QUANDO I SARDI MORIVANO PER LA LIBERTA’. I martiri di Palabanda: cosa successe (il moto di libertà), chi erano (i protagonisti), come finirono (il loro destino e … il nostro!).

“ I   MARTIRI DI PALABANDA ALLA FINE DEL VENTENNIO RIVULUZIONARIO , 1794 – 1812”. Convegno storico nella Biblioteca settecentesca presso la Biblioteca Universitaria in Cagliari. Sabato 20 ottobre 2012: inizio alle ore 9,00 – fino alle ore 13,00.

Eugene Delacroix, La libertà che guida il popolo (1830).

 

 

Nota. La vicenda storica sulla congiura di Palabanda è contenuta subito qui sotto all’interno della biografia del suo più importante esponente, Salvatore Cadeddu. Tutte le schede sono tratte dal volume di  VITTORIA DEL PIANO, GIACOBINI MODERATI E REAZIONARI IN SARDEGNA, Saggio di un dizionario biografico 1793 – 1812, Edizioni Castello,  Cagliari 1996.

SALVATORE CADEDDU, condanna a morte, eseguita. * Avvocato, nato e residente a Cagliari, nel quartiere di Stampace, è battezzato nella chiesa di San­t’Anna il 10 novembre 1747 con i nomi di Salvador Miguel Joachin Joseph Franci­scus, figlio di Giorgio e di Maria Ignazia Chicu; prima di lui era stato battezzato, il 14 febbraio 1745, Salvador Agustin Igna­cio morto probabilmente prima della sua nascita. Coniugato nel 1773 con Anna Putzu il cui padre Giuseppe Ignazio era “marmo raro”, diventa padre di nove figli, quattro dei quali morti in giovanissima età e tre (v.), Luigi, Gaetano ed Efisio coinvolti col padre e con lo zio Giovanni nella congiura del 1812. “Contadore” del­la città di Cagliari dal marzo del 1773, procuratore della città di Alghero, membro dello Stamento reale, democratico, condivide le idee di rinnovamento di An­gioy. E’ nominato nel 1795 primo consi­gliere civico, carica che dà diritto ad essere prima voce dello Stamento reale, in sosti­tuzione del dottor Raimondo Lepori, so­speso dall’incarico per aver fatto mancare il pane nei quartieri della Marina e di Villanova; tale penuria il 31 marzo aveva dato luogo ad un tumulto di popolani che chiedevano di essere ricevuti dal viceré, il quale sospetta però che l’agitazione sia stata provocata dai “malcontenti” per la non risolta questione degli impieghi da conferire ai sardi. Nel suo “Possesso fuori del Borgo di Stampace vicino al Convento maggiore dei P.P. Capucini di questa città nel luogo denominato Palabanda, che con­tiene una fontana con casuccie ad uso di contadini, un giardino e campi di semina­re che a semenza di grano renderanno da sei in sette starelli”, si riuniva uno dei quattro club giacobini della città, frequen­tato prevalentemente da studenti e dai frati Rainaldi cappuccino e Cara agosti­niano; in due club almeno, il suo e quello di Matteo Luigi Simon, secondo Cherchi Paba, si respirava” aria di loggia massoni­ca”, ipotesi smentita da molti storici. Ap­prova, con altri membri dello Stamento reale, la lettera di ringraziamento da in­viare al re nell’aprile del 1795 per la con­cessione delle quattro “mitre” da assegna­re a sardi per le cattedre vescovili di Ca­gliari, Oristano, Sassari ed Alghero, e per manifestare l’adesione alla sospensione delle Cortes, la cui convocazione era stata richiesta con la prima delle cinque do­mande presentate al re dopo la vittoria sui francesi del 1793 (v. Antonio Sircana); come prima voce del suo Stamento esprime pa­rere favorevole alla sospensione delle pa­tenti dei giudici sassaresi FIores, Sircana e Fontana e sottoscrive il 6 luglio, per lo Stamento reale, con le prime voci degli Stamenti ecclesiastico e militare, rispetti­vamente l’abate di San Giovanni di Sinis ed il marchese di Laconi, una “memoria” per invitare il viceré, al fine di contribuire “in ogni miglior maniera al ristabilimento della universale tranquillità in esso Re­gno”, alla pubblicazione di un manifesto col quale tutti i cittadini siano diffidati dal praticare il minore atto di violenza, in conformità dell’ottenuto perdono”. E’ ci­tato negli elenchi dei “giacobini” trovati in casa del marchese della Planargia il 6 luglio 1795, tra i capi dell’emozione del 1794 e tra i membri dello Stamento reale che sostengono i capi rivoluzionari nel “promuovere l’Anarchia”; in un altro elen­co di soggetti pericolosi è indicato, con” tutta la Giunta dello Stamento reale, come appartenente al partito del dottor Cabras. Sottoscrive il 31 dello stesso mese per lo Stamento cui appartiene, insieme al mar­chese di San Filippo che firma per lo Sta­mento militare, una lista di 29 persone sassaresi pericolose che vengono propo­ste per l’arresto. E’ contrario alla richiesta presentata al viceré 1’8 giugno 1796 dagli ex democratici (v. Litterio Cugia) per la destituzione di Angioy e non firma l’elen­co di sospetti di giacobinismo inviato al Vivalda il 13 giugno. Nel marzo del 1797, fra le tante proposte presentate sul luogo in cui inviare in esilio Gian Francesco Si­mon, suggerisce la città di Castelsardo, ma si dichiara disposto ad adeguarsi alle decisioni del governo. Nel giugno del 1799, in seguito al regio editto del 3 che impone un donativo straordinario per far fronte alle spese derivanti dall’arrivo in Sarde­gna della famiglia reale, denuncia come procuratore dei figli eredi della defunta loro madre la proprietà di Palabanda, il cui “frutto industriale, che se ne ricava, non basta per la manutenzione del guar­diano, Carradori, Cavalli, buoi, e Carri. Se si potesse trovare cui affittarla, potrebbe ricavarsi Scudi trenta”, corrispondenti a lire sarde 75. Denuncia inoltre come se­gretario dell’Università lo stipendio di scu­di 75 corrispondenti a lire 187.10 (sic); come contadore della Città, scudi 400, “de’ quali deducendone Scudi cento, che paga al Pro Conto approvato dalla stessa Città, e dal Governo” danno scudi 300 corrispon­denti a lire 750. In tutto denuncia un red­dito di lire sarde 1012.10 cui vanno ag­giunte lire 185 per Palabanda. E’ citato da Angioy nel suo memoriale del 1799 fra gli avvocati di Cagliari favorevoli alla causa della libertà. E’ incluso dall’avvocato An­tonio Melis, difensore di Vincenzo Sulis (v.), accusato nel 1799 di congiurare con­tro la monarchia, tra i numerosissimi e qualificati testi a difesa dell’imputato, non ascoltati dalla delegazione giudicante: avrebbe dovuto parlare del tribuno come di un individuo “zelantissimo degli inte­ressi del sovrano e della patria”. E’ accusato di essere il capo della congiura che dal luogo in cui gli aderenti si riunivano è detta di Palabanda, la quale avrebbe do­vuto portare i cospiratori, nella notte tra il 30 ed il 31 ottobre del 1812 ad occupare il quartiere di Castello, dopo che gli uomini di Stampace si erano potuti riunire con quelli della Marina e di Villanova avendo trovato aperte le porte dei quartieri, com­plici, secondo Pietro Martini, due sergen­ti. I congiurati avrebbero dovuto arrestare il comandante Villamarina e sostituirlo con Gabriele Asquer. Gli scopi del com­plotto non sono mai stati del tutto chiariti, come pure sono rimaste nell’ ombra le “alte” personalità implicate. Forse si vole­va giungere ad una nuova espulsione dei piemontesi che, col malgovemo, non solo acuivano il risentimento dell’elemento locale, ma influenzavano anche malevol­mente il re, creando un clima di diffiden­za, sospetto, oppressione, accentuato dal­la crisi economica e dalla carestia del 1811­-1812; la classe dirigente piemontese, infat­ti, non aveva tenuto conto dei diritti rico­nosciuti dalle antiche leggi sarde né aveva messo mano alle riforme promesse. Forse si trattava addirittura di destituire Vitto­rio Emanuele e di nominare sovrano