Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna, di Duilio Caocci

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”.  Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.


All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia1, ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.

Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla  promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

 

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

 

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

 

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

 

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

 

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

 

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:

 

Il modo più economico che ci possa essere per impegnare i soldi è di impiegarli nelle scuole, per l’istruzione; bisogna formare uomini, che non sono oggi avvezzi al mondo moderno. Se vogliamo avere un’economia moderna, dobbiamo avere uomini moderni, educati modernamente.

 

La citazione aveva il vantaggio di mettere insieme una serie di questioni che, diversamente combinate e diversamente intese, avrebbero costituito punti di riferimento irrinunciabili dell’azione culturale e letteraria di Antonio Cossu: i giovani, l’economia, la modernità, l’istruzione, la formazione, l’educazione. Tra i saggi del fascicolo – nella prospettiva che abbiamo assunto per ricostruire il percorso della rivista – pare notevole quello di Diego Are, il quale propone un ripensamento della funzione della scuola. Secondo Are, infatti, se la scuola è uno degli istituti che concorrono alla formazione della persona, è indispensabile che si faccia carico di trasmettere agli studenti la consapevolezza dei diritti e dei doveri di ciascuno e che l’assetto delle discipline – questo è un grande nodo personalista – rifletta le specifiche vocazioni del territorio in cui essa si innesta. Si tratta, a quell’altezza cronologica, di una concezione fortemente innovativa del sistema dell’istruzione, secondo cui la scuola deve seguire in parte un progetto omogeneo su tutto il territorio dello Stato e, per l’altra parte, deve avere l’autonoma capacità di declinare le conoscenze e le competenze su base locale. Perciò, in ragione della missione che la scuola immaginata da Are compie nel territorio, è indispensabile che essa collabori con la famiglia al fine di istruire e formare i giovani e, in quel clima di analfabetismo endemico, gli adulti.

Non è necessario sottolineare quanto questa idea di autonomia scolastica rifletta lo schema di organizzazione federale dello Stato e dell’intera Europa, con un progetto di società capace di conciliare le istanze centrifughe delle periferie e quelle centripete delle istituzioni che hanno il compito di governare l’intera articolazione statale.

 

 

La rivista «Il Montiferru», soprattutto nei primi numeri, riserva una certa attenzione alla letteratura. E poiché Cossu condivideva con i suoi sodali l’idea secondo la quale la letteratura e l’arte svolgono un ruolo importante nella formazione dell’immaginario e delle coscienze, i vari segmenti letterari chiamati in causa concorrono alla riflessione sulle condizioni dei sardi e, nello specifico, ad affrontare i grandi nodi che stavano a cuore allo scrittore.

Nel primo numero appaiono infatti due versi di Matteo Madao in epigrafe all’editoriale Oltre il campanile firmato dal direttore di Antonio Cossu: Eo no isco cun cale dulzura / mi ritirat sa terra ue so nadu. La citazione di una poesia che parla in lingua sarda del naturale attaccamento al proprio paese e l’evocazione di uno scrittore sardo che negli anni Ottanta del Settecento aveva pubblicato due opere fondamentali, una sulla lingua (Saggio d’un’opera intitolata il ripulimento della lingua sarda, 1782) e l’altra sulla poesia sarda (Le Armonie de’ sardi opera dell’abate Matteo Madau, 1787) rafforzano gli obiettivi dello stesso editoriale. Ma ai lettori più attenti alla recente pubblicistica sulla Sardegna, quella citazione dice qualcosa di più ed evoca uno scritto recensito da Cossu poche pagine più avanti, Miele Amaro (Vallecchi, Firenze 1954) di Salvatore Cambosu, precisamente uno dei capitoli di quel testo composito, costruito come un collage di saggi e racconti che mescolano – come quelli di Cossu – storia e antropologia, verità e finzione. La coppia di versi di Madao era già l’epigrafe del Trenino se ne va, il capitolo con cui si chiude Miele amaro e dove si raccontano gli ultimi anni della vita di Giacomo Quesada, le sue laicissime considerazioni intorno alla incipiente modernità: il trenino che sessant’anni prima rappresentava, sul piano pratico come sul piano simbolico, una rivoluzione, oggi si aggira per le sue minuscole stazioni «già ridotto dalle autocorriere a un superfluo e inutile balocco». Quel mezzo di comunicazione che a suo tempo «don Sulis, zanelliano e anticarducciano» aveva definito «opera del demonio» proprio per l’impatto sconvolgente che avrebbe avuto sulle abitudini delle persone, oggi viene sostituito da strumenti ancora più efficaci. Giacomo sa che il progresso è inarrestabile e perciò non vi si oppone. E sa anche che «non si fa niente di male a volgersi indietro di tanto in tanto, per rimpiangere sia pure un trenino che già era grande in un’infanzia che è ora lontana quanto la luna». Perciò, considerato che il progresso è un vento inarrestabile che ha effetti positivi sulla qualità della vita delle persone, questo personaggio sospeso tra memoria e desiderio, si consola e si rassegna contemplando le cose «che hanno secoli e secoli, nate col segno dell’eterno» – il paesaggio, insomma, quel dato in relazione al quale le generazioni costruiscono e definiscono la propria identità:

I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle capre sull’argilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia d’ogni partenza d’ottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; l’eco di Morosini, che ripete il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le foreste di Santa Barbara, santuario arboreo…

Il progresso in un contesto agro-pastorale e la valenza identitaria del paesaggio sono anche il rovello di Pietro Paolo, il protagonista dei Figli di Pietro Paolo, il primo romanzo di Cossu che, tra gli ultimi mesi del 1959 e i primi del 1960 era in fase avanzata di progettazione. Tra Pietro Paolo e i suoi figli si registra un conflitto intorno alla possibilità di progettare un futuro lavorativo diverso, un diverso rapporto con l’ambiente in cui ci si trova. Da una parte sta il mondo del protagonista, un laudator temporis acti al cui punto di vista è affidata larga parte del romanzo; dall’altra stanno i figli che, come tutti i giovani di quella comunità-tipo, subiscono maggiormente la promessa di svecchiamento che viene dai dibattiti autonomistici del dopoguerra e scalpitano verso una modernità che hanno la responsabilità di favorire e costruire. Lo scrittore esordiente10 riesce a rappresentare la complessità di quel mondo villico ora con il piglio del sociologo che conosce le frizioni che caratterizzano il passaggio di consegne dai padri ai figli, ora con il piglio del narratore che ha appreso l’arte del racconto in modo naturale, nel suo ambiente lussurgese.

Un documento del 1960 aiuta a comprendere meglio che idea di letteratura avesse maturato Antonio Cossu negli anni della sua formazione e intendesse conciliare la sua inclinazione documentaria e sociologica con la vocazione di narratore. Si tratta di una sua lettera pubblicata sulla rivista «Ichnusa» (n° 38-39, pp. 13-14), in un fascicolo intitolato La giovane narrativa sarda con brani tratti dalle opere dello stesso Cossu, assieme a Giulio Cossu, Giuseppe Fiori, Michelangelo Pira, Mariangela Satta.

Caro Brigaglia,

eccoti un lungo brano iniziale de I figli di Pietro Paolo. Non chiedermi altro, in particolare «dichiarazioni sul posto del narratore nella realtà isolana» ecc. Io racconto, ogni tanto, qualche vicenda, quando ne ho voglia e quando ritengo di aver trovato l’argomento adatto. Non sono un critico né un saggista. Certi problemi perciò esulano dai miei interessi. Se riuscirò a dimostrare di essere un narratore con le carte in regola (e tutto ciò mi interessa moltissimo), ci penserà qualche altro, se ne avrà voglia si capisce, a cercarmi un posto nella realtà isolana; e se un posto non me lo trova, pazienza. Nella realtà isolana, come uomo – ed è già qualcosa – credo di esserci. Come narratore…11

La professione di modestia dello scrittore che dichiara di non avere competenze critiche, né doti di saggista e si affida a lettori competenti e capaci di misurare il suo valore letterario si interrompe in coincidenza con l’orgogliosa affermazione di essere egli stesso un uomo immerso nella realtà isolana. A fronte dell’incertezza esibita circa le proprie qualità di romanziere, questa certezza, rivendicata senza arroganza, ci informa dell’importanza che Cossu attribuiva alle motivazioni etiche rispetto a quelle estetiche e quanto fosse decisivo il rapporto tra la letteratura e la vita, tra ciò che è ‘letterario’ e ciò che è extra-letterario. Essere nella realtà isolana come uomo, dunque, «è già qualcosa», nella misura in cui l’uomo è una ‘persona’. La comunità con i suoi vizi e le sue virtù è infatti il punto di partenza e il punto di arrivo dell’impegno letterario:

Io scrivo di contadini, di vaccari, di pastori, di borghesi paesani, della gente che vediamo ogni giorno, di vacche, di cavalli … (p. 13)

La materia del narrare viene dalle evidenze della vita reale e il racconto assume la responsabilità di dare voce alla gente che vediamo ogni giorno: ai vaccari come ai borghesi, non tanto nella loro appartenenza di classe, quanto nella loro identità di ‘persone’. Lo scrittore, con la sua formazione culturale e ideologica, appare davvero come un uomo immerso nella realtà e nel suo impegno nel brano finale della stessa lettera:

Ho cercato di capire e di individuare alcuni momenti della vita dei nostri paesi e della gente che ci vive, in una dimensione non folcloristica o sardesca, bensì in una dimensione più ampia: la vita con tutto il resto, della gente che vive nei paesi, in campagna, nei nostri paesi – forse non solo nei nostri ma anche altrove. Perché ho scelto un paese, personaggi dei paesi? Le risposte e le spiegazioni possono essere diverse; una è questa: «Un paese vuol dire non essere solo» (v. Cesare Pavese, la pagina cercala da te). In questo modo, assieme ad altre cosette, si può capire l’impegno mio e dei miei amici, anche in campo extra letterario …

Così si spiegano e si legittimano le principali caratteristiche dei libri dell’autore, cioè quella particolarissima alternanza di racconto e saggio e l’altrettanto notevole creazione di narratori capaci di osservare la complessità del reale, in modo lucido ed emotivamente partecipato.

Il Riscatto12 presenta non a caso una vicenda che coinvolse realmente e intensamente l’autore nell’autunno del 1968, quando un suo cugino, Matteo Onni, fu rapito e Antonio Cossu partecipò con Bachis, fratello dell’ostaggio, alle trattative con i sequestratori, fino alla liberazione.

