Maurizio Carru: un poeta nella comunità di San Vero Milis, di Mario Cubeddu


 

 

L’opera di Maurizio Carru è abbastanza nota, almeno a paragone con gli scrittori sardi suoi contemporanei. A pochi è capitato di attirare già nell’Ottocento l’attenzione dell’editoria continentale per opere in lingua sarda: nel 1881 una tipografia fiorentina pubblica Sa Passione et morte de Nostru Signore Jesu Cristo. L’autore compare con il cognome Carrus che verrà riproposto dai critici che si occuparono di lui nel XX° secolo, nonostante che nell’autografo figurasse invece la forma corretta Carru. A lui dedica un breve capitolo Francesco Alziator nella Storia della letteratura di Sardegna. L’opera viene giudicata mediocre dal punto di vista artistico, mentre degni di interesse sono considerati la struttura drammaturgica e la rappresentatività  sociale dell’autore. Nel 1996 usciva La scena persuasiva di Sergio Bullegas, docente di storia del teatro all’Università di Cagliari. L’opera aveva il merito di rendere accessibile al pubblico la lettura dei manoscritti del Carru conservati presso la Parrocchia di San Vero Milis. Ma come accadeva per tutti i personaggi della letteratura sarda del Settecento, la vita e il contesto socio-culturale in cui questi scrittori avevano operato era avvolta nell’oscurità. Sembrava che il passato intero del nostro popolo fosse perito in un naufragio senza lasciare traccia. Così invece non era. Nei vari archivi le tracce sono numerose e importanti, basta andarle a cercare. Per scoprire che del sarto di San Vero Milis possiamo sapere molte cose, così come della vita politica, sociale, culturale di Oristano e dei tre Campidani nel Settecento, mentre si prepara l’entrata della Sardegna nell’età moderna. Questo piccolo saggio biografico che oggi voglio riproporre all’attenzione del lettore sardo è stato pubblicato qualche anno va ne “La Grotta della Vipera”,. A conferma del principio, universalmente valido, che la cultura prospera soprattutto in un clima di apertura, scambio e collaborazione, ho segnalato i rapporti che sembrano legare l’ambiente sanverese con la figura di Bonaventura Licheri, il più dotato autore di poesia religiosa di quell’epoca. A lui ho dedicato un altro saggio apparso sempre su “La Grotta della Vipera”.

 

1.

