe rivelatrici della missione che egli si è dato e con gli speciali ringraziamenti a Niccolò Fara Puggioni e Pasquale Mistretta per i consigli e gli incoraggiamenti – si diffonde su tre colonne in una trentina e passa di fittissime pagine, da cui può essere utile richiamare i titoletti che segnalano i temi via via trattati: “La passeggiata del generale”, “Più collina che mare”, “Una striscia di terra”, “Una veranda sul mare”, “La guerra d’Africa”, “Le parate innocenti”, “La guerra dei monumenti”, “Il regno degli studenti”, “Il ‘beau geste’ di Gabriele d’Annunzio”, “Una scuola tormentata”, “Si varano le navi”, “D.H. Lawrence e Frieda dal mare”, “La visita di due isolani”, “Il volo di Guido Piovene”, “Umberto e Margherita di Savoia”, “Uno che disse no”, “La cittadella militare”, “Le chiese del silenzio”, “Carestie e pestilenze”, “Is piccioccus de crobi”, “Le case dell’abbandono e della resistenza”, “Storia di una sconfitta”, “Portus Calaritanus”, “Ieri, oggi, domani”.

La Marina è scoperta o riscoperta negli attraversamenti fisici delle sue strade e nelle letture delle storie di quei tanti, antichi o moderni, che qui hanno vissuto, trionfato o sofferto, personalità spiccate e masse di residenti in maggioranza presi dalle attività marinare, pescherecce o portuali… La bibliografia richiamata include 36 titoli. Non manca qui, a dettare forse la modalità sentimentale del racconto, l’esperienza personale precoce, quella maturata fra gli undici e i diciassette anni, al tempo del ginnasio e del liceo frequentati nell’antico edificio gesuitico di piazzetta Dettori e vico Collegio…

Al testo si inframmezzano otto fra incisioni, piante urbane e foto aeree della città e del quartiere.

Segue la corposa sezione fotografica, rigorosamente in bianco e nero, di Gianni Berengo Gardin: da pag. 46 a pag. 113: non la Marina soltanto, ma la città antica se non proprio tutta quanta, almeno per larghi spazi. E i titoli ne danno conto: “Vedute”, “Strade e vicoli”, “Facciate e interni”, “Spazi vuoti”, “Dettagli”, “Negozi e artigiani”, “Traffico”, “Stampace”.

Da pag. 115 si estende per una trentina di pagine un’appendice anch’essa fotografica prefata da Magda Arduino che, sotto il titolo di “Il Laboratorio di quartiere”, offre gli esempi di intervento risanatore in microterritori di centro storico – ad Otranto ed a Burano, di cui si vorrebbe (da parte della SAIA) proporre il modello.

A proposito di questo bellissimo libro ricordo e richiamo una recensione di Giovanni Mameli su L’Unione Sarda del 21 aprile 1982 (“Quella città squisita e raffinata nel racconto di Lawrence e Vittorini”), recensione garbata che si apre poi a farsi intervista e anzi colloquio con l’autore.

Eccole alcune delle battute del professore: «Questo viaggio nella città non intende dare contributi particolari per una migliore conoscenza della realtà urbanistica e architettonica di Cagliari. Ho voluto far parlare il quartiere soprattutto attraverso la sua gente. I protagonisti del libro sono i suoi abitanti, gli uomini di Marina e i visitatori che l’hanno descritta in pagine memorabili… Questa è l’impostazione anche dei volumi successivi. Un tale approccio non si può fare senza un reverente ricordo di Francesco Alziator, che è stato un maestro di tutti quanti noi e ci ha fatto conoscere e amare questa città, portando in primo piano i suoi abitanti. Quindi non una storia dei grandi avvenimenti, ma della gente che ci ha vissuto e del riflesso che i primi hanno avuto nella memoria collettiva. Per quanto riguarda la forma, è quella più del racconto che del saggio. Ed è stata scelta per poter offrire un ritratto più vivo della gente e dei personaggi. L’eroe di Marina è Gaetano Cima, un urbanista di grande capacità ma sfortunato, perché è stato ignorato e misconosciuto. Se si fosse prestato ascolto a lui, non sarebbe stata abbattuta (quando Cagliari fu smilitarizzata) una delle più belle cinte bastionate e la città avrebbe conservato una patina antica. Malgrado l’abbattimento delle mura che stavano davanti al porto e, nel secondo dopoguerra, la rimozione dei mercati, il quartiere ha un suo carattere residenziale ancora oggi. Resiste nonostante tutto, in attesa di un urbanista geniale che lo salvi e cancelli certe tracce di vita subumana, documentate dalle immagini fotografiche del libro».

«Il libro si affida molto alle esperienze personali di chi lo ha scritto: è la confessione di un uomo degli anni Trenta (chi sono quelli del fascismo e la guerra d’Africa). Po ho tenuto presenti soprattutto i viaggiatori: Lamarmora, Lawrence, Vittorini, Piovene… Per le conoscenze tecniche mi sono rifatto a chi ha scritto di urbanistica e architettura. Le altre fonti sono citate nella bibliografia».

«[Gli scrittori hanno offerto della città una immagine] secondo me attendibile. Un caso limite del provincialismo della Sardegna, se così si può dire, è l’asessualità e l’avversione per la sfera sessuale. Lo scopritore del sesso in Sardegna è David H. Lawrence. Si pensi alla descrizione dei paesani che vanno su e giù per la via Roma o a quella della donna che ballonzola durante un viaggio in pullman. L’Isola aveva bisogno di viaggiatori ad essa estranei e che si muovono nel filone romantico decadente. E’ stata scoperta soprattutto da viaggiatori inglesi, che hanno incluso nel loro itinerario non solo l’Italia illustre (Venezia, Firenze, Roma) ma anche quella segreta del Mezzogiorno e delle isole».

«[Da parte degli scrittori sardi c’è una avversione per la città e si conferma] quello che Le Lannou ha scritto sui caratteri della società sarda, che è cantonale, frantumata, atomizzata. Due villaggi vicini sono molto diversi (anche per motivi dipendenti dal territorio). Questo vale anche per i rapporti tra città e paesi. La città è sempre stata un approdo passeggero, per gli scrittori nati all’interno dell’Isola, anche dopo tanti anni di permanenza a Cagliari. In Miele amaro Cambosu scrive che la città assimila tutto. Questa reciproca estraneità dipende sia dal mondo pastorale che ha ignorato le città, ma anche da queste ultime che spesso non sono state degne di tale nome per l’assenza di tradizioni comunali e di forme di autogoverno. Tuttavia gli scrittori sardi, che hanno espresso il mondo agro-pastorale, hanno un debito enorme nei confronti della città. In essa hanno trovato il loro pubblico e le energie che questa trasmette. La Deledda fu lanciata da Antonio Scano, nella rivista Vita sarda, che si pubblicava a Cagliari. Qua hanno studiato e si sono formati Giuseppe Dessì, Antonio Gramsci, Emilio Lussu… Io non credo che la città abbia voltato le spalle alla Sardegna: sono convinto invece che si è aperta e ha fatto da tramite fra l’Isola e il resto del mondo».

«In senso generale, Cagliari ha cessato di essere quella città squisita e raffinata che era negli anni Trenta dopo il colpo infertole dalla guerra. Oltre alle devastazioni, c’è stata subito dopo la spinta demografica, coi conseguenti problemi di ingovernabilità. Fasce molto larghe di inurbati non hanno coscienza della città in cui abitano e si sentono sradicati per sempre dal mondo agro-pastorale. Non ci sono solo le responsabilità degli amministratori. Ilario Principe, al termine del suo recente libro su Cagliari, scrive che questa città non è più “la Gerusalemme di pietra di Vittorini” ma è “sformata, imbolsita, dispersa ai quattro punti cardinali”. Insomma, Cagliari ha subito le conseguenze  negative di altre città italiane».

«Il suo destino storico è quello di essere una cerniera tra la Sardegna, l’Italia e il resto del mondo. Cagliari serve le “identità” affacciandosi sul mondo esterno e filtrandolo. E’ una città di frontiera per una Sardegna che non vuol chiudersi o che non faccia del vieto cosmopolitismo. Il mio libro vuole gettare un ponte tra la Sardegna e Cagliari per combattere un’incomprensione reciproca. Anche se io, l’incomprensione, la vedo più dall’altra parte, della Sardegna verso Cagliari».

«Il sardo medio aveva ragione di irritarsi nel passato, quando la città era molto provinciale e lo perseguitava. Non solo i ceti alti ma anche le classi popolari non vedevano di buon occhio i contadini e i pastori. C’è una poesia in campidanese di Cesare Saragat, dal titolo “Su seddoresu”, in cui si parla dell’arrivo alla stazione di Cagliari di un paesano: e alcuni piccioccus de crobi, mentre gli portano le valigie, ne fanno oggetto di scherzi. Questi versi hanno un valore documentario. Dicono quale era la mentalità dei cagliaritani nei confronti dei sardi. Naturalmente si trattava di un’ostilità scherzosa: oggi questo atteggiamento non esiste più a Cagliari. Si è invece conservato, talvolta, l’atteggiamento opposto, quello dell’uomo del contado e dell’intellettuale che svilisce la città. Per quanto riguarda invece le cose che i sardi apprezzano in Cagliari, ce n’è ancora una molto importante per entrambi: il mercato. Cagliari è sempre stata vista come un emporio, un luogo di scambi e di traffici, da privilegiare anche rispetto alle attività commerciali del paese. Cagliari deve la sua fortuna a questo tipo di mentalità, che la vede e la vuole sempre come un mercato ricco, abbondante e vario».

Infinite le provocazioni e suggestioni del libro che si proiettano in avanti, fino all’oggi. Quanto, infatti, anche noi ne potremmo dire! Aggiungendo che forse oggi non v’è sardo – almeno sardo delle giovani generazioni – che non si senta cagliaritano: magari perché in città viene  quotidianamente, con gli autobus dell’ARST, per frequentare le superiori, o si sistema a settimana piena in casa d’affitto per le lezioni all’università, o qui arriva per tuffarsi con gli amici d’estate al Poetto, o per passare il sabato sera in qualche pub o discoteca con la propria combriccola… O qui organizza le puntate dei compaesani allo stadio, la domenica. Od anche, perché no? partecipa alle iniziative in calendario di questo o quel movimento ecclesiale, trasversale o interterritoriale per definizione.

Certo che, a guardare quest’oggi che ci scorre davanti come un treno veloce che viene e riparte e ritorna senza prosciugare energie, sembra di non poter più riconoscere quegli squilibrati rapporti di cui scrivevano a metà Ottocento, trattando ben a ragione di città egoista ed entroterra o provincia salassati, autori come Baudi di Vesme o Carlo Brundo… Nel mezzo – fra il tempo delle loro descrizioni, o magari il tempo della visita di Lawrence e del trionfo del Partenone nel Largo, e quest’ultimo tempo osservato o vissuto dai nostri contemporanei – c’è stato quell’altro seguito al secondo conflitto mondiale e alla distruzione del capoluogo, i cui abitanti sono stati per un anno e forse due costretti allo sfollamento ed accolti nei paesi dell’interno per essere ribattezzati alla vita regionale, molti a quella dei loro avi. Quando poi, vinta la battaglia della ricostruzione contro l’opzione della perdita per sempre, ha preso avvio quel fenomeno centripeto della città rinata-e-conformata a luogo di burocrazie (con speculare svuotamento, o almeno impoverimento, dei comuni provinciali).

Cagliari, Castello. Passato e presente di un centro storico. Con foto di Luciano d’Alessandro. Milano, Electa, 1982.

Pubblicato anch’esso per iniziativa della SAIA e con la prefazione del suo presidente Paolo Fadda, con il tocco gentile della dedica «Ai miei figli Carla, Maria Ludovica e Nello», il volume replica nella impostazione dei testi e nella grafica (mix testi/fotografie ed impaginazione su tre colonne), quanto felicemente esitato nel 1981 con Marina.

Lungo una trentina di pagine, il racconto di Antonio Romagnino combina un’altra volta, felicemente, le suggestioni dei luoghi e quelle che emanano dai libri letti e anzi studiati, l’umanità dei protagonisti, così dei “celebri” – i cavalieri di un tempo e quelli, non dell’aristocrazia ma della borghesia, e magari della democrazia, di un’epoca più recente – come della massa rintanata nei sottani che… presidiano i palazzi. Tutto ritorna nella sequenza dei titoli infratesto, che alludono alle molte stazioni di quell’andare fra storia e territorio… “Un cestello di pietra”, “La città dei ragazzi”, “La casa di Giaime”, “L’odore del pane”, “I segni del potere”,  “Gialli e rossi calcarei”, “La collina nuda”, “L’invenzione pisana”, “Vie, piazze e portici”, “Un lungo cantiere militare”, “Architetti civili e militari”, “Frabicasa ’e Sant’Anna”, “Dal romanico-gotico al barocco”, “Il vescovo santo”,  “Il palazzo di città”, “Uno scoppio di luce”, “Approssimazioni psicologiche”, “La piccola città”, “Cronachette di due scuole”,  “Le idee al rogo”, “Amore e politica”, “La rivoluzione”, “Le case dei vivi”, “Ieri, oggi, domani”.

Segue la bibliografia: 47 titoli, ancora fra antichi e moderni. Dieci gli intermezzi fotografici o grafici, comprese le incisioni del Piloni o di Stanis Dessì…

Un centinaio le pagine a seguire, con le fotografie in bianco e nero (98 inquadrature) di Luciano d’Alessandro. Le strade trafficate e gli interni delle case le più povere, qualche abitazione più pretenziosa e blasonata, gli atri austeri dell’Università, gli spazi nuovi della cittadella dei musei, e molta umanità di quartiere, forse soddisfatta del poco, e i bambini al gioco in piazza e i grandi affacciati alle finestre o accomodati sulle poche panchine pubbliche, famiglie in boccio e famiglie al tramonto.

Molto bella la recensione a tutta pagina dedicata all’opera da Vittorino Fiori su L’Unione Sarda del 16 gennaio1983 che mette a confronto la sorte storica di Castello, imprigionato nei suoi venti ettari di roccia, con quella degli altri quartieri, o delle appendici variamente dilatatesi nel tempo. «Il libro dedicato da Antonio Romagnino al vecchio quartiere rivisita il passato e passa in rassegna il presente. Ne esce un inventario dei mali che affliggono Castello, ancora profondamente ferito dai bombardamenti di quarant’anni fa; ma anche un affresco in cui si muovono, in una prospettiva di secoli, personaggi e fatti di cui furono testimoni i muri rimasti in piedi nelle antiche strade.

«Quasi usando la tecnica cinematografica del flashback, Romagnino ha proposto – con la scrittura accurata che gli è propria – ritratti di figure esemplari comunque legate a Castello (una vasta galleria in cui spiccano tra gli altri monsignor Piovella e Sigismondo Arquer) ed episodi che ancora suscitano orrore dopo tanti secoli. Uno per tutti: l’assassinio del marchese di Laconi, oppositore del viceré don Manuele Gomes de los Cobos marchese di Camarassa, e l’agguato successivo allo stesso viceré fulminato in via Canelles da una scarica di fucileria a pallettoni…».

Sarebbe da dire che il piano dell’opera concordato dalla SAIA con l’editrice prevedeva altre due uscite purtroppo poi mancate: per Stampace e Villanova. Sembra peraltro indubbio che i materiali trattati dallo scrittore riguardo a questi due quartieri non siano rimasti inerti, ma utilizzati per altri titoli – ad iniziare magari dalle guide della città – messi in cantieri negli anni a seguire.

