Negli Stati Uniti un professore francese insegna il sardo, di Sabrina Schiesaro

Negli Stati Uniti c’è un’Università in cui un docente (francese) insegna ai suoi studenti (americani, nella foto) a leggere il sardo.

Negli Stati Uniti c’è un’Università in cui un docente (francese) insegna ai suoi studenti (americani, nella foto) a leggere il sardo.

E lo fa con un metodo che si basa sull’intercomprensione, ossia l’utilizzo di una lingua “ponte” per arrivare a comprenderne altre. Quindi «un francofono sa già qualcosa dello spagnolo, dell’italiano e persino del sardo solo perché condividono la stessa storia linguistica».

Marc Démont lavora al “Centre College”, in Kentucky, dove tiene vari corsi fra i quali proprio quello incentrato sulle lingue romanze. Nel materiale didattico ci sono diversi testi in limba e i ragazzi, al termine del programma, leggeranno “Su Printzipeddu”, la traduzione de “Il piccolo principe”.

Il professore, che parla anche italiano, è stato più volte a Cagliari e discorre senza intoppi di fonetica e sintassi del sardo, di consonanti “fricative” e “affricate”, di futuro di questa lingua e dei rischi che corre se non verrà attuata una vera e propria politica di conservazione.

Come ha “incontrato” nella sua vita il sardo?

«Ho sentito parlare della lingua sarda a causa della sua situazione molto specifica nell’albero genealogico delle lingue romanze e, non appena ne ho avuto l’opportunità, mi sono subito interessato alle sue caratteristiche fonetiche e sintattiche. Torno regolarmente in Sardegna e ho imparato a leggerlo abbastanza bene».

Quale metodo utilizza per l’insegnamento?

«Il corso si intitola “Intercomprensione e linguistica romanza” e non si tratta solo di imparare a leggere in sardo, ma anche in francese, spagnolo, italiano, portoghese e catalano. L’intercomprensione, come abilità, descrive la capacità dei locutori di una stessa famiglia linguistica di capire spontaneamente qualcosa l’uno dall’altro grazie al maggior numero di parole affini e alla familiarità della sintassi. Ebbene, come ogni abilità, può essere lavorata e migliorata con la pratica e la riflessione meta-linguistica».

Com’è l’approccio degli studenti?

«Somministro loro una serie di test di posizionamento linguistico. Quelli che parlano francese si stupiscono sempre di vedere che di solito ottengono un livello A2 (principiante avanzato) in italiano, anche se non l’hanno mai studiato formalmente. Questo è il nostro punto di partenza: una lingua “ponte” (il francese, per esempio), e ci basiamo sulla conoscenza di questa lingua romanza per costruire ponti verso altre lingue romanze».

Ci dica qualcosa in più della sua conoscenza del sardo.

«Da un punto di vista didattico tutte le lingue sono percepite come uguali. Sono diverse varianti di una lingua madre (il latino volgare) e ognuna di esse può essere usata come lingua “ponte” e insegnare qualcosa sulle altre lingue “sorelle”. E credo che questa sia una fantastica opportunità per le nostre lingue regionali di essere incorporate nei programmi di studio nazionali senza tenere conto dell’”utilità” economica o pratica della lingua».

Quali sono le difficoltà più grandi?

«Inizio sempre lo studio di un testo con la registrazione da parte di un madrelingua. Gli americani sono esposti allo spagnolo abbastanza regolarmente e un po’ meno al francese e all’italiano. Il sardo suona loro molto estraneo, tanto quanto il portoghese, per cui sono piuttosto spiazzati e divertiti dall’alto numero di fricative e affricate, che è probabilmente la caratteristica fonetica distintiva più saliente del sardo per gli stranieri. Dopo una o due sessioni, hanno sviluppato un vocabolario di base per comprendere globalmente testi che classificherei come A2 (principiante avanzato). Il progetto è di far leggere loro “Su Printzipeddu”, che è tutt’altro che semplice, e il sardo sarà una delle lingue su cui verrà testata la loro abilità di lettura con l’intercomprensione».

Quale versione di sardo utilizza?

«È proprio qui che il metodo contribuisce a mettere in luce i problemi della politica delle lingue regionali. A rischio di sembrare ignorante e un po’ provocatorio, rispondo che da un punto di vista didattico non mi interessa quale sardo leggiamo, purché sia “sardo”. Ciò che conta per me è lo sviluppo di competenze pratiche e il fatto che i miei studenti abbiano letto un testo in Limba Sarda Comuna e possano vedere da soli le somiglianze tra le varianti del sardo e capire il contenuto del testo. Quindi sanno che ci sono più sardi e non solo uno, ma quello che ci interessa in classe, prendendo fonti diverse, è discernere l’unità strutturale per capire le sue variazioni manifeste».

E il problema politico?

«Molto spesso, e lo si è visto anche con il bretone in Francia, quando si tratta di impostare una politica di conservazione delle lingue regionali, ci si scontra con dispute campanilistiche in cui ogni paese difende il suo vocabolario, la sua pronuncia, la sua scrittura e la sua particolare sintassi. Se questo tipo di riflessione sulla ricchezza di un gruppo linguistico è abbastanza sano da un punto di vista teorico, dall’altro impedisce una standardizzazione della lingua e quindi l’attuazione di una solida politica di conservazione delle lingue regionali. I detrattori sono spesso troppo veloci nel puntare il dito e dire “vedete, vogliono una politica linguistica regionale ma non sanno nemmeno mettersi d’accordo su che lingua parlare”. Penso che il profondo plurilinguismo dell’intercomprensione e il fatto che sia più interessata al quadro generale che ai dettagli sia una bella soluzione metaforica a un problema politico».

Tornando al sardo, secondo lei continua ad essere una lingua viva?

«Questa è una certezza per chi ha avuto la possibilità di trascorrere un po’ di tempo nei tanti paesi dell’Isola, ricordo ad esempio Orune, dove ho visto bambini e giovani adulti giocare e discutere in sardo. Tuttavia, il fatto che sia purtroppo anche una lingua in via di estinzione e che sia classificata come “definitivamente in pericolo” dall’Unesco dovrebbe essere sufficiente per allarmare le autorità competenti. Che la lingua appartenga ai suoi locutori – non all’amministrazione, non alla scuola, non ai linguisti, non ai grammatici – è a mio avviso la conclusione fondamentale della sociolinguistica. Certo, uno Stato può sostenere, un’organizzazione può finanziare, un linguista può suggerire e normalizzare, ma alla fine, se non c’è interesse a parlare la lingua, se non c’è uno sforzo reale per essere creativi e per dare energia al rapporto tra l’identità sarda e le sue lingue, temo di poter dire che la lingua è destinata a scomparire».

L’UNIONE SARDA, 19 marzo 2023

 

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