Giovanni Delogu Ibba (1664?- 1738)[1], Bonaventura Licheri ( 1668-1733)[2] e Maurizio Carru[3] sono  tre poeti  vissuti a cavallo tra la fine dell’età spagnola e l’inizio dei governo piemontese della Sardegna.   E’ il momento in cui si chiude un rapporto secolare con una terra, una cultura, una lingua o , per meglio dire, con una varietà di culture e di lingue, e sembrano aprirsi prospettive nuove che si riveleranno in buona parte illusorie. I tre poeti praticano gli stessi generi letterari. Comune è la composizione di gosos, le laudi sacre cantate nelle chiese e nelle processioni da folle di fedeli delle città e dei villaggi. Ibba e Carru  compongono poi entrambi un testo che sceneggia la Passione, l’ultimo atto della vita di Cristo. La Tragedia in su isclavamentu de su sacrosantu corpus de Nostru Sennore Iesu Christu viene pubblicata a Villanova Monteleone nel 1736, la Comedia de la Sacratissima Passion de Nuestro Segnor Iesu Christo sacada de los cuatro Evangelios è rappresentata una prima volta durante la Quaresima del 1728 a San Vero Milis e viene replicata nel 1731.  Quanto al Licheri, anche egli si confronta a suo modo col tema dell’ultimo atto della vicenda umana del Cristo guardandolo attraverso le Sette Ispadas che trafiggono il cuore della Madre addolorata. La provenienza dei tre personaggi sembra fatta per coprire geograficamente buona parte dell’isola, col primo a rappresentare il nord e l’ovest logudorese, Licheri che opera ai confini della Barbagia Mandrolisai e Carru ben impiantato al centro dei tre Campidani. La parte che sembra mancare, il Campidano di Cagliari con la sua appendice ogliastrina, aveva già fatto la sua parte anticipando tutti, aprendo la strada e fornendo un modello,  con la Comedia de la Pasion de Nuestro Segnor Christo scritta nel 1688 dal frate cappuccino Antonio Maria da Esterzili[4].  Giovanni Delogu Ibba ha salvato la sua opera con la pubblicazione. Di Bonaventura Licheri invece non è rimasto alcun manoscritto. Ai primi del Novecento si aveva notizia di una raccolta che sarebbe stata conservata nella Curia di Oristano. Fu forse la celebrità che subito accompagnò il suo nome a spingere qualche mano poco rispettosa a volersi appropriare del manoscritto contenente le opere del Licheri.  L’ignoranza degli eredi del ladro fece probabilmente si che l’opera andasse poi smarrita . Maurizio Carru è forse il meglio documentato dei tre poeti, nonostante niente sia stato pubblicato durante la sua vita. Ci sono rimasti i testi scritti di suo pugno, conservati nella Parrocchiale di San Vero Milis e alla Biblioteca Universitaria di Cagliari. La sua opera teatrale  è stata inoltre pubblicata a Firenze nel 1881. Col nome di Mauro  egli fa la sua prima comparsa a conclusione degli Offrecimientos del Santissimo Rosario de la Virgen Santissima, datati 1718. Ha 30  anni e “fa”, compila, questo testo su commissione della Confraternita del Rosario, rappresentata dal Priore Juan Agustin Agus. Si firma semplicemente m. Mauro Carru sastre desta dicha villa.  Le tre collane di Misteri del Rosario sono offerte alla Vergine in una lingua che in parte rispetta i caratteri “arborensi” del dialetto di San Vero Milis, in posizione di passaggio tra campidanese e logudorese, in parte contiene un evidente riferimento al modello di sardo “illustre” da tempo ormai individuato nel logudorese della tradizione poetica. Le litanie sono scritte  in latino, in castigliano invece  i tre Gozos che Carru riprende, non sappiamo se da testi già presenti a San Vero o procurati per l’occasione. Di grande impegno il testo successivo scritto da Maurissio Carru sastre, il Libro de Gosos de la Cofadria de lo Spirito Santo de la Villa de San Vero Milis. Scrive infatti, in conclusione, di essersi dedicato alla sua stesura dal 27 ottobre 1726 al 13 gennaio 1727.  Oltre alle preghiere da recitare durante i vari Officia, dei Santi, della Croce, della Vergine , dei Defunti, il manoscritto contiene la più consistente raccolta di gosos compilata in Sardegna.  Maurizio Carru afferma esplicitamente di essersi limitato a trascrivere gli Officios e le Laudes che la Confraternita dello Spirito Santo è solita “estilar y cantar”. Tutto il materiale ha una o più fonti nel centro-nord Sardegna. Questo è evidente sia nei testi in prosa sia nei gosos, scritti in un logudorese senza influssi meridionali. A quaranta anni, nel 1728, Maurizio Carru fa rappresentare la sua Comedia de la Sacratissima Passion. Ha il consenso del Vicario Generale Miguel De Castro[5], massima autorità dell’Archidiocesi durante il periodo di Sede vacante, e il sostegno di tutte le autorità del paese, dai curati al Sindaco ai Procuratori della Parrocchia. L’opera viene rappresentata durante la Quaresima a sostegno  della parola di un predicatore Carmelitano. La Comedia venne ripetuta di sicuro almeno tre anni dopo, nel 1731, con l’approvazione di Antonio Nin, il primo arcivescovo dell’era piemontese. Oltre alla rivendicazione esplicita del libro trabajado de mi propria mano, tutti gli elementi del testo portano ad attribuire al Carru questa sacra rappresentazione. L’apertura, con il lungo racconto del prologo in ottavas serradas, richiama la versificazione semicolta quale la si conosce da secoli in Sardegna. Il verso non è sempre fluido, frequenti sono i versi ipermetri e ipometri. A reggere la struttura è il testo evangelico, e ancor più il modello della precedente Passione di Antonio Maria da Esterzili. Nel 1731 Maurizio trascrive un altro libro della Confraternita del Rosario con la meditazione dei Misteri scritta in un sardo più “regolare” e una raccolta di gosos più ampia rispetto a quella curata per la stessa associazione. Il confluire nel libro di laudi sacre di diversa provenienza è confermato dalla inclusione alla fine delle Laudi sui Misteri del Deus ti salvet Maria, un testo che ha già evidentemente ampia circolazione[6]6.

2.

