Abravanel e le Regioni. Ovvero gli atti di fede della propaganda al servizio del neonazionalismo del Governo Monti, di Giuseppe Corongiu

Abravanel e le Regioni. Ovvero gli atti di fede della propaganda al servizio del neonazionalismo del Governo Monti

 

Il preludio propagandistico all’attentato anticostituzionale del governo cosiddetto “tecnico” alle autonomie speciali è molto indicativo per capire l’aria che si respira in Italia di questi tempi.  L’esecutivo guidato da Mario Monti, alfiere dell’economicismo esasperato e della lotta agli sprechi, è stato agevolato da una grancassa mediatica di delegittimazione delle Regioni.  In particolare da una lunga serie di servizi giornalistici e opinioni di presunti “esperti” pubblicati nei maggiori quotidiani.

E’ da tempo che gli opinionisti mainstream dell’alta finanza hanno deciso di cavalcare la crisi finanziaria e alcuni scandali locali, anche nostri sardi, per portare un attacco feroce alle autonomie locali. I soldi gestiti sul territorio, in tempi di magra, fanno gola anche a loro. Uno fra tutti, la domenica precedente alla seduta del Consiglio dei Ministri che si è proposto di modificare la Costituzione, in prima pagina del Corriere della Sera, quello di tale Roger Abravanel che si occupava di sprechi, federalismo, centralismo e abolizione delle Regioni.

La tesi di Roger Abravanel, ingegnere prestato alla carriera nelle multinazionali e autore recente di best seller sulla “meritocrazia”, è presto riassunta. L’istituzione delle Regioni in Italia è stata un fallimento: esse avrebbero bloccato il liberalismo e il liberismo, moltiplicato i fronti della corruzione, portato un sacco di sprechi, reso inefficiente e antimeritocratica l’Italia, diviso il Paese in contenitori territoriali senza identità nei quali la gente non si identifica.

Un discorso qualunquista, che si potrebbe fare, al bar dello sport, anche per l’Amministrazione Centrale. Del resto la corruzione e gli sprechi, in Italia, non sono nati con le istituzioni locali. Però oggi si preferisce puntare arbitrariamente sulle Regioni, sulle Province e magari domani sui Comuni. Meglio “tagliare” a casa d’altri piuttosto che nella propria.

Un discorso curioso che è assolutamente in linea con quanto cercano di far passare, insieme ad altri argomenti validi, ultimamente altri celebri opinionisti di quel giornale come Rizzo e Stella: le Regioni, in particolare quelle ad autonomia speciale, sono un peso troppo grande per lo Stato Italiano. Sono una cloaca, in senso morale ed economico, che crea un esborso di denaro pubblico esorbitante che sarebbe una delle cause del declino della nostra invitta Nazione, o meglio dello Stato che dovrebbe gestire questo ingombrante costrutto storico politico reso attuale dal Risorgimento.   Dopo le province, insomma, i benpensanti dell’establishment cultural-politico-giornalistico italiano hanno puntato decisamente la prua contro le istituzioni regionali, quali fossero i nuovi untori da additare al popolo,  come responsabili del morbo malefico che attanaglia le casse della Repubblica.

C’è un’alleanza chiarissima in atto tra gli alti livelli della burocrazia romana, i gruppi finanziari nordisti, la magistratura e la chiesa (a cui non viene mai chiesto conto di privilegi e finanziamenti pubblici) per cercare di salvare l’establishment italiano a spese di altri. In particolare delle Regioni a Statuto Speciale che hanno alzato troppo la cresta.

Abravanel, non so con quanta competenza e conoscenza, si lascia andare anche ad analisi storico-politico-sociologiche che lasciano alquanto di stucco per la superficialità e l’approssimazione. La tecnica dialettica è quella di dare come scontati fatti, processi, affermazioni assertive in realtà per nulla verificate o pacificamente condivise.  Intanto critica il “federalismo italiano” come se veramente, negli ultimi venti anni, il federalismo fosse stato realizzato. In realtà, le autonomie speciali storiche sono state messe all’angolo, la Lega (dal suo punto di vista) ha fallito su tutta la linea portando a casa risultati ridicoli (ma era prevedibile essendo solo una nuova versione di centralismo) e lo Stato neonazionalista è oggi più forte di prima. Pertanto, il federalismo “italiano” possiamo tranquillamente dire che non esiste, e non è mai esistito. Così come certe autonomie “speciali” come per la Sardegna, nella quale lo Stato ha continuato a farla da padrone per 60 anni.  Invece, per questo prestigioso commentatore si. A meno che, Abravanel, come molti opinion maker italiani non confonda il chiacchiericcio politico e mediatico con gli atti concreti di governo e amministrazione. Gli eventi mediatici con i processi reali.