Car­lo Felice. I partecipanti erano molti. Quelli dei quali è rimasta memoria nelle carte sono: gli avvocati Gerolamo Boi, Efisio Luigi Carrus, Stanislao Deplano, France­sco Garau, Antonio Massa Murroni, Giu­seppe Ortu; i tre figli di Salvatore Caded­du ed il fratello di questi Giovanni; il sacerdote Gavino Muroni; il professore Giuseppe Zedda; il padre Paolo Melis delle Scuole Pie; i fratelli Giuseppe, Ignazio e Pasquale Fanni di Sant’ Avendrace; lo scul­tore Paolo Frassetto; gli artigiani e gli ope­rai Agostino Caria, Giacomo Floris, Potito Marcialis, Salvatore Marras, il sarto Gio­vanni Putzolu e Raimondo Sorgia. Parte­cipano alla congiura anche Antonio Ciloc­co, fratello del notaio Francesco, ed Efisio Frau, ma moltissimi rimangono scono­sciuti. Resta invece una supplica del mar­chese Stefano Manca di Villahermosa, ri­portata da Maria Pes, ma già pubblicata da Nicomede Bianchi, il quale chiede che “vengano chiarite le voci a suo carico di compartecipazione alla congiura contro il re”. Dopo le informazioni prese, per ordi­ne del re, dal Villamarina, dal conte di Roburent e dal reggente il tribunale del Consolato giudice Tiragallo, la pratica è archiviata in data 29 giugno 1813 col sug­gerimento di non procedere nelle indagi­ni e di riprendere il processo interrotto. La congiura viene scoperta per la leggerezza dell’avvocato Gerolamo Boi che consiglia all’amico e collega Proto Meloni (v.) di mettersi in salvo abbandonando Cagliari; questi ne parla col giudice Raimondo Ga­rau che non interviene e la cosa arriva alle orecchie del comandante della piazza di Cagliari Giacomo Pes di Villamarina. Nel­ la notte fra il 30 ed 31 ottobre viene casual­mente fermato, ma subito rilasciato, Gia­como Floris che, spaventato, invece di con­tinuare la missione affidatagli di avvisare i congiurati della Marina e di Villanova, torna indietro e dà l’allarme come se la congiura fosse stata scoperta, ciò che non era avvenuto. Secondo altri a svelare la congiura al ministro Rossi sarebbe stato Tomaso Dejana, nemico di Gaetano Ca­deddu (v.). Scrive Lorenzo Del Piano che a questo punto “ci sarebbe stata una sola via d’uscita, scatenare ugualmente la som­mossa, e intanto ammazzare il Villamari­na, che all’ alba del giorno dopo si faceva vedere in giro senza speciali precauzio­ni”, ma questa possibilità viene scartata dai congiurati. Il giorno 5 novembre e nei giorni successivi le autorità procedono ai primi arresti. L’8 novembre 1812 viene commesso” alli giudici della Reale Udien­za Don Raffaele Valentino, Don Giuseppe Gaffodio e Don Costantino Musio di de­venire tutti tre unitamente alla pronta istru­zione degli atti criminali, che saranno ne­cessari, coll’ esame di tutte quelle persone, che crederanno informate … conferendo loro per tutto quanto sovra la Nostra stes­sa Sovrana autorità, riservandoci, com­pìto il procedimento, di aggiunger loro altri Magistrati per conoscere, e pronun­ciare in via economica come sarà di ragio­ne, e giustizia; che tal’è il Nostro preciso volere”. Il collegio giudicante è costituito da Casazza, reggente la Cancelleria, e dai giudici della Reale Udienza Belly, Podda Pisano, Pes, Mearza. L’istruttoria è diffici­le in quanto gli arrestati non parlano nean­che durante la tortura. Il Martini avanza l’ipotesi che i primi delatori della congiu­ra abbiano fatto solo i nomi dei popolani Sorgia, Putzolu, Floris, Pasquale e Giu­seppe Panni, Marcialis, Marras, Caria, e quello dell’avvocato Massa Murroni, arrestati tutti il 5 novembre, escludendo i notabili, accusati ed arrestati in seguito, come il Deplano; a metà dicembre sono catturati coloro che non avevano lasciato la città, come Giovanni e Luigi Cadeddu. Per Salvatore ed il figlio Gaetano, Zedda e Francesco Garau il governo pubblica il 9 gennaio 1813 un manifesto col quale con­cede il premio di “trecento scudi sardi, ovvero l’impunità di qualunque delitto o per se stesso, o per qualunque altro delin­quente suo congiunto in primo grado di consanguinità od affinità” a chi arresta uno dei quattro rei; tali premi ed impunità sono applicabili anche ai correi, purché non capi. Naturalmente è proibito di “ri­cettare, favorire, o soccorrere” i quattro; i contravventori incorreranno nelle pene previste per i ricercati “irremissibilmente, e senza speranza di condono”. Il Cadeddu abbandona quasi subito la città e si reca a Sant’ Antioco in casa di amici, dove è arre­stato il 3 giugno, quando già erano stati impiccati Putzolu e Sorgia. Il suo avvoca­to difensore è don Diego Pes. E’ accusato di essere uno dei “Capi e principali autori dell’insurrezione … per compromettere, e turbare col sovvertimento dell’ordine la pubblica e privata tranquillità, avendo egli a tal proposito tenuto dei congressi, attira­to alcuni nella sua idea, e reclutato molti per mezzo della seduzione, ed anche del denaro, che cercò, ebbe, ed impiegò a tal oggetto”. E’ condannato il 30 agosto 1813 ad essere impiccato, “a spicarsi la testa dal busto, conficarsi quella al patibolo, e que­sto consegnarsi alle fiamme e spargersene le ceneri al vento, previa tortura nel capo dei complici, nella confisca dei suoi beni, e nelle spese”; la sentenza è eseguita il 2 settembre. Benvoluto e apprezzato dalla popolazione per la capacità, correttezza e impegno nel lavoro, la sua condanna su­scita somma costemazione. Il collegio giu­dicante pronuncia complessivamente tre condanne a morte per Sorgia, Putzolu e Salvatore Cadeddu, che sono eseguite; quattro condanne a morte in contumacia per Zedda, Garau, Gaetano Cadeddu, Ignazio Fanni; quattro condanne al carce­re perpetuo per Giovanni Cadeddu, Mas­sa Murroni, Pasquale fanni e Giacomo Floris; una a venti anni di carcere per Luigi Cadeddu. Per tutti è prevista la tortura affinché confessino il nome dei complici, ed il pagamento delle spese; ai condannati a morte sono confiscati anche i beni. De­plano prima è esiliato a Mandas, poi incar­cerato ad Alghero ed infine confinato a Carloforte. Le carte processuali sono scom­parse e non più ritrovate. Pietro Martini riferisce che il notaio Giuseppe Maria Cara, segretario della commissione giudicatri­ce, gli disse di aver consegnato al reggente la Cancelleria conte Calvi gli atti avuti dal giudice Musio. Il Martini sa che successi­vamente ne venne in possesso il generale Giacomo Pes di Villamarina e, alla sua morte, il conte del Campo, suo erede. Alcuni fogli del fascicolo erano stati incol­lati e a questo proposito, sempre il notaio Cara afferma che essi contenevano” alcu­ne note al governo di Demay, comandan­te il battaglione Real Marina, dove, indi allo scuoprimento della congiura, dava cenno dei due sergenti che vi erano intin­ti. Egli instò che venissero suggellati, onde falsamente non se ne arguisse, che egli ne fosse stato il primo denunciatore”. Suc­cessivamente il conte Prospero Balbo, ministro dell’Interno dal 1820, si oppone alla concessione della grazia o ad una riduzione della pena per i condannati. Vincenzo Sulis (v.) nelle sue memorie scrive che i suoi nemici erano gli organiz­zatori delle congiure del 1797 e del 1812 e lascia capire che uno dei capi della prima congiura era l’avvocato Cadeddu, che aveva progettato l’uccisione di tutti i no­bili dello Stamento militare riuniti nella chiesa della Speranza; di tale congiura parla anche la “Donna imbelle” alias Pepi­ca Delrio (v.), che aveva invitato il Sulis a parteciparvi, come unico sistema per po­ter mantenere il suo potere. Cfr. 3,46,51, 52,91,221,227,320,332,334,340,343,350, 366,367,371,373,375,396,406,408,411, 415, 435, 457, 483,