Un cenno merita l’autobiografico. Perché se la Marina (o semplicemente Marina, come Romagnino soleva dire e scrivere, fra le proteste amichevoli di un Lorenzo Del Piano, il quale esigeva la permanenza dell’articolo d’accompagno!) è stato il quartiere degli studi ginnasiali e liceali del professore, Castello è stato il quartiere dei natali, del battesimo, della prima infanzia e della prima scuola, delle prime amicizie fra via La Marmora – dirimpetto ai De Magistris! – e la plazuela impreziosita dal 1926 della statua di San Francesco d’Assisi, il quartiere anche del lavoro paterno (all’Università), della socialità quotidiana di madre e zia Cheta… Castello ritorna poi come il quartiere vissuto negli anni di frequenza della rinata facoltà di Filosofia e Lettere, quello ancora vissuto negli anni dei primi insegnamenti precari in questa o quella scuola della provincia, e salutato nel 1943 alla partenza volontaria per la guerra e nel 1945 al ritorno dalla prigionia americana…

 

Guida di Cagliari (scritto con Ludovica Romagnino e contributi di M. Paola Masala, Siro Vannelli, Gianni Murtas, Carlo Tronchetti, Aldo Lino). Cagliari, Edizioni della Torre, 1992.

Il libro – 204 pp. di formato stretto e finale schematica piantina del capoluogo – è articolato in quattro parti: “Itinerari nella città”, “Itinerari fuori Cagliari”, “Per saperne di più”, “Appendice”. In capo a tutto una breve introduzione ed una riassuntiva storia di tremila anni, trenta secoli, dal titolo proprio “Una lunga storia”, che parte dal toponimo: un concentrato (illustrato) in dodici pagine di luoghi, uomini ed eventi.

Il programma è di visitare la città scendendo le scalette dell’aereo o del traghetto, dopo già essersi confrontati – dal mare o dal cielo – con le suggestioni di una morfologia fascinosa per gli spazi e i colori.

Così, dopo l’arrivo – e in queste prime pagine gli autori non mancano di riproporre, opportunamente, le illuminanti descrizioni di alcuni visitatori di Cagliari quanto meno nel Novecento, da Vittorini a Piovene a Lawrence, ad integrare le “pillole” di un Alziator o di un Cambosu – ecco i percorsi suggeriti secondo la tradizionale suddivisione per quartieri, ed ecco i “casteddaius” di ciascuna appartenenza: di Castello, Marina, Stampace e Villanova, con le zoomate di pertinenza tradotte in schede essenziali per lo più dovute alla competenza dei collaboratori associati all’impresa (M. Paola Masala, Siro Vannelli, Gianni Murtas, Carlo Tronchetti ed Aldo Lino), vale a dire: Museo archeologico nazionale, Pinacoteca nazionale, Museo siamese, collezione delle cere, collezioni d’arte nel palazzo dell’Università; il porto, i giardini di via Roma; l’Orto botanico; Terrapieno e Giardini pubblici, Galleria comunale d’arte moderna, il mercato di San Benedetto… A completare tutto, quartiere dopo quartiere, il suggerimento di una «passeggiata» ed il riquadrato del «riassumendo», giusto compendio di pagine in cui il testo è felicemente integrato da luminose fotografie a colori.

Dopo i quartieri chiamati del “quadrifoglio” – quelli trecenteschi di Fazio degli Uberti! – gli altri: «Da levante verso ponente» (da San Lucifero a via Milano, da Monte Mixi a La Palma, da San Giuliano e Genneruxi a La Vega), ed entrano qui anche le schede del cimitero monumentale di Bonaria, di Monte Urpinu, del castello di San Michele; «il Poetto», con la scheda dello stagno di Molentargius; i dintorni, nel cui novero si infilano Santa Gilla, Nora e Chia, le grotte dell’Iglesiente, Sant’Antioco e San Pietro/Carloforte, la giara di Gesturi, Barumini e Villanovaforru, Villasimius, fino al «trenino centenario» chiamato ad attraversare l’Ogliastra e il Sarcidano e il Mandrolisai…

Un breve capitolo è dedicato ad alcune particolarità legate alle tradizioni o a spunti ambientali di   utile ripasso: in successione vanno così natura e clima, i consigli del «dove alloggiare», i piatti di specialità, l’artigianato, le feste e devozioni da Sant’Efisio alla Settimana santa al carnevale, lo «spettacolo ritrovato» (riferito al teatro Civico finalmente recuperato a Castello), le gallerie d’arte, lo sport, il verde pubblico.

Chiude tutto una gustosa appendice biografica dei cagliaritani illustri, nativi o elettivi: 71 brevi profili biografici – da Alziator a Vivanet – di chi, con la propria vita, ha onorato la comunità (ritornano qui, pur nell’estrema sintesi, le schede di cui il professore aveva anticipato la stesura, parlandone già quasi vent’anni prima!). Sono i inclusi in questa parte terminale del volume un vocabolarietto (“Parole e detti popolari”) e la bibliografia: 56 titoli, per spaziare liberamente nei secoli..

Un utile condensato delle intenzioni degli autori è nella quarta di copertina: «Cagliari a piedi. Girare tra chiese e palazzi, musei e giardini, vicoli e panorami improvvisi. E cogliere immagini, voci e silenzi, tipi umani, confrontando l’oggi con l’ieri, ciò che è rimasto e quello che si fa.

«Cagliari in trasparenza. Notizie, itinerari, consigli per il turista curioso e riflessivo, che tenta una conoscenza non superficiale senza rinunciare a divertirsi.

«Cagliari per i cagliaritani. Dedicata a chi ama appassionatamente la sua città, e la ricerca tutta intera anche nei dettagli, e a chi, abitandovi magari da sempre, la sente in qualche aspetto ancora sconosciuta.

«Cagliari da studiare. La storia, l’ambiente naturale, gli uomini che vi hanno lasciato un segno, persino le parole: quelle più usuali del dialetto, quelle letterarie di chi l’ha descritta».

Recensita per L’Unione Sarda da Carlo Figari (“Pedestrian tour per rigustare una città”, il 20 maggio 1992) l’opera di Antonio e Ludovica Romagnino, gode di un supplemento di testimonianza autorale in una lettera apparsa sul quotidiano del 29 maggio 1992 unitamente ad una precisazione anche dell’editore Salvatore Fozzi.

Intanto il recensore, che giudica di gran qualità la pubblicazione ma, valorizzando la mano esperta e competente del professore, sembra sottovalutare o addirittura misconoscere l’apporto della coautrice, originando appunto le puntualizzazioni cui ci si è riferiti.

Scrive Figari: «Che cos’è una guida turistica? uno strumento per il viaggiatore, un invito per gli abitanti a riscoprire la propria città, un saggio d’autore, una testimonianza storica, artistica e culturale, una raccolta di cose utili e di amenità. La Guida di Antonio e Ludovica Romagnino… è un po’ tutto questo e anche qualcosa in più di una classica guida turistica perché riflette nelle sue pagine l’esperienza di un protagonista della vita culturale cittadina negli ultimi cinquant’anni.

«Ma un’altra caratteristica è che Romagnino ha chiamato attorno a sé un pool di affermati collaboratori per diversi contributi specialistici…

«“La prima guida di Cagliari – ricorda Romagnino – fu pubblicata nel 1861 dal canonico Giovanni Spano, per i tipi dello stampatore cagliaritano A. Timon. La guida è tutta moderna nella sua concezione e del tutto nuova per l’esperienza che la sostiene. Il canonico infatti è il primo che scopra realmente Cagliari nelle sue sedimentazioni archeologiche e storico-artistiche, il primo che legga un monumento o la tela, che lasci una dettagliata traccia del patrimonio artistico della città andatosi depauperando dall’Ottocento a oggi, il primo che abbia una visione più ampia di quella che concedeva la sua cerchia di mura… Ma soprattutto la sua guida è frutto di un’osservazione diretta e di un lavoro sul campo”. Dello Spano, Romagnino si dichiara un semplice seguace che vorrebbe ripetere quel pedestrian tour così caro al buon canonico, instancabilmente immerso nelle vie di quella sua patria di adozione che era diventata Cagliari”».

Insiste – e, in questo, certo non a torto – Figari ad elencare i meriti dell’opera, capace di rendere «l’immagine della città rivisitata a piedi, angolo per angolo, monumento per monumento. Ad arricchire il racconto, perché di un autentico racconto si tratta – aggiunge il recensore – sono i continui riferimenti letterari cari al Romagnino professore di Letteratura italiana al liceo classico Dettori e all’appassionato cultore della storia cittadina…».

Non agli apprezzamenti – evidentemente graditi (oltreché meritati) – ma ai riferimenti d’incomprensione della pienezza autorale, da parte di Figari, si oppongono, tempestive (uscite sul giornale del 29 maggio), le seguenti osservazioni sottoscritte da Antonio e Ludovica, riconosciutissima ditta Romagnino: «La guida è stata scritta… da due autori, padre e figlia, che nelle diverse parti del libro procedono congiuntamente sulla stessa linea, con interventi non firmati. Al contrario, appaiono sempre identificati i contributi specialistici dei collaboratori. Sembra però singolare che Figari non legga correttamente le indicazioni editoriali che definiscono e distinguono gli spazi di collaboratori e autori. Il recensore, infatti, prosegue riconoscendo ad uno solo degli autori (e cioè al padre) un ruolo-guida in nessun modo oggettivamente attestato dall’opera, relegando l’altro (cioè la figlia) a semplice comparsa nei titoli di copertina, e assegnandole di fatto un ruolo subalterno.

«La recensione contiene dunque due errori di fondo: uno di ordine morale, per l’ingiustizia che si commette ignorando nell’analisi il nome Ludovica, cancellando quindi la fatica di uno dei due autori; l’altro di ordine culturale, per la rinuncia a riconoscere due voci nella stesura dell’opera, anziché una soltanto. Può darsi che nel costume corrente accada che il padre faccia salire privilegiatamente il figlio sul proprio carro, ma la cosa appartiene alla politica, e sicuramente non alla letteratura.

«Siamo perciò francamente perplessi dalla lettura che è stata fatta del nostro lavoro, per il quale avremmo gradito magari maggiore critica, ma ineccepibile imparzialità. Un’imparzialità che avrebbe evitato di lasciar trasparire stime e disistime del tutto personali».

Si tratta di puntualizzazioni evidentemente giustificate dalla realtà delle cose, fatte anche a “futura memoria”, perché resti traccia scritta cioè – al di là del contingente – delle fatiche e dei meriti. Colpisce anche la secchezza della precisazione, che non turba peraltro la correntezza della collaborazione ora già trentennale prestata dal professore al giornale di Terrapieno, che si estende sempre più dalla pagina culturale a quella cittadina, interrompendo o arricchendo il notiziario della cronaca quotidiana, con note e corsivi che sapientemente ricollegano l’occasionale o il transeunte a un dato più permanente, quello della storia locale che entra sempre più nei gusti dei lettori.

 

Giorni e stagioni. Cronichetta del 1991. Cagliari, Edizioni Castello, 1995.

Merita qui partire dallo stralcio che, nel risvolto di copertina, l’editore – che vanta a ragione, appunto, una copertina firmata nientemeno che dall’indimenticato Tarquinio Sini (da Contrasti Vecchia Sardegna Addio: le barche in darsena, e l’abitato di Cagliari sullo sfondo) – propone al lettore, indicandogli l’elemento di decodifica di tutto il libro: «… Qui, in questo libro, si sono raccontati giorni effimeri di una effimera vita, ma anche quando si è rievocata una passata stagione, la si è riempita di tutti i giorni che era possibile trarre dalla memoria ancorché vacillante. Forse appuntandoli ancora nel magma dell’esistenza con il chiodo esiodeo della giustizia riparatrice, della giustizia che contesta, precaria e sconfitta, il male del mondo.

«I giorni come affetti, come l’ascolto di sé, come soste e riposi. Chiamati, invocati non a dileguare le stagioni, ma a ritagliarsene come uno scarto, un brandello: ma di sangue. Essi solo fanno cronaca, anzi cronichetta, alle stagioni è delegata la storia. Se si è riesumato il titolo di un’opera minore di un grande dell’Ottocento lo si è fatto unicamente perché quella parola sola poteva dare il senso della pochezza con cui ci misuriamo col mondo e che è pure l’unica realtà di cui disponiamo…».

E’ questo un stralcio della già breve, rapida apertura – chiamala introduzione – del libro, siglata dallo stesso autore e passata col titolo “Giorni o Stagioni?”. Si rimanda tutto a Niccolò Tommaseo, a «quel Tommaseo catarroso chino sui foglietti svolazzanti qua e là del Dizionario in approntamento, dipinto con pungente simpatia da Vincenzo Riccardi di Lantosca». Per aggiungere subito dopo: «Anche se veramente quando il Tommaseo scrisse la Cronichetta era più vecchio di quando lo aveva visitato a Torino il venticinquenne poeta di “Pape Satan Aleppe”, che contiene quel ritratto del dalmata, e raccoglieva allora le sue ultime carte. Proprio, come si è accinto a fare, sia ancora perdonato il temerario accostamento, chi ha scritto queste pagine». (Perché è da dire, o ricordare, che già quasi dal suo pur prematuro pensionamento dalla scuola Antonio Romagnino allude – negli scritti o nelle sue gustose e sempre eleganti affabulazioni –, alla sua estrema, ultima stagione… fortunatamente senza mai azzeccarci, ma pur dando il senso del consuntivo che a lui pareva maturo e forse urgente. Il che è anche ribadito nell’epigrafe «Non c’è età senza i giovani, / ma neppure ce n’è senza i vecchi»).

Il libro di 294 pagine è, può dirsi, quadripartito, impiantandosi i suoi quattro capitoli nei tempi delle stagioni, a partire dall’inverno. L’apertura di ciascuno d’essi è data all’ambiente climatico che si trasforma e a tracce di colore ora neve ora fuoco che trovi nella letteratura e nelle tradizioni popolari isolane. S’associa immediatamente un libero sfogliare di autori, dai classici ai novecentisti, che in questa o quell’opera hanno guardato alla stagione e a qualche suo distintivo, magari botanico e vivente. Ecco così i titoli: “L’inverno”, “Muschi e licheni” – che sarà il titolo di una futura opera di Romagnino – e “La quercia: dalla riverenza religiosa al tappo di bottiglia”; “La primavera”, “Il fiore del deserto di Giacomo Leopardi”, “Era caro a Gabriele D’Annunzio”; “L’estate”, “Il mantello rosso di un re”; “L’autunno”, “La terra dell’oleastro”, “La macchia del Gin”.

Segue puntualmente un andar per chiese: pagine deliziose su monumenti chiesastici rivissuti nella umanità dei loro fabbricatori o dei fruitori nel corso dei secoli, con le loro devozioni e i loro orgogli localistici, riscattati soltanto dall’universalità dei cuori santi della Vergine o dei martiri… E così in successione ecco a Cagliari San Lorenzo, San Saturno, Santa Maria (cattedrale), Bonaria; e nei dintorni del capoluogo e nell’antica Sulci, ecco Sant’Antioco, ecco Santa Maria in Uta; e nell’Iglesiente, ecco Santa Maria in Tratalias; nel Montiferru, nel Barigadu o nel Guilcer, ecco le chiese di Santulussurgiu (San Leonardo de Siete Fuentes), Fordongianus (San Lussorio, memoria della sede vescovile del V secolo) e Zuri (San Pietro).

S’aprono dunque e si sviluppano i quattro capitoli (che recuperano molte pagine, magari rielaborate o completate, già apparse su L’Unione Sarda o anticipate in conferenze, al Rotary compreso, magari per sollecitare un intervento a favore del ritorno pubblico della statua di Giordano Bruno risalente al 1913 e da decenni ormai fissata in un pianerottolo universitario). Ma ciascuno di essi ha il proprio valore aggiunto nel taccuino privato del professore, fra 20 dicembre 1990 e 31 dicembre 1991: un filo lungo di esperienze intellettuali e civili che idealmente si collegano a due personalità che nella vita pubblica sarda (e non soltanto) hanno lasciato una traccia importante: Gianni Agus l’attore, compagno di scuola alle elementari in Castello, e Salvatore Cambosu lo scrittore, l’autore di Miele amaro e collaboratore per lunghi anni della terza pagina de L’Unione Sarda: quella terza pagina che un giorno sarebbe diventata lo spazio preferenziale per Antonio Romagnino critico letterario, elzevirista, scrittore in proprio…

Torri e mare. Cagliari, AMD edizioni, 1995.