In quest’opera difficile da incasellare in un genere definito13, ma organizzata secondo l’andamento e la forma del diario e del resoconto giornalistico, il narratore, che in quel periodo stava compilando «una relazione sulle zone interne dell’Isola a prevalente economia pastorale in vista di un piano di sviluppo» fa probabilmente lo stesso mestiere dell’autore, allora impegnato come funzionario del Centro di programmazione regionale, e ne condivide le opinioni. E poiché sia il narratore che il suo compagno di viaggio, il quale «frequentava in Alta Italia un corso di aggiornamento su problemi sociali», sono assai colti e portatori di competenze specifiche, gli inserti teorici assumono un portato quantitativo e qualitativo notevole.

 

Ricordo le tesi di un amico economista e di un comitato di esperti in politica di sviluppo: sostenevano che la gente dovesse abbandonare questi luoghi di montagna, la montagna dicevano, e scendere in pianura, ridurre il carico degli ovini in funzione della attività foraggere, dedicarsi ad attività diverse da quelle pastorali. A quali, se non esistevano? Se c’è stato, in certe zone, un trasferimento dall’attività agricola a quella pastorale? Ricordo lo struggimento che me ne veniva al pensiero dell’abbandono di intere comunità con tutto il substrato dei costumi, di modi di vita, di tradizioni, di rapporti umani, familiari e di amicizia. Vedevo morire un piccolo mondo, un microcosmo, e non vedevo nascerne, qui, uno nuovo, più ricco, più elevato socialmente. Pensavo ai problemi, ai traumi che avrebbe portato con sé lo sradicamento e l’inserimento della popolazione in altre comunità […]. (p. 40)

 

Si assiste qui a un’argomentazione tecnica che parte dalle tesi di economisti, di esperti in politica di sviluppo e a una confutazione costituita da due secche interrogative. Non manca la partecipazione emotiva, lo struggimento del narratore, anch’esso scaturito dall’intensa osservazione del territorio, dalla capacità di analisi dei problemi.

In questa lunga diversione dal racconto che si estende su tre pagine, la riflessione e l’osservazione si nutrono dell’esperienza personale dei protagonisti, della loro adesione a un mondo complesso, dello studio.

Noi stessi eravamo figli di contadini, di allevatori di bestiame, di gente legata alla terra per molte generazioni; eppure facevamo altri lavori, vivevamo in comunità diverse da quelle di origine, ci occupavamo dei problemi della gente per un legame affettivo con l’ambiente, per un senso di responsabilità verso chi era rimasto, per un’azione sociale, individuale e di gruppo, di tipo spontaneo. Pensavamo che queste forme di azione sociale, al di fuori degli schemi e degli organismi burocratici o di partito, potessero risultare utili e assolvere a una funzione, soprattutto se sorrette da fantasia creatrice, da spirito pionieristico, da amore per il paese. Pensavamo alle migliaia di giovani che oggi frequentano le scuole e i centri per l’addestramento professionale e che si presentano con vigore sul mercato del lavoro. Il problema vero, purtroppo, è l’assenza di un mercato del lavoro in loco, la scarsità di occasioni di occupazione in attività moderne (pp. 41-42).

 

Le motivazioni dell’impegno intellettuale dei due sono ben ordinate, ora in modo ascendente (prima il legame affettivo, poi il senso di responsabilità) e direzionate a «un’azione sociale, individuale e di gruppo, di tipo spontaneo», ancora secondo la lezione assimilata dall’autore durante la sua esperienza torinese. Il che, ove non bastasse la ripetizione della parola ‘comunità’ e la presenza della saldatura tra ‘individuo’ e ‘gruppo’, si disvela nel diretto riferimento al carismatico industriale:

Una fabbrica in ogni comunità; ricordavo il suggestivo slogan di Adriano Olivetti e la sua idea della Comunità concreta. Ecco, nel territorio che attraversavamo si potevano individuare alcune comunità concrete, segnate dalla natura e dalla storia, già coi loro nomi che ci portavano a antiche suddivisioni amministrative, alla Sardegna dei giudicati, alle curatorie, alle donnicalie: suddivisioni che potevano trovare una dimensione e una funzione moderne, riconsiderate in una società effettivamente democratica. (ibidem)

Già il risvolto di copertina della prima edizione avvisava che il romanzo di Cossu è insieme racconto e saggio14 proprio perché il motivo autobiografico, l’evento nel quale l’autore si trovò a trattare la liberazione del fratello di un suo compare, diventa l’occasione per una ricerca sul campo, per un’osservazione minuziosa del milieu di appartenenza, nella contiguità di autore e narratore portatori di un riscatto: quello di una terra paralizzata e prigioniera della miopia della sua classe politica e di un uomo doppiamente prigioniero.

Ma l’opera nella quale si dispiega nella sua ampiezza la caratura della scrittura di Antonio Cossu è Il sogno svanito.

Il romanzo, iniziato intorno al principio degli anni Sessanta e completato negli ultimi anni di vita, ha una storia redazionale che percorre buona parte dell’esistenza matura dell’autore e risente con ogni evidenza in ogni sua pagina delle esperienze politiche, dell’ideologia che ne ispiroò la scrittura e la vita.

Il contesto del romanzo, quello cronologico e ambientale, appare fin dalle prime pagine:

Ero stato eletto la sera del tre dicembre 1959, con una votazione che le cronache dei giornali e della radio definirono “all’unanimità”. Ebbi i voti dei consiglieri della maggioranza, come era stato concordato, meno il mio, che, a titolo di omaggio, diedi al mio predecessore. E ne fu lusingato. Espresse il suo intimo piacere con un brontolio cupo che forse voleva dire: ci sono anch’io, e lo dimostrerò, non mi avete dimenticato. Da parte mia, oltre che un gesto di correttezza e di lealtà, era un dovere: rappresentava il senso della continuità fra il passato e il presente, fra la vecchia e la nuova amministrazione.

La minoranza votò in bianco, con una dichiarazione che significava attesa, «benevola attesa» annunciò il capogruppo, per l’operato della nuova amministrazione: poteva trasformarsi in seguito, precisò, in voto favorevole o di critica costruttiva. Gli altri tre annuirono. Lo ritenni un gesto di lealtà. Dovevo capirlo da allora, o da prima, che le votazioni plebiscitarie hanno qualcosa di marcio, all’interno, soprattutto se avvengono senza un dibattito aperto, quando uno vota e basta, e i dissensi sono mormorati alle spalle e tu, nell’onda del successo, se così possiamo chiamarlo, interpreti in ogni frase, anche la più sibillina, come un’audace battuta di spirito, e sorridi, e il senso malevolo che può contenere, e di cui ti rendi conto, lo allontani dalla mente il più rapidamente possibile, per mortificare quella che tu ritieni una tua suscettibilità o una permalosità. E sorridi, e anche gli altri sorridono, ciascuno per proprio conto, ciascuno dando al suo sorriso un significato particolare. (Il sogno svanito, Condaghes, Cagliari 2002, pp. 7-8)

Lo sfondo significativo della fine degli anni Cinquanta in Italia e, in particolare nella Sardegna del Piano di Rinascita15, la descrizione dettagliata delle dinamiche politiche con i gesti rituali di cavalleria ora sincera ora pelosa, l’alta volontà del sindaco appena eletto di voler rappresentare tutti, anche i vinti, la dura affermazione sulle votazioni plebiscitarie, l’amarezza delle relazioni insidiose, ma soprattutto lo scollamento del consiglio comunale in un pulviscolo di volontà individuali, ci obbligano a rileggere qualche pagina sul dibattito dell’epoca, anche per via del riferimento alle votazioni plebiscitarie che mette in discussione la ‘mistica maggioritaria’ su cui si basano alcune forme di democrazia. Cossu rilegge evidentemente quell’episodio sulla base di alcuni passaggi specifici del Manifesto al servizio del personalismo di Mounier, il quale sosteneva che l’identificazione dell’idea di democrazia con il governo della maggioranza è un fatale errore poiché si rischia di confonderla con la «supremazia del numero» e, quindi, della forza16; era inoltre sinceramente convinto – sulla base degli assunti comunitari – che ogni parte politica dovesse agire a beneficio dell’intera comunità.

L’origine storica della «rottura dell’amicizia umana» è, secondo il fondatore della rivista «Esprit», il Rinascimento, epoca nella quale «la persona scoprì con stupore le proprie risorse e la propria natura docile e elastica, si scosse di dosso l’armatura arrugginita della burocrazia feudale che soffocava persino lo spirito…». Nello stesso tempo, tuttavia, «prima gli uomini di legge, poi gli uomini d’affari» si adoperarono a costruire una nuova burocrazia, «una nuova oppressione dell’uomo».

Qui sta la «decadenza individualista che pesa su quattro secoli di storia» alla quale reagiscono fascismo e comunismo, «primi sussulti dell’immenso flutto comunitario che comincia a frangersi sull’Europa». La verifica del fallimento della via seguita dalle varie realizzazioni dell’individualismo borghese e capitalista e la follia del collettivismo rende necessaria una nuova «rivoluzione comunitaria», un nuovo Rinascimento che, per essere efficace «deve essere duplice, personalista e comunitario».

Il primo Rinascimento è fallito come rinascimento personalista e ha trascurato il rinascimento comunitario. Contro l’individualismo dobbiamo rifare il primo, ma non vi riusciremo che con l’aiuto del secondo. Cerchiamo di non fallire a nostra volta; altrimenti si faranno tosto avanti i legulei e i borghesi del collettivismo, simili ai legulei e ai borghesi dell’individualismo, e come quelli parassiti di una grande causa e quanto mai pericolosi…

In effetti, Andria, il sindaco protagonista de Il sogno svanito ci viene ritratto in una solitudine surreale, assediato da due ordini di forze: una centrifuga che è ben rappresentata dagli interessi personalissimi dei suoi conterranei, e una centripeta, interpretata dalla sorda burocrazia del Nuovo Stato Sovrano. Entrambe le forze esercitano un’influenza distruttiva rispetto ai sogni e alle aspirazioni del primo cittadino di Balonia e si presentano sin dall’inizio in una fenomenologia piuttosto varia. L’individualismo, nella forma più subdola della battuta o del sorrisetto, fa la sua comparsa immediatamente, proprio nella prima seduta del Consiglio comunale, e poi si modula in forme più complesse, rendendo opaca la comunicazione. Tra i vari esempi di dialoghi in cui si può osservare una forte deriva allusiva e simbolica del linguaggio, possiamo leggere questo tra il sindaco e un muratore:

– Avete un chiodo?

– Mai avuto chiodi – risponde il muratore con energia, temendo chissà quale tranello o riferimento personale.

– Me ne servirebbe uno.

