Sardegna: questioni di sovranità e forme istituzionali, di Gianfranco Pintore

Il saggio è stato pubblicato nel libro “L’ora dei Sardi”, ediz. Fondazione Sardinia, Cagliari, 1999, pag. 53 ss.

Gianfranco Pintore, giornalista e scrittore, si occupa da tempo dei temi della politica e della cultura in Sardegna. Ha scritto per L’Unità, Mondo Nuovo, I’Espresso. Tempo Illustrato, La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda. Ha fondato il mensile bilingue Sa Sardigna, la radio libera Radio Supramonte ed ha diretto il periodico sardista Il Solco. Ha pubblicato i saggi:  Sardegna regione o colonia, Mazzotta, Milano, 1974; Sardigna ruja, Edizioni della Nave, Milano, 1981; Manzela, Castello, Cagliari, 1985; Sardegna sconosciuta, Rizzoli, Milano, 1986 e 2002; Su Zogu, Papiros, Nùgoro, 1988; La sovrana e la cameriera, Insula, Nuoro, 1996; La caccia, Zonza editori, Cagliari, 2000; Nurai, Papiros, Nùgoro, 2002; Morte de unu presidente, Condaghes, Cagliari, 2007; Sa losa de Osana, Condaghes, Cagliari, 2009 tradotto in italiano col titolo La stele di Osana, Condaghes, Cagliari, 2009

In pochi, a me sembra, hanno colto fino in fondo il senso di quanto è successo durante la Pasqua 1999 in Ulster con gli accordi di Belfast. L’Irianda del Nord non è più rivendicata come regione propria né da Dublino né da Londra. Non è dichiarata indipendente e forse non lo sarà mai, alme­no nel senso che alla parola viene comunemente dato. E’ stata però messa nelle condizioni di essere sovrana. Non dico che questo sia oggi; dico che, in mezzo a molte contraddizioni presenti e future, sono state create le con­dizioni perché ciò avvenga.

A me pare che la questione dell’indipendenza dell’Ulster e della sua unione con la repubblica d’Irlanda (progetto del Sinn Fein, dell’Ira e della stessa costituzione irlandese) sia stata superata in direzione della sovra­nità. Su una linea analoga si sono recentemente posti sia Herri Batasuna e Eta, sia i nazionalisti e i comunisti baschi. E anche parte del movimen­to nazionalista corso considera storicamente superata la questione dell’in­dipendenza a favore della sovranità. Gran parte dei soggetti citati non getta affatto alle ortiche l’indipendenza che, ovviamente, resta ciò che è: / diritto inalienabile di un popolo, garantito da trattati, patti e accordi internazionali, che può essere esercitato o non può esserlo a seconda, . appunto, delle convenienze storiche. E che, soprattutto, quasi mai è rico­nosciuro ai popoli dagli stati unitari, persino da quelli che si dichiarano esplicitamente plurinazionali. Le tragiche vicende di questi mesi nel Kosovo stanno a dimostrarlo.

La sovranità è – se così si può dire – il massimo oggi ottenibile pacificamente in quanto a poteri autonomi. È, allo stesso tempo, una precon­dizione a un qualsiasi foedus e non, come sembrano credere i più, una conseguenza di esso. Questo sembravano aver capito quegli uomini poli­tici, Paolo Maninchedda in primis, che proposero e ottennero dal presi­dente Palomba l’ingresso nel programma di governo della “dichiarazione anche unilaterale di sovranità”. Io non so francamente se ci fosse genera.le consapevolezza del senso e delle implicanze di una tale dichiarazione, anche se sono portato ad escluderlo. Più recentemente e intorno ad altra questione, quella del Parco del Gennargentu, la totalità del mondo politico sardo ha invocato la autodeterminazione, correttamente intendendo che il soggetto titolare di tale diritto dovesse potere esercitare la sovranità sul proprio territorio. La cosa singolare è che, per questa autoctona scuo­la di pensiero, l’autodeterminazione può essere esercitata singolarmente dagli orgolesi e dai talanesi in quanto tali non in quanto sardi, in quanto segmento di un popolo e non in quanto popolo. Il che mostra, se non altro, almeno che c’è scarsa conoscenza dei concetti usati.

Che oggi si possa sperare in una dichiarazione di sovranità della Sardegna è assai dubbio. Ma, un anno prima delle elezioni regionali, è forse possibile mettere sul tappeto un progetto di acquisizione di elemen­ti di sovranità che aprano il cammino, nella maniera più lineare possibile, al pieno esercizio dei diritti collettivi del popolo sardo. Si tratta di ele­menti oggi non pienamente compatibili con l’attuale Costituzione repub­blicana ma non affatto incompatibili con il diritto internazionale cui dice di rispondere il sistema politico della Repubblica italiana. È evidente però che lo Stato, obbligato a ciò dal fatto stesso che i suoi governi hanno sot­toscritto patti e trattati internazionali, si dovrà spogliare degli atteggia­menti e delle politiche di accentramento e di sopraffazione assumendo, invece, come pratica costante il rispetto dei popoli conviventi.