Secondo libro dello 1995, questo nuovo di Romagnino consolida il tratto “frammentario” che, anticipato nel titolo precedente (cui strettamente si riconnette), da qui in poi marcherà una buona metà della produzione letteraria di un autore sapiente e collaudato, che ben accompagna la sua dimensione, nota e apprezzata, anzi ammirata, di docente, conferenziere, promotore di sodalizi culturali e civili. Un tratto, potrei aggiungere, che mi sembra proprio quello rientrante nelle migliori corde del professore perché capace di dosare e combinare l’approfondimento con quei percorsi miranti alla ricerca dei nessi – in una prospettiva orizzontale cioè – fra soggetti, esperienze, accadimenti sullo scenario un’altra volta ancora “glocalista”, fra Sardegna e vasto mondo. Proprio come soprattutto la letteratura può realizzare. E come lo stesso titolo dell’opera si presta a simbolicamente richiamare: «“Torri” sta per la città in cui l’autore è nato e vissuto, “mare” è l’“altro”».

Il libro della AMD edizioni, nella elegante collana “I griot”, è corposo: 378 pagine anche stavolta articolate in quattro campi o capitoli che guardano al calendario annuale e replicano suggestivamente, nella declinazione dei mesi raggruppati per stagione, i nomi del calendario rivoluzionario francese: partendo dall’autunno con  «Vendemmaio, Brumaio, Frimaio», «Nevoso, Piovoso, Ventoso», « Germinale, Fiorile, Pratile», «Messidoro, Termidoro, Fruttidoro»: «Una piccola “provocazione” per tutti coloro che, nelle nostre irrequiete stagioni, masticano con leggerezza il termine “rivoluzione epocale”. E invece i tempi sono sempre lunghi…».

In quanto al tratto autobiografico della narrazione – ché ancora l’autore ha preferito la cadenza colloquiale, quasi affabulatoria, a quella del saggio – sembra importante rilevare che in questo libro il pronome di prima persona singolare “io”, così diffusamente presente nell’intrigante e colto diario di Giorni e stagioni, lascia sovente il posto alla terza persona, anzi a un soggetto vero e proprio – Stefano, l’alter ego di Antonio – che si fa protagonista di molte vicende di vita e di relazione dell’autore. Si vedrà nella futura produzione di Romagnino l’incombenza esistenziale di questo soggetto destinato, dopo il lungo accompagnamento, già dall’adolescenza, a cedere il passo, a spegnersi…  (Una curiosità: lo scrittore qui va, soprattutto per quanto personalmente lo riguarda, per ricordi, senza verifiche sulle carte che quanto meno dichiarano le date; e non verifica ad esempio la data della cessazione del rapporto più o meno organico con il Partito Liberale Italiano di Francesco Cocco-Ortu, fissata – a pag. 138 – «intorno al 1950», quando invece essa va spostata d’un decennio circa, al 1960, come fanno prova le candidature amministrative o politiche alle regionali. Militanza sofferta, intendiamoci, in qualche tempo condotta proprio controvoglia – per quella soverchiante e imbarazzante presenza di monarchici e qualunquisti –, ma pure ancora formalmente confermata).

L’indice del volume è essenziale, riferisce soltanto la sequenza dei mesi, ma certo se ne può tentare uno sostanziale, ripercorrendo pagine e paragrafi e capitoli. La ricchezza del tutto è peraltro avvertibile dal numero delle opere citate: duecento e qualcosa per 135 autori, da Platone e Ariosto a Lussu ed Egidio Pilia, passando per Dante e De Amicis, Leopardi e Gadda, Tocqueville e Musil, Benedetto Croce e Pasolini, ma anche Vincenzo Porru e Antonio Pigliaru…

E’ sempre merito delle case editrici quello di approntare le schede onomastiche anche per onorare l’autore che a tanto brillante scavo s’è offerto: e in questo caso la AMD ha incluso quasi 850 nomi, quelli dei protagonisti o dei comprimari delle pagine di Torri e mare che raccolgono gli scritti di circa un anno, fra estate 1993 ed estate 1994.

Certamente sono spumeggianti più di tutte le parti dedicate ai medaglioni biografici dei cagliaritani, una missione che Romagnino si è dato tesaurizzando nell’arco di molti anni una quantità incredibile di notizie disciplinatamente rinchiuse in cartelle. Perché attraverso il racconto autobiografico che dà veste al diario dei fatti e delle memorie, e anche delle letture, egli è convinto possa scaturire una biografia collettiva della città, senza neppure separazioni fra personalità e personaggi, insomma fra i raccontatori – metti un Alziator – e i raccontati – metti gli arsellai…

Appena scorrendo a blocchi, e dunque casualmente, di questa ricchezza e varietà espositiva si può avere rapida cognizione. Bastino i titoletti: “La Sardegna antica e moderna” (Alberto Lamarmora ma poi in sequenza gli altri visitatori stranieri, da Byron e Gall e Camden Hobhouse a Smith e Burdett, da Tennant e Tyndale, a Davey ed Edwardes, a Lawrence ecc.), “La chiassata marinettiana”, “Morte del congiuntivo”, “Ricordo di Francesco Zedda”, “Un intellettuale fuori da chiese e chiesuole” (Nicola Valle), e ancora “Fece i libri di tasca sua” (Raimondo Carta Raspi), “Quando si partoriva in casa”, “La patria divisa”, “Che cosa può essere un vocabolario”, “Il nuovo più bello” (arte, architettura e anche “pirreria”), “Una maschera perduta” (sui piccioccus de crobi), “Quel mondano pittore nuorese” (Bernardino Palazzi), “Cagliari e un suo poeta” (Francesco Alziator), “Quel liberale che i comunisti avrebbero votato” (Ciccio Cocco Ortu), “Diario elettorale” (un mix di immagini ed idee in un volo più che secolare, fra Melis Bassu e Cocco Ortu, Pigliaru e Lussu, Martelli e Antonio Sanna, Vincenzo Ulargiu e Giovanni Lilliu).

E un bis – dopo il passaggio centrale di “La città sfortunata” (Cagliari misconosciuta dalla prevalente letteratura isolana, con poche eccezioni) – e ancora un ter e un quater ecc., ché già solo l’evocazione di quella parola che chiama a stringere la contingenza sembra suscitare fughe nei pensieri alti, fino a Manzoni e Simone Weil, Rosmini e Gioberti e Giovanni Paolo II… “Cagliari: il tempo dei lumi a gas”, “Se cessassimo di essere una nazione”, “Letture parallele degli italiani”, “Tre storie cagliaritane”, “Gianni” (Agus, l’attore brillante di teatro e televisione e già compagno di scuola alle elementari di Santa Caterina), “Il giardino di Evelina” (la Mameli Calvino, direttrice dell’Orto botanico di Cagliari alla fine degli anni ’20, e madre di Italo), “I sardi di Lombardia”…

E ancora: “Due donne in lizza per il Nobel” (la Deledda e la Serao, o la Deledda contro la Serao meno amata e meno sostenuta dal governo fascista), “Quel reazionario era forse un federalista?” (Monaldo Leopardi), “Brache e corsetti”, “Il pittore Felice” (il Melis Marini, poeta oltre che pittore), “Un sardo fra storia e archeologia” (Ettore Pais, anche senatore di nomina regia), “Maximilien Robespierre e il psitacismo”, “La veglia de is obreris”, “Salvatore Satta: lo scrittore in agguato dietro il giurista”, “Quel reazionario vissuto fra noi” (Pietro Martini), “I tre disubbidienti” (Milani, Turoldo e Balducci), “Da Giorgino al Poetto”…, ma ancora con tutte le evoluzioni e variazioni dello spartito, giostrando fra Casanova e De Sanctis, Cecchi e Magris, Thomas Mann e Heidegger, De Maistre e Levi Strauss, Lonis e Biasi, Enrico Costa e Raffaello Delogu…

E’ questo l’ambiente lungo e largo delle frequentazioni letterarie e di meditazione di Antonio Romagnino, nel vasto mondo e in quello della “piccola patria” che guarda all’universale però, e non si contenta del suo nobile e umile dna, del quale peraltro ha competenza… E d’altra parte è da dire che qui l’autore prende, assai più che in passato, a dire di sé, a raccontarsi raccontando di Stefano: «Bighellone lo era stato per tutta la vita, senza mete precise, senza tappe lunghe, più in fuga che in sosta. Senza una vera incoerenza e con invece la curiosità  intermittente, interessata sempre ad una conclusione improvvisa. Anche gli impegni esterni erano stati matrimoni di durata appena accettabile. Ma sempre senza calcoli, senza interessi, senza lucro. La farfalla volava di preferenza sui libri, ma anche i viaggi gli avevano dato ali. Senza esotismi, e di preferenza sotto il cielo d’Italia. Li faceva sognando di portarsi dietro l’isola ove era nato, di farle fare un bagno salutare nell’altro, rimasto estraneo e perfino ritenuto erroneamente ostile. Forse aveva ragione Niccolò Tommaseo, che ha liberato il termine seppur parzialmente del suo significato negativo e vi ha letto un’arte di vivere, misuratamente rispettabile: “Il ciondolone è fiacco per natura, il bighellone per arte, e quasi ci medita su”».

E il bighellone (bighellone molto, molto fra virgolette e certamente studioso e pensoso) s’appassiona, pur disincantato com’è per imprinting di natura, alle correnti dottrinarie che attraversano la letteratura e la politica, il vivere civile. Guarda al suo paese così segnato, nel bene e nel male, dalla Chiesa e dalla sua organizzazione, dalla sua morale e dal suo costume, e commenta: «Cattolici e laici non si sono incontrati mai in Italia e forse non si incontreranno mai, e non per inconciliabilità delle idee, ma per il millenario gusto della separatezza della nostra gente, ed ancor più dei nostri intellettuali. Neppure in questa svolta cosiddetta epocale c’è speranza che questo possa accadere. Anche per debolezze intrinseche delle due opposte culture. L’Italia, fatta eccezione per Alessandro Manzoni, non ha avuto importanti scrittori cattolici, non ne ha avuto di popolari o di larga diffusione come la Francia, con Pascal, Chateabriand, Claudel, Maritain, Simone Weil, ecc. Anche i laici, con il particolare impegno che la cultura è laica perché entra nell’irreligioso e nell’areligioso, ma è anche capace di sentire e di difendere le fedi religiose (tutte), non hanno conosciuto molta fortuna. In più, anzi in meno, la cultura laica italiana ha avuto la sfortuna di essere di schieramento, di sostenere una politica di parte e di farsene sostenere. Il “maitre à penser” italiano ha cercato sempre o quasi sempre di essere targato, non ha avuto a fastidio il partito, l’ha cercato. Per questo i nostri scrittori si sono formati altrove. Sciascia, ad esempio, e Tomasi di Lampedusa erano figli della cultura francese…».

Ma poi c’è lui con la sua testimonianza e il suo giudizio sul piano delle cose correnti: «Sono e sono stato sempre un liberale o meglio un “liberal”. Lo sono stato in America, quando da prigioniero di guerra esperimentavo Toqueville ed esortavo i soldati e gli ufficiali ad accettare l’offerta di lavorare con gli alleati che fu fatta dopo l’8 settembre ai prigionieri nelle loro mani; lo sono stato quando ho militato fra i liberali e li ho votati fino a quando non mi sono accorto che erano (con altri) i reggicoda della Dc; quando ho votato per la sinistra e ne ho accettato infelicemente una candidatura; quando non ho mai votato per la Dc. Ora sono tutti liberali, anzi liberal-democratici, più spesso liberisti che giurano sul mercato e sputano sullo stato sociale. Croce sembra aver perduto, e aver vinto invece Einaudi. E tutti si azzuffano intorno ai due poli di destra e di sinistra, per guarire dopo cinquant’anni di democrazia zoppa. Nessuno pensa all’oscura minoranza che li ha cercati vanamente, col suo voto libero, per cinquant’anni».

Ancora, molte pagine avanti: «Sono tutti liberal-democratici. Se Stefano fosse vivo (non ha retto allo sfascio d’Italia ed è morto l’anno scorso a settantotto anni: giusto coetaneo dello scrittore) si rallegrerebbe che quella idea della sua giovinezza conosca questo scoppio inatteso e improvviso. Hanno scoperto tutti il “mercato”, anche i socialisti e i comunisti, anche i cattolici solidaristi. Il suo liberalismo si teneva ben staccato dal liberismo, era più crociano che einaudiano. Lo aveva praticato in America…

«L’Italia di oggi è tutta “liberale”, non lo era altrettanto quando Stefano sbarcò a Napoli nell’ottobre del 1945, reduce dalla prigionia americana. Aveva nella cassetta di ordinanza tutti i suoi classici politici, ma questi riuscivano ad entrare, anche con la volgarizzazione più facile che Stefano ne tentava, nella gente con più difficoltà di quanto gli fosse riuscito con i contadini, che aveva trovato laggiù fra i soldati che erano sopravvissuti alla guerra…».

E un’altra volta ancora: «Riesce difficile riconoscere nei liberal-democratici, che pullulano dappertutto, i liberali di un tempo o meglio, l’immagine ideale e quasi sempre impropria che se ne è data nel passato. Anche Stefano, prima di morire, ricordava che quei liberali o più precisamente “liberals” che aveva cercato, non li aveva quasi mai trovati. La sua era stata e rimaneva una formazione libresca, e quando provò a militare nel partito “liberale”, appena tornato dalla prigionia, scoprì presto che a Cagliari almeno la distanza tra idea e prassi era grande e immediatamente incolmabile, e già questo fatto che non fosse un’idea generale condivisa fra tutti gli schieramenti dai democristiani ai comunisti, ed invece si riducesse a una militanza come un’altra, l’aveva deluso. Ma era all’interno della formazione, da lui ritenuta più ravvicinata alle sue letture, che era incominciato il disagio.

«Alla vigilia del referendum istituzionale non fu difficile censire non più di due o tre “repubblicani” di fronte alla maggioranza schiacciante dei “monarchici”. Anche Francesco Cocco Ortu lo era, e gli era sembrato paradossale che quel giovane antifascista, il leader dei liberali in Sardegna, fosse così longanime nei confronti del re.

«Il ruolo sempre più importante, che fra i liberali sardi (ma altrove deve essere accaduto lo stesso) avevano assunto i notabili locali, aveva aggravato la crisi di Stefano. Erano generalmente proprietari terrieri o professionisti di famiglia borghese o aristocratica. Avevano avuto posti secondari, a volte avevano vissuto ai margini del passato regime. Il digiuno a lungo durato li faceva affamati di cariche di rilievo. La condizione per essere appagati era la collaborazione con la Democrazia Cristiana…».

L’affinità era con Il Mondo di Pannunzio, con il liberalismo critico e progressista che ben poteva chiamarsi democratico. Ma la rottura politica non significò mai rottura con le persone, o la persona migliore di tutte, con Francesco Cocco Ortu. Infatti: «Ma tutto questo non consumò l’amicizia e la stima che Stefano nutriva per quell’uomo politico, quasi unico nei cinquant’anni di vita politica isolana durati dalla fine della guerra ad oggi. E per questo quando fu chiamato a commemorarlo, nella giornata dedicata a “Francesco Cocco Ortu – liberale senza aggettivi” il 20 gennaio 1989 nel ventesimo anniversario della sua morte, non si trasse indietro».

Illuminante, un’altra volta ancora ed ennesima ma pure mai ripetitiva, è l’analisi che lo scrittore affaccia del disfacimento dei partiti nella stagione di “mani pulite”. Dice del suo antico partito, prima di dedicarsi alla sorte malinconica (o furbesca?) della DC biforcatasi fra popolari e neocentristi: «Si è sciolto il partito liberale. Era già morto nel declinar dell’età giolittiana, e quando apparvero i socialisti e i popolari organizzati in partiti di massa, prima del fascismo. E’ risorto dopo la seconda guerra mondiale, con l’artificio del CLN, come i repubblicani, a tavolino per l’iniziativa di qualche notabile superstite, non fra la gente. Ebbe però sempre vita precaria. Oggi cade nella voragine del vecchio che tramonta. Ho raccolto melanconici rimpianti, anche di qualche giovane. Stefano direbbe: “Ha pagato la servile collaborazione con la Dc, nel bene e nel male, per cinquant’anni”».