– In paese ce n’è – sta sulla difensiva; e distendendosi: – è pieno di chiodi. A punta. Pungono tutti. Non ci sono che chiodi. Una chioderia o un magazzino. Li usano, per fare male. Ne trovate a ogni passo, vecchi e nuovi, lucidi e arrugginiti. Dovunque – e scrolla la testa.

[…]

– Basta, basta, non ne parliamo. E voi, signor Sindaco, andate in cerca di chiodi. Ne avete la strada piena, davanti a voi. (pp. 126-127)

 

Ma l’egoismo non affligge solo gli individui: è un male di cui soffrono anche i gruppi, quando sono portatori di interessi corporativi che contrastano con il bene comune. Mentre il Sindaco s’affatica a trovare udienza presso la «Capitale dell’Accidia» e conosce il fallimento di ogni sua iniziativa, i gruppi avversari hanno gioco facile ad organizzare il dissenso, sempre in modi invisibili e sempre con la finalità di delegittimare la maggioranza e il primo cittadino. Il sindaco del Sogno svanito è un personaggio, una persona che mette ogni sua energia nel tentativo ingenuo quanto caparbio di servire la sua comunità, e, come spesso accade nelle opere di Cossu, rappresenta il dinamismo, la volontà di cambiamento che contrasta le forze statiche dell’ignoranza e della malafede.

Tale forma di complicità egoista e distruttiva è oggetto di commento anche nella relazione che lo scrittore lussurgese legge al IV Convegno promosso dalla rivista Il Montiferru, soprattutto nella parte in cui nota che nel suo paese si sono costituite finalmente ben tre cooperative di pastori, le quali potrebbero insieme avere una grande forza contrattuale, se solo avessero coscienza del comune interesse, ovvero quello di stabilire il giusto prezzo del latte. Secondo Cossu, «all’individualismo singolo, in questi casi, si è sostituito un individualismo di gruppo» che avvantaggia i commercianti e gli industriali lattiero-caseari17.

Se l’interesse partigiano e personale costituisce un ostacolo all’azione di Andria, generoso primo cittadino, il vero ‘muro di gomma’ è rappresentato dalla rete burocratica intessuta apparentemente come baluardo del diritto delle comunità. Diciamo apparentemente, perché subito ci appare il Palazzo come un totem smisurato e separato dal mondo che dovrebbe amministrare. La Capitale del Nuovo Stato Sovrano, ottenuta l’indipendenza, s’ingigantisce tanto da necessitare di una curiosa ed enigmatica Nuova Guida della Capitale completa di stradario realizzato o in programma18. «Le sedi dei Dicasteri, gli uffici dei Titolari cioè con gli annessi» si trovavano all’interno del Palazzo «isolato» in una piazza. Ma, come è evidente, un solo Palazzo non basta ad accogliere la proliferazione insensata di compiti e ruoli.

Altri uffici di Enti, Istituti, Organismi, Distretti, Dipartimenti, Centri e Sottocentri, Commissioni e Sottocommissioni, Comitati e Sottocomitati, Gruppi di lavoro o di studio e Sottogruppi di lavoro o di studio, Consorzi, Osservatori o semplici distaccamenti degli stessi, quando si ingrossavano per l’assunzione di nuovi funzionari e impiegati e agenti tecnici e nel Palazzo, quindi, non ci stavano più e pareva dovessero scoppiare – con rischi, fra l’altro, per la stabilità dell’edificio e l’incolumità delle persone – erano sistemati nella parte nuova della Capitale… (p. 56)

 

Questa parte ‘nuova’ in cui si colloca l’eccedenza si costruisce secondo una toponomastica anch’essa comica, ispirata al feticismo industrialista. Essendo il riflesso topografico di un ordine di pensieri politici, di un’ideologia, «aveva assunto, fra l’altro, un preciso e specifico significato propedeutico e didattico ed era visitata, si diceva, da gruppi di scolaresche, accompagnati dagli insegnanti, provenienti dall’intero Stato».

 

Il centro della nuova città, il cuore nevralgico, era piazza dell’Industria. A forma di esagono, vi confluivano, o si dipartivano: via Petrolchimica, la principale; in corrispondenza, dalla parte opposta, quasi una prosecuzione della precedente oltre la piazza, via ZIR (Zone Industriali Riconosciute, dette anche Recondite, e da non confondere con richiami degli uccelli o altro); a fianco di questa, via Raffinerie, poi via Oleodotti. Dalla parte opposta, le vie Polistirolo e Aromatici. (p.  57)

 

La disposizione delle strade in questa prova di «alta urbanistica e sociologia» comprende ancora via Poliesteri, via Etilene, via Idrocarburi Saturi. Ma la falsa praxis elaborata nel Palazzo, la sua estraneità al mondo che dovrebbe governare e ordinare, meglio si appalesa nei dialoghi tra il Sindaco e i vari esponenti dei Dicasteri. Qui si evidenzia l’incapacità della burocrazia nel fare i conti con la realtà, la sua astratta convinzione di servire a qualcosa di più alto delle esigenze particolari di una piccola comunità, la sua separatezza dal mondo reale. Il particolare e il generale – o meglio la proiezione burocratica dell’idea di rappresentanza – non possono comunicare, parlano due lingue e due linguaggi diversi. Ad ogni istanza nel Palazzo s’interpone una non meglio precisata priorità del progetto politico generale rispetto alle richieste pratiche. E qui si tratta di quanto di più pratico si possa immaginare, cioè la costruzione delle fogne:

 

Sì. Ma bisogna vedere le cose nel quadro generale degli interventi, nella dimensione statuale, con obiettivi quantivizzati, in una visione dinamica della realtà, non esclusivamente legata agli aspetti tradizionali, che possono essere, dico possono, non è certezza, possono distogliere, meglio da un indirizzo più confacente allo sviluppo dell’intero territorio, in un equilibrio in cui le diverse forze, le diverse componenti, si compenetrano, in una ricerca continua di un nuovo equilibrio per un nuovo assetto, vuoi economico vuoi sociale vuoi territoriale; un nuovo assetto, dico, che non è mai raggiunto, badi, in cui il valore ottimale non è raggiungibile in toto e in assoluto… (pp. 62-63)

 

Il dialogo è impossibile perché lo sproloquio insensato, le ragioni misteriose di una imprecisata collettività, l’indefinito e inesplicato progetto entro cui dovrebbe incasellarsi l’intervento pratico, annichiliscono e stordiscono l’interlocutore il quale resta costantemente in uno stato di diffidente attesa: prova appena a obiettare senza alcun esito. Il narratore – il feroce, invadente, ironico e consapevole narratore di questo romanzo – comprenderà con l’esperienza che tutto quell’argomentare vuoto, quell’insistere sull’interesse generale altro non è che un modo di liquidarlo:

 

Lo Stato, certamente – e un giovane Stato come il nostro – in una eventuale vertenza, che deprecavo, avrebbe accampato e difeso i suoi diritti di primogenitura, la sua visione globale, gli interessi generali; avrebbe tirato fuori i diritti dei comuni contermini, per fregarli, a loro volta, nella visione globale, se interessi superiori, di natura imprecisata, si presentassero. E noi eravamo pochi e indifesi.

 

Il significativo passaggio del titolo del romanzo, da Il sindaco, di tutte le redazioni precedenti, a Il sogno svanito dell’edizione a stampa, mostra lo slittamento della focalizzazione dal protagonista alla sua idea, dal fallimento della specifica funzione politica, quella di un sindaco, al fallimento di un intero progetto di società e si giustifica all’interno di un graduale processo di assimilazione di Andria all’interno del sistema che combatte. Un’assimilazione di tipo politico anzitutto, perché il sindaco verrà promosso e rimosso quando accetterà l’incarico di Dirigente Responsabile di un Progetto di animazione Culturale e Sociale; ed anche un’assimilazione di ordine retorico e linguistico che il lettore misura progressivamente da una pagina all’altra del romanzo. Dal primo viaggio nella Capitale fino ai capitoli finali Andria sembra prendere coscienza dell’inefficacia del suo linguaggio semplice, diretto, pragmatico e perciò sperimenta i modi dei suoi antagonisti: la sintassi involuta, il discorso trasversale.

Nel finale, durante la vertenza con lo Stato Sovrano, assistiamo all’avvenuta ‘conversione’ e metamorfosi di Andria, che ormai parla ormai come i legulei che disprezzava, ricorrendo ai medesimi strumenti:

 

Sentivo di essere sicuro del fatto mio, nonostante l’avvocato non mi avesse dato piena e totale soddisfazione. E va bene, dicevo a me stesso, possiamo metterci anche sul piano de iure condendo; io e il Titolare ci muoviamo su terreno politico. Era un’argomentazione che valeva per l’esterno. Per l’interno, ai fini di una presa in considerazione del ricorso, dovevo utilizzare i richiami alle leggi in nostro favore, i passi errati e falsi compiuti dal Titolare lungo l’iter della pratica, la procedura poco chiara seguita dagli industriali e accettata dagli uffici, il favoritismo evidente contra legem. (pp. 211-212)

 

Ma la sconfitta, se si rammemora il discorso di un Titolare di un indefinito Dicastero, a proposito della capacità degli umanisti di comprendere il problema dell’industrializzazione che si vorrebbe delegato totalmente a non si sa quali competenze, s’aggrava, sembrando la sconfitta di un modello umanistico di osservazione dei fatti della società e dello sviluppo. Il disprezzo si appunta sulla tecnicizzazione di una politica ignorante, come accadrà nel college a s’ingresa in cui sono costretti a istruirsi i politici regionali in Mannigos de memoria19:

 

Ecco, il problema dell’industrializzazione non è proprio da professori, da umanisti, da docenti di discipline umanistiche, da intellettuali. Con ciò non intendo affermare o sostenere che le discipline umanistiche o i loro cultori siano superati o fuori dal tempo. Anzi sono profondamente convinto dell’importanza di tali discipline, a scopo didattico, formativo, culturale, di allargamento di orizzonti. Ma in materia di industrializzazione gli umanisti sono fuori posto. Non ricordavo che studi avesse fatto e in che disciplina fosse diplomato o laureato. Forse in ginnastica. Lo chiamavano, infatti, “maestro di brinchi”. Ma tale appellativo era certamente dovuto ai suoi continui salti, in occasione di crisi di governo, da un settore all’altro. (p. 183)

 

L’uso di termini tecnici non è però l’unica spia dell’addomesticamento del sindaco. Più forte e significativa è l’insistenza su costrutti capaci di proiettare ogni azione e ogni gesto verso un futuro indeterminato:

 

Entro i termini prescritti presentai all’Ufficio competente l’opposizione del comune di Balonia per la concessione dell’acqua alla costituenda società per la costruenda fabbrica, a ciò regolarmente autorizzato dal Consiglio… (p. 198)

 

In questo specifico caso sono i gerundivi a segnalare l’inconsistenza dei fatti, la separatezza dell’iter procedurale dalla realtà: la società che dovrà impiantare la fabbrica non è neppure stata costituita. Non esiste una società, non esiste una fabbrica e, tuttavia, si produce documentazione amministrativa. Il narratore, in questa fase, si rivela in tutta la sua debolezza come inghiottito da una burocrazia logorante, immerso in una lingua e in un contesto che spersonalizza tutto, che tutto rinvia a un indefinito futuro tanto procrastinato da falsificarsi.