Pochissimo  è stato sinora detto della vita di Maurizio Carru, come se ogni traccia di lui fosse andata smarrita[7]. Invece la sua esistenza è ben documentata: questo studio contiene i dati che è stato possibile rinvenire negli archivi notarili e nei Cinque Libri della Parrocchia di San Vero Milis, conservati presso la Curia arcivescovile di Oristano. Maurizio Carru, figlio di Miguel Carru Ghiani e di Sisina Ledda,  viene battezzato il 22 settembre 1688 nella Parrocchiale di San Vero Milis dedicata a Santa Sofia dal prete Nicola Ayola, uno dei molti curati del paese[8] . I padrini sono Lorenzo Foddy e Lucia Silanus. In molti atti di battesimo, ma non in questo, è presente la dicitura nato alcuni giorni prima. Lo stesso dobbiamo comunque supporre per Maurizio, visto che questa è prassi consueta in tempi in cui la vita dei neonati è appesa a un filo e il battesimo è considerato passaggio fondamentale nella vita umana, da compiere il più presto possibile. Gli viene attribuito il nome del Santo celebrato nel giorno del battesimo, il martire Maurizio, vittima delle persecuzioni di Diocleziano. Chi gli attribuì il nome doveva conoscere bene il calendario dei santi; può essere stato il prete che lo battezzò, ma anche il padre. Nell’atto di morte del 1730 si dice che Michele Carru era confratello dello Spirito Santo. Possiamo supporre quindi che fosse anche lui artigiano, o comunque benestante, come in genere gli aderenti a questa Confraternita.  Quando due anni dopo, il 26 aprile 1690, viene cresimato da don Joseph de Acorra y Vico, Arcivescovo di Oristano, è già diventato Mauro[9]. Così viene prevalentemente chiamato dai suoi compaesani, mentre egli si firma quasi sempre Maurizio. San Mauro Abate è molto noto in Sardegna, il suo santuario di Sorgono, al centro dell’isola, è oggetto di un culto diffuso. Per questo i sanveresi operano la fusione dei due santi e dei due nomi. Del misterioso poeta, della cui vita “non si sapeva niente”, i libri della Parrocchia di Santa Sofia a San Vero Milis riportano fedelmente tutte le tappe sacramentali, dal battesimo alla morte. La vita di Maurizio è del tutto normale, e abbastanza fortunata. La registrazione successiva che troviamo nei Cinque Libri è quella del matrimonio. Il 27 settembre 1714 sposa la compaesana Cecilia Caria, figlia di Diego Caria e di Maria Escano[10]. Testimoni sono lo scrivente Antonio Caria Sequi e il chirurgo Santoru Luzu. Due maschi, esponenti del ceto dei principali del paese, invece della solita coppia di fidanzati o sposi. E’ probabile che il primo fosse parente della sposa, non sappiamo in quale grado. Quella dei Caria è una famiglia che conta. E’ il cognome che aggiungono al primo il notaio Diego Pinna Caria e il notaio Sebastiano Olianas y Caria. Maria Thomasa Caria è  moglie dell’uomo più potente del paese, il notaio Fabian Leony, originario di Santulussurgiu, cittadino di Oristano e più volte Ufficiale di Giustizia del Campidano Milis. Ma Cecilia appartiene a una linea minore della stirpe. Al momento del matrimonio non ha ancora raggiunto l’età matura di 25 anni, ma è già orfana di padre. La madre, malata, ha  fatto testamento nell’aprile dello stesso anno, preoccupata prematuramente di mandare la figlia al matrimonio in modo adeguato.[11] Morirà infatti anni dopo . Nei confronti di Cecilia ha una particolare sollecitudine, in considerazione di ciò che ha fatto per la famiglia negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza. La sorella maggiore Sofia è sposata, ha già tre figli e un marito malaticcio. In casa ci sono poi tre maschi, un fratello più grande e due minorenni. E’ una famiglia di pastori di pecore che pascolano gli animali nel Sinis e nelle stoppie del Campidano di Milis. La madre Maria Scanu, originaria di Narbolia, elenca gli elementi del corredo che la figlia dovrà avere in ricompensa del lavoro svolto in casa: 4 lenzuola, dodici rotoli di tela e uno di seta, due coperte, dieci tovaglioli e due tovaglie, gli strumenti per la cucina, compresi ben 50 contenitori di “estergiu”. Il termine può indicare sia i recipienti per la lavorazione del grano, della farina e del pane, fatti con erbe palustri, sia anche quelli di terracotta per mangiare e contenere acqua e vino, un calderone per cucinare, copricasse, materassi, sedie e una cassa per riporre tutti i tessuti. Le spettano anche 6 pecore con gli agnelli, come porzione del contributo materno all’azienda familiare, e la lana  di quell’anno per riempire i materassi. E’ il quadro di una famiglia che riesce a sostenere con dignità la lotta per l’esistenza. Dal testamento  della madre alle nozze passano solo 5 mesi e sono appena compiuti gli otto mesi dal giorno delle nozze quando viene battezzata Maria Grazia, la prima figlia della coppia[12]. Nell’atto di matrimonio Maurizio Carru, che ha da poco compiuto 26 anni, è già indicato come mestre. E’ quindi “maestro”, un artigiano che esercita la professione. Non sappiamo dove e con quale maestro abbia  trascorso gli anni dell’apprendistato, a San Vero o ad Oristano. Un testamento del 1715 documenta la presenza nel villaggio di un giovane apprendista sarto. Non si dice di chi fosse discepolo, potrebbe essere stato maestro del nostro Maurizio.

3.