Forse, in queste descrizioni riproducenti le cause dell’intimo malessere di Stefano, le ragioni perfino della sua morte avvenuta nel malinconico passaggio fra il 1993 ed il 1994, la confessione dello scrittore avrebbe potuto e voluto farsi più esplicita, chiamando da subito, apertamente, responsabilità e responsabili della nuova stagione di terribile declino… l’imbroglio della cosiddetta “seconda Repubblica”, la superficialità della conduzione (complessa e complicata per sua natura) del cosiddetto “bipolarismo”, l’ipocrisia dei “nuovisti” (riciclati più avventurieri), la becera leadership della destra demagogica e populista, plebiscitaria come una dittatura profumata e innervata di machismo leghista e neo-neofascista, e sostenuta da convenienti complicità clericali, l’inconcludenza e la crescente aridità ideale di tanta sinistra…

Senza militanza di partito, Romagnino sarà un testimone credibile, anche nella stagione post 1994, dei valori di democrazia laica e riformatrice, contro gli inganni parolai di trasversali, camaleonti, opportunisti, plebei della mente e della coscienza civica che, sull’esempio dei commedianti manifestatisi già intorno al 1921-1925, son passati sul carro eureka del tragico vincitore.

Presentata agli Amici del libro, l’opera sarà fra quelle meglio accolte dal pubblico cagliaritano che già ne ha avuto un’anticipazione ne L’Unione Sarda del 14 dicembre (1995) – titolo “Diario dall’oceano”. Opportunamente l’editrice (certamente d’intesa con l’autore) ha scelto, quale primizia, una delle più belle e intense pagine dedicate ad uno dei momenti clou della vita dello scrittore o del suo alter ego Stefano: la partecipazione alla guerra nel nord Africa e la deportazione salvifica in America. «Era stato catturato in maggio in Tunisia e aveva trascorso, fra poca acqua e molto caldo, due mesi di campi di prigionia provvisori in mano agli inglesi. Poi con molti altri fu fatto salire su un treno e dalla Tunisia portato a Orano in Algeria. Anche lui aveva partecipato in quell’affollata tradotta ai cori fascisti che si erano levati per tutta la durata del viaggio, più goliardici che nostalgici. Anche lui aveva incassato la pungente ironia degli americani che, appena il convoglio arrivò sul posto e i canti continuavano più alti, li accompagnarono con una fanfara di parata, tutta impennacchiata e con lucidissime trombe, tromboni, clarinetti, tamburi e grancasse, schierata sulla tolda della nave a cui il treno si era accostato.

«Anche con quello scorno, con più fatica salirono a cinque a sei per la biscaglina gettata lungo la murata già sulla banchina di imbarco. Per i movimenti e pesi diversi di piedi e di braccia la strattonavano da una parte all’altra, e Stefano annaspava più dei suoi compagni di arrampicata. Non gli dispiaceva di essere ridiventato quasi un soldato semplice, carico dello zaino dove aveva chiuso le sue cose, nel momento della resa. I marinai americani li incoraggiavano dal ponte di coperta, ma quei sorrisi sembravano diventare mordaci risate. Poi anche lui arrivò e trovò posto nell’ampia stiva della Liberty, che era rientrata da qualche giorno dallo sbarco degli Alleati in Sicilia.

«Lasciava finalmente le tende, su cui avevano soffiato i venti dell’estate africana, e c’era già un comfort americano in quella nave usata per la guerra. Anzi il comfort prese corpo nel pasto caldo che il comandante regalò a quei disperati afflitti sempre più dal nauseabondo odore delle scatolette di conserva, che avrebbero dovuto essere il loro alimento quotidiano. Nessuno lo vide mai in faccia, ma tutti per lui furono percossi dalla generosità americana per la prima volta. Anche ciò che provocò il tumulto di quella notte risaliva involontariamente a quella gentilezza oscura chiusa nella plancia di comando. Si era lasciata Orano, e da qualche giorno, in un’alba fumosa, si era doppiata Gibilterra con le sue bertucce e col suo muso duro, eppure fatto familiare dalle immagini che ne erano state trasmesse in tre anni di guerra. Era la notte del 25 luglio, la nave aveva superato le Azzorre e viaggiava in pieno Oceano. Stefano, nel posto più alto del suo castelletto, leggeva La montagna incantata di Thomas Mann. Seguiva gli incantamenti Hans Castorps, le civetterie di Clawdia Chauchat. Si appassionava alle discussioni coinvolgenti di Lodovico Settembrini e di Leo Naphta…

«Quei prigionieri erano libri e non lo sapevano, andavano verso la libertà, fuori ormai dalla guerra, ma non ne avevano coscienza. Il dispaccio di bordo che il marinaio di lassù aveva ordinato che fosse diffuso diede fuoco alla mina. Quando lessero che Mussolini era caduto e che Badoglio, Pietro Badoglio, aveva preso il suo posto, una lama indurita tagliò netto il dormitorio. Saltarono dalle brande, le impugnarono e le lanciarono sugli avversari, in tumulti scoppiati qua le à improvvisamente. Al grido d’ira: E’ tutta propaganda! E di contro: Abbasso i fascisti! le sentinelle della Military Police assistevano mute, sorridevano sornione Stefano continuava a leggere apparentemente tranquillo La montagna incantata…».

 

Farfalle & altro. Cagliari, Edizioni Castello, 1997.

Dedicato al libraio Antonio Cocco «l’amico carissimo scomparso», questo nuovo libro riprende il passo e il linguaggio di Giorni e stagioni e di Torri e mare: il passo e il linguaggio del “frammento”, del racconto omnibus spezzato ma ripreso, in cui gli uomini e gli avvenimenti, i libri e magari le architetture sono riconosciuti protagonisti di pari dignità e capaci di reggere la pagina, come già, fin dall’inizio, suggerisce il titolo del capitolo introduttivo “Piante, animali” oltre che “eroi, uomini”.

Ancora Cagliari e la Sardegna, e con le sue «torri» ancora il «mare», cioè il vasto mondo della storia e della letteratura, della pace e della guerra. I personaggi incontrati, quelli studiati, tutti classificabili nelle matrici ideali approntate da chi ha voluto penetrarne le fibre morali e creative, per tessere la tela che tutto ricompone ad unità e armonia, nel rispetto necessario delle distinzioni e delle singolarità.

“Romagnino, farfalle di memoria e poesia” è il titolo che L’Unione Sarda dell’11 maggio 1997 ha dato alla bella e ampia recensione di Sandro Maxia, che preferisce giocare sul titolo del libro e insistendovi aiuta a capire i perché dell’autore andato incontro un’altra volta ancora, con la levità che gli è propria, al giudizio dei lettori. «La farfalla nella vita nell’arte: ecco un classico tema da elzeviro degli anni Venti e Trenta, gli anni che videro il trionfo del frammento e della prosa d’arte; gli anni dei Pesci rossi e delle Corse al trotto di Emilio Cecchi, gli stessi nei quali Antonio Baldini inventava i personaggi di Melafumo e di Michelaccio, per fare da battistrada alle sue eleganti scorribande letterarie attraverso il Belpaese… citazioni obbligate dell’ipotetico elzeviro: le farfalle crepuscolari che appaiono “in mezzo ai viburni” in una celebre poesia di Pascoli; i poemetti di Gozzano sulle farfalle…; la rappresentazione farfalliforme di Psiche nelle pitture pompeiane; la “semplicetta farfalla” del Canzoniere petrarchesco; forse la “farfallina color zafferano” che dà il titolo alla Farfalla di Dinard di Montale; certamente la “gentil farfalletta” della vispa Teresa; e poi giù con il farfallone amoroso di Mozart e con la Butterfly, per non dire degli usi traslati e gergali della parola: la cambiale…; il papillon da indossare col frac; la valvola a farfalla, il nuoto a farfalla, la tignola del grano detta farfallina e così via. E come intitolar un simile elzerivo… se non “farfalleggiare”, saltabeccare cioè di palo in frasca, secondo il genere letterario, meno ignobile di quanto non dica la parola, della “cicalata”?».

Questa l’intenzione dunque, questa l’arte, e questo il risultato di un autore che si è iscritto «ad una civiltà letteraria che ha fatto della scrittura diaristica e della raccolta di aforismi un genere letterario di dignitosissima presenza nel panorama letterario». E aggiunge un cenno ai «numi tutelari», o «spiriti fraterni», scovati dallo scrittore fra i «moralisti della Voce prezzoliniana e in specie in Giovanni Boine. E ne aggiunge un altro che è poi una protesta altre volte alzata da Romagnino sulle attribuzioni troppo restrittive della qualifica di scrittore soltanto a chi romanza.

Nel giudizio di Maxia critico autorevole due sono i motivi ispiratori della ritrattistica offerta in ultimo ancora con questo Farfalle & altro (252 pagine tutte da gustarsi): la memoria storica, importante in misura inversamente proporzionale alla considerazione che se ne va facendo nell’epoca postmoderna, e la costitutività della cultura urbana e borghese, come «felice sintesi di regionalismo e cosmopolitismo non evasivi», della dimensione identitaria della Sardegna fuori da deviazioni etnicocentriche.

Un libro dai contenuti distribuiti in tre parti fra loro assai diseguali: di larga prevalenza il primo capitolo – il citato “Piante, animali, eroi, uomini”, che recupera anche molti scritti già affacciatisi sulla stampa locale – ed a seguire “L’Isola e l’altro” – interessante e densissima silloge di appunti suscitati i più, forse, dalle occasioni, ma anche con qualche pagina maggiormente ponderata, come quella su Marzabotto nel 1942, tratta dal “Diario di Stefano”, o sulla prepotente personalità anche letteraria dell’avvocato Giuseppe Fara Musio, entrato in rapporti perfino con Manzoni.

All’inizio qui sono Flaubert e Seneca, Fulgenzio Micanzio e Friedrich Wilhelm Nietzsche, Calvino e Leopardi, Pasolini e Croce, Kung e Piovene, ma poi, come in una accelerazione ragionata, da spazi ai sardi e alla Sardegna, alla città capoluogo e ai suoi protagonisti…

Sono non più d’una quindicina le pagine di chiusura che, con il titolo “Il frammento come farfalla”, guardano a quel Boine presentato da Sandro Maxia ed al quale Romagnino sembra volersi ricondurre: poeta e scrittore che ha consumato la sua breve vita – morto trentenne appena – negli studi filosofici ed in una scrittura morale (prosa o versi) in cui esprime la fatica della conquista del giusto equilibrio fra razionalità e, come è stato detto, allucinazioni creative.

Coinvolgente in questa sua intima varietà, il libro rilancia i temi che costituiscono, ormai da molti anni, la “predicazione” scritta ed orale dell’autore, e con speciale tenerezza il fare e il sentire di Stefano alter ego: dice del gufo di terracotta «con il naso appuntito e ricurvo, con gli occhi gialli, rotondi, distinti l’uno dall’altro» che, regalatogli «per una delle chiacchierate in pubblico, che si usano chiamare conferenze», Stefano aveva messo «in bella evidenza, fra i suoi libri»… Stefano ormai scomparso. «Ma ora il gufo o civetta non c’è più nei luoghi in cui Stefano lo avvistò, le case “borghesi” hanno anche inghiottito questo lembo di campagna. Anche Stefano non c’è più, nemmeno lui abita da tempo da queste parti».

Nel gioco delle parti, Antonio sopravvive a Stefano. Antonio nel novembre 1997 fa anzi festa, controvoglia forse, data la desolazione generale. Compie ottant’anni. In un’intervista concessa a Giovanni Mameli per L’Unione Sarda (e pubblicata il 26 novembre sotto il titolo “Antonio Romagnino, gli ottant’anni di un grande laico”), il professore traccia qualche consuntivo della sua attività editoriale e prospetta qualche intenzione nuova. Si riferisce in primo luogo al desiderio (che resterà però inappagato) di concludere la tetralogia dei quartieri cagliaritani, dopo i testi sulla Marina e Castello promossi dalla SAIA attraverso la Electa. «Ho pronto il materiale per gli altri due volumi. Mi piacerebbe che l’opera completa uscisse con la stessa casa editrice anche se non sono favorevole ai libri fotografici. In quell’occasione accettai perché c’era un giusto equilibrio fra scrittura e immagini. I quattro quartieri storici e la Cagliari moderna sono presenti nella guida che poi ho scritto con mia figlia Ludovica» .

Dice di Cagliari nel passaggio dall’antico al moderno: «E’ una città giovane, anche se ci sono stati insediamenti umani da epoche remote. Prima il suo sviluppo è stato bloccato perché era una piazzaforte militare. Aveva una delle cinte bastionate più belle d’Italia. Dopo l’abbattimento delle mura, che avvenne senza l’opposizione degli intellettuali del tempo, è diventata una città aperta. Da militare è divenuta borghese, con la costruzione di palazzi eleganti e del Municipio lungo la via Roma».

Aggiunge qualche considerazione sulle battaglie combattute al tempo della presidenza di Italia Nostra, iniziando da quella per la chiusura delle cave dietro Monte Urpinu: «Ma a Cagliari c’erano altre cave che hanno distrutto un patrimonio ambientale unico. Cagliari aveva dieci colli. Uno di questi, monte Mixi, è stato completamente spianato dall’attività cavatoria. Questo ha inciso negativamente sulla bellezza del capoluogo. che presenta punti di osservazione sempre diversi. Per appressare questi aspetti bisogna percorrere a piedi la città: passeggiare vuol dire guardare nei particolari e amare».

Allarga alla letteratura, passando per i suoi ricordi di docente: «La lezione è una creazione libera. Quando proponevo agli studenti il Verismo, ho fatto leggere Grazia Deledda al posto di Giovanni verga. Poi gli autori del Novecento si possono proporre assieme a Dante e Petrarca, per libera scelta dell’insegnante. Sono contrario alle infatuazioni per la letteratura sarda. Ma aperto alla poesia in lingua italiana e in limba, alla lirica logudorese e al gusto comico tipico dei versi campi danese…».

Conclude con uno sguardo al millennio alle porte: «Il nostro è stato un secolo orrendo, con eccidi, persecuzioni, intolleranze. L’Occidente è arrivato sull’orlo di un baratro. Auguro ai giovani del Duemila di non conoscere il significato della parola eretico. Abbiamo perseguitato e riempito le carceri con persone che la pensavano diversamente da noi. A questi eretici perseguitati bisogna chiedere perdono: l’ha detto anche il Papa. Questo processo di pacificazione non è una forma di omologazione. Siamo tutti corresponsabili di quanto è avvenuto, anche quando ce ne siamo allontanati credendo che i nostri doveri riguardassero solo la vita privata».

 

Passeggiate cagliaritane. Cagliari, Edizioni della Torre, 1997.

E’ come la pratica di una religione naturale e adogmatica, questa del passeggio come l’intende Antonio Romagnino, e anticipata nell’intervista concessa a Giovanni Mameli. Né più né meno di come l’aveva intesa Francesco Alziator. Pratica di una religione perché – come ben dice, ma con parole tutte sue, l’autore nella breve introduzione al libro Passeggiate cagliaritane – religioso è lo scopo: “Passeggiare per amare”, cioè per conoscere e partecipare al mondo d’intorno, che ci ha fatti e ci fa quello che siamo. Ecco i verbi giusti: passeggiare per amare, cioè per partecipare, entrare nell’armonia delle responsabilità.

E’ stata una rubrica (prevalentemente domenicale) nelle pagine della cronaca cittadina de L’Unione Sarda, questa delle “Passeggiate cagliaritane” che Romagnino ha condotto per diversi anni: articoli brevi, come una finestra sul dialogo fra i tempi e i luoghi di ieri e di oggi. Questi raccolti nel nuovo libro sono gli interventi del biennio, poco più, 1994-1996.