Allora l’aggiunta recente, in fase di messa a punto del romanzo per la pubblicazione, della breve frase finale «Il sogno era svanito»20 costringe l’intero senso del romanzo verso un’interpretazione più radicale. Senza quella frase, l’ultima scena del libro, quella in cui Andria, rimosso dalla sua carica, promosso e assimilato, viene accompagnato pietosamente al treno da un suo giovane allievo, avrebbe potuto rappresentare una chiusura in qualche modo rasserenante, fotografando un simbolico passaggio di consegne tra una generazione e l’altra e prospettando dunque un rinnovamento della prospettiva personalista e comunitaria. Ma con quella frase, la mesta scena ci appare come il fallimento dell’idea di comunità che aveva entusiasmato anche Cossu.

L’autore aveva provato tante volte a creare strumenti di formazione di gruppi coesi e in vari settori (Il Montiferru, Il Bogino, La Grotta della vipera), a più riprese annunciando, negli editoriali della Grotta della vipera in particolare, la cessazione delle attività a causa della solitudine in cui si trovava ad operare. Da un lato le istituzioni non manifestavano concretamente l’interesse che egli si aspettava a fronte della sua generosa azione, dall’altro lato gli intellettuali gli offrivano una collaborazione episodica e parziale. Come Andria si sentiva probabilmente assediato dalla deriva burocratica e da quella individualista, incapace di coinvolgere in un’unica, efficace azione corale la comunità regionale per la quale tanto coscienziosamente si era speso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Giuseppe Lupo, propone una definizione assai inclusiva da un punto di vista cronologico, formale e contenutistico cfr. Giuseppe Lupo, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Ivrea 2016.

2 Gli anni degli studi universitari furono per Antonio Cossu molto importanti. Alla Statale di Milano consolidò la sua formazione linguistica e letteraria e si impegnò con i suoi amici e sodali nella vita culturale della grande città, sino al conseguimento della laurea con una tesi sullo scrittore spagnolo Gabriel Mirò.

3 Diego Are fu un intellettuale cattolico molto attivo a partire dagli anni Trenta. Nato nel 1914, conseguì la laurea in Filosofia a Cagliari nel 1938 e pochi anni dopo fu chiamato a partecipare alla Seconda guerra mondiale. Per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, subì l’esperienza della deportazione nei lager tedeschi. È in questa dolorosa circostanza che si rafforza in lui l’idea di creare il Movimento giovanile di Unione e Fraternità e di dedicarsi alla diffusione di ideali pacifisti e solidaristici. Fu insegnante di Filosofia nei licei di diverse città d’Italia e, accanto a Antonio Cossu, redattore del «Bogino» e co-fondatore del «Montiferru», co-autore, con Cossu e Albert Meister del volume Autonomia e solidarietà nel Montiferru, Il Montiferru, 1959. Del suo difficile mandato di Sindaco di Santu Lussurgiu ci dà conto Il sogno svanito di Antonio Cossu.

4 Geno Pampaloni dal 1948 fu direttore della biblioteca aziendale e del Centro culturale e dei Servizi culturali della Olivetti. Nel 1958 assunse il ruolo di Segretario generale del Movimento Comunità. Per dieci anni, a partire dal 1962, fu Direttore editoriale della casa editrice Vallecchi, proprio negli anni in cui Antonio Cossu pubblica I figli di Pietro Paolo e Il riscatto.

5 Lupo, p. 342.

6 Giovanni Pintori (1918-1999) fu un grande grafico pubblicitario che, dopo una solida formazione presso l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza nella prima metà degli anni Trenta, viene chiamato da Adriano Olivetti a lavorare accanto a Costantino Nivola per una serie di progetti. Nel 1950 assume la direzione artistica dell’Ufficio tecnico della pubblicità della Olivetti e nel 1952 organizza al MoMA di New York la mostra Olivetti Design in Industry.  La sua abilità nel design e nella comunicazione lo rese celebre in tutto il mondo. Nel 1967 lascia la Olivetti e si dedica con successo alla libera professione e alla pittura, un’arte che amava molto e dalla quale traeva non poca soddisfazione.

7 Il logo ha attraversato il tempo e oggi rappresenta la Fondazione Adriano Olivetti.

8 Adriano Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni Comunità, 1959, p. 83.

9 La fonte della citazione è indicata da Cossu nel volume La guerra e l’unità europea pubblicato proprio dalle Edizioni di Comunità nel 1948 e ricavato da un importante discorso di Einaudi all’Assemblea costituente il 29 luglio del 1947 (con lo stesso titolo) e da un precedente intervento, I problemi economici della federazione europea (La Fiaccola, Milano 1945), nel quale appare il medesimo passaggio con l’indicazione di alcuni stati definiti come centralisti e con la precisazione delle funzioni attraverso le quali gli stati tendono a esercitare il loro controllo più stretto dell’azione degli individui: «Federazione invero è il contrario di assoggettamento dei varii stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, come la Francia (Parigi), la Germania (Berlino), la Spagna (Madrid), dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto al basso. Ma Federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici: difesa nazionale, moneta e comunicazioni» (corsivi miei).

10 La gestazione e la fase editoriale di questo romanzo fu lunghissima e, per certi aspetti, tormentata. La scrittura – come apprendiamo dalle lettere che Cossu invia a Segre – fu più volte interrotta ora per impegni politici (in coincidenza cioè con l’incarico che gli fu affidato direttamente da Adriano Olivetti), ora per le resistenze degli editori. Cfr. Bruno Segre, Che cosa farò da grande, in I limoni sono verdi di speranze. Scritti in memoria di Antonio Cossu, a cura di Maria Giuseppa Cossu, Condaghes, Cagliari 2005, pp. 11-33.

1[1] La lettera apparve su «Ichnusa», n. 38-39 (1960), pp. 13-14. Il fascicolo presenta, sotto il titolo La giovane narrativa sarda, brani di Antonio Cossu, Giulio Cossu, Giuseppe Fiori, Michelangelo Pira, Mariangela Satta.

[1]2 Antonio Cossu, Il riscatto, Vallecchi, Firenze 1969. Il romanzo è stato recentemente ristampato da Il Maestrale, Nuoro 1996 e 2003 e da L’Unione Sarda, Cagliari 2003.

[1]3 Antonio Cossu in una lettera a Bruno Segre del 16 luglio 1969 lo definisce racconto-diario-cronaca: «Da due mesi ho spedito a Pampaloni il dattiloscritto di un mio nuovo lavoro. In marzo, durante un incontro a Roma, gli aveva dato una rapida lettura: l’aveva interessato, mi aveva dato qualche suggerimento, era rimasto soddisfatto. Ora ha il testo definitivo; mi ha telefonato che va bene; dovrebbe uscire in autunno. Titolo: Il Riscatto. È il frutto di un’esperienza personale, scritta in forma di racconto-diario-cronaca: i viaggi (7) che ho compiuto con un mio cugino e compare Bachis Onni per i contatti, le trattative, il pagamento del riscatto…», Bruno Segre, Che cosa farò…, cit., p. 29.

[1]4 «sulla trama dei fatti lavora la coscienza, storica e sociale, del sardo Cossu, l’ansia di ordine e di giustizia di un uomo profondamente legato ai valori della sua terra. Sì che questo straordinario libretto è insieme racconto e saggio, cronaca e meditazione; destinato a rimanere tra i documenti più coraggiosi, veritieri e sereni di questi anni», Il riscatto, cit., risvolto di copertina.

[1]5 Cossu, giova ricordarlo, dal 1959 fu assunto come funzionario dell’Assessorato alla Rinascita della Regione Sardegna.

[1]6 Cfr. Emmanuel Mounier, Manifeste au service du personnalisme, Aubier-Montaigne, Paris 1936. Pensieri tratti dall’opera di Mounier stanno in esergo anche nel n° 4 del luglio 1955 («Trattare ogni uomo come una Persona, non come un elemento numerico»), nel n° 5-6 dell’agosto-settembre 1955 («Bisogna arrivare a creare una nuova abitudine della persona: l’abitudine a vedere tutti i problemi umani dal punto di vista del bene della comunità umana, e non dei capricci individuali»). Ma le coordinate ideologiche dell’operazione s’individuano anche in altri riferimenti, anch’essi puntualmente richiamati nella copertina. Non possono mancare Maritain, il padre del pensiero “personalista”, («Se la nostra civiltà agonizza non è perché osi troppo, perché troppo proponga agli uomini. È perché non osa abbastanza, perché ad essi non abbastanza propone. Una nuova civiltà vivrà a condizione di sperare, di volere e di amare veramente ed eroicamente la verità, la libertà, la fraternità», n° 2 del maggio 1955); Adriano Olivetti, uno dei “mediatori” delle medesime convinzioni, («Servire la pace e la civiltà cristiana con la stessa volontà, la stessa intensità, la stessa audacia che furono usate a scopo di sopraffazione, distruzione, terrore», n° 3 del giugno 1955).

17 Antonio Cossu, “Linee di sviluppo”, in AA.VV., Autonomia e solidarietà nel Montiferru, Il Montiferru, Cagliari 1959, p. 117.

[1]8 «Diedi una rapida scorsa alla Nuova Guida e mi apparve di non semplice interpretazione. Allora vi dedicai alcune ore al giorno per capire la struttura urbanistica e fissarmi il nome delle vie, delle piazze, l’ubicazione degli uffici e degli edifici, al fine di potermi muovere con speditezza nelle mie incursioni attuali e future», A. Cossu, Il sogno…, cit., p. 55. Tutta questa insistenza sull’aggettivo ‘nuovo’ ha una evidente funzione ironica.

19 Cfr. Antoni Cossu, Mannigos de memoria, ISRE, Nuoro 1984.

20 La frase di chiusura non appare nella redazione manoscritta datata 1965.

 

 

Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna

 

All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia1, ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

 

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.

Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla  promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

 

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

 

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

 

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

 

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

 

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

 

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:

 

Il modo più economico che ci possa essere per impegnare i soldi è di impiegarli nelle scuole, per l’istruzione; bisogna formare uomini, che non sono oggi avvezzi al mondo moderno. Se vogliamo avere un’economia moderna, dobbiamo avere uomini moderni, educati modernamente.

 

La citazione aveva il vantaggio di mettere insieme una serie di questioni che, diversamente combinate e diversamente intese, avrebbero costituito punti di riferimento irrinunciabili dell’azione culturale e letteraria di Antonio Cossu: i giovani, l’economia, la modernità, l’istruzione, la formazione, l’educazione. Tra i saggi del fascicolo – nella prospettiva che abbiamo assunto per ricostruire il percorso della rivista – pare notevole quello di Diego Are, il quale propone un ripensamento della funzione della scuola. Secondo Are, infatti, se la scuola è uno degli istituti che concorrono alla formazione della persona, è indispensabile che si faccia carico di trasmettere agli studenti la consapevolezza dei diritti e dei doveri di ciascuno e che l’assetto delle discipline – questo è un grande nodo personalista – rifletta le specifiche vocazioni del territorio in cui essa si innesta. Si tratta, a quell’altezza cronologica, di una concezione fortemente innovativa del sistema dell’istruzione, secondo cui la scuola deve seguire in parte un progetto omogeneo su tutto il territorio dello Stato e, per l’altra parte, deve avere l’autonoma capacità di declinare le conoscenze e le competenze su base locale. Perciò, in ragione della missione che la scuola immaginata da Are compie nel territorio, è indispensabile che essa collabori con la famiglia al fine di istruire e formare i giovani e, in quel clima di analfabetismo endemico, gli adulti.

Non è necessario sottolineare quanto questa idea di autonomia scolastica rifletta lo schema di organizzazione federale dello Stato e dell’intera Europa, con un progetto di società capace di conciliare le istanze centrifughe delle periferie e quelle centripete delle istituzioni che hanno il compito di governare l’intera articolazione statale.

 

 

La rivista «Il Montiferru», soprattutto nei primi numeri, riserva una certa attenzione alla letteratura. E poiché Cossu condivideva con i suoi sodali l’idea secondo la quale la letteratura e l’arte svolgono un ruolo importante nella formazione dell’immaginario e delle coscienze, i vari segmenti letterari chiamati in causa concorrono alla riflessione sulle condizioni dei sardi e, nello specifico, ad affrontare i grandi nodi che stavano a cuore allo scrittore.

Nel primo numero appaiono infatti due versi di Matteo Madao in epigrafe all’editoriale Oltre il campanile firmato dal direttore di Antonio Cossu: Eo no isco cun cale dulzura / mi ritirat sa terra ue so nadu. La citazione di una poesia che parla in lingua sarda del naturale attaccamento al proprio paese e l’evocazione di uno scrittore sardo che negli anni Ottanta del Settecento aveva pubblicato due opere fondamentali, una sulla lingua (Saggio d’un’opera intitolata il ripulimento della lingua sarda, 1782) e l’altra sulla poesia sarda (Le Armonie de’ sardi opera dell’abate Matteo Madau, 1787) rafforzano gli obiettivi dello stesso editoriale. Ma ai lettori più attenti alla recente pubblicistica sulla Sardegna, quella citazione dice qualcosa di più ed evoca uno scritto recensito da Cossu poche pagine più avanti, Miele Amaro (Vallecchi, Firenze 1954) di Salvatore Cambosu, precisamente uno dei capitoli di quel testo composito, costruito come un collage di saggi e racconti che mescolano – come quelli di Cossu – storia e antropologia, verità e finzione. La coppia di versi di Madao era già l’epigrafe del Trenino se ne va, il capitolo con cui si chiude Miele amaro e dove si raccontano gli ultimi anni della vita di Giacomo Quesada, le sue laicissime considerazioni intorno alla incipiente modernità: il trenino che sessant’anni prima rappresentava, sul piano pratico come sul piano simbolico, una rivoluzione, oggi si aggira per le sue minuscole stazioni «già ridotto dalle autocorriere a un superfluo e inutile balocco». Quel mezzo di comunicazione che a suo tempo «don Sulis, zanelliano e anticarducciano» aveva definito «opera del demonio» proprio per l’impatto sconvolgente che avrebbe avuto sulle abitudini delle persone, oggi viene sostituito da strumenti ancora più efficaci. Giacomo sa che il progresso è inarrestabile e perciò non vi si oppone. E sa anche che «non si fa niente di male a volgersi indietro di tanto in tanto, per rimpiangere sia pure un trenino che già era grande in un’infanzia che è ora lontana quanto la luna». Perciò, considerato che il progresso è un vento inarrestabile che ha effetti positivi sulla qualità della vita delle persone, questo personaggio sospeso tra memoria e desiderio, si consola e si rassegna contemplando le cose «che hanno secoli e secoli, nate col segno dell’eterno» – il paesaggio, insomma, quel dato in relazione al quale le generazioni costruiscono e definiscono la propria identità:

I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle capre sull’argilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia d’ogni partenza d’ottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; l’eco di Morosini, che ripete il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le foreste di Santa Barbara, santuario arboreo…

Il progresso in un contesto agro-pastorale e la valenza identitaria del paesaggio sono anche il rovello di Pietro Paolo, il protagonista dei Figli di Pietro Paolo, il primo romanzo di Cossu che, tra gli ultimi mesi del 1959 e i primi del 1960 era in fase avanzata di progettazione. Tra Pietro Paolo e i suoi figli si registra un conflitto intorno alla possibilità di progettare un futuro lavorativo diverso, un diverso rapporto con l’ambiente in cui ci si trova. Da una parte sta il mondo del protagonista, un laudator temporis acti al cui punto di vista è affidata larga parte del romanzo; dall’altra stanno i figli che, come tutti i giovani di quella comunità-tipo, subiscono maggiormente la promessa di svecchiamento che viene dai dibattiti autonomistici del dopoguerra e scalpitano verso una modernità che hanno la responsabilità di favorire e costruire. Lo scrittore esordiente10 riesce a rappresentare la complessità di quel mondo villico ora con il piglio del sociologo che conosce le frizioni che caratterizzano il passaggio di consegne dai padri ai figli, ora con il piglio del narratore che ha appreso l’arte del racconto in modo naturale, nel suo ambiente lussurgese.

Un documento del 1960 aiuta a comprendere meglio che idea di letteratura avesse maturato Antonio Cossu negli anni della sua formazione e intendesse conciliare la sua inclinazione documentaria e sociologica con la vocazione di narratore. Si tratta di una sua lettera pubblicata sulla rivista «Ichnusa» (n° 38-39, pp. 13-14), in un fascicolo intitolato La giovane narrativa sarda con brani tratti dalle opere dello stesso Cossu, assieme a Giulio Cossu, Giuseppe Fiori, Michelangelo Pira, Mariangela Satta.

Caro Brigaglia,

eccoti un lungo brano iniziale de I figli di Pietro Paolo. Non chiedermi altro, in particolare «dichiarazioni sul posto del narratore nella realtà isolana» ecc. Io racconto, ogni tanto, qualche vicenda, quando ne ho voglia e quando ritengo di aver trovato l’argomento adatto. Non sono un critico né un saggista. Certi problemi perciò esulano dai miei interessi. Se riuscirò a dimostrare di essere un narratore con le carte in regola (e tutto ciò mi interessa moltissimo), ci penserà qualche altro, se ne avrà voglia si capisce, a cercarmi un posto nella realtà isolana; e se un posto non me lo trova, pazienza. Nella realtà isolana, come uomo – ed è già qualcosa – credo di esserci. Come narratore…11

La professione di modestia dello scrittore che dichiara di non avere competenze critiche, né doti di saggista e si affida a lettori competenti e capaci di misurare il suo valore letterario si interrompe in coincidenza con l’orgogliosa affermazione di essere egli stesso un uomo immerso nella realtà isolana. A fronte dell’incertezza esibita circa le proprie qualità di romanziere, questa certezza, rivendicata senza arroganza, ci informa dell’importanza che Cossu attribuiva alle motivazioni etiche rispetto a quelle estetiche e quanto fosse decisivo il rapporto tra la letteratura e la vita, tra ciò che è ‘letterario’ e ciò che è extra-letterario. Essere nella realtà isolana come uomo, dunque, «è già qualcosa», nella misura in cui l’uomo è una ‘persona’. La comunità con i suoi vizi e le sue virtù è infatti il punto di partenza e il punto di arrivo dell’impegno letterario:

Io scrivo di contadini, di vaccari, di pastori, di borghesi paesani, della gente che vediamo ogni giorno, di vacche, di cavalli … (p. 13)

La materia del narrare viene dalle evidenze della vita reale e il racconto assume la responsabilità di dare voce alla gente che vediamo ogni giorno: ai vaccari come ai borghesi, non tanto nella loro appartenenza di classe, quanto nella loro identità di ‘persone’. Lo scrittore, con la sua formazione culturale e ideologica, appare davvero come un uomo immerso nella realtà e nel suo impegno nel brano finale della stessa lettera:

Ho cercato di capire e di individuare alcuni momenti della vita dei nostri paesi e della gente che ci vive, in una dimensione non folcloristica o sardesca, bensì in una dimensione più ampia: la vita con tutto il resto, della gente che vive nei paesi, in campagna, nei nostri paesi – forse non solo nei nostri ma anche altrove. Perché ho scelto un paese, personaggi dei paesi? Le risposte e le spiegazioni possono essere diverse; una è questa: «Un paese vuol dire non essere solo» (v. Cesare Pavese, la pagina cercala da te). In questo modo, assieme ad altre cosette, si può capire l’impegno mio e dei miei amici, anche in campo extra letterario …

Così si spiegano e si legittimano le principali caratteristiche dei libri dell’autore, cioè quella particolarissima alternanza di racconto e saggio e l’altrettanto notevole creazione di narratori capaci di osservare la complessità del reale, in modo lucido ed emotivamente partecipato.

Il Riscatto12 presenta non a caso una vicenda che coinvolse realmente e intensamente l’autore nell’autunno del 1968, quando un suo cugino, Matteo Onni, fu rapito e Antonio Cossu partecipò con Bachis, fratello dell’ostaggio, alle trattative con i sequestratori, fino alla liberazione.