Il Gremio dei sarti aveva la sua sede ad Oristano. Qui vivevano e operavano gli artigiani di maggiore esperienza, per questo più ricercati. In base allo spoglio di un congruo numero  di atti di incartamento della prima metà del Settecento, possiamo formulare l’ipotesi che Maurizio sia stato portato in città all’età solita di 16/17 anni e che abbia appreso l’arte nel corso dei consueti 6 anni di apprendistato. In alternativa possiamo formulare l’ipotesi, basandoci su  altre vicende dell’epoca, che Maurizio abbia ricevuto inizialmente una formazione scolastica presso uno dei curati di San Vero, o a Oristano. Un percorso simile l’avrebbe portato quasi naturalmente al sacerdozio. Potrebbe invece aver preferito la vita da laico e una professione onorevole come quella del sarto. Certamente Maurizio Carru non è un sarto qualunque. Basterebbe la firma lasciata sui documenti e il prestigio sociale di cui certamente godette, se mancasse la testimonianza delle opere. Qui compare una grafia del tutto analoga a quella dei notai più istruiti.  Difficile pensare a un percorso totalmente da autodidatta. Comunque sia, nelle ultime testimonianze documentarie Maurizio Carru viene qualificato anche come “scrivente”, termine attribuito a poche persone che uniscono competenze nella lettura e scrittura a una condizione sociale che li colloca al di sopra della massa dei paesani.                                           Non mancano d’altra parte le attestazioni di percorsi che portano dalla condizione di studente a quella di artigiano. A collocare i giovani presso i maestri di Oristano, in particolare presso i sarti,  sono spesso dei fratelli sacerdoti o notai che pensano di offrire loro una collocazione sociale dignitosa. Un’altra ipotesi ha più del romanzesco, ma apre uno spiraglio sulla realtà sociale e sulla vita di molti appartenenti al clero nella Sardegna di antico regime. La traccia è fornita da un momento di dimenticanza, una trascuratezza rivelatrice. Per una bambina battezzata col nome di Eugenia, il 3 novembre 1671, furono scelti come padrini due fidanzati, Joseph Carru e Crescentina Orrù. Di entrambi si dicono paternità e maternità e il primo risulta figlio del Reverendo Joseph Carru  e di Martina Angela Tiddia. Potrebbe sembrare un errore di paternità, invece che il frutto di una disattenzione. Ma il nostro Joseph Carru è un giovane la cui disponibilità viene  apprezzata e utilizzata per molti battesimi. Lo ritroviamo infatti come padrino l’anno successivo. Stavolta è indicato come figlio di N. e Martina Angela Tiddia. Nel 1673 si indica solo il nome della madre di lui accanto a quello della madrina, la signora Eugenia Pinna di Oristano. L’associazione a un personaggio importante, insieme alla presenza in numerosi battesimi, testimonia che almeno una parte del prestigio sociale del padre Reverendo si era trasmessa al figlio. La registrazione dell’atto di nascita di Joseph Carru ha dell’incredibile. Il documento dice : “Joseph, figlio di N. e Martinangela Tiddia coniugi è stato battezzato da Antonio Manca prete e curato”. Concretizzando un fantasma si salvava l’onorabilità della donna, almeno agli occhi di un lettore distratto degli scarabocchi spesso tracciati dai curati nei registri parrocchiali[13]. “Figlio di prete, nato da generazioni di preti”, si potrebbe dire. Niente di particolarmente inedito o sconvolgente per il clero europeo, tanto meno per quello sardo[14]. Per spiegare il fatto che il figlio illegittimo di un sacerdote godesse di tale considerazione e che sulla madre non ricadesse nessuna macchia di riprovazione sociale, basterà ricordare il brano, riportato da Raimondo Turtas, di quel gesuita che a metà Cinquecento racconta come nei villaggi sardi il celibato venisse ignorato e addirittura le migliori famiglie si sentissero onorate di fornire una “moglie” ai giovani sacerdoti che arrivavano nel villaggio[15]. Il reverendo Joseph Carru, molto attivo nella registrazione degli atti sacramentali a metà Seicento, viene sepolto il 7 luglio 1667. Non ha fatto testamento e ha avuto solo l’estrema unzione. Difficile quindi trovare una prova che dimostri un legame familiare con Maurizio Carru. Questo avrebbe spiegato un contatto stretto con il mondo ecclesiastico, l’unica fonte di istruzione allora disponibile in un villaggio sardo. Possiamo quindi solo immaginare un’infanzia nel corso della quale Maurizio abbia assorbito gli elementi della Grammatica e abbia cominciato a entrare in contatto con i testi sacri. La sua formazione culturale può essere avvenuta integralmente anche presso un maestro dell’arte colto e sensibile. La figura dell’artigiano è nel Settecento, nella città di Oristano e nelle “ville” dei Tre Campidani, elemento di raccordo tra i ceti privilegiati, aristocrazia e clero, e la massa dei vassalli. La vita collettiva all’interno del Gremio, la partecipazione al governo di un’associazione estesa nel territorio dei tre Campidani, l’attività di controllo dei praticanti e la riscossione della tassa d’esercizio della stessa, la gestione del capitale accumulato dall’Arte, l’attività di soccorso alle vedove e agli orfani dei sarti defunti, sono tutti stimoli alla crescita della dimensione sociale e intellettuale di un giovane artigiano. Maurizio Carru aveva tutte le capacità necessarie per trarne profitto.