Le racconta, il professore, le sue passeggiate cagliaritane. Sia quelle della pratica religiosa “per amare” – per amare conoscendo – sia quelle fisiche delle strade lunghe, degli spiazzi larghi, delle verticalità a plein air di torri e chiese, nella città che dall’inizio del Novecento, dopo l’abbattimento di tutte le sue antiche mura, ha trasferito ai suoi residenti il modo e il gusto di far società, d’incontrarsi nei luoghi nati per la condivisione. Ma non solo: anche il modo e il gusto di pensare per proprio conto, e di cercare nessi e corrispondenze, varianti ed evoluzioni, premesse e casualità, avanzando o circolando, di passo non di corsa, ora nella contrada di San Francesco – il futuro corso Vittorio Emanuele – o al bastione unificato di San Remy, oppure al Terrapieno – una cerniera di quasi un chilometro, fra la città alta e quella bassa e fra la piazza Costituzione e i Giardini pubblici – o, ancora, nella via Roma umbertina, poi tutta modernista e porticata, segnata in lungo dal verde dei corridoi centrali, prima che da quello piatto o crespo del mare chiuso nel porto. “Sa passillada” come un’arte, si direbbe l’arte della comprensione dell’invisibile dedotto o prefigurato, oltre il manifesto e parlante: la comprensione del misto spontaneo di storia ed attualità, di natura e architettura, di socialità e memoria.

Vola alto, come sempre, Antonio Romagnino, quando porge al lettore la più normale, la più ordinaria delle idee per… trascorrere bene, e utilmente, il proprio tempo. Vola alto con le citazioni, che non sono messe lì, sul foglio, per esibizione, per sfoggio di erudizione. No, vola alto perché rispetta il suo lettore, Antonio Romagnino, e vuole suffragare la sua conquista o la sua convinzione, che è sempre un arrivo (per quanto provvisorio e comunque da verificare), con l’esperienza e la riflessione dei maggiori – la Deledda e Gadda, e magari Rousseau – sulla stessa materia. E, di più: egli universalizza la sua conquista scorgendo e rivelando le corrispondenze di quanti altri, in quali altri ambienti e contesti, egli ha intercettato nelle sue letture.

Dentro l’universo è Cagliari, servita e mangiata anch’essa dalle arti universali di chi ha tesaurizzato la lezione e l’ha rielaborata e magari l’ha predicata a sua volta: per amare, cioè partecipare all’armonia – scopo ultimo d’ogni creatura –, bisogna conoscere, e per conoscere bisogna incontrare, non sempre e non soltanto ricevere, ma darsi d’iniziativa, osando, offrendosi alla relazione consapevole con lo spazio-tempo.

Questo può essere un modulo autenticamente pedagogico valido per i minori. Bisogna tenerne conto. Passeggiare sì, all’inizio, con una guida empatica, capace di sciogliere la sua competenza, e autorevolezza, nella trama di un’amicizia che già faccia intuire un gustoso approdo “insieme”, comunitario cioè. E’ il miracolo di educare la sensibilità e accompagnare nella scoperta dello spazio-tempo passeggiando per la città, adocchiando le lapidi viarie, visitando una chiesa o un monumento, un parco o una biblioteca, i luoghi frequentati e quelli abbandonati…

Confessa la sua pratica religiosa – della religione civile che associa l’impegno nell’oggi alla consapevolezza del già trascorso – Antonio Romagnino, e lo fa raccontando dei suoi movimenti ora mirati ora occasionali attraverso la città articolata nei suoi quartieri che ancora conservano molti dei tratti originari ma non per offrirli come un museo senz’anima, al contrario per farne teatro di incontri e patti nuovi, fra la storia e la cronaca, fra il passato e il presente. Perché è giusto la lega fra il passato e il presente che delinea il futuro, e svela il respiro della vita.

Li declina, il professore, i quattro quartieri di Cagliari, riportando il medioevo (e magari, dopo, l’era aragonese o spagnola o piemontese) nel palpitante vissuto novecentesco. Sembra di risentire i versi del Dittamondo che elencava Callari e Stampace e Villanuova come mondi autonomi, al pari di Bosa o Arestan, Sassari e l’Alighiera (la Ligera). Così egli ripartisce, come nel quadrifoglio canonico, il territorio e la popolazione, non per dividere, no: ché anzi il suo scopo è tutto l’opposto: valorizzare le originalità per conferirle così nobilitate all’anima grande e corale della città, sfuggendo ai rischi (sempre in agguato) della omologazione così come a quelli, speculari, della separazione.

Hanno storia tutta loro particolare Castello e la Marina, Stampace e Villanova, le comunità civiche del quadrifoglio medievale cagliaritano. E passeggiando nel loro cuore fisico e sociale, si lucidano le memorie e, interpretando le stratificazioni dei secoli, si dà precisa ragione di un oggi venuto non dal nulla, e proprio per questo impegnato a preservare il bello e il giusto onde trasferirlo, insaporito ancora, al domani delle nuove generazioni. Quelle generazioni verso le quali le presenti sono sempre, per statuto, moralmente debitrici (non foss’altro che perché sono esse che le chiamano al mondo!).

Preparano alle passeggiate di quartiere più generali riflessioni che guardano alla città en marche da mille anni, o anzi da duemila – il tempo cristiano –  o da tremila, dal primo insediamento fenicio cioè e dalla fondazione di Karalis. Riflessioni che guardano alle dinamiche dei suoi territori e dei suoi ceti residenti. Ma l’attenzione s’appunta qui su alcuni dei presìdi urbani per taluni aspetti unificanti, ora nel bene ora nel male. E i venti o trenta titoli del capitolo “Le vagabonde” dispongono proprio, nel disordine tematico dei particolari riferimenti, agli inoltri che seguiranno, più circoscritti ancorché pure essi non rigorosi nella successione materiale. Ecco così la sequenza elegante di “Il ‘ventre’ di Cagliari” (il Partenone del Largo), “Scale romantiche, niente ascensori” (ce ne sono di scale, in ogni quartiere della città, quattro addirittura, o cinque, a ramificarsi dalla sola via Manno!), “Tuttocittà dimezzata” (sulla censura geografica del compendio di Sant’Elia-Poetto e sui molti pasticci della guida telefonica della Telecom 1996), “Alla ricerca della pietraia perduta” (sul toponimo cittadino allusivo della roccia robusta ma… pur effimero o temporaneo, e sul mistico Cristo di Foiso Fois presentato come «Lui sì è la roccia che non perisce mai», nella chiesa di San Pio X)…

Ancora: “Gli antichi portici della città” (distribuiti per quartiere), “Le passeggiate a Su brugu”(cioè al Corso), “Parigi e Cagliari tra metrò e buffali” (sui problematici trasporti pubblici cittadini), “Non visitate i cimiteri” (per il degrado permanente cui non si sa rimediare, soprattutto al Monumentale), “Ribelliamoci agli scempi” (giusto a proposito di un certo nuovo «obbrobrio» al camposanto di Bonaria), “Ma le città non spariranno” (riflessione intorno agli argomenti esposti da Cesare De Seta nel suo Città verso il 2000), “Il tarlo, infaticabile innamorato” (gustoso trionfo letterario dell’«oriolo della morte»), “Col vento si alzava il profumo delle angurie” (in cui tutto quanto parte da una pagina del can. Spano dedicata a «s’imbattiru», cioè al «venticello che soffia o soffierebbe puntualmente a rompere l’ardore estivo»)…

Ma, naturalmente, ce n’è di ulteriore: “Una città senza piazze” fa la rassegna delle carenze cagliaritane, fra passato e presente, “La storia nazionale nelle nostre vie” fa invece l’elenco dei titolari di un certo fascio di strade in quel di Pirri, pensate in onore dei combattenti la guerra di liberazione, per una sacrosanta finale stoccata a quel demagogo leghista fatto tante e troppe volte addirittura ministro della Repubblica dalla schifezza della destra politica di questi tempi!…

“Il bosco cementificato” rimanda al bisogno di riforestazione dei colli e mezzi colli cittadini, da San Michele a Monte Claro, a Sant’Elia e magari Monte Urpinu… “Smog, auto, fracasso: e adesso le rondini non fanno primavera” e ancora “Poco o niente piante, e molto cemento”, sono titoli che chiaramente alludono a piaghe dolenti ed a bisogni perfino estremi della qualità della nostra vita urbana. “Cotechino e lenticchie” riporta ai gusti gastronomici cagliaritani magari nei momenti topici del calendario – Natale, Capodanno… – mentre “Storici senza targa, targhe senza storici” gioca sulle incongruenze toponomastiche cittadine, e “Vincenzo Sulis, presto di mano” suggerisce, con rapidi tratti di penna, un ritratto vivido del tribuno che ha consegnato il suo nome al turbolento e contraddittorio passaggio isolano fra Settecento e Ottocento (che comunque ci ha salvati dal farci diventare francesi)…

Vengono poi, con qualche intermezzo grafico di Felice Melis Marini o Valerio Pisano o Anna Marongiu Pernis, le molte pagine tutte effettivamente puntate sui quattro quartieri antichi: 17 sono gli articoli della sezione castellana, 23 quelli riferiti alla Marina, 24 gli stampacini (in espansione però anche verso Sant’Avendrace, Tuvixeddu e Giorgino), ben 40 quelli villanovesi (anch’essi in libera uscita verso i quartieri nuovi di San Benedetto e Monte Urpinu, Bonaria e perfino, dall’altra parte, Is Mirrionis…).

Perché questo resta fermo nella scrittura ma anche nella fattura dei libri del professore – compresi questi “di viaggio” che sono associabili agli altri tipicamente della classe dei “frammenti”: nessun argomento è svolto o sviluppato linearmente, ma sempre tutto si ripropone in chiave di evasione, deviazione, recupero, intelligente volo pindarico… Ben si sarebbe infatti potuto, nella confezione delle Passeggiate, riordinare strettamente, andando magari dalle sezioni alle sottosezioni, ciò che gli attraversamenti dei quartieri concedono forse con qualche facilità. Qui invece la scelta permanente è un’altra: gli inoltri sì, quindi gli sviluppi, però poi i ritorni, e le ripartenze…  Così, nelle pagine castellane, il bastione di San Remy, che apre il capitolo, torna all’ottava stazione; in quelle della Marina la via Roma s’affaccia alla quinta e poi all’undicesima tappa; in quelle stampacine, la laguna di Santa Gilla alla terza e alla quattordicesima, o il viale Merello alla settima e alla ventiquattresima, e nelle conclusive pagine villanovesi ecco il colle di Bonaria presente da protagonista alla decima e ancora alla ventinovesima fermata, il compendio di San Lucifero alla sedicesima e alla trentasettesima… Come a dire: nessun discorso è mai concluso, tutto merita d’esser ripreso, magari sotto un’angolazione nuova e particolare, magari suscitato da altri intrighi, intorno a nuovi nessi… E in questa pratica mi pare che Antonio Romagnino eccella nella sua più intima anima letteraria.

A voler dar conto anche delle recensioni di queste Passeggiate cagliaritane si potrebbe ricordare quanto scritto da Giovanni Mameli su L’Unione Sarda del 13 febbraio 1998 (“Cagliari a piedi tra spruzzi di verde e assurdi scempi urbanistici”). Bastino il richiamo all’incipit e quello alle conclusioni dell’articolista.

L’incipit: «Uno dei lussi che pochi si possono permettere è quello di passeggiare per le strade senza orari e con la curiosità di scoprire come cambia giorno per giorno la città. Tre dei maggiori conoscitori della Cagliari del passato (Giovanni Spano, Antonio Ballero e Francesco Alziator) disdegnavano carrozze e automobili. Chi legge le loro descrizioni del capoluogo sardo rimane colpito dalla precisione con cui raffigurano la città e i suoi abitanti. A questa tradizione si richiama con orgoglio Antonio Romagnino, che negli ultimi due decenni ha scritto su Cagliari più di chiunque altro. E continua a farlo, dopo aver tagliato il filo degli ottanta’anni…».

In coda: «Ma Passeggiate cagliaritane non parla solo della città. Molto spazio viene dato agli abitanti illustri e alla gente comune, a quanti insomma la animano di giorno e di notte. Al riguardo è sintomatico il pezzo “L’agonia di via Roma”, dove si mette in risalto una scelta sbagliata dei cagliaritani: quella di voltare le spalle agli incontri che questa strada favoriva. Con l’auspicio che questo ruolo venga riscoperto, come è sentito in altre città… I temi che affronta Romagnino si prestano a diverse interpretazioni, non sempre condivise dai suoi interlocutori. In ogni caso non gli si può non riconoscere il coraggio di posizioni a volte scomode che affondano le radici in una coscienza civica sempre vigile e in uno sterminato numero di libri da lui letti e riletti nel corso di un’esistenza straordinariamente operosa».

 

Chicchi di melagrana. Cagliari, Edizioni della Torre, 1999.

Dopo Giorni e stagioni, Torri e mare, e dopo anche Farfalle & altro, è – questo Chicchi di melagrana (presentato in copertina da una tela del secentesco Felice Boselli: “Natura morta con zucche, melagrane, fichi e fiori”) – il quarto libro che offre al lettore note di diario e – come scrive lo stesso autore – «“pezzi” memorialisti e narrativi»: questi composti fra la fine del 1996 e i primi mesi del 1997. Inevitabili ma mai di disturbo le ripetizioni o le insistenze: «i “frammenti” sono come i pensieri, vengono e vanno, ed è difficile che fra loro, seppure saltuariamente, non si stabiliscano rassomiglianze, identità, contraddizioni».

Dopo le due uscite a cura delle Edizioni Castello e quella della AMD edizioni, ecco tornare ora accompagnare lo scrittore un’altra casa di prestigio nell’Isola: le Edizioni della Torre di Salvatore Fozzi (quella stessa che ha offerto al pubblico – con grandissimo successo di vendite – la Guida di Cagliari e, successivamente, le Passeggiate cagliaritane). E sembra bello e sacrosanto che il professore il quale, nella sua nativa generosità, si è sempre offerto a tutti quando s’è trattato di difendere la miglior causa del momento, venga ora “corteggiato” da chi vuol farsi legittimo vanto di avere i suoi titoli nel proprio catalogo.

Chicchi di melagrana si presenta nella quarta di copertina con un breve stralcio dal capitolo introduttivo, che riesce a trasmettere, efficacemente con il suo taglio immaginifico, l’intenzione autorale, non nuova ma ancor meglio di prima enunciata: «Se è vero che il mondo va in frantumi, raccogliamoli. Frantumi, cocci, scorie, briciole, si salvano anche quando il crollo è generale. Il “frammento” è il genere letterario che si adatta al rovinio. Quel genere fu tentato quando il secolo, che finisce, appena albeggiava. I cocci di bottiglia sono lì, verdi, bluastri, gialli, rossi: raccogliamoli, mettiamoli ancora sul muro. Anche se sbrecciato, può darsi che rimanga in piedi».

Il testo (214 pagine in tutto) è articolato in quattro capitoli: “L’ultima volata”, “Parole al vento”, “Qui e altrove”, “Soli ed assieme”, ciascuno introdotto da una epigrafe. Dal Carducci: «La vita fugge, o fratel, che a te fu amara tanto»; dal Tommaseo: «I muschi sono piante minute, estremamente delicate, che coprono un fitto e morbido tappeto di verzura il fondo delle foreste, e rivestono il tronco degli alberi e le parti delle case esposte a tramontana… I licheni paiono destinati ad aprire il passo alla vegetazione sulle rupi più nude»; dalla Deledda: «Che avrebbe egli veduto dalla finestra della cameretta che l’aspettava a Cagliari? Il mare? Il mar vero, le lontananze infinite dell’acqua azzurra sotto le infinite lontananze del cielo azzurro? Tutto quell’azzurro, veduto e desiderato, lo rasserenò»; dal Montaigne: «Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e senza stravaganza. Ora, la vecchiaia ha un certo bisogno di essere trattata con più delicatezza. Raccomandiamola a quel dio, protettore della salute e della saggezza, ma gaia e socievole».