In quest’opera difficile da incasellare in un genere definito13, ma organizzata secondo l’andamento e la forma del diario e del resoconto giornalistico, il narratore, che in quel periodo stava compilando «una relazione sulle zone interne dell’Isola a prevalente economia pastorale in vista di un piano di sviluppo» fa probabilmente lo stesso mestiere dell’autore, allora impegnato come funzionario del Centro di programmazione regionale, e ne condivide le opinioni. E poiché sia il narratore che il suo compagno di viaggio, il quale «frequentava in Alta Italia un corso di aggiornamento su problemi sociali», sono assai colti e portatori di competenze specifiche, gli inserti teorici assumono un portato quantitativo e qualitativo notevole.

 

Ricordo le tesi di un amico economista e di un comitato di esperti in politica di sviluppo: sostenevano che la gente dovesse abbandonare questi luoghi di montagna, la montagna dicevano, e scendere in pianura, ridurre il carico degli ovini in funzione della attività foraggere, dedicarsi ad attività diverse da quelle pastorali. A quali, se non esistevano? Se c’è stato, in certe zone, un trasferimento dall’attività agricola a quella pastorale? Ricordo lo struggimento che me ne veniva al pensiero dell’abbandono di intere comunità con tutto il substrato dei costumi, di modi di vita, di tradizioni, di rapporti umani, familiari e di amicizia. Vedevo morire un piccolo mondo, un microcosmo, e non vedevo nascerne, qui, uno nuovo, più ricco, più elevato socialmente. Pensavo ai problemi, ai traumi che avrebbe portato con sé lo sradicamento e l’inserimento della popolazione in altre comunità […]. (p. 40)

 

Si assiste qui a un’argomentazione tecnica che parte dalle tesi di economisti, di esperti in politica di sviluppo e a una confutazione costituita da due secche interrogative. Non manca la partecipazione emotiva, lo struggimento del narratore, anch’esso scaturito dall’intensa osservazione del territorio, dalla capacità di analisi dei problemi.

In questa lunga diversione dal racconto che si estende su tre pagine, la riflessione e l’osservazione si nutrono dell’esperienza personale dei protagonisti, della loro adesione a un mondo complesso, dello studio.

Noi stessi eravamo figli di contadini, di allevatori di bestiame, di gente legata alla terra per molte generazioni; eppure facevamo altri lavori, vivevamo in comunità diverse da quelle di origine, ci occupavamo dei problemi della gente per un legame affettivo con l’ambiente, per un senso di responsabilità verso chi era rimasto, per un’azione sociale, individuale e di gruppo, di tipo spontaneo. Pensavamo che queste forme di azione sociale, al di fuori degli schemi e degli organismi burocratici o di partito, potessero risultare utili e assolvere a una funzione, soprattutto se sorrette da fantasia creatrice, da spirito pionieristico, da amore per il paese. Pensavamo alle migliaia di giovani che oggi frequentano le scuole e i centri per l’addestramento professionale e che si presentano con vigore sul mercato del lavoro. Il problema vero, purtroppo, è l’assenza di un mercato del lavoro in loco, la scarsità di occasioni di occupazione in attività moderne (pp. 41-42).

 

Le motivazioni dell’impegno intellettuale dei due sono ben ordinate, ora in modo ascendente (prima il legame affettivo, poi il senso di responsabilità) e direzionate a «un’azione sociale, individuale e di gruppo, di tipo spontaneo», ancora secondo la lezione assimilata dall’autore durante la sua esperienza torinese. Il che, ove non bastasse la ripetizione della parola ‘comunità’ e la presenza della saldatura tra ‘individuo’ e ‘gruppo’, si disvela nel diretto riferimento al carismatico industriale:

Una fabbrica in ogni comunità; ricordavo il suggestivo slogan di Adriano Olivetti e la sua idea della Comunità concreta. Ecco, nel territorio che attraversavamo si potevano individuare alcune comunità concrete, segnate dalla natura e dalla storia, già coi loro nomi che ci portavano a antiche suddivisioni amministrative, alla Sardegna dei giudicati, alle curatorie, alle donnicalie: suddivisioni che potevano trovare una dimensione e una funzione moderne, riconsiderate in una società effettivamente democratica. (ibidem)

Già il risvolto di copertina della prima edizione avvisava che il romanzo di Cossu è insieme racconto e saggio14 proprio perché il motivo autobiografico, l’evento nel quale l’autore si trovò a trattare la liberazione del fratello di un suo compare, diventa l’occasione per una ricerca sul campo, per un’osservazione minuziosa del milieu di appartenenza, nella contiguità di autore e narratore portatori di un riscatto: quello di una terra paralizzata e prigioniera della miopia della sua classe politica e di un uomo doppiamente prigioniero.

Ma l’opera nella quale si dispiega nella sua ampiezza la caratura della scrittura di Antonio Cossu è Il sogno svanito.

Il romanzo, iniziato intorno al principio degli anni Sessanta e completato negli ultimi anni di vita, ha una storia redazionale che percorre buona parte dell’esistenza matura dell’autore e risente con ogni evidenza in ogni sua pagina delle esperienze politiche, dell’ideologia che ne ispiroò la scrittura e la vita.

Il contesto del romanzo, quello cronologico e ambientale, appare fin dalle prime pagine:

Ero stato eletto la sera del tre dicembre 1959, con una votazione che le cronache dei giornali e della radio definirono “all’unanimità”. Ebbi i voti dei consiglieri della maggioranza, come era stato concordato, meno il mio, che, a titolo di omaggio, diedi al mio predecessore. E ne fu lusingato. Espresse il suo intimo piacere con un brontolio cupo che forse voleva dire: ci sono anch’io, e lo dimostrerò, non mi avete dimenticato. Da parte mia, oltre che un gesto di correttezza e di lealtà, era un dovere: rappresentava il senso della continuità fra il passato e il presente, fra la vecchia e la nuova amministrazione.

La minoranza votò in bianco, con una dichiarazione che significava attesa, «benevola attesa» annunciò il capogruppo, per l’operato della nuova amministrazione: poteva trasformarsi in seguito, precisò, in voto favorevole o di critica costruttiva. Gli altri tre annuirono. Lo ritenni un gesto di lealtà. Dovevo capirlo da allora, o da prima, che le votazioni plebiscitarie hanno qualcosa di marcio, all’interno, soprattutto se avvengono senza un dibattito aperto, quando uno vota e basta, e i dissensi sono mormorati alle spalle e tu, nell’onda del successo, se così possiamo chiamarlo, interpreti in ogni frase, anche la più sibillina, come un’audace battuta di spirito, e sorridi, e il senso malevolo che può contenere, e di cui ti rendi conto, lo allontani dalla mente il più rapidamente possibile, per mortificare quella che tu ritieni una tua suscettibilità o una permalosità. E sorridi, e anche gli altri sorridono, ciascuno per proprio conto, ciascuno dando al suo sorriso un significato particolare. (Il sogno svanito, Condaghes, Cagliari 2002, pp. 7-8)

Lo sfondo significativo della fine degli anni Cinquanta in Italia e, in particolare nella Sardegna del Piano di Rinascita15, la descrizione dettagliata delle dinamiche politiche con i gesti rituali di cavalleria ora sincera ora pelosa, l’alta volontà del sindaco appena eletto di voler rappresentare tutti, anche i vinti, la dura affermazione sulle votazioni plebiscitarie, l’amarezza delle relazioni insidiose, ma soprattutto lo scollamento del consiglio comunale in un pulviscolo di volontà individuali, ci obbligano a rileggere qualche pagina sul dibattito dell’epoca, anche per via del riferimento alle votazioni plebiscitarie che mette in discussione la ‘mistica maggioritaria’ su cui si basano alcune forme di democrazia. Cossu rilegge evidentemente quell’episodio sulla base di alcuni passaggi specifici del Manifesto al servizio del personalismo di Mounier, il quale sosteneva che l’identificazione dell’idea di democrazia con il governo della maggioranza è un fatale errore poiché si rischia di confonderla con la «supremazia del numero» e, quindi, della forza16; era inoltre sinceramente convinto – sulla base degli assunti comunitari – che ogni parte politica dovesse agire a beneficio dell’intera comunità.

L’origine storica della «rottura dell’amicizia umana» è, secondo il fondatore della rivista «Esprit», il Rinascimento, epoca nella quale «la persona scoprì con stupore le proprie risorse e la propria natura docile e elastica, si scosse di dosso l’armatura arrugginita della burocrazia feudale che soffocava persino lo spirito…». Nello stesso tempo, tuttavia, «prima gli uomini di legge, poi gli uomini d’affari» si adoperarono a costruire una nuova burocrazia, «una nuova oppressione dell’uomo».

Qui sta la «decadenza individualista che pesa su quattro secoli di storia» alla quale reagiscono fascismo e comunismo, «primi sussulti dell’immenso flutto comunitario che comincia a frangersi sull’Europa». La verifica del fallimento della via seguita dalle varie realizzazioni dell’individualismo borghese e capitalista e la follia del collettivismo rende necessaria una nuova «rivoluzione comunitaria», un nuovo Rinascimento che, per essere efficace «deve essere duplice, personalista e comunitario».

Il primo Rinascimento è fallito come rinascimento personalista e ha trascurato il rinascimento comunitario. Contro l’individualismo dobbiamo rifare il primo, ma non vi riusciremo che con l’aiuto del secondo. Cerchiamo di non fallire a nostra volta; altrimenti si faranno tosto avanti i legulei e i borghesi del collettivismo, simili ai legulei e ai borghesi dell’individualismo, e come quelli parassiti di una grande causa e quanto mai pericolosi…

In effetti, Andria, il sindaco protagonista de Il sogno svanito ci viene ritratto in una solitudine surreale, assediato da due ordini di forze: una centrifuga che è ben rappresentata dagli interessi personalissimi dei suoi conterranei, e una centripeta, interpretata dalla sorda burocrazia del Nuovo Stato Sovrano. Entrambe le forze esercitano un’influenza distruttiva rispetto ai sogni e alle aspirazioni del primo cittadino di Balonia e si presentano sin dall’inizio in una fenomenologia piuttosto varia. L’individualismo, nella forma più subdola della battuta o del sorrisetto, fa la sua comparsa immediatamente, proprio nella prima seduta del Consiglio comunale, e poi si modula in forme più complesse, rendendo opaca la comunicazione. Tra i vari esempi di dialoghi in cui si può osservare una forte deriva allusiva e simbolica del linguaggio, possiamo leggere questo tra il sindaco e un muratore:

– Avete un chiodo?

– Mai avuto chiodi – risponde il muratore con energia, temendo chissà quale tranello o riferimento personale.

– Me ne servirebbe uno.

