La donna sarda, non è mai in minoranza! di Michela Deriu

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria Michela Deriu (nella  FOTO, con accanto due statuette di dea madre neolitica) laureata in lettere moderne, funzionario del Ministero delle Finanze, giornalista pubblicista, ha collaborato con settimanali e quotidiani, ha realizzato e condotto programmi radiofonici e televisivi.

Il brano “La donna sarda “ di Giuseppe Dessì ebbi l’opportunità di leggerlo negli anni ’90 o giù di lì, in RAI, grazie all’amico Fernando Pilia.

In quel periodo lavoravamo insieme per la produzione un programma che si chiamava” Marchio di qualità “, il meglio della sardità.


 

Il brano “La donna sarda “ di Giuseppe Dessì ebbi l’opportunità di leggerlo negli anni ’90 o giù di lì, in RAI, grazie all’amico Fernando Pilia.

In quel periodo lavoravamo insieme per la produzione un programma che si chiamava” Marchio di qualità “, il meglio della sardità.

Mi colpì moltissimo la posizione estrema di Dessì che mi sembrò, in quel momento, esagerata nell’enfasi, ma realistico nei contenuti. L’unica organizzazione che funziona in Sardegna è la famiglia e questo grazie alla donna. Dire il contrario non risponde a verità.

A distanza di tempo penso che per Dessi, come per Satta, e la Deledda e tanti nostri conterranei che hanno vissuto fuori dall’isola, la Sardegna diventi il luogo irrisolto del loro senso di colpa. Sta stretta l’isola a chi ha giuste ambizioni e larghi orizzonti, ma chissà perché, varcato il Tirreno, il mondo gretto e provinciale dal quale sono scappati continua a perseguitarli nel sogno senza sonno della nostalgia.

La Sardegna tradita diventa lo sfondo onirico dell’immaginario e del mito.

Penso che anche la donna descritta da Dessì assurga ad un ruolo quasi sacrale grazie all’immaginario di chi scrive.

Forse è un po’ esagerato riconoscere la divinità a donne che tessono splendidi tappeti e confezionano ottimi dolci ; ma se non dea, di una cosa sono certa: da donna, e da donna sarda, ho sempre avuto dentro di me la certezza di avere una marcia in più.

In questo bellissimo forum, di cui ringrazio la Fondazione Sardinia, molti tra i tanti che hanno dato il loro contributo hanno attinto dal loro personale “romanzo familiare”. Scrivere la nostra sardità significa scrivere il nostro modulo comportamentale in relazione alla nostra specificità. Inevitabilmente il primo modello che ci viene passato è quello della famiglia. Lo schema poi lo possiamo accogliere, rifiutare, o modificare, ma il sigillo familiare resta.

Nello scorrere le bellissime righe di Placido Cherchi, e il suo ricordo del padre, mi son trovata a rileggere la mia infanzia . Anche mio padre, nato in quel di Burgos nel Goceano, lavorava per una società straniera.

Mio padre che, grazie all’ostinazione di mia nonna, non aveva fatto il pastore ma aveva studiato, avrebbe dovuto far parte della classe dirigente. In realtà tutti gli impiegati sardi erano posti in una sorta di limbo, che li differenziava dalla classe operaia ma, per ovvi motivi di controllo, li escludeva dalla vera dirigenza. I sardi erano sempre interdetti dalle posizioni chiavi che delineavano le strategie aziendali e operavano le scelte. La nostra storia si ripete in scenari diversi, ma con dinamiche identiche, in tutti i settori e, purtroppo, in tutti I tempi. Ma non voglio parlare di questa classe che non si evolve e non diventa padrona, questa è un’angoscia che mi porto dentro ma lascio ad altri la soluzione,

Qui voglio parlare di quel che per me era lo straniero. Ora, mio padre, incatenato in questa sorta di limbo, aveva trovato il suo personale modo di sopravvivere : tra parlate liguri, venete e romagnole, lui borbottava in sardo tutto il suo disprezzo. In realtà questi capi e capetti, o che “mandavano in Sardegna”, spesso, non erano il meglio della professionalità, e la loro incompetenza era vissuta da mio padre in due modi: la prima era un’intima cocente soddisfazione, che sfociava poi nel più violento e totale disprezzo. Perché si arrabbiasse tanto non lo capivo, in realtà era patologicamente collerico e sardista convinto. Io avevo dentro di me stabilito che questi signori che parlavano un italiano approssimativo e sgrammaticato non fossero né peggio né meglio di noi, erano solo diversi e solo un po’ più alti …un po’ più grossi. Anche con i loro figli non avevamo molto da spartire.

Questo modo di pormi mi sembrava neutro, ma era solo la distanza che manteneva il controllo, il forestiero non mi toccava perché era fuori della mia sfera di vita . Tanti anni dopo, infatti, una sera d’estate, nel sontuoso Hotel dei Principi del Forte Village, una   grassona romana, malvestitissima, mi chiese “come ci si trova ed essere in minoranza?” A dire il vero non afferrai subito il concetto e chiesi spiegazioni.  “ Come? sei l’unica sarda!”. La guardai attentamente e vidi le altre signore. Erano tutte più o meno allo stesso livello di squallore, dovevano essere più o meno una decina. Quindi,  con un sorriso, retaggio della diplomazia materna,  e con sorda perfidia di sicura derivazione paterna, esclamai “Maria Laura , io non sono mai in minoranza”. Era un pranzo di lavoro e, diciamo, quella battuta non giovò granché alla mia carriera . Ma tutto ha un prezzo e lo rifarei; forse….