Apre tutto il trionfo della melagrana evocata nelle sue ascendenze simboliche perfino bibliche e dell’antico Egitto, prima ancora che nel suo radicamento figurativo nella Chiesa e altrove. Poche ma straordinarie pagine in cui Romagnino si rivela (si conferma, andrebbe meglio detto) scrittore raffinato e certo, riconoscibile, con il racconto di quel ragazzo del ’99 originario di Is Stelladas, di quel sito dell’estrema periferia della Cagliari d’un tempo, nel giardino d’una cui casa era proprio un melograno a fare compagnia al fico più che centenario…

Ancora una volta gli aforismi si alternano o combinano con i più riposati indugi biografici su quanti hanno popolato o popolano il mondo ideale dello scrittore. E si tratta allora di paragrafi, che potrebbero essere così richiamati, quanto meno ancora a sbalzi, soltanto per suggerire i percorsi civili e letterari compiuti lungo una vita intera, anticipati magari da flash di vita personale: “Suona la sveglia” (eco della scuola militare), “Zio Amedeo” (il ferroviere devoto a San Salvatore da Horta), “La religione della casa” (spunti verghiani per una lezione alla Università della terza età), “Cagliari città che muore”, “Il paese di Efix” (la Galtellì delle deleddiane dame Pintor), “A Siena, la tombola” (racconto e riflessioni circa un viaggio a Siena, «città che mi è cara, con Napoli e Verona»), “La piccola città” (è Foligno), “Gli economisti in crisi”, “Sa passillada ’e Sant’Efis”…

Nel mezzo, affiorano e legano scene e tempi i ricordi e le riflessioni sullo sfondo della guerra vissuta e combattuta: «Enrico, quando è morto, più che novantenne, qualche anno fa, non sapeva di aver succhiato il sangue dei giovani. Se lo avesse saputo, non sarebbe spirato così sereno, come si dice sia accaduto… Nei lunghi anni di pace, aveva ripreso il suo lavoro d’insegnante e aveva insegnato per più di trent’anni, senza mai sapere che la pensione che maturava l’avrebbero pagata proprio quei giovani, che era andato educando nella sua lunga vita scolastica. Era una pensione che aveva creduto premiasse un lungo faticoso lavoro, compensato da un modesto stipendio mensile, integrato dalle non meno faticose lezioni private. Con quelle lezioni aveva potuto vivere con dignità, rinunciando per trent’anni alle stagioni balneari, che quella sua città sul mare avrebbe potuto assicurargli…».

Riprende, e sempre il locale è mischiato all’universale, il grande al piccolo, gli uomini ai fatti e alle cose, le cose della natura alle cose dell’ingegno umano… “Cucuccio, il poeta di una città” (nove lunghissime bellissime pagine dedicate ad Alziator), “Le piante come ‘compagni di viaggio’”, “Una lettera ad un giovane del sec. XXI” (bis leopardiano suggerito dall’immortale Zibaldone), “Anch’io sono del Nicchio” (con ritorni senesi e molto altro, sullo «stato sociale», sull’«ubriacatura federalista», sulle «religioni come le forze più conflittuali», su «Una mattinata d’autunno» con immagini risorgimentali e di monumenti mobili, anche a Cagliari)… Ritornano o s’infilano nelle pagine dopo che nella memoria impegnata a socializzare, ricordi domestici e d’affetto, come «Zia Cheta… Lei è eternamente china sul giornale, a leggerlo tutto, per vivere in casa quello che fuori le era negato appena un poco di sfiorare con le mani»…

Nel capitolo dedicato, quasi a rimprovero del mondo, “Parole al vento”, questo libro gioca un permanente rincorrersi dei flash di memoria dell’autore, quelli di vita vissuta nell’Isola e nel continente, e nei più vasti spazi africani – quelli della guerra – o americani – quelli della prigionia… Una teoria di incontri, ed ogni volto ne richiama un altro, ogni data ed ogni nome richiamano altre date e altri nomi… Forse Romagnino è quello, o si rivela essere quello che siamo tutti quanti, ma con una eleganza di pensiero e di narrazione cui noi non arriviamo… Ma infine è facile specchiarsi in lui, ritrovare in lui, nei suoi viaggi di vita, nel lungo calendario, i nostri viaggi compiuti nel nostro calendario…

“La nazione proibita” è uno sguardo alle fatiche della unità nazionale, ai festeggiamenti annuali, a quelli del primo centenario quando già «Era scoppiato il boom economico, eravamo approdati dall’indigenza prebellica e postbellica ad un benessere diffuso… », e la cosa si apre poi come una rosa a considerazioni le più varie e forse disparate: ai ricordi del corso bolognese di allievi ufficiali carristi nella primavera 1942, alle inquietudini per i giudizi revisionisti sulla resistenza… Sì, echi della vita vissuta e della vita ascoltata… Perle di educazione alla complessità della esistenza umana, alla complessità delle vicende anche dei teatri più vicini, nella vita pubblica cittadina e anche in quella familiare e personale…

Ritornano insistenti i ricordi della prigionia, e pare chiaro stia prendendo corpo un libro prossimo venturo, tutto centrato su quell’evento neppure breve – due anni pieni – che ha la forza di operare una trasformazione radicale e definitiva nel giovanissimo intellettuale che alle scuole elementari era entrato nell’anno I dell’Era Fascista ed aveva completato la sua formazione nell’anno stesso in cui Hitler, l’alleato di Mussolini, aveva invaso la Polonia… “Quello che non si cancellerà mai”, è il titolo a questo incipit della quarta sezione suggestivamente intitolata “Soli e assieme”. Ed a seguire è il trionfo del “frammento” intelligente, quell’indugio sui tempi della riflessione morale di cui lo scrittore si fa infine testimone: “L’insofferenza per l’internazionalismo”, “Il presepio, dopo Capodanno”, “Sprovincializzare, ma senza internazionalizzare”, “Il faticoso cammino di una generazione” (quella che si fa adulta nell’immediato secondo dopoguerra), “Rileggere criticamente il banditismo in Sardegna”, “Sa die de is tre urreis”, “Si può, ancora, raccontare la guerra?”, “Paul Celan: la non riposta dal mondo”, ”Le antologie inique” (come quella di Cucchi e Giovannardi che ignora gli autori sardi), “Kierkegaard e Boine”, “Scienziati perseguitati”, “Le ‘interferenze’ come democrazia”, “Ernest Junger a Illador”, “I vecchi riescono noiosi” (bellissimo ritratto del generale Pietro Corsini, suo padrino di cresima nella prigionia americana), “La morte, l’amore”, “C’è sempre l’io” (e il ricordo della poetica di Francesco Masala), “Montaigne e la morte”, “Scoperta di uno storico piemontese” (Damiano Filia, ma non si capisce qui il titolo: forse un refuso ha cambiato un “sassarese” in “piemontese”), “Un forte intellettuale sardo” (Michele Columbu), “Il ritorno di Giordano Bruno” (soggetto ricorrente nelle riflessioni libertarie e sapienti di Romagnino), “Quell’incontro sempre rinviato” (fra laici e cattolici), “Se cessassimo di essere una nazione”…  e nel mezzo la storia dei bagni marini a Cagliari, una certa classe dettorina del 1934…

Merita richiamare, anche stavolta, la acuta, lunga ed elaborata recensione di Sandro Maxia, uscita su L’Unione Sarda del 9 maggio 1999 (“Meditazioni. Romagnino e le verità in bilico tra vita e poesia”). Eccone alcuni rapidi stralci: «Gli argomenti sono numerosi, ma c’è qualcosa che li unifica e conferisce loro una segreta corrispondenza. Non mi riferisco solo allo stile della scrittura, ben riconoscibile nell’eleganza e precisione del dettato […]; mi riferisco soprattutto al punto di vista rivelatore di una concezione del mondo ispirata sì al principio della tolleranza e dell’apertura verso l’altro, ma non disposta a cedere terreno al relativismo assoluto oggi molto in auge che pretende di mettere sullo stesso piano i versi del rapper Jovanotti e la poesia di Caproni o di Luzi […]. La salda cultura umanistica dell’autore è ben disposta verso la tecnica moderna; rispetta lo specialismo degli uomini di scienza, a patto però che essi accettino di misurarsi col punto di vista dell’umanista. E Romagnino non si tira indietro: raccomando a questo proposito le pagine in cui egli discute le tesi degli economisti liberisti sulla crisi del Welfare State; oppure quelle degli urbanisti sulla sorte delle moderne metropoli; o ancora le pagine di dura critica rivolte agli ideologi della sardità, più o meno giustificazionisti, rispetto alla criminalità delle zone interne.

«Le “radici”, afferma l’autore, sono importanti per gli uomini, ma ancora di più lo sono le strade, i crocevia, i mezzi di trasporto, o quant’altro serve a farci incontrare con i diversi da noi.

«Il tono dominante del libro, tuttavia, non è dato dalle pagine, pur molto interessanti, di polemica culturale e politica, quanto da quelle di riflessione morale e di memoria, da quelle cioè scritte in una prima persona appena dissimulata […]. Mi riferisco anzitutto a quella sorta di “giornale di guerra e di prigionia” diffuso per tutto il corso del volume, nel quale troviamo splendidamente rievocate le ragioni anche generazionali […] della partecipazione da “volontari” alla guerra fascista. Ma di pari suggestione sono i frammenti sulla vecchiaia, nota insistita del libro e ricorrente di tratto in tratto, come un fiume carsico che affiora alla superficie…».

 

Dessì e Varese dal liceo Dettori a Ferrara. Storia di un’avventura letteraria. Cagliari, Demos, 1999.

Un librettino non solo di piccolo formato ma anche di poche pagine – 60 appena –, certamente però un gioiello per, come si dice, forma e contenuto. La ricostruzione della trama dei rapporti di Giuseppe Dessì con il critico Claudio Varese, cagliaritano anch’egli (pur se di nascita sassarese) ma anch’egli di accredito nazionale per il molto portato in Romagna, a Ferrara, dopo che a Cagliari e Pisa: in un sodalizio di “normalisti” neolaureati e neoinsegnanti che unisce, alla fine degli anni’30 (dal 1937 per la precisione, a Ferrara) e all’inizio del decennio successivo, anche Mario Pinna e Franco Dessì Fulgheri e s’allarga poi nientemeno che a Giorgio Bassani. Firme tutte che troveranno spazi di cenacolo anche civile e politico, pochi anni dopo, nel periodico sassarese Riscossa (1944-1946) diretto da Francesco Spanu-Satta, personalità d’eccellenza della cultura e della pubblicistica turritana, singolare anche nel connubio che compì nella sua militanza giovanile fra il credo religioso e l’opzione politica azionista. E da Riscossa è tratta proprio l’ultima pagina del libretto: di Claudio Varese nel giugno 1946, circa gli obiettivi da darsi (o non darsi) dall’Italia in quanto alla ricostituzione delle sue forze armate.

“Claudio Varese: una stagione sarda a Ferrara” e “Il liceo G.M. Dettori nel racconto di Giuseppe Dessì” sono i due corposi capitoli dell’operetta uscita nella collana “I lestrigoni” della Demos editore di Cagliari (che si avvale di uno stampatore palermitano). Valga anche qui, a dare rapido conto del libro, quanto affidato al risvolto di copertina: «Dessì e Varese, dal liceo Dettori a Ferrara mostra l’itinerario umano e intellettuale di due grandi della cultura sarda di questo secolo: uno (Dessì) diventato poi illustre scrittore, l’altro (Varese) autorevole critico che ha contribuito a sprovincializzare la vita letteraria e artistica italiana per oltre mezzo secolo.

«Dessì e Varese, dal liceo Dettori a  Ferrara rivela le curiosità, le difficoltà scolastiche, le passioni letterarie e, soprattutto, l’amicizia e le influenze reciproche (fu Varese a valorizzare i primi scritti di Dessì) dei due intellettuali sardi.

«Dessì e Varese, dal liceo Dettori a Ferrara racconta infine l’avventura culturale di due giovani ricchi di sogni, progetti e speranze».

Nel mezzo – autentico valore aggiunto – una lettera di Mario Pinna a Romagnino, datata 15 settembre 1995: una testimonianza vera e propria, e deliziosa, di quel consorzio umano ed intellettuale consolidatosi alla vigilia del secondo conflitto mondiale fra il noto ispanista di origini logudoresi e l’autore di Paese d’ombre e già di San Silvano, di Michele Boschino e de I passeri….

Merita infine avvertire che molti dei materiali riesposti nell’operetta della Demos erano stati anticipati, amnch’essi, sulla pagina culturale de L’Unione Sarda in particolare fra il 1996 e lo stesso 1999: ricorderei in sequenza “Quattro sardi per Giorgio Bassani” (11 settembre 1996), “Tra letteratura e impegno politico” (18 settembre 1996), “Un mentore per Giuseppe Dessì” (21 agosto 1999).

 

Epigrammi di Stefano. Cagliari, Aispa Edizioni, 2000, con prefazione di Paolo Pillonca.

In copertina una bella foto della parte alta della via Lamarmora, privilegiato il lato della casa natale dello scrittore, in quel 1917. Ecco un nuovo libro che, nella produzione romagniniana, costituisce una pausa, per certi aspetti, dall’abbrivio scelto dall’autore per il miglior racconto di sé e del suo mondo valoriale, intellettuale e civile. Non cioè il “frammento”, in quel mix saporito e dotto, diaristico in parte, biografico dei suoi pari e dei suoi maestri ideali in parte anch’esso. Ma neppure tutt’altra cosa, perché negli epigrammi ritorna quella propensione dello scrittore a condensare in poche battute un giudizio dopo una osservazione – attitudine e gusto soggettivissimi –, e ritorna la figura o l’ombra di Stefano come alter ego dello stesso Romagnino.

Ne scrive, con un tocco di penna dolce, pregnante e raffinato, Paolo Pillonca in una introduzione dal titolo “Stefano, caro Stefano”:  «Stefano è il bambino dei primi anni Venti ed insieme l’uomo di oggi che vive le stagioni nebulose della comunicazione virtuale e sembra dolersene, ma con disincantata saggezza. Più Solone che Mimnermo, per citare due poeti diversamente cari ad Antonio Romagnino, pur non avendo coltivato il genere dell’epigramma: “invecchia sempre imparando molte cose”».

Ancora: «Dei grandi autori dell’antichità richiamati in vita, Stefano-Antonio trae spunti non soggetti al tramonto e li adatta alla vita di oggi: “liberamente” come precisa nelle “sezioni” in cui li  colloca. E la dolente umanità di allora è la stessa degli anni Duemila, in virtù della parola poetica che dà anima a vicende e personaggi.

«A compiere il prodigio è la sapienza e l’amore di Romagnino nell’uso della parola: la parola-donna, che apre le braccia a chi dimostra di amarla e si piega a cantare giornate di sole e notti di luna: crescente, piena o calante che sia.

«In questo particolarissimo genere letterario… dote precipua di chi lo coltiva è la padronanza del “verbum”: il saper piegar la parola alla destinazione di utilizzo che il poeta sceglie di volta in volta, il poterne allargare il campo semantico a seconda della necessità,  il darle sapore dolce o amaro in consonanza con l’estro della creazione…

«Risplende, negli epigrammi di Stefano, la luce del dolore del vivere, eterna suggestione di poesia a prescindere dai generi letterari. E brilla la “consolatio” della saggezza, quasi la rassegnazione ai decreti del fato, che non si evitano “ancorché annunziati”, come erano soliti dire gli amatissimi classici del professore.

«E risplende, sempre a proposito di amore, la sua bellissima città del sole: una comunità vissuta nel profondo del mistero creativo, capace di esaltarlo nei momenti felici ma anche di condannarlo alla sofferenza nelle voragini di degrado che feriscono».

Conclude Pillonca: «Un gioiello speciale è l’ultima sezione, “Sa torrada a domu”, gli epigrammi nella parlata cagliaritana: ritorno a Cagliari, quasi un ritorno ad Itaca… Gli epigrammi in sardo sono ventitré: un omaggio affettuoso ai suoi concittadini per il professore che non ama piegarsi alle mode e però conserva nei penetrali più segreti di un’appartenenza mai gridata i segni basilari distintivi dell’identità».