4.

La vita di Maurizio Carru fu scandita dalla nascita degli otto figli, dal lavoro quotidiano nella bottega di sarto, dal ricorrere ciclico delle festività religiose organizzate dalla Parrocchia e dalle tre Confraternite presenti a San Vero Milis. Dopo Maria Grazia nel 1715, i figli arrivarono regolarmente, quasi tutti a distanza di due anni circa l’uno dall’altro. Maria Francesca nel 1717 e poi Francesco Antonio, Sofia Dorotea, Pedro Pablo, Miguel Ignazio, Anna Bonayra e infine Maria Rosa, battezzata il giorno dell’Assunta del 1734. Fu una grande fortuna, un segno della speciale protezione celeste, che solo uno  di loro, la primogenita Maria Grazia, morisse prima dei genitori. La famiglia numerosa comportava la necessità di incrementare e diversificare le fonti di reddito. Anche gli artigiani avevano allora uno strettissimo rapporto col mondo agrario. L’attività di bottega non era mai tanto esclusiva da non consentire di dedicare parte del proprio tempo ai lavori agricoli. In quell’ambito si poteva pensare a creare una collocazione per i figli maschi che non intendessero proseguire l’attività paterna. Nel primo testamento, dettato nel 1747[16] in seguito a un periodo di malattia in cui si accentuarono anche i problemi alla vista, un male diffuso tra i sarti, Maurizio lascia ai figli due gioghi di buoi, terreni nelle due vidazzoni del villaggio e un orto con piante da frutto. Alle attività agricole si dedicano i due figli maggiori. Il minore, prediletto dal padre, erediterà il mestiere paterno e gli attrezzi che gli competono. A morire prima di lui nel 1748 fu la moglie Cecilia, che lo precedette di 5 anni. Per entrambi furono fatali i freddi di fine dicembre. Affidò i suoi beni e la cura degli affari famigliari al “carissimo” marito e al figlio maggiore Francesco Antonio, che doveva essere il preferito della madre[17]. Anche lei era molto legata al mondo delle Confraternite, perché si dichiara consorella di tutte e tre le associazioni sanveresi. Le due figlie nate per ultime sono nella minore età, ma le lascia in buone mani. Dei beni che conserva come propri, come fanno tutte le donne sarde nel contratto di matrimonio “ a sa sardisca”, lascia alle figlie piccole il corredo con gli oggetti di casa e il pentolone di rame che aveva avuto dalla madre. Al marito lascia in proprietà il  letto coniugale, un segno non frequente di amore e di stima. Nell’inventario dei beni sono presenti solo gli oggetti di casa, mentre mancano gli immobili, case e terreni. E’ possibile che fossero pochi in partenza, come avveniva per le famiglie pastorali che puntavano soprattutto sul pascolo libero. Ma è anche possibile che abbia venduto per seguire le vicende economiche del marito. Maurizio Carru ha lasciato due testamenti e una donazione, il primo del 1747, che abbiamo già visto, il secondo dettato invece, come la donazione, pochi giorni prima della morte[18]. In quegli anni di vecchiaia la situazione è cambiata. Il figlio maggiore contadino è andato a vivere nella sua casa e maestro Maurizio si sente sempre più anziano e debole. Si affida quindi al figlio minore, Michele Ignazio, che privilegia con una donazione. A condizione che si assuma l’onere di occuparsi del padre nella vecchiaia. Pietro Paolo, l’altro maschio, ha scelto di dedicarsi all’allevamento del bestiame, e ciò lo porta per settimane intere lontano da casa dietro un armento di vacche.  E’ un mestiere esposto ai rischi delle stagioni e agli agguati dei ladri, e ben presto è carico di debiti. Michele Ignazio ha il nome del nonno e quello del fondatore della Compagnia di Gesù. Come dimostra anche il caso di Maurizio, nell’onomastica familiare del tempo la pressione degli antenati è altrettanto forte di quella dei santi. Il testamento del 27 dicembre precede di appena tre giorni la sepoltura registrata il 30 dicembre 1753[19]. Gli interessi famigliari sono sistemati, ognuno dei figli ha avuto la sua parte, resta una figlia da sposare e debiti da pagare. I provvedimenti per l’anima sono quelli assolutamente normali, caratteristici di un uomo che muore sapendo di non avere conti in sospeso. Lascia le cinque messe ordinarie, sa che verrà accompagnato dalla Confraternita del Rosario di cui è stato Priore, che molto gli deve per la sua attività di scrittura. Altrettanto faranno le altre due confraternite, dello Spirito Santo e del Carmen, che lo hanno voluto loro socio onorario. Lascia alcuni debiti contratti in occasione di compere fatte per garantire una casa a ciascuno dei figli maschi.

5.