 

 

CADEDDU GIOVANNI (G. Battista), condannato al carcere perpetuo. * tesoriere dell’Università. Nato a Cagliari, e residente “nella strada di San Francesco in Stampaci”, fratello di Salvatore (v.), sposa 1’8 dicembre del 1790 Bemardina Gaybisso, figlia del medico Estevan e di Vittoria Durante Nater e riceve la benedi­zione nuziale il 29 gennaio dell’anno suc­cessivo. Nel dicembre del 1792, prosegre­tario dell’Università, gli viene concessa la gratifica di lire mille sarde perché ha esa­minato i conti della segreteria riguardanti il periodo 1774-1787 preparati dal tesorie­re Antonio Serra; aveva chiesto però lire 1248,15 calcolando un “beneficio” del 2,5 per cento sui pagamenti effettuati, in quan­to dal 1787 aveva prestato servizio come “Tesoriere effettivo colla promessa di ri­compensa”; ora, scrive la Segreteria di Stato, “si crede … autorizzato a chiederla, come di fatto la implora”. Coinvolto col fratello nella congiura di Palabanda, nelle sue “stanze”, scrive Pietro Martini, si te­nevano i “conventiculi notturni” presso di lui abitava il sacerdote Gavino Muroni (v.). E’ arrestato alla metà di dicembre del 1812 e condannato, come il dottor Anto­nio Massa Murroni (v.), “alla pena del carcere perpetuo”. Muore nella torre di Sant’ Andrea dell’isola di Santo Stefano, nell’ arcipelago della Maddalena, il 26 ot­tobre 1819 ed il6 novembre il govemo di Cagliari comunica la notizia al cavalier Lomellini, ministro di Stato e primo segre­tario per gli Affari intemi a Torino. Erro­neamente Antonio Cabras lo indica come figlio di Salvatore, confondendolo con il nipote Giovanni Antonio Efisio (v.), nato nel 1790. Cfr. 12,13,75, 233, 235,334,366, 371, 375, 404, 406, 415, 435, 483.

 

CADEDDU LUIGI, condannato a 20 anni di carcere e torturato. * dottore in leggi, nato a Cagliari ìl I” ottobre 1776 e battezzato il 6 con i nomi di Luigi Francesco Vincenzo, figlio dell’avvocato Salvatore (v.): sposa nei primi anni dell’Ottocento Ignazia Mazzuzi e si trasferisce nella Marina. Par­tecipa con i familiari alla congiura di Pala­banda del 1812 e viene condannato a 20 anni di carcere “previa tortura nel capo dei complici, e nelle spese”; come tutti i condannati, non rivela i nomi dei compli­ci. Detenuto nell’isola della Maddalena, nell’agosto del 1827 chiede di poter fare i bagni di mare, per ragioni di salute e la domanda è accolta. Inoltra una supplica con l’avvocato Massa Murroni (v.), che ha esito negativo, affinché sia commutato in esilio il tempo che ancora deve scontare in carcere. Il re in data 16 giugno 1830 conce­de la grazia: dovranno però restare nel­I’isola e presentarsi al comandante della Maddalena ogni giorno. Cfr. 98, 208, 226, 334,366,375,404,406,435,483.

 

 

 

 

 