Il meccanismo psico-sociale è il seguente: si parla di qualcosa sui media – da fonti ritenute autorevoli – e si fa finta così che esista realmente. E’ un vizio italico che ha riguardato anche altri processi politico-istituzionali mai realizzati: per esempio la semplificazione amministrativa e giuridica, la lotta alla corruzione, la lotta alle mafie, la competitività, la meritocrazia, la riforma della Costituzione. Se ne parla allo sfinimento su giornali e talk show, si scrivono libri, fin quasi a far credere che ci siano fatti concreti. In realtà, è solo un fatto mediatico, appunto. Un anelito.

Un’altra chicca del nuovo vate del centralismo neonazionalista del Corriere è la spiegazione storica del perché il presunto federalismo italiano non avrebbe funzionato (anche se non è stato mai varato). Egli fa un ardito paragone con gli Stati Uniti d’America e la Svizzera sostenendo che in quelle realtà in realtà stati e cantoni nascono prima dello stato e poi lo costituiscono con un foedus, un nuovo patto statale, mentre in Italia prima nasce lo Stato e poi il decentramento verso le autonomie che però, nel frattempo, soggiogate dal centralismo statale, non avrebbero allevato classi dirigenti in grado di reggere la sfida. Sembrerebbe una buona argomentazione, ma in realtà è parziale e si avvita su stessa. A parte l’arbitrarietà del parallelo, di federalismi in tutto il mondo ce ne sono tanti. Quello concreto delle isole britanniche, ad esempio, non regge in questa visione. E neppure quello belga. Così anche il modello spagnolo non si riesce a spiegare.

L’Italia prima dell’Unità era tutto un fiorire di stati e staterelli, poi lo Stato, nato dall’allargamento di uno di essi, ha inglobato tutto. L’assimilazionismo romano-piemontese ha fatto il resto con plebisciti falsi e intere aree depredate nel Sud in nome del credo della Nazione che centralizza. Lo stesso di oggi, in pratica. Ma tutto fa brodo, l’importante è sostenere una tesi che ha come scopo quello di creare un clima, in Italia, sfavorevole a qualsiasi attenzione per le autonomie (ordinarie o speciali) complici gli scandali. Obiettivo finale: non risparmiare o evitare sprechi, ma drenare denaro verso altri lidi. Senza nessuna garanzia che non ci saranno nuovi sprechi. Anzi, forse si, ma in nome dello Stato-Nazione monoitalico.

Per Abravanel, infatti, non solo i cittadini non si identificano nei contenitori istituzionali regionali (in base a quali dati? in Sardegna non è così, ad esempio lo dimostrano tutte le ricerche sociologiche degli ultimi anni), ma addirittura le Regioni non avrebbero nessuna giustificazione neppure di tipo culturale o etnico perché l’unica che ha contenuti di minoranza “linguistici” sarebbe l’Alto Adige. L’ingegnere della meritocrazia, ovviamente, non sa o non racconta, che una legge della stato, la n°482 del 1999, ha riconosciuto ben dodici lingue minoritarie all’interno dei confini dello stato italiano. Cosi come fa finta di non sapere che la Valle d’Aosta ha una fortissima specificità linguistica (francese, francoprovenzale e walser), il Friuli Venezia Giulia anche (sloveno, friulano e germanico), per non parlare delle decine di enclave del Sud, o del Trentino e della Sardegna (che insieme alla sua lingua storica nazionale vanta la presenza di ben altri 4 gruppi minoritari riconosciuti con legge regionale).

Allora diciamo che i dati, o le interpretazioni dei dati, portate dal meritocrate delle multinazionali Abravanel non supportano né l’argomentazione, né la sintesi né le conclusioni. Il suo è cioè un discorso apodittico, privo di conforto teorico e pratico. Si tratta di una visione ideologica, di tipo messianico, nella quale si troverebbero le soluzioni a tutti i problemi italiani con una centralizzazione esasperata dei poteri verso lo Stato. E’ sostanzialmente un atto di fede neonazionalista, non un’analisi politica o sociologica confortata da verifiche condivise e plurali. Il governo Monti però, spalleggiato dai grossi gruppi editorial-finanziari, persegue esattamente questa opinione politica.