Le tracce che Maurizio Carru ha lasciato nei documenti notarili riguardano in piccola parte la gestione dell’economia familiare, in misura maggiore la  partecipazione alla vita del suo paese, San Vero Milis. Per molti anni egli è compreso tra le poche persone, una decina in tutto, a cui la comunità si affida per le decisioni più importanti. Si tratta delle figure eminenti della società di villaggio del Campidano Milis[20]. Ogni anno viene eletto un Sindaco. Dopo l’autorizzazione viceregia, il banditore pubblico della contrada  viene inviato dall’Ufficiale di Giustizia a convocare a suon di tamburo l’assemblea di tutti i paesani. Il magistrato ha già individuato 5 saggi che devono proporre la terna all’interno della quale verrà scelto il Sindaco. Costui potrà prendere decisioni solo dopo aver avuto il consenso di un consiglio di cinque eletos, un organismo consultivo che deve dare approvazione preventiva a ogni decisione che impegni la comunità. Nei verbali registrati dai notai del tempo, che contengono la procura con l’affidamento dei poteri  collettivi, sono citati a San Vero Milis anche i prinzipales che, al contrario degli eletos, costituiscono un vertice stabile della struttura economica e sociale.  Sembrano chiamati a esprimersi solo nelle occasioni straordinarie. Maurizio Carru, generalmente indicato come Mauro, è presente sia tra i saggi sia tra gli eletos, e si trova nell’elenco dei prinzipales citati in occasione di una riunione straordinaria nel 1741[21]. Nel 1739 fa parte del consiglio degli eletos insieme a due notai e due scriventi. Paradossalmente il fatto che, a quel che sappiamo, non sia mai stato eletto sindaco sarebbe una conferma, più che una smentita, del suo prestigio sociale, visto che i personaggi più eminenti cercano di evitare una carica sempre più gravosa. Sino a quando le malattie della età avanzata non lo costringeranno a ritirarsi, il Carru prenderà parte attiva alle vicende della sua comunità. Tra il 1742 e il 1743 è anche Procuratore della Parrocchia. La Comunità ha interessi importanti che richiedono cura e attenzione. Una parte del territorio è di proprietà di aristocratici che vivono a Cagliari. Sono terre concesse dal Re a favoriti che traggono vantaggio da un affitto collettivo concesso alla popolazione e i terreni sono lavorati dai singoli contadini del villaggio. Il pascolo sulle stoppie, dopo il raccolto, è generalmente dato in affitto a pastori barbaricini. Un’altra annosa questione riguarda il conflitto che oppone la comunità di San Vero  alle altre  del Campidano Milis, in particolare a Riola, Narbolia, Seneghe e Milis.  Per secoli le comunità sono state in conflitto per il controllo delle vaste aree del Sinis, la grande pianura che unisce i villaggi alla costa, distante 15 chilometri circa . La questione sembrava risolta nel 1526, quando i magistrati oristanesi avevano dato ragione a San Vero che pretendeva il diritto esclusivo di semina e pascolo nella pianura fertile[22].  Ma la pressione sulla terra era troppo forte, le comunità avevano conosciuto alterne vicende demografiche e gli altri 6 villaggi del Campidano Milis ritenevano che potesse esserci spazio per tutti. La piana era in gran parte ricoperta di macchia. Il faticoso lavoro di dissodamento veniva considerato elemento sufficiente per poter accampare diritti su un pezzo di terra. San Vero Milis  difende una proprietà fondata sulla consuetudine, più che sul diritto, con le unghie e con i denti, riuscendo a far valere buone ragioni presso le autorità delle città di Oristano e di Cagliari. In effetti la comunità di San Vero Milis ha maggior forza demografica, sociale e politica, rispetto ai vicini più prossimi. Oristano  è vicina, lo scambio è continuo, e la sua classe dirigente ha amici a San Vero. La città è luogo di approdo dei giovani di talento e ambizione che, una volta diventati cittadini, e dopo aver conquistato una posizione, tornano per un matrimonio, o per curare gli interessi familiari. Sono diversi i notai che si muovono tra la villa e la città. Diego Pinna Caria diventa segretario dei Consiglieri della Città di Oristano, è il notaio preferito della Curia arcivescovile e grazie alle raccomandazioni dei prelati entra nelle grazie dei nuovi dominatori piemontesi. Fabian Leony arriva per matrimonio da Santulussurgiu, è eletto più volte Ufficiale di Giustizia del Campidano Milis ed è impegnato in un’ascesa sociale familiare su più fronti. Il fratello, il reverendo Juan Antonio Leony briga per la carica di canonico e ricorre a ingenti prestiti per pagare chi a Roma sostiene di avere entrature importanti in Curia. Il patriziato cittadino ha interesse a combattere i dissodamenti e l’estensione delle terre arate, contrapponendosi a quella che considera un ostacolo posto dai contadini alla libertà di circolazione delle loro greggi sul pascolo libero. Il coincidere degli interessi porta all’affermazione di San Vero nel Sinis a spese di Riola e degli altri villaggi del Campidano Milis.                                                             Maurizio Carru è ancora di più, e soprattutto, uomo di Confraternite. Un’occhiata al calendario delle celebrazioni accompagnate da messe, canti e processioni riportato alla fine delle raccolte da lui curate ci fa sapere quanto importante fosse l’impegno devozionale di chi aderiva a una delle tre Confraternite sanveresi. Maurizio Carru è legato soprattutto alla Confraternita del Rosario. Nel 1725 viene eletto Vice Priore, nel 1730 gli si affida la responsabilità maggiore. Nel testamento ricorderà di essere socio di tutte e tre le confraternite, onorate di averlo tra loro. Ultima testimonianza del prestigio acquisito dal Carru e dalla sua famiglia a San Vero la troviamo nella nomina del figlio prediletto e continuatore della sua professione, Michele Ignazio, come Sindaco nel 1774, in un momento per tanti aspetti importante della storia della comunità[23].