L‘indice conta 51 “epigrammi di Stefano”, dieci di Marziale liberamente tradotti – ma meglio sarebbe dire rielaborati in quota d’aggiornamento storico e logico – sette di Meleagro (Antologia Palatina),  altri dieci di Callimaco (idem), ventitré, come detto, in lingua sarda variante campidanese/cagliaritana. Certamente quelli più intimamente posseduti nell’ispirazione, nella necessità di essere partecipati. Perché il defensor Karalis non smette i suoi panni neppure quando poeta: «Poburu nosu chi is Centus Scalas deus fattas, de susu a baxiu, e po su Cristu nostru a morri, in s’arena chi bestias de macellu. Ma in su terziu millenniu danti cobertu ‘e linna, de cussa bona po arrustii s’angioni…».

Sì, salgono le emozioni dei luoghi, delle tradizioni e anche – virate in sdegno – degli affronti per gli episodi di sgoverno della nostra Cagliari. Per quelle tonnellate di legna sopra la pietra dell’anfiteatro romano… A rischio di incendio per il martirio collettivo dei cagliaritani, imitatori di Giordano Bruno…

 

La mano sul mento. Racconti, memorie, pensieri. Cagliari, Edizioni della Torre, 2001.

Sono altre 208 fittissime pagine, nella logica ancora del “frammento” o dei “cocci di bottiglia”, che immediatamente si associano, andando all’indietro, a quelle di Chicchi di melagrana, di Farfalle & altro, di Torri e mare, di Giorni e stagioni. L’editore Fozzi qui si ripropone come sostenitore attivo di un’operazione culturale di grande rilievo.

Metodico classificatore di aforismi, Romagnino richiama ancora il suo Tommaseo del Dizionario della lingua italiana e manda il proprio personalissimo contributo. «Porsi il dito su dal mento al naso, muto e bellissimo linguaggio, con cui si comanda il silenzio», «Ma poi il silenzio si deve anche romperlo. E, allora, il dito nel naso segna anche un momento di esitazione o di meditazione».

Secondo il rigido schema di Chicchi di melagrana di cui sembra costituire, anche graficamente, il… gemello monozigota, il testo di La mano sul mento (in copertina una tela di Van Gogh: “Ritratto del dottor Gachet”, 1890) è ancora quadripartito. Allusivi, al solito, i titoli: “Ritorno alla memoria”, “Pensieri d’oltremare”, “Noi, da quaggiù”, “Muschi e licheni”. Ogni stazione è opportunamente introdotta da un’epigrafe. La prima è a firma di Cesare Pavese, da Il mestiere di vivere: «Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta».

La seconda è di Johann Wolfang Goethe, da Le affinità elettive: «Non possiamo imparare a conoscere le persone quando vengono da noi; dobbiamo andare da loro per vedere quello che sono».

La terza è di Claudio Varese, tratta da una Introduzione a Paese d’ombre: «Il silenzio è il cerchio nel quale si viene formando il racconto stesso, è una qualità che Dessì vede nella Sardegna e nei sardi, è la dimensione nella quale questi uomini e queste donne si maturano in un tempo lento che si raccoglie in un punto. Il silenzio è nelle cose e negli uomini, può riempirsi di un brulichio di pensieri o può riempire la valle improvviso, può accompagnarsi con la morte e può difendere una lenta agonia, può accompagnarsi al pianto e può approfondire la gioia, diventarne condizione e misura».

La quarta (quella riferita alla sezione “Muschi e licheni”) è suggestivamente tratta da Flora esotica a cura di Uberto Tosco: «Una flora, questa, da osservarsi con la lente, per scorgervi, dei Muschi e degli Sfagni, le rosseggianti o brune sporifere, e dei Licheni le fruttificazioni, rosse o brune esse pure, come gocce».

Ancora, a voler limitare a poche righe l’inquadramento del libro, ecco quanto autore ed editore hanno fissato nella quarta di copertina: «Racconti, memorie, pensieri. Ma tutto è racconto di quello che si ricorda e che si vorrebbe non andasse perduto, di quello che ha guidato la vita e si ritiene possa ancora illuminarla. Il genere del “frammento” può essere impiegato, pur nella sua brevità, a fissare le passioni e le idee che le hanno animate. Senza nuotare in superficie e raccogliendo, invece, nei fondali, l’intrico delle erbe, la lucidità dei sassi, i silenzi e le voci del mondo inquieto».

Stefano è ancora ombra-protagonista che s’alterna all’autore nella produzione di fatti e giudizi e sentimenti che, ripercorrendo le infinite strade del mondo grande – della storia e della letteratura perfino universale – e quelle del mondo più intimo, personale o familiare o della propria terra, Antonio Romagnino richiama per parteciparli al suo lettore: in una convivialità del pensiero, direi della intelligenza e della cultura – ma senza dare a questa alcuna valenza accademica – e della vita morale ch’egli promuove e alimenta o seconda, come, in fondo (e naturalmente nella peculiarità della situazione), faceva nella sua aula con i suoi giovani, negli anni della docenza liceale.

La prima sezione s’apre con una fascinosa apologia del grillo – titolo “Un grillo tra città e campagna” – proclamata, ma con toni morbidi, in una sequenza di appuntamenti con la letteratura antica e moderna, fino ad arrivare alla Fanny sfortunato amore di Giuseppe Dessì adolescente, ma anche con momenti di vita dei quali si fa spia Stefano – sempre lui – e si materializzano nelle giovani fattezze di Manuela e nel trasporto sensuale di Silvano. Sono poi pagine tutte cagliaritane, ricollegate dal bisogno ora di biografare ora di testimoniare una comune pratica cittadina. Ecco così dai “Racconti cagliaritani”: “Is duennas”, “Antifascisti al confino: c’era anche Lina Merlin”, “Ernesto Maria Piovella, il vescovo missionario”, “Da Sassari a Cagliari con Enrico Costa”, “Gli ‘incontri’ di Antonio Gramsci e Raffa Garzia”, “Sfilarono con l’archibugio e con il rosario” (riferito ai fatti del 1793), “Luna d’agosto” (riferito alle serate estive cagliaritane, fra il Bastione e Buoncammino), “Il patriarca del giornale” (riferito a Mario Pintor), “Cagliari è bella” (potpourri di giudizi dei visitatori), “Un grande archeologo, fattosi ‘cagliaritano’” (è il Taramelli), “Un testimone di Cagliari com’era!” (è Tarquinio Sini), “I giovani intellettuali degli anni Trenta” (nell’elenco Renzo Laconi, Luigi Pirastu, Sebastiano Dessanay, Francesco Alziator, Raffaello Delogu, Cino Zedda, Marcello Serra, Giuseppe Susini…), “Fra Antonino” (è il mercedario nato alla Marina nel 1907 e morto ventenne in fama di santità nel convento di Bonaria ), “Il ‘cantore’ di Cagliari” (l’eterno Alziator), “Salvò gli isolani ma anche l’Italia” (è l’arcivescovo Melano), “L’uomo di un’alba democratica” (riferito a Luigi Crespellani, primo sindaco eletto nel 1946 e primo presidente della Regione nel 1949)…

Guarda nientemeno che alla droga e alla sua diffusione fra i giovani – “La peste” –, l’incipit della seconda sezione che spazia per giudizi sull’economia e il suo maggior profeta del secolo (“Una scienza sempre pericolante”), su “Il Futurismo e l’architettura”, sull’indifferenza amorale come portato del nuovo tempo (“All’altro non si pensa”), sul magistero storico di San Francesco d’Assisi (“Quei nobili che si fecero poveri”), su “‘Le belle bandiere’ di Pier Paolo Pasolini”, su “L’ubriacatura economicista”, sulle pagine poetiche di Percy Bysshe Shelley (1792-1822) approfondite in ben sette riprese, ma mescolandovi dentro almeno due contemporanei sardi (o sardi elettivi): l’arcivescovo Paolo Botto e il professore Raffaele Ciasca, autore della notissima Bibliografia Sarda, e molte variazioni sul tema: sul controllo delle nascite, sul comunismo, sul Contratto sociale del Rousseau, sull’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel, su L’uomo planetario di padre Balducci, sulle circolari scolastiche impegnate a disciplinare le assemblee studentesche postsessantottine….

Può valere a dare almeno un’idea dei viaggi di penna insistentemente compiuti dall’autore ancora nella terza e quarta sezione, elencare – pigliandoli un’altra volta ancora quasi a caso – alcuni dei titoli con i quali i “frammenti” intesi come… divagazioni prendono tono e luce dall’agenda del biografo civile: “Anche fuori di casa” (con il riferimento al Corrado, raccolta poetica del Fara Musio presentata addirittura al Manzoni; ma riferimento anche all’opera giuridico-antropologica di Antonio Pigliaru, o alla storica industria del sale a Cagliari, o alle liturgie pasquali non correttamente spiegate al popolo), “Lo speciale ‘regionalismo’ di Giuseppe Dessì”, “Ricordiamo Liala” (con libere espansioni sul libro di Mario Cervi Mussolini album di una vita), sulla morte recente di Giorgio Bassani e il ricordo di quando nella casa di Monte Urpinu al suo ospite donò alcuni versi: «e prima di salutarci chiese un foglio e scrisse questa poesia, come se la componesse in quel momento: Ad Antonio Romagnino il suo G.B…. Cagliari, 14.1.1977…», e altro ancora: sull’America e sul Gobetti di Risorgimento senza eroi, sulle lacrime della vecchiaia e sulla perdita della fede da parte di Stefano…

Ma quant’altro si stringe, individuale e corale, nel taccuino del sentimento cittadino! “L’ultimo caduto” (Alberto Riva Villasanta), “La processione de s’Incontru”, “I villaggi che scompaiono”, “C’è anche chi pensa alle vittime” (per un libro di Gianni Pititu sui sequestri di persona), “Le ottave di Ortueri” (sulle gare poetiche in limba nel Mandrolisai), “Antonio Gramsci a Cagliari”… e nel mezzo i rimandi più o meno insistiti e approfonditi allo spopolamento della Sardegna dell’interno, ad Eva Mameli Calvino, al giovane e solidale allievo Gianfranco Murtas, ad Ugo Ojetti, al “Silenzio del dolore”, a Concetto Marchesi, al dibattito su “Sa die de sa Sardinia”… e le considerazioni sui rischi di perdita dell’italiano, sugli aforismi di Robert Musil, sulle arti del palcoscenico, sull’ingiustizia di certe condanne di autori chiamati “superati”, su Ada Merlini, sul pensiero della morte, sull’idea di patria o nazione, sui reazionari de Maistre e de Lamennais, sulla nuova generazione delle donne avvocato, su Rosmini e Darhendorf e Cossiga, su Leopardi e Platone ed Efisio Pintor Sirigu, su Roland Barthes ed Alessandro Manzoni, su Carlo Marx e padre Ernesto Balducci… per dire dei frammenti, dei frammenti e anche degli indugi però… e dei percorsi ora circolari ora ellittici, ora come su una retta che non si sa dove si fermerà.

«C’è sempre una stagione che ritorna. Quella delle voci umili e appartate. Provocata dal successo del rumore, del clamore. Questo che ci avvolge è la chiassata dell’affermazione, della vittoria delle masse, dell’essere insieme nella turbolenza. Silenzio e separatezza, colloqui d’ incontri personali, sembrano essere stati travolti… La voce ha vinto sulla parola scritta. Si affermavano, un tempo, altri cori. Quelli che erano ancora levati dalla letteratura, avevano i loro generi letterari privilegiati, che se ne facevano portavoce. Anche il romanzo ora si è fatto generazionale. Un tempo, quando si inventò il “frammento”, fu il romanzo il suo avversario e, con il racconto lungo o breve, la vita borghese stucchevole che esso raffigurava. Ora il romanzo è spesso quella parola urlata, calata a forza nella pagina. E’ spesso il linguaggio omogeneizzato, più battute che pensiero, che ha finito per prevalere sulla lingua della comunicazione, insieme soggettiva e comunitaria. Che fare?…».

Apre così, lo scrittore, la parte conclusiva del suo libro, e ritorna con le sue riflessioni che ben oltre la letteratura investono la storia sociale e del costume. E subito poi si allarga o declina altre tappe del suo percorso “glocalista”: “Ritorno di Majakovskij”, “Le conseguenze nefaste delle ‘scienze umane’”, “Alcune ipocrisie quotidiane” (si parte dalle condoglianze), “L’ingiustizia della guerra” (con la profezia di don Tonino Bello), “Il sentimento incerto del futuro”, “Lucca dolcissima”, “Scrisse ‘Lettera a una professoressa’” (ovviamente riferito a don Lorenzo Milani), “Sandro Penna: non conobbe stazioni a scendere”, “Un secolo nella poesia di Aquilino” (Cannas, l’autore delle Mascaras casteddaias), “Non uccidere: mai, ha detto il papa”, “Quell’abisso fra noi e Dio” (giocando fra Oscar Wilde e padre Turoldo), “Amò Grecia e Roma, ma senza farne un mito” (si tratta di Ranuccio Bianchi Bandinelli), “La ‘piazza’ e la democrazia francese”, “Quel prete pugnace” (don Salvatore Fiori cioè), “Sono i capi i primi a corrompersi” (dice di Bettino Craxi)…

Ma quant’altri “frammenti” nel mezzo, fra “muschi e licheni”! I nomi evocano i tempi e gli ambienti, i contesti storici, la temperie ora politica ora letteraria… Montefoschi e Giaime Pintor, Ernesto Ferrero e Freu, Locke e Kierkegard, Leopardi ed Elsa Morante, la giusta punizione di un delitto e gli eretici perseguitati, l’omelia di don Mario Cugusi ai funerali di Alberto Rodriguez e Pascal, la Memoria – sì, con la maiuscola – ed i tesori di Lucca, Giordano Bruno e Luigi Russo, Jemolo e fra Nicola, Raymond Aron e Paul Valery, Lawrence e Porta Pia, Eric J. Hobsbawm e Salvatore Quasimodo, le Massime di La Rochefoucauld e il Montesquieu delle Lettere persiane, Giuseppe Manno e la borghesia compradora, Gaetano Pattarozzi il futurista e Gavino Ledda con i fratelli Taviani…

Tutto si completa con una chiosa sconsolata, o almeno disincantata: «I muschi e i licheni hanno chiuso il loro discorso. E forse a parlare, per tutti, è stata solo una delle quindicimila specie circa, che raggiungono gli uni e gli altri. E’ stata forse la Barbula… Essa sì che, con i suoi piccoli fusticini, che formano un cuscinetto ora verdicchio ora grigiastro, a seconda che il muro a cui si abbarbica sia umido o arido, si arrampica dappertutto. Proprio come l’uomo senza qualità, parente stretto di quello disegnato da Robert Musil, senza speranze e senza illusioni, ma anche senza rese e senza ritirate, senza decadere nella decadenza. Come l’eroe di Musil, tutto avvolto dalle brume dell’impero austro-ungarico, al tramonto».

A recensire questa nuova, pregevolissima fatica letteraria di Antonio Romagnino è, su L’Unione Sarda del 23 giugno 2001, Mauro Manunza (“Silenzi da rompere. Il ricordo come esperienza globale”). Poco corrisponde, pare a me, il libro e la stessa fatica “liberale” del professore con la pratica giornalistica di Manunza, incrociato tante volte come frettoloso censore, invece che valorizzatore, nelle stanze del giornale di Terrapieno (valga il caso d’Aspro, sfrontatamente fatto passare per quel che non era, abiurante di tutte le idealità sue e degli avi cioè, alla vigilia della morte). Ma tant’è. L’abito stinto del recensore non annulla comunque la bontà dell’opinione, la diretta puntata a ciò che fa prezioso il lavoro di un autore di tanto raro prestigio. «Ogni autonoma esperienza può diventare patrimonio comune se non è dimenticata, dispersa, occultata fra i nostri segreti e se invece viene raccontata e quindi acquisita e condivisa. Di questo lo scrittore cagliaritano sembra convinto e anzi lo dichiara…».