Lo dissi in segno di rivalsa e non era per dire. Quando ebbi a che far per mie vicissitudini con una struttura familiare di stampo strettamente meridionale- patriarcale ebbi  la certezza  che la mia essenza era costruita in modo tale da non temere sfide. Le donne che  mi avevano tramandato il  loro bagaglio genetico mi avevano  regalato una struttura  forte, consapevole e autonoma. La capacità di gestire la realtà non si era formata in una sola vita, era tutta la memoria storica delle donne della mia stirpe che viveva in me.

A questo punto non potevo che concordare con Dessì e il suo concetto di Penelope.

Ma …. ero giovane… Oggi, dopo un’attenta valutazione, penso che, sia il disprezzo che il senso di inferiorità, siano il diverso volto della stessa medaglia: la paura dello straniero.

Il cieco servilismo, come l’onnipotenza narcisistica, sono i sintomi di una mancata comunicazione, di un corretto confronto che sfocia nell’autismo.

Non cresci e non apprendi  se pensi di non essere adeguato per il mondo e tanto meno cresci  se  pensi che il mondo ti sia inadeguato.

Per questo bisogna essere realisti e Dessì, infatti, non parla di matriarcato ma definisce il ruolo della donna come matriarcato clandestino.

La lingua italiana è altamente polisemica per cui è meglio intendersi sui termini.

Per società matriarcale si intende una modalità di governo nella quale il potere politico-economico, nell’ambito di una data comunita, è demandato alle   donne.

Una struttura sociale si dice  matricentrica, là  dove la donna non domina sull’uomo ma esercita un’ampia influenza, sociale e psichica.

Si può certamente affermare che il ruolo della donna in Sardegna è abbastanza importante,  tanto da essere matricentrico ma non abbastanza da considerarsi matriarcale . I ruoli sociali all’esterno  dell’ambito familiare non appartengono per tradizione alla donna. Che la donna sarda abbia una forte ingerenza all’interno delle dinamiche familiare è indiscusso, è il suo “ matriarcato clandestino”.

La Donna sarda di Dessì non può che lusingarci e rafforzare il non scarso senso di noi, ma c’è una contraddizione in termini quando arriviamo allo svilimento di Ulisse.

Benché il nostre illustre conterraneo fosse laureato in lettere penso che qualcuno l’abbia informato che i bimbi non nascono sotto i cavoli e che gli esseri umani non si moltiplicano per scissione. Quindi le donne non riproducono altre donne e gli uomini non riproducono altri uomini.

Le povere donne di eroi, deluse dopo avere ,ovviamente , seguito per filo e per segno il processo indicato nel manuale scritto dai Signori Adamo ed Eva, e dopo essersi accoppiate  con tanti Ulisse di serie B o serie C ( scegliete voi), a loro volto ne hanno partorito degli altri .

Ora, io dico, premesso che  nel regno animale la riproduzione è fondamentale e dà valore alle specie, le donne straordinarie che non riproducono maschi straordinari, cessano di essere straordinarie?

O continuano ad essere straordinarie solo per la parte femminile della progenie?

Non attendo risposte ma sarebbe bello se tutti, noi madri comprese, ci specchiassimo in un largo e chiaro realismo.

Bertrand Russel:

“La nostra natura è infinitamente malleabile, ed è di questo che non ci si rende conto. Se paragoniamo un cane domestico ad un lupo selvaggio, si capisce che cosa possa fare l’educazione. Il cane domestico è una cara creatura, piacevole, ogni tanto abbaia e può anche mordere il postino, ma nel complesso è una brava bestia; mentre il lupo è tutt’altra cosa. Gli esseri umani, a seconda di come sono trattati , diventano totalmente diversi e considerano molto sciocca l’idea di poter cambiare la natura umana”.

Avere la coscienza che nella storia siamo stati penalizzati mi sembra un doveroso inizio, la speranza è la forza che ci  serve per crescere,  e il tempo, … il tempo ce lo dobbiamo dare per colmare il buio dei secoli.

In questo percorso non ci aiuterà , né il servilismo né il disprezzo, non ci servirà né piangerci addosso  né rifugiarci nel mito.

Siamo forti ma non siamo dee e soprattutto non dobbiamo allevare eroi . Eroi ne abbiamo regalato anche troppi all’Italia in tutte le guerre e  oggi altri giovani eroi tornano nell’isola dentro un lugubre sarcofago dalle cosiddette missioni di pace. Per essere donne straordinarie abbiamo due chances: uscire dalla clandestinità e impegnarci  ad allevare uomini e donne che costruiscano un Sardegna migliore.


 

Condividi su:

    Comments are closed.