 

6.

Maria Grazia, la prima figlia di Murizio Carru, fu tenuta a battesimo dallo scrivente Pedro Pablo Liquery, una delle persone più in vista di San Vero, e dalla signora Maria Atzeny, seconda moglie del notaio Juan Domingo Liquery. Quest’ultimo era figlio del notaio Bonaventura Liquery, nato e cresciuto a San Vero, diventato notaio e attivo come tale nel paese natale e nella vicina Milis, centro principale del Campidano a cui dava il nome. Bonaventura è presente come padrino in molti atti di battesimo sanveresi alla fine del Seicento, negli anni in cui nasce Maurizio. Una partecipazione così assidua è tipica di quei giovani chierici che i curati in servizio recuperano per il battesimo dei bambini di famiglie modeste all’ultimo momento. Sono testimoni del sacramento, più che padrini. Si tratta di giovani di buona famiglia con un po’ di cultura, indecisi se scegliere la carriera ecclesiastica o la condizione laica. Intanto “imparano il mestiere” accanto a un parente sacerdote e  fanno le conoscenze giuste per ottenere almeno quella condizione di tonsurato, o chierico coniugato, che garantisce il godimento dei privilegi e delle esenzioni del clero. Il Licheri si sposerà  e darà continuità a una dinastia di notai che da San Vero si diffuse a Cabras e soprattutto a Oristano, dove nella seconda metà del Settecento visse e operò un nipote con lo stesso nome. Bonaventura Licheri richiama alla memoria il poeta con uguale nome e cognome, “dotto e distintissimo poeta sacro”, a cui veniva e viene attribuita la composizione dei gosos più famosi, quelli dedicati alla Passione e ai dolori della Vergine. L’autore di “Sette ispadas de dolore” è stato identificato a partire dallo Spano con un  gesuita che aveva abbandonato la Compagnia per tornare nel paese natio di Neoneli e qui morire. In uno studio  pubblicato su questa rivista credo di aver  corretto e completato le notizie dello Spano, ricostruendo le vicende di un giovane nato nel 1668, vent’anni prima del Carru,  formatosi nei collegi gesuitici di Cagliari e Sassari, uscito dall’ordine nel 1692 e vissuto a Neoneli sino alla morte avvenuta nel 1733[24]. In quello studio si accenna a elementi che avvicinano l’opera di Maurizio Carru a quella di Bonaventura Licheri. E’ certo che sono vissuti più o meno nello stesso periodo due Bonaventura Licheri, uno a San Vero Milis e l’altro a Neoneli. Del primo sono sopravvissuti pochi atti notarili redatti soprattutto a Milis, mentre del secondo si conservano solo la firma su diversi atti e poche righe di autorizzazioni concesse durante il periodo in cui fu Ufficiale di Giustizia del Barigadu. Non abbiamo motivo di dubitare del fatto che il poeta sia stato il secondo, lo studente gesuita di Neoneli. Le testimonianze di Giovanni Battista Madeddu e di Giovanni Spano  portano in direzione del Barigadu. La formazione culturale superiore dell’ex chierico gesuita è alla base della più matura poesia sacra che la Sardegna abbia mai conosciuto. Se le identità sono distinte, l’omonimia può suggerire un percorso di avvicinamento e intermediazione e un possibile contatto tra il poeta di Neoneli e Maurizio Carru. La famiglia Licheri ha le sue radici a Ghilarza. L’arrivo a Neoneli è recente, legato alla presenza di un Rettore Fadda. A San Vero Milis i Licheri arrivano invece nei primi decenni del Seicento. Simone Licheri è un uomo di condizione benestante che svolge una professione intellettuale. La sua prima figlia viene battezzata nel 1620 da Mossen Miguel Corellas, cittadino di Oristano, e dalla moglie, la Signora Caterina Jobu. Da Simone discendono tutti i Liquery di San Vero Milis, di Oristano e di Cabras. E’ possibile che ci fosse un legame familiare e una frequentazione tra le due famiglie del Barigadu e del Campidano Milis, che si trasmettevano gli stessi nomi familiari Antonio e Bonaventura?  Questo spiegherebbe le tracce dell’opera di Bonaventura Licheri presenti in Maurizio Carru e potrebbe far pensare a una sorta di tutela culturale da parte del poeta più anziano sul nostro sarto.