Immagina il professore, Manunza, riflettere con la mano sul mento «avvolto dal silenzio del suo studio in via Gazano, fra i libri, gli antichi testi, i quadri, le sculture, le soffuse note della filodiffusione, il profumo della cultura…». Richiama un passaggio centrale della riflessione dello scrittore: «Si diventa, non si nasce. La povertà del solitario non ci deve impedire di avvicinarlo. Ci si arricchisce nel rapporto con lui, più di quanto non avvenga nella chiassosa vita collettiva dei nostri tempi. La cultura non si produce individualmente, ma insieme. E però, è quell’insieme che deve essere ricercato continuamente». La chiosa è un giusto monumento a Romagnino, alla sua persona prima che alla sua cultura: «Lo scrive, e lo dimostra. Del “diventare insieme” si fa pubblico testimone e attore, anche stavolta. E anche stavolta siamo qui ad ascoltarlo affascinati, così come sempre, lui fra i nostri banchi di scuola a darci lezione di classici e di saggezza».

 

Né morsi né carezze. Epigrammi e altro. Cagliari, Aispa Edizioni, 2002.

Ritorna con gli epigrammi, due anni dopo quelli «di Stefano», Antonio Romagnino e lo fa con la stessa casa editrice che i primi aveva pubblicato. E tale circostanza, all’apparenza neutra, induce a qualche riflessione a latere della vasta produzione e della “convivialità” letteraria di un professore scopertosi scrittore quasi in tarda età e comunque impostosi, per patenti tutte sue, come un punto di riferimento della cultura della “rielaborazione critica e creativa”, insomma di quella cultura che salda ma anche confronta letteratura e vita.

Di più: perché sembra un’applicazione o un risvolto pratico di quel genere preferito ed insistito del “frammento”, che riprende in continuazione i materiali e li rideclina in nuove associazioni, anche questo ritornare agli epigrammi, e questo ritornare alle case editrici che hanno privilegiato, di lui, un versante produttivo, se così può dirsi: come è stato per le edizioni Castello e per le edizioni della Torre, e anche per la AMD del duo Delogu-Pira.

In Né morsi né carezze – in copertina una bella foto seppiata della spiaggia del Poetto, fra sabbia, mare e il colle di Sant’Elia con la mitologica Sella del Diavolo – l’autore, che si presenta con una definizione tratta dall’Epistolario foscoliano – «Gli epigrammi son versi da conversazione e vengono letti da tutte le condizioni, e questo è più, vengono intesi più di qualch’altra composizione» – offre al lettore ben 96 aforismi, la cui ultima parte – sono 18 composizioni – in lingua sarda variante campidanese/cagliaritana a lui nota e consueta (“Voci domestiche di un cagliaritano”), mentre la prima e seconda parte riuniscono, esattamente come accadde con gli Epigrammi di Stefano, elaborazioni personali e prove di traduzione/ricreazione – soprattutto ricreazione – dei classici dall’Antologia palatina…

Soltanto a farsi stimolare dai titoli sovente suggestivi, se ne potrebbero trarre, come in rappresentanza della propria sezione, tre. Il primo rimanda ad un’esperienza bruciante e più volte evocata nei “frammenti”: “Bocciato alle elezioni”. Eccolo: «Ho corso il rischio di diventare un potente. Ma quando si sono accorti che mi ero tagliato una mano e mi ero rotto un braccio sono stato bocciato perché non potevo accarezzare i potenti».

Da (od a) Parmenione IX, 43, col titolo di “Visse nel I secolo avanti Cristo”: «Eri già cristiano, o Parmenione, anzi francescano, a dir che ti bastava un mantello a coprirti, che odiavi la stolta ricchezza, che ti rifiutavi di piegarti ai potenti. Ma se fossi vissuto nella stagione di Berlusconi, che tutto compra e tutto vende, e avessi letto pubblicamente quel Vangelo, ti avrebbero coperto di patate».

Infine dalla parlata cagliaritana: «Duncas m’has nau chi ti pensionas, Allichineddu. Abarra attentu a non ti fai, coment’emmu annai in italianu, unu “riposo eterno”. Sesi a una svorta e dipendi de tui una stagioni noa denti fai de sa via tua. Sciobera tui, non ti fatzas consillai, fai e pensa cussu che non has pensau e fattu mai, finzas a moi. Aici scetti poris evitai chi ti portinti allestu a su ricoveru. Ma una cosa certa ti nau: abbarrarì attesu ’e is pensionaus. Issus eia chi ti porinti bociri prangendi d’ogna dì “sulle pensioni”…».

 

Nuove Passeggiate Cagliaritane. Cagliari, Edizioni della Torre, 2002.

In linea di seguito ideale alle Passeggiate uscite nel 1997, anche queste Nuove recuperano in gran parte gli articoli apparsi su L’Unione Sarda con cadenza pressoché settimanale negli anni più recenti, naturalmente qui con i doverosi aggiustamenti che l’uscita in volume piuttosto che sulla foliazione di un quotidiano impone. Non si tratta di passeggiate soltanto, né principalmente, di gambe e magari di occhi all’insù, nell’ordito viario cittadino, alla ricerca delle curiosità della toponomastica. No, si tratta di più: di costruire un racconto del passato e del presente della umanità cagliaritana, nel luogo fisico cagliaritano, con l’intelligenza e il sentire della successione generazionale, del ricevere dai vecchi e del dare ai giovani, nell’inarrestabile, millenario scorrere del tempo storico e della vita biologica…

Il libro si articola in tre capitoli o sezioni: “La lunga storia di una città”, “Uomini e luoghi” e “Come ci hanno visto gli altri”. Volutamente, credo, manca un indice più dettagliato, e infatti l’elenco dei tre titoli è chiamato, appropriatamente, «sommario». I cento e passa paragrafi, o temi sviluppati e accennati in cui, al solito, il biografo civile di Cagliari sviluppa i suoi giudizi, sono irrichiamabili da una elencazione che sa di geometria, ma come convocati da un’arte affabulatoria di pregevolissima stoffa…

Ma pur si deve, qui, dar conto, in qualche modo, dei contenuti propri dei tre “ambienti” che lo scrittore costruisce per rinnovare, per l’ennesima volta – né sarà l’ultima –, l’amore suo più grande combinato a quello per la famiglia e per la libertà: l’amore per Cagliari.

«Castello e Marina sono i belvederi della città, e più Castello che Marina. Stampace e Villanova sono affossati rispetto a quelle specole naturali, Castello sulla cima del colle, Marina sulle sue pendici meridionali. Castello è anzi un osservatorio astronomico che spazia senza interruzioni per 360 gradi. Marina ha osservatori più segreti e discontinui. Ma sempre le sue viste lontane sono il mare del Golfo e i monti che lo circondano. Castello non si accontenta invece del mare, anzi sembra vendicarsi di essere stato abbandonato ancora per il mare più di cento anni fa, quando la città incominciò a cercare altre sedi del potere amministrativo e politico. Per questo si abbevera altrove e abbraccia con l’occhio tutto il Campidano, i borghi vicini e lontani, la sentinella del castello di San Michele. Stampace e Villanova sono state fatte per essere guardate dall’alto e magari per rovesciare la logica degli osservatori, e guardar quindi dal basso Castello e Marina».

Così, con uno stile che è naturaliter alziatoriano – ché dà un’anima e un’intenzione propria alle cose, qui ai quartieri – Antonio Romagnino affaccia il suo lungo racconto nel primo dei tre capitoli: “Vicini e lontani” lo intitola, e luoghi e momenti ed episodi e protagonisti singoli e collettivi chiama in sequenza a dare spessore a una rappresentazione che comprende tutto intero il quadrifoglio del Dittamondo e attraversa i secoli con un passaggio stavolta vele ma sempre dolce, che ricorda le spettacolari magie televisive degli Angela padre e figlio. E infatti ecco così “La congiura di Palabanda”, “Sant’Arennara” (con l’anfiteatro e Tuvixeddu), “Quella volta volò su Cagliari” (il Sant’Efisio salvatore del 1793), “Quello ‘sventramento’ che ci fu risparmiato” (merito del podestà Endrich e di altri con lui), “Fuori porta” (nuovamente, ma per altri versi, Sant’Avendrace, il sobborgo settentrionale/occidentale estremo sul territorio che in parte fu quello della sepolta città di Sant’Igia, e intitolato al vescovo dei primi secoli), “Il pianto del fiammante” (tripudio ecologista del phoenicopterus ruber, richiamato nientemeno che dal Catteneo nel suo Della Sardegna antica e moderna, 1846),“Su brugu” (omaggio alla parte iniziale del corso Vittorio Emanuele II, luogo de “sa passillara” e dei concerti bandistici nel primo Novecento), “Il Palazzo Civico” (illustrato anche da molti libri, fra cui quello di Salvatore Naitza del 1971), “Is piccioccus de crobi”…

Nel secondo capitolo l’apertura è dedicata al Terrapieno cittadino: “Rinasce il Terrapieno”e “Una passeggiata-monumento”. Segue un bellissimo “Garibaldi cagliaritano” (il generale come cittadino onorario di Cagliari), “Ottone Bacaredda”, “La rivoluzione cagliaritana” (del maggio 1906), “Il ritratto di Alberto La Marmora”, “Amat, le suggestioni di un casato antico”, “Quando lo stagno era palude” (Molentargius), “Un centro anti-fumo nella manifattura?”, “Il saio d’orbace del grande poverello” (storia del francescani a Cagliari), “Addio a ‘is centus scalas’” (formidabile e reiterata denuncia della “intabulazione” dell’anfiteatro romano da parte di un’amministrazione municipale assolutamente scriteriata), “Cancellato dalla Scaffa quel ponte belvedere”, “Il teatrino di don Mosè” (portato nei primi anni ’20 da Castello a San Lucifero), “La processione del Cristo morto”, “Quella misteriosa signora che dall’alto sorride ai bambini” (l’ovale del volto in altorilievo in cotto della signora Bellegrandi), “I reportage di Ranieri Ugo” (o Paolo Hardy che dir si voglia, guida sarda di d’Annunzio e Scarfoglio e Pascarella nel 1882 e direttore anche de La Piccola Rivista), “Le donne della manifattura” (omaggio morale a generazioni di operaie in quel della Marina), “Così parlò Mario Chiappini” (ambientalista, docente di Botanica all’università di Cagliari fino al 1988), “Tutti i santi e tutti i morti” (viaggio per cimiteri), “C’era una volta un mercato-ventre della città” (il famoso Partenone celebrato da Lawrence), “Luigi Crespellani, politico e poeta”, “Le sentinelle di una città” (le torri medievali della città), “Rachel, un preside mito anche nel caldo ’68”, “Quell’antico passaggio conteso fra soldati e frati” (in capo alla via Principe Amedeo).

Ancora, combinando persone e leggende, letteratura e storia, monumenti ed esperienze morali, forse in massima parte già proposti ma comunque rinnovati, fatti nuovi, in questa offerta editoriale: “1921, la gioia di vivere” (la visita sarda e cagliaritana di Lawrence e della sua Frieda), “Un castello e il suo generale” (quello sanlurese dei Villasanta), “Is fradis Marceddu fra incudine e zerri”, “Ricordo di Bianchi Bandinelli, un intellettuale inquieto”, “A briglia sciolta in via Azuni e in viale Buoncammino” (le famose pariglie del carnevale e non solo), “Lussu è davvero l’uomo del secolo”, “L’ambiente senza integralismi” (quello predicato e praticato da Siro Vannelli), “I fichi moreschi e il cappellano” (riferimento al luterano reverendo Joseph Fuos), “L’Oratorio delle Anime” (di piazza San Giacomo), “La guerra di Giaime” (ovviamente Pintor), “Gli altri mondi di Cambosu” (lo scrittore di Orotelli per lunghi anni residente a Cagliari), “Quel signore gentile che accarezzava i libri” (Gianfranco Cocco purtroppo deceduto tragicamente), “Raffa Garzia, direttore-letterato”, “La pittoresca città di Aquilino” (ovviamente Cannas), “Giuseppe Todde, economista d’altri tempi”…

Capita allo scrittore – sé detto – di riprendere argomenti già trattati: ma a parte il pregio che quelle “tessere” rivendicano di per sé come costitutive del mosaico narrativo, v’è anche una soggettiva opzione dell’autore  alla replica, al bis e magari al ter, e pare tutto e sempre valore aggiunto alla composizione musiva che coinvolge conoscenze ed emozioni… Dunque così ancora ecco “Riva Villasanta vita e morte d’eroe”, “La Guida del ’seddoresu’” (cioè del poligrafo Francesco Corona), “La Brigata che unisce”, “I novant’anni di Efisio Corrias”, “Repubblicani e monarchici”, “Ricordando Renzo Laconi”, “Quelle saline da riscoprire”, “Quando i reduci sfilavano in via Roma”, “Alla riscoperta della ‘città regia’”, “Interrogazione, non interrogatorio” (memorie di studente e memorie di professore), “La ‘piccola città’ di Giuseppe Podda”, “La città e gli ebrei, una lezione di tolleranza” (excursus storico fra Sardegna e casa d’Aragona, fra Gregorio Magno e Giovanni Paolo II), “Su nascimento ’e domu”, “Quando a San Bartolomeo c’erano teste intelligenti”, “Chiesa-museo dimenticata” (è quella di San Giuseppe, all’ombra della Torre dell’Elefante), “Il silenzio di Castello” («Cagliari è un Sali e scendi…»), “Antonio Maxia, il ‘dio fluviale’” (perché storico presidente dell’Ente Flumendosa), “Pischedda, il padre di monte Urpinu”, “Diviso fra storia e invenzioni” (è Giorgio Bassani, letterato e storico presidente di Italia Nostra), “Sognando con la befana” (la tradizione della Epifania di Gesù), “Vecchio liceo Dettori fucina d’intelligenze”, “Un antico teatro nel nome di Gianni Agus”, “L’apostolo della libertà” (il Cocco Ortu sr. imitato dal nipote omonimo deputato del PLI), “Bustianu Dessanay, nostalgia di un principe della parola”, “Valerio Pisano, pittore e incisore”, “Il vino inebriante delle bambole” (quelle di Nella Crestetto Oppo), “Dieci anni fa moriva Francesco Alziator. Lo scrittore supera il demologo”, “Quelle strade in salita” (i percorsi cagliaritani di Valery), “Elio Vittorini e i bronzetti”, “Quella baia ricorda Rio” (è il golfo degli Angeli), “Il Poetto” (tredici lunghe, gustosissime pagine di cagliaritanità leggera e anche di pena per i guasti delle amministrazioni municipali)…

Dopo una nuova e distesa ripassata di nomi e di titoli (“Viaggiatori e visitatori, più tardi che altrove”) il capitolo conclusivo – “Come ci hanno visto gli altri” – indugia sui casi particolari: “Salvatore Cambosu a Cagliari”, “Reportage inglese nei sardi anni Venti”, “La Marmora e Lawrence viaggiatori inquieti alla scoperta di un’isola”, “Il suo fu più di uno sketch” (riferito a William Henry Smith), “Le tradizioni popolari di Cagliari” (bellissime riprese dai testi alziatoriani, noti e meno noti), “I cagliaritani attraverso la caricatura” (prendendone lo spunto da Casteddaius, nomignoli e caricature di Giuseppe ed Attilio Della Maria), “Ma, chi ha scoperto Tuvixeddu?”, “La lezione di Cerveteri” («La scoperta paradossale che si fa, alla vigilia di decisioni risolutive per l’area archeologica di Tuvixeddu, è che sul colle manca a tutt’oggi un ciclo di campagne di scavi capaci di dare, seppure con qualche riserva o approssimazione, una visione esaustiva del monumento da esplorare e da proteggere…»), “Quel ‘ploaghese’ che amò Cagliari come pochi” (riferito al canonico Giovanni Spano), “Il segreto di una donna solitaria” (la Deledda).

A recensire il libro, su L’Unione Sarda del 25 gennaio 2003, è Franca Rita Porcu (“Cagliari, i suoi colori. Così ci vedono gli altri”). Specialmente efficaci le ultime battute dell’articolo, che la giornalista concede ben volentieri allo stesso autore: «“Il camminare – chiosa il professor Romagnino, facendo proprie le parole della scrittrice Rebecca Solnit – ha prodotto una vasta biblioteca di racconti e di poemi che ci parlano di camminate, pellegrinaggi, vagabondaggi. I paesaggi, urbani e rurali, sono gestatori di racconti, e i racconti ci portano ai luoghi di questa storia”».

 

 

 

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