– In paese ce n’è – sta sulla difensiva; e distendendosi: – è pieno di chiodi. A punta. Pungono tutti. Non ci sono che chiodi. Una chioderia o un magazzino. Li usano, per fare male. Ne trovate a ogni passo, vecchi e nuovi, lucidi e arrugginiti. Dovunque – e scrolla la testa.

[…]

– Basta, basta, non ne parliamo. E voi, signor Sindaco, andate in cerca di chiodi. Ne avete la strada piena, davanti a voi. (pp. 126-127)

 

Ma l’egoismo non affligge solo gli individui: è un male di cui soffrono anche i gruppi, quando sono portatori di interessi corporativi che contrastano con il bene comune. Mentre il Sindaco s’affatica a trovare udienza presso la «Capitale dell’Accidia» e conosce il fallimento di ogni sua iniziativa, i gruppi avversari hanno gioco facile ad organizzare il dissenso, sempre in modi invisibili e sempre con la finalità di delegittimare la maggioranza e il primo cittadino. Il sindaco del Sogno svanito è un personaggio, una persona che mette ogni sua energia nel tentativo ingenuo quanto caparbio di servire la sua comunità, e, come spesso accade nelle opere di Cossu, rappresenta il dinamismo, la volontà di cambiamento che contrasta le forze statiche dell’ignoranza e della malafede.

Tale forma di complicità egoista e distruttiva è oggetto di commento anche nella relazione che lo scrittore lussurgese legge al IV Convegno promosso dalla rivista Il Montiferru, soprattutto nella parte in cui nota che nel suo paese si sono costituite finalmente ben tre cooperative di pastori, le quali potrebbero insieme avere una grande forza contrattuale, se solo avessero coscienza del comune interesse, ovvero quello di stabilire il giusto prezzo del latte. Secondo Cossu, «all’individualismo singolo, in questi casi, si è sostituito un individualismo di gruppo» che avvantaggia i commercianti e gli industriali lattiero-caseari17.

Se l’interesse partigiano e personale costituisce un ostacolo all’azione di Andria, generoso primo cittadino, il vero ‘muro di gomma’ è rappresentato dalla rete burocratica intessuta apparentemente come baluardo del diritto delle comunità. Diciamo apparentemente, perché subito ci appare il Palazzo come un totem smisurato e separato dal mondo che dovrebbe amministrare. La Capitale del Nuovo Stato Sovrano, ottenuta l’indipendenza, s’ingigantisce tanto da necessitare di una curiosa ed enigmatica Nuova Guida della Capitale completa di stradario realizzato o in programma18. «Le sedi dei Dicasteri, gli uffici dei Titolari cioè con gli annessi» si trovavano all’interno del Palazzo «isolato» in una piazza. Ma, come è evidente, un solo Palazzo non basta ad accogliere la proliferazione insensata di compiti e ruoli.

Altri uffici di Enti, Istituti, Organismi, Distretti, Dipartimenti, Centri e Sottocentri, Commissioni e Sottocommissioni, Comitati e Sottocomitati, Gruppi di lavoro o di studio e Sottogruppi di lavoro o di studio, Consorzi, Osservatori o semplici distaccamenti degli stessi, quando si ingrossavano per l’assunzione di nuovi funzionari e impiegati e agenti tecnici e nel Palazzo, quindi, non ci stavano più e pareva dovessero scoppiare – con rischi, fra l’altro, per la stabilità dell’edificio e l’incolumità delle persone – erano sistemati nella parte nuova della Capitale… (p. 56)

 

Questa parte ‘nuova’ in cui si colloca l’eccedenza si costruisce secondo una toponomastica anch’essa comica, ispirata al feticismo industrialista. Essendo il riflesso topografico di un ordine di pensieri politici, di un’ideologia, «aveva assunto, fra l’altro, un preciso e specifico significato propedeutico e didattico ed era visitata, si diceva, da gruppi di scolaresche, accompagnati dagli insegnanti, provenienti dall’intero Stato».

 

Il centro della nuova città, il cuore nevralgico, era piazza dell’Industria. A forma di esagono, vi confluivano, o si dipartivano: via Petrolchimica, la principale; in corrispondenza, dalla parte opposta, quasi una prosecuzione della precedente oltre la piazza, via ZIR (Zone Industriali Riconosciute, dette anche Recondite, e da non confondere con richiami degli uccelli o altro); a fianco di questa, via Raffinerie, poi via Oleodotti. Dalla parte opposta, le vie Polistirolo e Aromatici. (p.  57)

 

La disposizione delle strade in questa prova di «alta urbanistica e sociologia» comprende ancora via Poliesteri, via Etilene, via Idrocarburi Saturi. Ma la falsa praxis elaborata nel Palazzo, la sua estraneità al mondo che dovrebbe governare e ordinare, meglio si appalesa nei dialoghi tra il Sindaco e i vari esponenti dei Dicasteri. Qui si evidenzia l’incapacità della burocrazia nel fare i conti con la realtà, la sua astratta convinzione di servire a qualcosa di più alto delle esigenze particolari di una piccola comunità, la sua separatezza dal mondo reale. Il particolare e il generale – o meglio la proiezione burocratica dell’idea di rappresentanza – non possono comunicare, parlano due lingue e due linguaggi diversi. Ad ogni istanza nel Palazzo s’interpone una non meglio precisata priorità del progetto politico generale rispetto alle richieste pratiche. E qui si tratta di quanto di più pratico si possa immaginare, cioè la costruzione delle fogne:

 

Sì. Ma bisogna vedere le cose nel quadro generale degli interventi, nella dimensione statuale, con obiettivi quantivizzati, in una visione dinamica della realtà, non esclusivamente legata agli aspetti tradizionali, che possono essere, dico possono, non è certezza, possono distogliere, meglio da un indirizzo più confacente allo sviluppo dell’intero territorio, in un equilibrio in cui le diverse forze, le diverse componenti, si compenetrano, in una ricerca continua di un nuovo equilibrio per un nuovo assetto, vuoi economico vuoi sociale vuoi territoriale; un nuovo assetto, dico, che non è mai raggiunto, badi, in cui il valore ottimale non è raggiungibile in toto e in assoluto… (pp. 62-63)

 

Il dialogo è impossibile perché lo sproloquio insensato, le ragioni misteriose di una imprecisata collettività, l’indefinito e inesplicato progetto entro cui dovrebbe incasellarsi l’intervento pratico, annichiliscono e stordiscono l’interlocutore il quale resta costantemente in uno stato di diffidente attesa: prova appena a obiettare senza alcun esito. Il narratore – il feroce, invadente, ironico e consapevole narratore di questo romanzo – comprenderà con l’esperienza che tutto quell’argomentare vuoto, quell’insistere sull’interesse generale altro non è che un modo di liquidarlo:

 

Lo Stato, certamente – e un giovane Stato come il nostro – in una eventuale vertenza, che deprecavo, avrebbe accampato e difeso i suoi diritti di primogenitura, la sua visione globale, gli interessi generali; avrebbe tirato fuori i diritti dei comuni contermini, per fregarli, a loro volta, nella visione globale, se interessi superiori, di natura imprecisata, si presentassero. E noi eravamo pochi e indifesi.

 

Il significativo passaggio del titolo del romanzo, da Il sindaco, di tutte le redazioni precedenti, a Il sogno svanito dell’edizione a stampa, mostra lo slittamento della focalizzazione dal protagonista alla sua idea, dal fallimento della specifica funzione politica, quella di un sindaco, al fallimento di un intero progetto di società e si giustifica all’interno di un graduale processo di assimilazione di Andria all’interno del sistema che combatte. Un’assimilazione di tipo politico anzitutto, perché il sindaco verrà promosso e rimosso quando accetterà l’incarico di Dirigente Responsabile di un Progetto di animazione Culturale e Sociale; ed anche un’assimilazione di ordine retorico e linguistico che il lettore misura progressivamente da una pagina all’altra del romanzo. Dal primo viaggio nella Capitale fino ai capitoli finali Andria sembra prendere coscienza dell’inefficacia del suo linguaggio semplice, diretto, pragmatico e perciò sperimenta i modi dei suoi antagonisti: la sintassi involuta, il discorso trasversale.

Nel finale, durante la vertenza con lo Stato Sovrano, assistiamo all’avvenuta ‘conversione’ e metamorfosi di Andria, che ormai parla ormai come i legulei che disprezzava, ricorrendo ai medesimi strumenti:

 

Sentivo di essere sicuro del fatto mio, nonostante l’avvocato non mi avesse dato piena e totale soddisfazione. E va bene, dicevo a me stesso, possiamo metterci anche sul piano de iure condendo; io e il Titolare ci muoviamo su terreno politico. Era un’argomentazione che valeva per l’esterno. Per l’interno, ai fini di una presa in considerazione del ricorso, dovevo utilizzare i richiami alle leggi in nostro favore, i passi errati e falsi compiuti dal Titolare lungo l’iter della pratica, la procedura poco chiara seguita dagli industriali e accettata dagli uffici, il favoritismo evidente contra legem. (pp. 211-212)

 

Ma la sconfitta, se si rammemora il discorso di un Titolare di un indefinito Dicastero, a proposito della capacità degli umanisti di comprendere il problema dell’industrializzazione che si vorrebbe delegato totalmente a non si sa quali competenze, s’aggrava, sembrando la sconfitta di un modello umanistico di osservazione dei fatti della società e dello sviluppo. Il disprezzo si appunta sulla tecnicizzazione di una politica ignorante, come accadrà nel college a s’ingresa in cui sono costretti a istruirsi i politici regionali in Mannigos de memoria19:

 

Ecco, il problema dell’industrializzazione non è proprio da professori, da umanisti, da docenti di discipline umanistiche, da intellettuali. Con ciò non intendo affermare o sostenere che le discipline umanistiche o i loro cultori siano superati o fuori dal tempo. Anzi sono profondamente convinto dell’importanza di tali discipline, a scopo didattico, formativo, culturale, di allargamento di orizzonti. Ma in materia di industrializzazione gli umanisti sono fuori posto. Non ricordavo che studi avesse fatto e in che disciplina fosse diplomato o laureato. Forse in ginnastica. Lo chiamavano, infatti, “maestro di brinchi”. Ma tale appellativo era certamente dovuto ai suoi continui salti, in occasione di crisi di governo, da un settore all’altro. (p. 183)

 

L’uso di termini tecnici non è però l’unica spia dell’addomesticamento del sindaco. Più forte e significativa è l’insistenza su costrutti capaci di proiettare ogni azione e ogni gesto verso un futuro indeterminato:

 

Entro i termini prescritti presentai all’Ufficio competente l’opposizione del comune di Balonia per la concessione dell’acqua alla costituenda società per la costruenda fabbrica, a ciò regolarmente autorizzato dal Consiglio… (p. 198)

 

In questo specifico caso sono i gerundivi a segnalare l’inconsistenza dei fatti, la separatezza dell’iter procedurale dalla realtà: la società che dovrà impiantare la fabbrica non è neppure stata costituita. Non esiste una società, non esiste una fabbrica e, tuttavia, si produce documentazione amministrativa. Il narratore, in questa fase, si rivela in tutta la sua debolezza come inghiottito da una burocrazia logorante, immerso in una lingua e in un contesto che spersonalizza tutto, che tutto rinvia a un indefinito futuro tanto procrastinato da falsificarsi.