In questa dimensione, anche uno statuto di autonomia nazionale può contenere elementi forti di sovranità, a cominciare dalla titolarità di tutte le competenze e di tutti i poteri salvo quelli che la Sardegna delegherà verso l’alto attraverso un processo di intesa che è indipendente dalla strut­tura interna dell’ entità altra. In poche parole, lo stato italiano potrebbe essere internamente organizzato per autonomie regionali o per federali­smo regionale o fiscale (o per quant’altro) ma un rapporto tra Sardegna e Italia dovrà essere un rapporto a due; un rapporto tra tanti all’interno di una cornice precostituita sarebbe solo un gattopardismo, non risolvereb­be alcuna questione sostanziale e semplicemente la sposterebbe nel tempo, aggravando e incattivendo i rapporti.

Il secondo elemento di sovranità è la titolarità piena del parlamento sardo a riformare lo statuto autonomamente e senza incursioni esterne, sia pure nel rispetto dei meccanismi più adeguati a garantirne il carattere di patto tra sardi e di contratto costituzionale con terzi. Si possono, dunque, prevedere doppia lettura della legge di revisione, maggioranze ampie, ricorso a referendum popolare di conferma. Al governo federale potrebbe rimanere il potere di ricorso a una sezione speciale della Corte costituzio­nale. Una sezione che sia formata in maniera paritetica da tanti giudici nominati dal parlamento sardo e da altrettanti nominati da quello italia­no e che potrebbe essere presieduta a turno. O potrebbe anche avere come presidente un giudice scelto di comune accordo fra giudici di una corte europea, quella di giustizia, ad esempio.

Il terzo elemento è quello del diritto della Sardegna a vedersi restituire quanto durante la comune vicenda con il Piemonte prima e l’Italia suc­cessivamente, all’Isola è stato sottratto, dalla distruzione delle foreste all’u­tilizzo delle terre per servitù e basi militari, dalla emigrazione di centinaia di sardi alle azioni concrete per sottosviluppate l’economia isolana.

Il quarto elemento è il riconoscimento esplicito della nazione sarda e dei suoi diritti, compreso quello di partecipare soggettivamente – dopo un’adeguata contrattazione – al processo di unificazione europea e di esse­re rappresentata nelle istituzioni.

Quale che sia l’articolazione dello statuto, la non previsione di questi elementi inevitabilmente tradurrebbe la riforma statutaria in una opera­zione di mero abbellimento se non, addirittura, di drammatizzazione del conflitto tra Sardegna e stato italiano.

Quanto alle competenze delegate a uno stato federale, esse potranno essere quelle classiche previste dalle organizzazioni federali (moneta, eser­cito, rapporti internazionali, giustizia) o diverse da queste. Non è detto, per esempio, che la Sardegna non possa avere un proprio ordinamento giudiziario e la facoltà di adeguare il complesso dei delitti e delle pene al senso di giustizia propria del popolo sardo. Altrettanto non è detto che la Sardegna non possa delegare competenze diverse dalle classiche, come – è sempre un esempio – la tutela dell’ ambiente, una sfera che ha sempre più la necessità di grandi ambiti di intervento, pur nella indipendenza delle scelte concrete e della gestione.

Resta il fatto che il principio fondamentale è e deve essere che i poteri sono della nazione sarda e che, per ragioni di reciproca convenienza, è essa che ne delega una parte, d’intesa con l’interlocutore o con gli interlocu­tori nel caso dell’Unione europea.

La nuova Carta della nazione sarda, in sintesi, definito i contenuti dei diritti dell’uomo (in pratica quelli esposti e trattati nella parte prima della Costituzione italiana, che sono, del resto, principi universalmente ricono­sciuti) e garantitene anche in Sardegna la difesa e la tutela, dovrebbe pre­vedere la possibilità per i sardi di autodeterminarsi, di giudicare autono­mamente e in libertà sul patto istituzionale stretto da terzi, di misurare i cambiamenti intervenuti nelle reciproche convenienze e la conseguente possibilità di rinnovare, rescindere il patto o stringerne altri con altre entità di tipo statuale,

La nuova Carta sarda dovrebbe prevedere un processo di cessione di sovranità in due direzioni opposte: in direzione dell’alto (verso, cioè, le strutture dell’unione) e verso il basso (verso le comunità locali, storicamen­te preesistenti a qualsiasi organizzazione più complessa). La quantità di sovranità ceduta verso l’alto dipende, evidentemente, dal tipo di unione e quindi di patto che si voglia costruire. Una unione federale richiede una più alta cessione di sovranità di quanto non lo richieda una alleanza confe­derale o un modello di aggregazione qual è quello della Comunità di stati indipendenti formatasi l’indomani della disgregazione dell’Unione sovieti­ca. Non esiste, insomma, una formula buona per tutte le situazioni.