GAETANO CADEDDU, condannato a morte in contumacia, finirà al sua vita da esule a Tunisi. * delegato di giu­stizia, nato a Cagliari, e battezzato nella chiesa di Sant’ Anna il 22 maggio 1782 con i nomi di Gaetano Giovanni Battista Efi­sio, sesto figlio dell’avvocato Salvatore (v.): sposa giovanissimo Maria Agostina Carro, nata nel 1783, sorella dell’ avvocato Efisio Luigi (v.) e nel 1801 hanno il primo di 5 figli, alcuni dei quali muoiono in tenera età. Forse il precoce matrimonio gli impedisce di concludere gli studi univer­sitari; dal 1803 è delegato di giustizia. Nel 1807 in febbraio la Segreteria di Stato, a seguito di segnalazioni avute, chiede al cavalier Gioachino Grondona, di “procu­rarsi con quella segretezza, che è propria del virtuoso, ed onesto suo carattere, stra­giudiziali informazioni sulla condotta” nel villaggio di Pula del Cadeddu, al quale viene dato il titolo di notaio, e sulle “qua­lità personali” del sindaco, servendosi di persone “probe, ed imparziali”; inoltre il Grondona dovrà informarsi se il Cadeddu sia “presentemente fattore baronale e se in paese la tranquillità sia turbata, e da chi”. Il 5 maggio il Grondona comunica che, recatosi a Pula, non vi ha trovato il Caded­du, ma ha constatato che lo scrivano face­va le sue veci; non ha quindi creduto op­portuno chiedergli notizie sul delegato e sul sindaco che d’altronde è stato sostitu­ito. Circa la situazione del paese, persone “probe ed imparziali” assicurano che “in Pula non si sa cosa sia amministrazione di giustizia, di modo che un buon numero di quei individui sono diventati così insolen­ti, che non si rispettano più le altrui pro­prietà, i seminati sono giornalmente pieni di bestiame recando incalcolabili danni ai medesimi, senz’ aver un mezzo di conte­nere quelli che lo introducono: similmen­te i possessi chiusi sono devastati dallo stesso bestiame per motivo del poco ri­spetto, che vi è della giustizia”. Scrive Carlo Brundo che a Pula il Cadeddu af­fronta “un temuto masnadiero sostituen­dosi al capitano dei barracelli che non aveva voluto eseguire l’ordine di arrestar­lo”, e parla di lui come di persona aliena dai compromessi, difensore tenace dei de­boli contro le prepotenze dei signorotti locali, che riesce a tenere a freno, per quan­to abituati a corrompere gli ufficiali di giustizia; ristabilisce l’ordine nelle zone di sua competenza tanto da meritare le lodi e la stima del ministro Rossi e della regina Maria Teresa. E’ trasferito poi a Pauli Pirri e nel maggio del 1808, per un suo sposta­mento a Villasor, il prefetto di Cagliari Raimondo Lepori fornisce al cavalier Ros­si, su di lui, notizie extragiudiziali scri­vendo che è “d’una mediocre capacità, assiduo nella Curia, dolce nel trattare, e ciò che è più, libero dal presso che comune difetto di esser mangiatore oltre il giusto”; vorrebbe quindi collocarlo in una Curia migliore, “come sarebbe quella di Villa­sor, che purtroppo abbisogna d’un mini­stro zelante, e che non si lasci corrompe­re”. Il prefetto considera poi che anche i ministri che hanno una cattiva reputazio­ne non vengono mai accusati e vede “con dispiacere l’inconveniente inevitabile di doverli giudizialmente dichiarare abili a continuare a servire”. Il ministro trova ottimo l’espediente di chiedere al prefetto notizie extragiudiziali” affinché possa eco­nomicamente farsi per il bene della giusti­zia ciò che non potrebbe legalmente farsi con giustizia e per questo sarebbe conve­niente ordinare che prima d’installarsi un nuovo ministro” si informasse la Segrete­ria di Stato. Dopo il suo trasferimento a Villasor, il prefetto in agosto vorrebbe as­sumere un altro scrivano poiché don Fran­cesco Antonio Madao, raccomandato dal­lo zio commendator Cossu Madao, consi­gliere delegato dei feudi, non è molto effi­ciente sia per l’età avanzata che per il carattere tutt’altro che tranquillo ed ira­scibile ed inoltre, data l’assenza per malat­tia del Cadeddu due scrivani sarebbero indispensabili. A Villasor, scrive sempre il Brundo, Cadeddu tiene testa ad “uno dei primi e più pericolosi capoccia, di gran seguito e di aderenze potenti” che tenta di ucciderlo; nel febbraio del 1810 il re delega il giudice Podda Pisano per chiarire le circostanze degli insulti dei quali il Ca­deddu è stato vittima da parte di don Andrea Vacher, persona dalla condotta piuttosto turbolenta. Trasferito a Quartu verso la fine del 1808, riesce a ridurre il numero dei disordini e dei delitti, ed an­che lì doma la protervia di Tomaso Dejana che è da lui non solo scacciato dalla Curia dove aveva osato entrare “bufonchiando e braveggiando, col berretto in testa”, ma anche successivamente arrestato poiché aveva guidato, in quel tempo di carestia, una cinquantina di persone all’ assalto dei magazzeni contenenti il grano. Il 12 mag­gio 1812 è nominato “Speciale Delegato di detta Tanca di Geremeas … cui particolar­mente ne incarichiamo la custodia, e conservazione, dandogli facoltà di esercirvi giurisdizione dentro il suo recinto … auto­rizzando esso Nostro Speciale Delegato Cadeddu a pubblicare un bando nel Vil­laggio di Quartu, e Quartuccio, e farlo pubblicare dai rispettivi Ministri di Giustizia in Sinnai, e Maracalagonis, col quale non solo vengano comminate le penali prescritte dalle Reali Prammatiche nei casi d’introdursi in detto Nostro Predio di Geremeas bestiame di qualunque specie, ma ancora, che questo potrà essere ucciso … “, Il predio reale di Geremeas era stato precedentemente” applicato al Seminario dei Sagri Operai” come lascito del reggen­te Gavino Cocco (v.), ma poiché veniva continuamente danneggiato dal bestiame che vi penetrava sia “per la facilità d’intro­durvisi soverchiando la muraglia della cinta” quanto per l’arroganza dei pastori, che apertamente gliene apre gli aditi”, era stato ritenuto necessario emanare quella disposizione. Partecipa all’organizzazio­ne della congiura di Palabanda che ha tra i capi il padre, e che avrebbe dovuto far scoppiare un’ insurrezione tra il 30 ed il31 ottobre e, dato il suo incarico, riesce facil­mente ad arruolare armati; fra gli altri Paolo Frassetto di Bonorva, che viene dis­suaso dal partecipare alla congiura, nella quale aveva un ruolo di rilievo, dal giudi­ce Proto Meloni (v.). Riferisce Pietro Mar­tini come notizia appresa da “persona degna d’ogni fede” che la congiura era stata svelata da un uomo che partecipava alle riunioni mascherato. Sdegnato con Cadeddu che gli aveva dato torto in una controversia concernente una corsa di ca­valli svoltasi a Quartu il 25 ottobre per la festa di San Pietro Pascasio, non solo im­pedì ai villici di Quartu e Quartucciu di partecipare alla congiura, ma svelò al reg­gente Rossi ciò che si tramava; lo storico pensa che l’uomo mascherato fosse certo Tomaso Dejana, ma dati i pessimi rappor­ti che questi aveva col delegato di giusti­zia pare poco probabile la sua partecipa­zione alla congiura. Dopo qualche giorno dal fallimento della cospirazione, scrive Brundo, il Cadeddu decide di recarsi a Cagliari per avere notizie più precise e sa dal cavalier Lepori e dal teologo Botta, che l’invitano a pranzo, che contro di lui era stato emesso un mandato di cattura; sem­bra che l’avvocato Efisio Luigi Carro aves­se fornito il primo elenco dei cospiratori. Evita di essere fermato nel viale di Buon­cammino mentre si reca a Pirri, e decide allora di tornare a Quartu dove a casa trova un biglietto che qualcuno attribui­sce alla regina con poche parole “Fuggi, ti salva”. Gli amici, e fra gli altri il sacerdote Serra, sconsigliano la fuga, ma i dragoni sono sulle sue tracce. Si fa cucire “soppan­no d’un giubettino”, come aveva fatto anche Vincenzo Sulis, mille doppie di Sa­voia e lascia il villaggio col fido servo Antonio, diretto nel Sulcis, dove già si trovava il padre. Giunge a Sant’ Antioco il 15 novembre, dopo aver messo in fuga a Siliqua una trentina di armati capeggiati da “quel certo magnate di Villasor” che tentavano di fermarlo. Riesce a superare tutti gli agguati che gli vengono tesi e con generosità cura in un’ osteria il brigadiere Benaglia che da lui era stato poco prima ferito. Sarebbe stato catturato dai dragoni se un ragazzo, che gli portava il cibo, avesse svelato il suo nascondiglio sotto la pressione di minacce di morte; “per me­moria di lui” Cadeddu gli regala 20 pezzi d’oro. Alla metà di aprile decide di emi­grare e vorrebbe portare con sé il padre che rifiuta di affrontare, data l’età, i rischi di una fuga. Col servo si dirige verso la Gallura e sul Limbara un gruppo di bandi­ti, ai quali è giunta la notizia della sua fuga, non riconoscendolo, gli dicono che con lui, radunati altri latitanti, avrebbero voluto occupare Cagliari, covo di cospira­zione contro la popolazione sarda. Non svela la sua identità, considerando impos­sibile un simile progetto e giunto a Lon­gonsardo, dopo aver congedato il servo con una buona ricompensa e con i due cavalli, noleggia una barca per raggiunge­re la Corsica; si fa lasciare però all’isola di Cavallo, dopo aver sventato un tentativo di riportarlo in Sardegna. A Bonifacio ri­trova i suoi compagni di sventura Giusep­pe Zedda, Francesco Garau ed il sacerdote Gavino Muroni anch’essi fuggiti da Ca­gliari. Ha notizia della cattura del padre, avvenuta il 3 giugno e successivamente della sentenza che lo condanna a morte, pubblicata il 30 agosto; anche a lui, come agli amici, è comminata la stessa pena. E’ accusato con “li Dottori Giuseppe Zedda di Torralba, e Francesco Garau di San Gavino domiciliati in questa città, e Giu­seppe Ignazio Fanni di questa stessa città contumaci ed inquisiti d’essere altri dei Capi e principali autori dell’insurrezione, che per turbare col sovvertimento dell’ or­dine la pubblica, e privata tranquillità è stata ordita, e tentata in questa Capitale, e che a seconda del depravato disegno do­vea eseguirsi nella notte delli trenta venendo alli 31. Ottobre dello scorso anno 1812., avendo ognuno di essi invitato, e reclutato gente per l’eseguimento di essa insurrezione … “, Si ferma in Corsica fino alla fine del 1814, quando raggiunge al­l’isola d’Elba Napoleone che aveva gene­rosamente provveduto al mantenimento dei quattro esuli. E’ apprezzato dal gene­rale che lo invita ad esercitarsi nell’uso delle armi e, narra Besson, “un giomo – gli disse – tu capitanerai un esercito e ci con­quisterai la Sardegna”, forse memore del­le richieste di Angioy e dei suoi seguaci. Come direttore delle ambulanze assiste il 16 giugno 1815 alla battaglia di Waterloo che segna la fine di Buonaparte e, per aver salvato la vita ad un colonnello, merita la Legion d’Onore, onorificenza istituita nel 1802 da Napoleone Primo Console. Toma in Corsica ma è perseguitato come bonapartista e riprende la via della montagna; nel 1820 si reca a Marsiglia e poi a Pisa dove ottiene la cittadinanza toscana e cam­bia il cognome in Cadelli. Il cavalier An­drea Vacca, professore di clinica chirurgi­ca e protomedico della Corte, lo apprezza e lo tratta come un figlio, procurandogli un posto di insegnante di latino e di fran­cese; lo induce poi a studiare medicina e dopo sei anni gli fa conseguire la laurea senza sostenere l’esame pubblico prescrit­to. Nel 1829 si reca ad Algeri poiché al professar Vacca era stato richiesto un medico, e vi si trattiene per 14 mesi. Sca­duto il contratto si imbarca per la Toscana, anche se non vi ritroverà più il suo mae­stro; durante la traversata sprona i mari­nai titubanti a difendersi dai pirati greci, che sono costretti alla fuga e per tale suo comportamento a Livorno riceve acco­glienze trionfali. Dopo due anni si reca a Tunisi e, morta a Cagliari la moglie il 15 dicembre 1833, sposa in seconde nozze la figlia del dottor Lombard, Aurelia, giova­ne vedova, dalla quale ha un figlio, Fede­rico, morto a 26 anni. Torna in Italia e si fa curare a Napoli per calcolosi vescicale; dopo circa un anno assume a Sfax l’incari­co di console di Svezia, Norvegia ed Ame­rica e, nuovamente a Tunisi, viene nomi­nato medico degli artiglieri, incarico che detiene per 13 anni; il Bey gli conferisce l’onorificenza del Nichen per i meriti ac­quisiti. Desidera rivedere la sua patria e già dal 1848 avrebbe potuto farlo, ma tor­na solo nel 1857, per riabbracciare gli amici ed i nipoti e confessa ad Eugenio Bes­san, pubblicista democratico espulso dal­la Sardegna poco prima con i fratelli Gio­vanni ed Anastasio Sulliotti e riparato a Tunisi, che” anche povero, limosinante, se carità della famiglia non lo avesse tenuto, egli avrebbe voluto finire in Cagliari la sua vecchiaja, e comporre le membra antiche ne’ patrii sepolcri”. Muore a Tunìsi, il 26 maggio 1858 “di cuore rotto”, scrive Bes­san, “come oggidì muoiono tutti coloro che, quasi per prodigio, scamparono d’af­fogare nel calcolo e nell’ egoismo i più nobili sentimenti dell’anima”. Cfr. 15,36, 89,91,229,247,320,332,334,350,366,375, 406,415,435,483.