Eppure un “esperto” dovrebbe portare contenuti tecnici, dati, analisi, sintesi. Non un atto di fede.  Ma quello che conta è spalleggiare le scelte del governo. E allora si capisce che un’analisi approssimativa di questo tipo trovi spazio nella prima pagina domenicale del quotidiano più diffuso in Italia a puntello delle politiche montiane.

Ciò preoccupa molto perché fa pensare che l’establishment italico non sia migliorato molto negli ultimi decenni rispetto ai suoi 150 anni di storia e alla sua compromissione con il fascismo. Sempre alle prese con pulsioni irrazionali da piccola borghesia idealista e parassitaria, afflitto da monolinguismo cronico, scevro da confronti internazionali seri,  incapace di analizzare la realtà italiana con uno sguardo sereno e obiettivo. Nazionalista e dogmatico fino alla costrizione del pensiero. Con la perenne tentazione dell’autoritarismo ipocrita. Arretrato e autoreferenziale nelle analisi e nelle proposte di soluzione. Sempre in cerca del messia, dell’uomo forte, della provvidenza, del feticcio politico. E’ vero che una qualsiasi prospettiva federalista in Italia è stata annullata dalla mistificazioni della Lega (movimento che non ha e non cerca una base etnolinguistica, ma si propone semplicemente come una destra qualunquista etnofoba territorializzata), ma i commentatori italici come Abranavel non solo non vogliono, ma non riescono proprio a entrare nella logica del federalismo o del rispetto delle autonomie speciali. Gli italiani di oggi purtroppo sono così.

E non è un caso dunque che l’Italia sia in declino e in crisi.

Invece bisognerebbe avere, per così dire, una logica democratica, rispettosa delle realtà locali, asimmetrica. Non è detto infatti che tutti siano o debbano essere uguali in uno Stato. Che l’autonomia della Regione Lazio debba essere per forza uguale a quella della Sicilia. O che il Piemonte debba avere gli stesse competenze della Sardegna.   Il federalismo nasce per salvaguardare le diversità, nella prospettiva dell’unità. Pertanto, si pone esattamente come asimmetrico, e la Spagna ne è un buon esempio. Del resto, chi può dire in assoluto che uno stato centralista funziona meglio di uno federale o viceversa? Chi può dire che la stessa classe dirigente scialacquona e inefficiente non lo sarebbe comunque in una prospettiva di riappropriazione centralistica delle competenze?

Le classi dirigenti sarde, in questo triste quadro, sono chiamate a una consapevolezza maggiore. Si rafforza il sentimento sovranista o indipendentista del ceto politico, ma anche lo sbandamento della popolazione in tempi di crisi.  I movimenti sardistico-indipendentisti però non riescono ancora a trovare una dimensione culturale-concettuale di governo.  Essi preferiscono il ribellismo no global e new age, più facile da proporre a livello comunicativo (snobbano le lingue minoritarie e adorano usare l’inglese esattamente come tutti gli italiani!). Vanno sul terreno dei grillismi vari.

La Sardegna però non è una mera espressione geografica, né un’appendice dello Stato italiano: è una realtà etnolinguistica di consolidata memoria e tradizione storico-sociale, ovvero una nazione senza stato. Riusciranno, riusciremo, le classi dirigenti sarde a unirsi e a esplicitare a livello istituzionale questa realtà di divenire storico? Questa narrazione tradizionale ma allo stesso tempo innovativa? Sarà il problema dei prossimi anni, sperando che la logica tatticista della divisione tra destra e sinistra non prevalga fino ad annullare l’interesse e l’identità locale.

Per il momento sembra che, la cultura benpensante politico-editoriale italiana, non solo non voglia, ma proprio non riesca ad accettare la sola idea che questa eventualità possa essere reale e concreta. Le differenze nazionali, all’interno dei confini dello Stato, semplicemente non e.si.sto.no (?!).

L’Italia è una, la Sardegna è zero.

L’unica soluzione è portare il conflitto a livello internazionale davanti al Consiglio d’Europa e all’Onu. L’Italia sta ridiventando un cortile chiuso, asfittico, arretrato e pericoloso per la convivenza pacifica dei popoli che la compongono. L’Europa è avvisata. E anche noi.

 

Giuseppe Corongiu

 

le posizioni di Abravanel rintracciabili su Internet

http://video.corriere.it/errore-federalismo/ef4bbf42-0ca0-11e2-a61b-cf706c012f27

http://meritocrazia.corriere.it/2012/10/07/la-fine-del-federalismo/

 

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