GLI UMANISTI CI SPRONANO AL DUBBIO PER ORIENTARCI NELLA VITA, di Mauro Bonazzi

Niccolò Machiavelli (1469-1527), storico, filosofo, e politico fiorentino, notò che gli uomini spesso vengono dominati dal loro carattere .

Sempre celebrato come un’epoca di bellezza e armonia, tra i volti angelicati delle madonne botticelliane e i versi malinconici di Lorenzo il Magnifico ( quant’è bella giovinezza … ), quello dell’Umanesimo è stato invece un periodo incerto, nervoso, e di grandi rivolgimenti. Non un tempo di costruzioni speculative, capaci di dare ordine agli eventi, come era stato ad esempio il XIlI secolo con la grande stagione della scolastica, la cattedrale del pensiero cristiano. Ma un tempo di impegno pratico, di azione, e di riflessione sulle nostre azioni – sugli esseri umani che si muovono in un mondo instabile, dominato dalla fortuna, dove si vince o si perde per un nonnulla. Un pregiudizio duro a morire, nato nell’Ottocento tedesco (altra epoca di castelli speculativi), vede nella filosofia un’attività teoretica, e misura il suo successo nei sistemi dottrinali che riesce a elaborare. Per questo gli umanisti italiani vengono raramente considerati filosofi degni di nota. Sbagliando: perché la filosofia è anche questo desiderio di inseguire i problemi senza preoccuparsi di incasellare tutto in un sistema chiuso. Non si tratta solo di capire, ma anche di agire, e imparare a vivere.

Lo aveva già spiegato Francesco Petrarca, che tutti conoscono come poeta ma che fu anche autore di polemiche virulente contro chi, a Parigi o Oxford, pensava di risolvere le sfide della vita con un ragionamento ben articolato ( e scritto male); e lo hanno ripetuto in tanti dopo di lui, da Lorenzo Valla a Pico della Mirandola e Angelo Poliziano, come lui impegnati nel tentativo di fare luce in quell’enigma che è il mestiere di vivere. Basta aprire Umanisti italiani. Pensiero e destino, un’antologia da poco pubblicata da Einaudi a cura di Raphael Ebgi, per rendersi conto della ricchezza intellettuale di questo periodo.

In effetti, la parola più importante è probabilmente destino. Vivevano in tempi incerti, questi umanisti, e lo sapevano – è cambiato forse qualcosa oggi? In tempi mutevoli, con garanzie di successo sempre precarie. Come fare? È la domanda che si pone Niccolò Machiavelli, in un piccolo «ghiribizzo», così scrive, una lettera scritta all’amico di una vita Pier Soderini nel settembre del 1506. È un compito improbo, scrive, perché «havendo la vista corta» gli uomini, «non potendo comandare alla loro natura», finiscono spesso per essere dominati dalla natura. È un’intuizione amara, ma probabilmente esatta: il vero avversario non è tanto il destino ostile, ma noi stessi, incapaci di liberarci dei nostri pregiudizi, delle nostre inclinazioni e delle nostre abitudini, che ci impediscono di leggere i movimenti della realtà, il rapido variare «dell’ordine delle cose». Però è proprio in questa affermazione così disincantata che si fa strada una risposta possibile – non necessariamente a garanzia certa di successo, ma almeno di reazione a una sconfitta inevitabile. Perché in fondo molto dipende da noi, dalla nostra capacità di liberarci da griglie di lettura stantie, e ancora di più dall’illusione della nostra presunta intelligenza o grandezza. La vera intelligenza è quella che dubita di sé stessa, e dubitando di sé stessa, impara a vedere e muoversi nel labirinto della vita. Questo era quello che serviva all’Italia del tempo, per Machiavelli. Non sembra sia cambiato molto.

 

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