 

 

 

ZEDDA GIUSEPPE *, condannato a morte in contu­macia. Professore univer­sitario, nato a Terralba nel 1767 circa, resi­dente a Cagliari. Nell’ aprile del 1796 per il suo merito e per lo scarso numero dei componenti il collegio della facoltà di Leg­ge, gli è concessa “l’implorata dispensa del tempo che gli rimane dei prescritti due anni dopo la laurea per poter presentarsi all’ esame di aggregazione al detto Colle­gio”; sarà ammesso all’ esame appena si sarà preparato, in deroga alle regie Costi­tuzioni dell’Università di Cagliari. Nel gennaio del 1807 gli sono conferite le pa­tenti di docente di Istituzioni civili e Dige­sto, con lo stipendio annuo di lire 400 di Piemonte, per i seguenti motivi: “plurali­tà” dei voti riportati; anzianità di laurea; precedente supplenza nella cattedra; eru­dizione e “buon fondo di giurispruden­za”, chiarezza e facilità nell’ esposizione e nella lingua latina. Gli è raccomandata “la fermezza verso gli scolari che potessero denotare uno spirito licenzioso” . Altre pa­tenti riceve nell’ agosto del 1811 di docente di Pandette con lo stipendio di scudi sardi 150, più altri 25, “coll’obbligo di spiegar i tre ultimi libri del Codice di Giustiniano nei tre anni del corso di lettura delle Pan­dette, come vi si è dimostrato propenso”. Partecipa all’ organizzazione della congiu­ra del 1812 (v. Salvatore Cadeddu) e per sovvenzionare il complotto “sotto velo di domestici bisogni”, scrive Pietro Martini, chiede 2000 scudi al commerciante Giacomo Ignazio Federici e consegna una parte di tale somma a Giovanni Putzolu (v.). Riesce a fuggire da Cagliari appena la cospirazione è scoperta e raggiunge la Corsica con Francesco Garau e Gavino Muroni. E’ condannato a morte in contu­macia con Gaetano Cadeddu, Francesco Garau, Ignazio Farmi, perché ha “recluta­to gente” per l’insurrezione, ed inoltre ha “somministrato una egregia somma di denaro per distribuirla alle persone che dovevano concorrervi”. Ad Ajaccio inse­gna la lingua italiana e verso il settembre del 1847 invia a Torino la domanda di grazia per la quale l’avvocato fiscale gene­rale di Cagliari il 2 novembre “opina in senso favorevole”, come il reggente la Cancelleria, “attesa la avanzata sua età ed il lungo esilio sofferto”; le carte processua­li però non sono reperibili il che crea qual­che difficoltà. I due funzionari precisano che per l’avvocato Garau, per il quale è stata presentata identica richiesta, valgo­no “gli stessi riflessi fatti rispetto al Zed­da”, quindi anch’ egli può godere della grazia. Cfr.60,77,84,90,334,366,371,375, 400,406,415,435,483.

 

 

GARAU FRANCESCO * condannato a morte in contu­macia . Avvocato, nato a San Gavino nel 1774 circa, figlio del notaio Salvatore e di Bonaventura Puzu, residen­te a Cagliari nel quartiere di Stampace, coniugato con Priama Coiana. Nel giugno del 1812 è convocato in giudizio dallo speziale Giuseppe Contu Lai di Cagliari che reclama 160 scudi sardi dovutigli per cento starelli di grano da lui acquistati nel marzo del 1807. E’ coinvolto nella congiu­ra di Palabanda (v. Salvatore Cadeddu) che fallisce nell’ ottobre del 1812, e riesce a fuggire da Cagliari prima di essere arre­stato. Su di lui grava il sospetto, come sull’avvocato Efisio Luigi Carro (v.), di aver fornito agli inquirenti i nomi dei co­spiratori. E’ condannato a morte in contu­macia con Gaetano Cadeddu, Francesco Zedda e Giuseppe Ignazio Farmi, Rag­giunge la Corsica col Zedda e Gavino Muroni (v.) e si reca successivamente a Parigi dove riceve un sussidio da N apole­one. Nel 1828 è nominato docente di Italia­no e Spagnolo nel collegio comunale di Aix ma dal 1837 insegna solo l’Italiano e tanto è la sua padronanza del francese da pubblicare in questa lingua la Nouvelle Grammaire italienne, élèmentaire et méthodi­que. Il figlio Saturnino, impiegato nella Segreteria di Stato a Cagliari, presenta per lui una domanda di grazia nel febbraio del 1846 e tale richiesta è ripetuta in novem­bre, da Francesco e dalla moglie, dopo la morte di Saturnino. L’esame della pratica presenta però molte difficoltà in quanto non si trova né il fascicolo processuale né la sentenza ritirate, come risulta dalla nota del 1834, dal reggente la Cancelleria conte Calvi, al quale erano state consegnati dal notaio Giuseppe Maria Cara, che conser­va le ricevute firmate in data 27 febbraio e 21 aprile 1816; probabilmente il tutto era stato inviato a Torino. Nel novembre del 1847 sono firmate per l’avvocato Zedda (v.) e per il Garau le patenti di grazia “con possibilità di rientrare in patria”; il parere favorevole è stato prima emesso per il Zedda, poi esteso al Garau. Mentre si pre­parava al ritorno è “colto da fiera malattia che lo condusse al sepolcro” il 7 febbraio 1849, come scrive il Martini, unanime­mente rimpianto. Una testimonianza a “molto di lui onore” è rilasciata dall’ abate Bonassu, direttore del collegio presso il quale ha insegnato per 20 anni. Secondo Loddo Canepa non è Francesco Garau il professore universitario di Cagliari del quale parla Angioy nel memoriale del 1799, come scrive Antonio Boi, ma Raimondo (v.), in quanto Francesco non è compreso negli elenchi dei docenti universitari com­pilati dal Guzzoni, dal Manno e da Sicilia­no Villanueva. Il Garau esule a Parigi po­trebbe identificarsi nell’ avvocato Garau (v.) che curava gli interessi della comunità di Sanluri. CjT. 60, 154,209,237,334,366, 371,375,400,415,435,446,456,489.