Allora l’aggiunta recente, in fase di messa a punto del romanzo per la pubblicazione, della breve frase finale «Il sogno era svanito»20 costringe l’intero senso del romanzo verso un’interpretazione più radicale. Senza quella frase, l’ultima scena del libro, quella in cui Andria, rimosso dalla sua carica, promosso e assimilato, viene accompagnato pietosamente al treno da un suo giovane allievo, avrebbe potuto rappresentare una chiusura in qualche modo rasserenante, fotografando un simbolico passaggio di consegne tra una generazione e l’altra e prospettando dunque un rinnovamento della prospettiva personalista e comunitaria. Ma con quella frase, la mesta scena ci appare come il fallimento dell’idea di comunità che aveva entusiasmato anche Cossu.

L’autore aveva provato tante volte a creare strumenti di formazione di gruppi coesi e in vari settori (Il Montiferru, Il Bogino, La Grotta della vipera), a più riprese annunciando, negli editoriali della Grotta della vipera in particolare, la cessazione delle attività a causa della solitudine in cui si trovava ad operare. Da un lato le istituzioni non manifestavano concretamente l’interesse che egli si aspettava a fronte della sua generosa azione, dall’altro lato gli intellettuali gli offrivano una collaborazione episodica e parziale. Come Andria si sentiva probabilmente assediato dalla deriva burocratica e da quella individualista, incapace di coinvolgere in un’unica, efficace azione corale la comunità regionale per la quale tanto coscienziosamente si era speso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Giuseppe Lupo, propone una definizione assai inclusiva da un punto di vista cronologico, formale e contenutistico cfr. Giuseppe Lupo, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Ivrea 2016.

2 Gli anni degli studi universitari furono per Antonio Cossu molto importanti. Alla Statale di Milano consolidò la sua formazione linguistica e letteraria e si impegnò con i suoi amici e sodali nella vita culturale della grande città, sino al conseguimento della laurea con una tesi sullo scrittore spagnolo Gabriel Mirò.

3 Diego Are fu un intellettuale cattolico molto attivo a partire dagli anni Trenta. Nato nel 1914, conseguì la laurea in Filosofia a Cagliari nel 1938 e pochi anni dopo fu chiamato a partecipare alla Seconda guerra mondiale. Per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, subì l’esperienza della deportazione nei lager tedeschi. È in questa dolorosa circostanza che si rafforza in lui l’idea di creare il Movimento giovanile di Unione e Fraternità e di dedicarsi alla diffusione di ideali pacifisti e solidaristici. Fu insegnante di Filosofia nei licei di diverse città d’Italia e, accanto a Antonio Cossu, redattore del «Bogino» e co-fondatore del «Montiferru», co-autore, con Cossu e Albert Meister del volume Autonomia e solidarietà nel Montiferru, Il Montiferru, 1959. Del suo difficile mandato di Sindaco di Santu Lussurgiu ci dà conto Il sogno svanito di Antonio Cossu.

4 Geno Pampaloni dal 1948 fu direttore della biblioteca aziendale e del Centro culturale e dei Servizi culturali della Olivetti. Nel 1958 assunse il ruolo di Segretario generale del Movimento Comunità. Per dieci anni, a partire dal 1962, fu Direttore editoriale della casa editrice Vallecchi, proprio negli anni in cui Antonio Cossu pubblica I figli di Pietro Paolo e Il riscatto.

5 Lupo, p. 342.

6 Giovanni Pintori (1918-1999) fu un grande grafico pubblicitario che, dopo una solida formazione presso l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza nella prima metà degli anni Trenta, viene chiamato da Adriano Olivetti a lavorare accanto a Costantino Nivola per una serie di progetti. Nel 1950 assume la direzione artistica dell’Ufficio tecnico della pubblicità della Olivetti e nel 1952 organizza al MoMA di New York la mostra Olivetti Design in Industry.  La sua abilità nel design e nella comunicazione lo rese celebre in tutto il mondo. Nel 1967 lascia la Olivetti e si dedica con successo alla libera professione e alla pittura, un’arte che amava molto e dalla quale traeva non poca soddisfazione.

7 Il logo ha attraversato il tempo e oggi rappresenta la Fondazione Adriano Olivetti.

8 Adriano Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni Comunità, 1959, p. 83.

9 La fonte della citazione è indicata da Cossu nel volume La guerra e l’unità europea pubblicato proprio dalle Edizioni di Comunità nel 1948 e ricavato da un importante discorso di Einaudi all’Assemblea costituente il 29 luglio del 1947 (con lo stesso titolo) e da un precedente intervento, I problemi economici della federazione europea (La Fiaccola, Milano 1945), nel quale appare il medesimo passaggio con l’indicazione di alcuni stati definiti come centralisti e con la precisazione delle funzioni attraverso le quali gli stati tendono a esercitare il loro controllo più stretto dell’azione degli individui: «Federazione invero è il contrario di assoggettamento dei varii stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, come la Francia (Parigi), la Germania (Berlino), la Spagna (Madrid), dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto al basso. Ma Federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici: difesa nazionale, moneta e comunicazioni» (corsivi miei).

10 La gestazione e la fase editoriale di questo romanzo fu lunghissima e, per certi aspetti, tormentata. La scrittura – come apprendiamo dalle lettere che Cossu invia a Segre – fu più volte interrotta ora per impegni politici (in coincidenza cioè con l’incarico che gli fu affidato direttamente da Adriano Olivetti), ora per le resistenze degli editori. Cfr. Bruno Segre, Che cosa farò da grande, in I limoni sono verdi di speranze. Scritti in memoria di Antonio Cossu, a cura di Maria Giuseppa Cossu, Condaghes, Cagliari 2005, pp. 11-33.

1[1] La lettera apparve su «Ichnusa», n. 38-39 (1960), pp. 13-14. Il fascicolo presenta, sotto il titolo La giovane narrativa sarda, brani di Antonio Cossu, Giulio Cossu, Giuseppe Fiori, Michelangelo Pira, Mariangela Satta.

[1]2 Antonio Cossu, Il riscatto, Vallecchi, Firenze 1969. Il romanzo è stato recentemente ristampato da Il Maestrale, Nuoro 1996 e 2003 e da L’Unione Sarda, Cagliari 2003.

[1]3 Antonio Cossu in una lettera a Bruno Segre del 16 luglio 1969 lo definisce racconto-diario-cronaca: «Da due mesi ho spedito a Pampaloni il dattiloscritto di un mio nuovo lavoro. In marzo, durante un incontro a Roma, gli aveva dato una rapida lettura: l’aveva interessato, mi aveva dato qualche suggerimento, era rimasto soddisfatto. Ora ha il testo definitivo; mi ha telefonato che va bene; dovrebbe uscire in autunno. Titolo: Il Riscatto. È il frutto di un’esperienza personale, scritta in forma di racconto-diario-cronaca: i viaggi (7) che ho compiuto con un mio cugino e compare Bachis Onni per i contatti, le trattative, il pagamento del riscatto…», Bruno Segre, Che cosa farò…, cit., p. 29.

[1]4 «sulla trama dei fatti lavora la coscienza, storica e sociale, del sardo Cossu, l’ansia di ordine e di giustizia di un uomo profondamente legato ai valori della sua terra. Sì che questo straordinario libretto è insieme racconto e saggio, cronaca e meditazione; destinato a rimanere tra i documenti più coraggiosi, veritieri e sereni di questi anni», Il riscatto, cit., risvolto di copertina.

[1]5 Cossu, giova ricordarlo, dal 1959 fu assunto come funzionario dell’Assessorato alla Rinascita della Regione Sardegna.

[1]6 Cfr. Emmanuel Mounier, Manifeste au service du personnalisme, Aubier-Montaigne, Paris 1936. Pensieri tratti dall’opera di Mounier stanno in esergo anche nel n° 4 del luglio 1955 («Trattare ogni uomo come una Persona, non come un elemento numerico»), nel n° 5-6 dell’agosto-settembre 1955 («Bisogna arrivare a creare una nuova abitudine della persona: l’abitudine a vedere tutti i problemi umani dal punto di vista del bene della comunità umana, e non dei capricci individuali»). Ma le coordinate ideologiche dell’operazione s’individuano anche in altri riferimenti, anch’essi puntualmente richiamati nella copertina. Non possono mancare Maritain, il padre del pensiero “personalista”, («Se la nostra civiltà agonizza non è perché osi troppo, perché troppo proponga agli uomini. È perché non osa abbastanza, perché ad essi non abbastanza propone. Una nuova civiltà vivrà a condizione di sperare, di volere e di amare veramente ed eroicamente la verità, la libertà, la fraternità», n° 2 del maggio 1955); Adriano Olivetti, uno dei “mediatori” delle medesime convinzioni, («Servire la pace e la civiltà cristiana con la stessa volontà, la stessa intensità, la stessa audacia che furono usate a scopo di sopraffazione, distruzione, terrore», n° 3 del giugno 1955).

17 Antonio Cossu, “Linee di sviluppo”, in AA.VV., Autonomia e solidarietà nel Montiferru, Il Montiferru, Cagliari 1959, p. 117.

[1]8 «Diedi una rapida scorsa alla Nuova Guida e mi apparve di non semplice interpretazione. Allora vi dedicai alcune ore al giorno per capire la struttura urbanistica e fissarmi il nome delle vie, delle piazze, l’ubicazione degli uffici e degli edifici, al fine di potermi muovere con speditezza nelle mie incursioni attuali e future», A. Cossu, Il sogno…, cit., p. 55. Tutta questa insistenza sull’aggettivo ‘nuovo’ ha una evidente funzione ironica.

19 Cfr. Antoni Cossu, Mannigos de memoria, ISRE, Nuoro 1984.

20 La frase di chiusura non appare nella redazione manoscritta datata 1965.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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