Dobbiamo fin da ora prevedere quali e quanti elementi di sovranità la nazione sarda può cedere verso l’alto, conservando e anzi esaltando la sua identità/diversità, senza per questo, dunque, annegare in una più alta omologazione.

La moneta come divisa di sovranità ha fatto il suo tempo, soprattutto a un paio d’anni dalla piena entrata in vigore dell’Euro. Analogo ragiona­mento può essere fatto riguardo alla difesa nazionale, anche se qui le cose vengono complicate dalla presenza ossessiva in Sardegna di basi e servitù militari. Mentre le seconde andranno drasticamente riviste e fatte coinci­dere con la sola permanenza concordata e onerosa delle basi alleate (one­rosa per chi ne dispone, va da sé), queste non potranno verosimilmente essere smantellate se non in presenza di disarmo internazionale. La costi­tuzione di un esercito sardo, soprattutto se in presenza di processi di for­mazione di un esercito europeo, è una questione probabilmente mal posta e che comunque andrà risolta all’interno di un discorso di garanzie euro­pee sulla integrità territoriale delle entità federate e di mutua difesa. In sé e per sé, insomma, neppure la creazione di un esercito autonomo è segna­le irrinunciabile di sovranità. Possono, semmai, essere studiate forme di costituzione in Sardegna di unità sarde poste SOttO il comando, per quan­to riguarda l’attività nell’Isola, del presidente della Sardegna o, comunque, di una autorità sarda.

Irrinunciabile è, invece, la costituzione di strumenti per la ammini­strazione autonoma della giustizia, anche se l’Unione europea, sulla scor­ta dell’ esperienza statunitense, dovesse arrivare a definire un serie di “reati federali”, di reati, cioè, che compromettono il “sistema Europa” che, in quanto tali, vanno repressi ovunque secondo norme uguali anche se non sanzionati m maniera forzatamente uguale. La sovranità riguarda quei reati rispetto ai quali esistono sensibilità diverse in Sardegna (dove il sistema produttivo agro pastorale è fondamentale ed è l’ epicentro della nostra civiltà) o nella Mitteleuropa, dove tale sistema non esiste.

Parimenti in influenti ai fini della sovranità sostanziale – sempre nel­l’ambito, va da sé, di una unione europea – possono diventare i rapporti internazionali nella loro accezione diplomatica, purché siano assicurati soggettività internazionale e diritti a esercitarla. La difesa degli interessi della Sardegna all’ estero, estremamente gravosi se affidati a rappresentan­ze diplomatiche autonome, può agevolmente essere attuata attraverso uffici sardi autonomi nelle rappresentanze europee fuori del continente e italiane nell’Europa non comunitaria. Irrinunciabile è, invece, la piena soggettività internazionale della Sardegna nei commerci e negli organismi internazionali.

D’altra parte va considerato che in meno di dieci anni, dall’89 a oggi, gli stati membri degli organismi. Internazionali sono aumentati di .alcune decine senza che nascessero particolari complicazioni insuperabili com­plessità, il tutto limitandosi a problemi logistici o di gestione. Il riconosci­mento internazionale della Sardegna non creerebbe certo questioni diverse.

Problema più complesso è quello rappresentato dalle classi dirigenti dei popoli annessi, delle nazioni senza stato, insomma. Di regola, queste classi hanno interesse a conservare i rapporti esistentì e, m ogni caso, a scoraggiare la presa di coscienza di sé dei popoli che governano. La pole­mica anti-indipendentista sviluppatasi in Sardegna è assolutamente esem­plare di un simile atteggiamento. Quasi mai questa polemica muove da apprezzamenti oggettivi dal punto di vista storico, culturale, economico o da considerazioni di diritto. Si va dalla criminalizzazione dell’ipotesi (per quanto democraticamente e pacificamente perseguita) alla sua banalizza­zione; dalla minaccia di disastri immediatamente conseguenti alla con­quista della sovranità alla previsione di scontri etnici; lo spettro della Iugoslavia è sempre agitato e quasi sempre a sproposito, nella finzione che responsabile dei massacri sia la volontà di creare un nuovo stato e non, come invece è, la violenza dei ceti dominanti lo stato unitario.

Anche di qui la necessità, direi l’urgenza, di selezionare una classe diri­gente veramente nazionale, autonoma e spiritualmente indipendente. Senza di che, temo, non di conquista di sovranità si dovrà parlare, ma di lotta per il mantenimento dell’ attuale autonomia.

Condividi su:

    Comments are closed.