 

 

MASSA MURRONI ANTONIO (Carlo Antonio), condannato il 30 agosto 1813 al carcere a vita. * Avvocato, nato a Cagliari nel quartiere della Marina e battezzato nella chiesa di Sant’Eulalia il 3 novembre 1776, figlio del dottor Giuseppe e di Rosa Mur­rony; suoi padrini sono [uan Antonio Ni­tard e Teresa Leony. ostetrica. Il suo nome con la qualifica di “baccelliere in ambe leggi” è incluso nell’elenco di “capi”, in calce alla richiesta della Reale Udienza presentata al viceré nel 1794, “per la for­mazione d’una compagnia di volontari” (v. Emanuele RipolI). Frequenta uno dei club giacobini esistenti in città, quello che si riunisce in un giardino della zona di Palabanda di proprietà dell’ avvocato Salvatore Cadeddu (v.) che terrà le fila nel 1812 di una congiura che fallisce tra il 30 e il 31 ottobre. Arrestato nella notte del 5 novembre, fra i primi, è condannato il 30 agosto 1813 al carcere a vita. E’ probabile che abbia ottenuto una riduzione della pena in quanto nel 1830 dall’isola della Maddalena, dove è recluso, malgrado la condanna inflitta gli rivolge con l’avvoca­to Luigi Cadeddu (v.) una supplica al re per ottenere “il condono del tempo di carcere, che loro rimane a scontare, o quan­to meno la grazia della commutazione di tal tempo di carcere in altrettanto di esi­lio” nella piccola isola. Il re comunica al viceré conte don Giuseppe Maria Roberti di Castelvero, con carta reale del 12 giu­gno, che “per gravi motivi” non si è stima­to “di accondiscendere alla prima delle dimande” ma “avendo Noi però preso a considerare che i sumentovati detenuti hanno già scontata una gran parte della pena loro inflitta, e che il delitto loro im­putato, sebbene di natura gravissimo, non è poi stato consumato, abbiamo inchinato il Nostro animo alla clemenza, accordan­do loro la grazia della supplicata commu­tazione di pena”. Pertanto col parere del regio Consiglio, “abbiamo cummutato, e commutiamo la pena del carcere, che ri­mane a scontare alli detenuti Luigi Ca­deddu, ed Antonio Massa Murroni, in quella della relegazione nell’Isola stessa della Maddalena per un tempo uguale a quello, che rimane loro a scontare in carce­re, durante il qual tempo resteranno sotto la sorveglianza del Comandante dell’Iso­la coll’ obbligo di presentarsi al medesimo ogni giorno”. Nel 1820 il viceré don Igna­zio Thaon di Revel conte di Pratolungo aveva chiesto la grazia per i “rei di stato detenuti dal 1799 e 1801″ (v. Vincenzo Sulis); nel comunicare il 25 luglio al re Vittorio Emanuele I la scarcerazione di tali prigionieri, ricorda al re che gli impli­cati nella congiura del 1812 “restano anco­ra … sgraziati alla clemenza di S. M.” e chie­de se “sarà al caso di compilare una nuova memoria in supplemento della prima”, ma il suo velato consiglio non è accolto da Sua Maestà. Il Massa Murroni nel 1834 chiede di potersi trasferire a Cagliari ed il permesso gli è concesso nel marzo dell’ an­no successivo, “con ciò che presti nanti codesta Curia l’atto di sottomissione”. Il 23 maggio giura nelle mani di Andrea Sanna, regio bailo dell’isola di “bene e fedelmente portarsi, e di vivere da quieto e pacifico cittadino, non solo in questa, ma eziandio in quella di Cagliari quando vi si porterà”. Lo stesso giomo scrive al viceré e lo ringrazia della “Benignità con cui si è degnata di aderire alla mia umile preghie­ra. lo sarò etemamente memore di un beneficio così signa lato, che terrò viva­mente scolpito nell’intimo del mio cuore sino agli ultimi dei miei giomi”. Muore a Cagliari il19 ottobre 1836 ed è sepolto “nel nuovissimo cimitero di Bonaria”. Cfr. 13, 60,98,205,215,325,334,340,342,366,375, 400,404,415,435,456.

 

 

SORGIA RAIMONDO, condanna a morte, eseguita.  * Mastro concia­tore, residente a Cagliari, nel quartiere della Marina. “Già processato per delitto capitale”, scrive il Manno, partecipa come “Ajutante di Campo del Corpo delle tre Cavallerie Mìlizìane” dei sobborghi della Marina, di Stampace e di Villanova, alla guerra contro i francesi dei primi mesi del 1793 e merita “il gradimento di chi presie­deva al governo, ed all’ispezione sugli affari di guerra”. Respinti i nemici, in apri:” le, con Angelo Farris e colmastro Sebastia­no Puddu “hanno fatto a proprie spese il ridotto di Quarto nel luogo detto Serra Perdosa, o Sa Guardia, a riserva dei traspor­ti pei quali contribuirono gratuitamente i carri le Comunità di Quarto, Quartucciu, Selargius, Settimo, Mara e Sinnai”. Du­rante l’emozione popolare del 28 aprile 1794, che è anche da lui fomentata, in seguito alla quale vengono espulsi i pie­montesi dalla Sardegna, esegue “con vero patriotico zelo, non disgiunto dall’attac­camento all’ augusta persona del Sovrano, ed al suo maggior servizio” tutte le incom­benze che gli sono affidate” all’ oggetto di conseguire la tranquillità già turbata in questa Capitale, avendo anche servito di V. Comandante nelle milizie urbane della Marina senza stipendio alcuno”. Guida il popolo nelle richieste autonomistiche e diventa suo portavoce nello Stamento rea­le, come avviene il I” maggio 1794 quan­do, con l’avvocato Efisio Luigi Pintor, pro­pone la pubblicazione di un pregone con l’indulto a tutti i partecipanti all’emozio­ne; la possibilità per alcuni rappresentanti del popolo di assistere alle riunioni sta­mentarie “acciocché sia consapevole di tutto quello che si tratta e si risolve, e si ordina”; la comunicazione agli Stamenti di quanto deliberato dalla Reale Udienza “onde concordare ne’ termini che dovreb­bero essere i più onorevoli alla Sarda na­zione e i più espressivi della fedeltà della medesima verso l’Augusto Regnante, e sua reale Famiglia”, ed infine la compila­zione da parte della R U. di un registro” di tutte le provvidenze che si danno”. La RU. nello stesso mese, su richiesta dello Stamento militare, gli affida l’incarico di provvedere nel quartiere della Marina al ritiro delle armi sottratte il 28 aprile ai soldati del reggimento Schmid, mentre il Pintor avrà la stessa incombenza per Stam­pace, l’avvocato Pala ed il figlio per Villa­nova, ed il visconte di Flumini per il Ca­stello. E sempre lo Stamento militare pro­pone, per non lasciar disarmati i popolani che dovranno costituire le milizie urbane, che vengano loro distribuiti i fucili che si trovano nei regi magazzini. In maggio vengono consegnate “al Sig. Tenente Co­lonnello Sorgia … la quantità di duemila cartuccie per i paesani, un cartoccio di polvere fina, ed un pane di piombo per formar palle di varia qualità, come dal­l’unita richiesta segnata dal riferito Sig. Sorgia, visata dal Generale” marchese di Neoneli. In giugno è “incombenzato della formazione del nuovo fortino di Sant’Elia” e gli si consegnano scudi 603 per pagare il materiale e gli operai. Nel maggio dell’ an­no successivo indirizza una supplica al marchese della Planargia per ottenere un posto di lavoro remunerato reputandosi meritevole, per i servizi prestati, “d’aver parte nelle sue grazie”. Tenuto d’occhio dal generale della Planargia e dall’inten­dente Pitzolo, il suo nome compare più volte nelle carte sequestrate in casa del generale il 6 luglio 1795, nelle quali è clas­sificato tra i soggetti pericolosi e fra i capi dell’emozione del 1794; è specificato però che la sua partecipazione alla sommossa non aveva lo scopo di introdurre i france­si, pensiero che ossessionava il generale devotissimo al sovrano, “ma solo per do­minare”. In un altro appunto dell’ottobre 1794 si parla di un parere su una sua supplica e, annota il notaio Todde che classifica i documenti, che il parere, “ben­ché sia favorevole è però alquanto veleno­so, poiché lo caratterizza per uno dei prin­cipali autori dell’emozione del 1794″; un altro parere del mese successivo è a lui contrario. Ed ancora è registrata una “par­lata” contro il generale, la nobiltà e il go­verno, “che supponesi da lui fatta nel caffè di Carboni”, il caffettiere che dopo il 15 aprile 1793 aveva offerto lire 2 e soldi 16 per opere di difesa contro i francesi. Nel luglio del 1795 sottoscrive, con gli altri probi uomini della Marina, la Rappresen­tanza inviata dagli Stamenti al re sull’ oc­corso in Cagliari del 6 luglio, ed il Ragiona­mento giustificativo sugli avvenimenti del­lo stesso mese. E’ incluso per l’anno 1796 nella terna per la scelta del secondo sinda­co della Marina. In ricompensa dei servizi prestati “in diverse occasioni, ed in criti­che circostanze” il I” febbraio dello stesso anno gli viene conferita la nomina di “Di­rettore ed Ispettore provvisionale dei for­tini eretti in questa città, non meno che nei suoi contorni col titolo di V. Comandante delle Milizie della Marina, coll’ annesso salario di scudi cento cinquanta sardi da corrispondersegli dalla R.a Cassa a quar­tieri maturati, cominciando a decorrere dalla data delle presenti”. Tale incarico gli è confermato, con lo stesso stipendio, il 27 maggio 1799 “fino ad altra N.ra provv.za … durante la di lui servitù, ed a nostro bene­placito”. Con molti popolani partecipa alla congiura di Palabanda del 1812 (v. Salva­tore Cadeddu) ed ha l’incarico, con altri, di reclutare adepti, incarico che svolge con diligenza anche nei paesi del circon­dario e tra le truppe. Due sergenti del battaglione Real Marina non solo aderi­scono alle sue proposte, ma pensano a futuri soci nell’impresa nei loro commili­toni “venuti poco anzi dalla Spagna e facili a scapestrare”. Tale battaglione in­fatti era formato da piemontesi, restituiti al re dagli inglesi, ai quali si erano arresi in Spagna mentre combattevano con le trup­pe francesi. E’ arrestato fra i primi cospira­tori, il 5 novembre, ed è condannato a morte col solito rituale; è impiccato il 13 maggio 1813. Come gli altri condannati non fa il nome dei complici “nemmeno ai piedi della forca”, scrive Lorenzo Del Pia­no, ed una figlia, traumatizzata per la vicenda, è ospitata in casa dell’avvocato Giuseppe Ortu (v.) anch’egli implicato nella congiura. Un’altra figlia, Angela Romana, Sposa il figlio del notaio Frau e di Francesca Sciaccaluga. Cfr. 20,22,53,54, 55,79,206,325,334,340,366,371,375,406, 411,415,438,481,483.

 

 

FANNI IGNAZIO (Giuseppe Ignazio), condanna a morte in contumacia, riesce a fuggire. * Pescatore, nato a Cagliari nel quartiere di Sant’ Avendrace il3 marzo 1765, fratello di Giuseppe (v.). Implicato nella congiura di Palabanda del 1812 ha l’incarico di reclu­tare altri cospiratori; riesce a fuggire con Francesco Garau, Gaetano Cadeddu e Giu­seppe Zedda ed è con essi condannato a morte in contumacia il 30 agosto 1813. Cfr. 267,334,366,375,406,415,435.

 

 

FANNI PASQUALE, condannato alla galera a vita. * Argentiere, nato a Cagliari nel quartiere di Sant’Avendrace il 24 gennaio 1762, fratello di Giuseppe (v.), coniugato nel 1796 con Efìsia, sorella di Potito Marcialis. Partecipa alla congiu­ra di Palabanda del 1812 ed ha l’incarico di reclutare altri cospiratori. Quando gli comunicano che l’insurrezione non ha più luogo, sollecita i capi di Stampace ad effet­tuarla, ma non è ascoltato, come non lo è Giovanni Putzolu (v.) del quartiere della Marina. E’ arrestato il 5 novembre ed è condannato alla galera a vita come Giaco­mo Floris. La moglie presenta nel settem­bre del 1830 una domanda di grazia che non è accolta. Muore in carcere senza fare i nomi dei congiurati, a Bagni di Villafran­ca, i131uglio 1835, per gastroenterite. Cfr. 238,267,334,366,375,406,415,435,483.

 

FLORIS GIACOMO, con­dannato alla galera a vita. * Operaio, nato il 12 aprile 1778 a Cagliari e battezzato nella chiesa di Sant’ Anna a Stampace il giorno successivo con i nomi di Jayme Joachin Efis, figlio del vasellaio [uan Angel (v.) e di Madalena Aresu. Partecipa alla congiu­ra di Palabanda (v. Salvatore Cadeddu) ed ha l’incarico di reclutare adepti. Fermato da una pattuglia nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1812, per un normale controllo, non porta a termine l’incarico affidatogli di avvisare i congiurati dei quartieri di Villanova e della Marina; si spaventa, tor­na indietro, e la sollevazione non ha luo­go. Arrestato il 5 novembre 1812 è con­dannato alla galera a vita con Pasquale Farmi e muore in carcere senza fare i nomi dei cospiratori. Cfr. 226,334,366,406,415, 435,483.

 

 

DEPLANO STANISLAO, invia­to in esilio. * Professore universitario. Residente a Cagliari nel quartiere di Villanova ma nato a Nurri, figlio di Antonio Vincenzo e di Giuseppa Biquiri, coniugato nel 1793 con Raffaela Aru figlia del notaio Gioachino. Una fi­glia, nata nel 1795, ha come padrino il dottore in diritto Angelo Deplano della Marina ed un’altra, nata nel 1797, il vice intendente Felice Podda. Il suo nome è incluso in una “Nota de’ Capi famiglia del Sobborgo di Villanova che possono mag­giormente contribuire al perfetto ristabili­mento della pubblica tranquillità di que­sta Capitale” dopo l’espulsione dei pie­montesi dell’aprile del 1794. Nel marzo del 1799 si presenta al concorso per la cattedra di Istituzioni civili all’università di Cagliari con gli avvocati Michele Floris e Proto Meloni; il Magistrato sopra gli studi “avendo i medesimi dato prova di talento e capacità”, chiede che siano ag­gregati al collegio di Leggi senza esame e la richiesta viene accolta. E’ arrestato nel settembre del 1799 col professor Liberti ed altre quattro persone, “oltre il Sergente Loddo, ch’ era di guardia cogli arruolati in Porta Cagliari; non si sa il motivo di tali arresti; chi dice per congiura, chi per spar­late, chi per voler liberare i prigionieri, ma il vero motivo s’ignora”, scrive il giudice Lavagna nel suo diario che chiama avvocato collegiale il Deplano; la congiura alla quale allude è quella che ha per capo l’avvocato Luigi Serra. “Nell’atto degli arresti” continua il Lavagna, “il bastione, che guarda il sobborgo di Villanova, era fornito di cannoni alla batteria”. Nel di­cembre è imbarcato per “fuori regno” e ciò, commenta il giudice, “fa mormorare assai”. Poco dopo il magistrato Giuseppe Valentino parlando col Liberti, gli dice che contro il Deplano non vi erano prove, ma è stato ritenuto opportuno esiliarlo per due anni perché era un giacobinone; avreb­be infatti detto che “il Re di Spagna è Re costituzionale, e che dipende dagli Sta­menti”. Ufficiale della baronia di Quartu, nel maggio 1806 è citato dal commerciante greco Staico al quale deve 14 scudi per l’acquisto di un “capoto serenico”. Dopo quattro anni la sentenza passa in giudica­to ed il Deplano dovrà pagare anche cin­que lire per le spese. Nel settembre del 1807 è consultore delegato del ducato Mandas ed un dispaccio segreto della Se­greteria di Stato gli rende nota la “scanda­losa coabitazione del falegname France­sco PIanta con Antonia Murgia”; contemporaneamente è comunicato al teologo Paradiso di procedere all’ arresto del reo. Passa poi alla baronia di Quarto come ufficiale reale, ma è rimosso per un “man­camento”; è accusato di aver “alterato la verità nelle sue relazioni ufficiali” sulla condotta del soldato Benedetto Milia e ” sulla parte presa nel di lui rilascio da quei ceppi dai due Uffiziali don Gaetano Castelli e don Efisio Russiu”. In data lO ago­sto 1810 il re gli concede di discolparsi “non essendo nostra intenzione”, scrive nell’aderire alla sua supplica, “di chiude­re la via alla difesa di alcuno dei nostri sudditi e massime degli impiegati accusa­ti di mancamento in Officio”. Avoca a sé la causa che rimette al supremo Magistrato del Regio Consiglio affinché, dopo aver sentito il Deplano “nelle sue difese, e pre­vie le conclusioni del Regio Fisco provve­da, e decida a termini di ragione e giusti­zia, ogni supplicazione, e ricorso rejetti, che tale è Nostra mente”. Nel 1812 è impli­cato nella congiura di Palabanda (v. Sal­vatore Cadeddu) e dopo l’arresto è invia­to,nel maggio del 1813, in esilio a Mandas. Nel luglio del 1820, scrive il viceré conte di Pratolungo al ministro Balbo, si trova “ri_ legato in Alghero l’avv. to Stanislao Deplano su di cui caddero sospetti di compli­cità”. Nell’ottobre dell’anno successivo è tradotto da Sassari a Carloforte e gli è concessa la sovvenzione di un quarto di scudo al giorno (E. 1,25) e di lire 2,10 per l’affitto mensile di una camera. Loddo Canepa non lo nomina né tra i docenti né tra gli avvocati compromessi politicamente tra la fine del XVIII ed i primi del XIX secolo.CfY. 13,16,54,79,90, 155,261,272, 334,375,391,400,404,474,483.

 

 

CILOCCO ANTONIO, mandato in esilio. Nato a Cagliari e battezzato il 20 luglio 1774 in cattedrale, con i nomi di Antonio Efisio Luigi, figlio di Michele (v.); fratello del notaio Francesco. Risiede nel quartiere della Marina quan­do si sposa, il 12 novembre 1796, con Anna Cabras, di Stampace, figlia del mastro Se­bastiano e di Anna Setzu. Il 3 settembre è nominato su proposta del comandante del battaglione di Stampace Vincenzo Su­lis, dal quale dipendono anche i cacciatori, sottotenente “provvisionale” del battaglio­ne con Raimondo Frau, Rafaele Randaciu, Stefano Franchino, Efisio Lugas e France­sco Meloni. Ai primi di aprile del 1799, deposto dal comando Sulis e nominato comandante dei cacciatori il cavalier Gron­dona, riceve da Sulis con il tenente Luigi Porcu l’incarico di raccomandare al Gron­dona di fare in modo che i cacciatori non si dimettano dal corpo, come era loro inten­zione, perchè preoccupati per la disciplina militare che sarebbe stata loro imposta. Sulis pensa anche che queste dimissioni avrebbero potuto essere a lui attribuite dai suoi nemici, in base ad un piano predeterminato. E’ citato dall’avvocato Antonio Melis con Francesco Dei, Luigi Giacomi­na, Luigi Porcu, Raimondo Melis e Girola­mo Pintor, per deporre a favore di Sulis, arrestato il 14 settembre per congiura con­tro la monarchia, ma questi testimoni non sono accettati dalla corte giudicante. Ar­restato per sospetto di complicità nella congiura così detta di Palabanda del 1812 (v. Salvatore Cadeddu), dopo 13 mesi di carcerazione “senza la menoma ombra che giustificasse la falsa imputazione”, scrive la moglie, gli è proposto di scegliere un paese straniero dove soggiornare a tempo indeterminato; preferisce la Sicilia

e la regia delegazione, con parere positivo del re, “opinò di dare lo sfratto dal regno” a lui e ad Efisio Frau (v.). Scrive il 4 genna­io 1814 l’avvocato fiscale Raimondo Ga­rau che potrebbe essere trasportato a Pa­lermo con la nave del capitano siciliano Caffiero che sembra disposto a prenderlo con sé; si potrebbe “farlo scortare a bordo notte tempo da un aiutante, ed alcune ordinanze della piazza”. Il6 gennaio, pri­ma di lasciare il carcere, firma un atto di sottomissione col quale si impegna a non allontanarsi dalla Sicilia “per niun verso, e molto meno por piede in questo Regno di Sardegna, ed Isole adiacenti, senza legitti­mo permesso della M.5., sotto pena di morte, in caso di contravvenzione, ed esporsi alla pubblica vendetta”. Giura di adeguarsi a quanto gli è ordinato nelle mani del notaio Agostino Pusceddu e fir­ma l’atto, presenti come testimoni i dete­nuti Salvatore Podda e Giuseppe Marro­eu. Nel 1819 rivolge una supplica al re per godere del beneficio dell’indulto del 27 febbraio, ma per la “qualità del delitto nel quale è implicato” la supplica, “con l’an­notazione depulsìva”. è restituita alla moglie nell’ ottobre dello stesso anno. In data 28 giugno 1821 la moglie, che ha vissuto tanti anni nella miseria con 6 figli minori, presenta una nuova supplica in occasione dell’ ascesa al trono di Carlo Felice; chiede che il marito, esiliato “senza alcuna prolazione di sentenza”, possa tor­nare a Cagliari. La grazia è concessa ma, come si legge in una dichiarazione in data primo marzo 1822 del teologo Gaetano Catte, presidente della Chiesa di Sane An­na, “trovasi privo di beni di fortuna, e ridotto a stato d’implorare l’altrui soccor­so, per la perdita che dovette subire d’al­cuni piccoli fondi, che tenea in negozio, e nullameno ha il carico d’una numerosa famiglia, cui a stento può somministrare il precisissimo diario sostento”. Tale dichia­razione è stata rilasciata per una causa concemente l’eredità di una cugina prima della madre, il cui asse ascende a scudi 30.000. Cfr. 13, 20, 60, 152, 157, 193, 206, 404.

 

 

PUTZOLU  GIOVANNIcondanna a morte, eseguita. Sarto, di Cagliari. E’ implicato nella congiura organizzata nel 1801 dal frate Gerolamo Podda contro il govemo e, secondo la deposizio­ne di Vincenzo Aresu (v.), avrebbe parte­cipato alle riunioni che si tenevano in casa di Andrea Delorenzo. Partecipa attiva­mente nel 1812 anche alla preparazione della congiura detta di Palabanda, che ha tra i capi l’avvocato Salvatore Cadeddu (v.) e riceve dal professor Zedda di Terral­ba una forte somma, circa 2000 scudi, per le spese relative al reclutamento degli adepti. La mattina del31 ottobre, fallita la sollevazione che doveva iniziare nella nottata, appena vede il comandante Villa­marina con l’aiutante maggiore ha lim­pulso di ucciderlo, per dare inizio alla sollevazione, ma è trattenuto dai compa­gni; “gittò allora per terra la pistola e disse: compiuta è la nostra rovina, la forca ci attende. E si appose al vero”, come ricostruisce la vicenda Pietro Martini. E’ arrestato il5 novembre ed impiccato il 13 maggio 1813 con Raimondo Sorgia. Cfr. 334,366,375,380,415,435,483.

 

 

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    1 Comment to “QUANDO I SARDI MORIVANO PER LA LIBERTA’. I martiri di Palabanda: cosa successe (il moto di libertà), chi erano (i protagonisti), come finirono (il loro destino e … il nostro!).”

    1. By eugenio preta, 24 ottobre 2012 @ 08:13

      Restiamo convinti che il popolo sardo è popolo vero e fiero e saprà ottenere la vera autonomia ( noi chiediamo l’INDIPENDENZA) dall’Italia a cui, come successo per la Sicilia, è stata legata dalla massoneria e dalle violenze sabaude.
      Ma al contrario dei siciliani, dormienti e indifferenti, i sardi sono vitali e sanno cambattere uniti.
      Leggendo l’articolo sui Martiri di Palabanda abbiamo notato che molti venivano da Stampace e , con una piccola vena critica – abbiamo otato che le condanne a morte o al carcere duro sono state eseguite solo nei confronti dei congiurati piu’ umili, mentre avvocati e medici riuscivano a fuggire in esilio, scappare dalla Sardegna e , depomolti anni, susseguiosi chiedere la grazia alle auotirità piemontesi. ANTUDO