 


[1] Del Delogu Ibba esistono due edizioni moderne dell’opera drammatica, Tragedia in su isclavamentu, Index Libri Vitae parte settima, edizione e traduzione di Giuseppe Marci, Cagliari, Cuec 2000 e Tragedia in su isclavamentu , edizione, traduzione e introduzione di Sergio Bullegas, Cagliari, Artigianarte, 2001. Un’edizione completa di tutta l’opera in Index libri vitae, a cura di G. Marci, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, Cagliari 2003.

[2] Definito “celebre” da Giovanni Battista Madeddu nel 1806 e con lo stesso aggettivo, a cui aggiunge “dotto e distintissimo”, da Giovanni Spano a metù Ottocento, era in realtà avvolto nel mistero. Si è perduto un manoscritto con testi suoi ricordato nel 1901 da Emanuele Scano. L’assenza di testi autentici ha favorito opere di falsa attribuzione di testi palesemente non suoi pubblicati in Deus ti salvet Maria, a cura di Eliano Cau, Editrice S’Alvure, Oristano 2001. Un passo avanti si è fatto con l’identificazione dell’autore e il racconto delle sue vicende biografiche in Mario Cubeddu, Poeti ritrovati, poeti inventati, La Grotta della Vipera, N° 99, Estate 2007 Cagliari.  Una parte dei testi a lui attribuiti in Giovanni Spano, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di Salvatore Tola Ilisso, Nuoro 1999, p. 79 sgg. e in Sette ispadas de dolore, a cura e con introduzione di Mario Cubeddu, Perda Sonadora Imprentas, Seneghe 2007.

[3] “Carrus” è la forma errata del cognome, che nei documenti compare invece sempre come “Carru” , presente sia nell’edizione a stampa de Sa passione de nostru Segnore Jesu Cristo segundu sos battor Evangelistas. Comedia de su artesanu Maurizio Carrus, Firenze 1882  sia in Francesco Alziator, Storia della letteratura di Sardegna, Rdizioni 3T, Cagliari 1982.   L’intera opera è stata pubblicata in Sergio Bullegas, La scena persuasiva, Edizioni dell’Orso, Torino 1996.

[4] Fra Antonio M. da Esterzili, Comedia de la passion de Nuestro Senor Christo, a cura di Raffaele Urciolo, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, Caliari 1959.

[5] Il vic. G. del manoscritto del 1728 va sciolto in Vicario Generale, quale era Miguel De Castro. Il Bullegas scrive invece di un improbabile “Vicario, Conte di Arborea e di Santa Giusta.”

[6] Sul Deus ti salvet Maria vedi Raimondo Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna dalle origini al Duemila, Città Nuova, Roma 1999, p. 426, in nota, e G.Marras, “Deus ti salvet, Maria”, nel terzo centenario, “Libertà”, 71, 15 maggio 1981, p.3.

 

[7] Ne La scena persuasiva, cit. p. 16-17, Bullegas si limita a riportare i dati presenti nei libri delle Confraternite della Parrocchiale di San Vero Milis.

[8] Archivio della Curia Arcivescovile di Oristano, San Vero Milis, cartella 1, Battesimi, quaderno 2,  1669-1695.

 

[9] ACAO, San Vero Milis, Cartella 3, Cresime.

[10] ACAO, San Vero Milis, Cartella 4, Quaderno 1, Matrimoni 1669-1773.

 

[11] Archivio di Stato di Cagliari, Tappa di insinuazione di Oristano, Sezione II. Atti notarili sciolti, notaio Giovanni Agostino Satta, vol. 738, 1696-1718, 14 aprile 1714.

[12] ACAO, Libro dei battesimi, San Vero Milis, Cartella 1, quaderno 3, 1695-1725. Gli altri figli sono registrati nello stesso quaderno.

[13] ACAO, Libro dei battesimi, San Vero Milis, Cartella 1, quaderno 2.

[14] La citazione è tratta da Jacques Dalarun, La prova del fuoco. Vita e scandalo di un prete medievale. Editori Laterza, Roma-Bari 2001, pag. 12.

[15] I primi Gesuiti trovano che “non ci fosse , nei villaggi del regno, alcun ecclesiastico che non fosse pubblicamente accasato”,  Raimondo Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, Città Nuova, Roma 1999, pag. 390.

[16] Archivio di Stato di Oristano, Atti insinuati, Tappa di insinuazione di Oristano, volume   1248, gennaio febbraio 1748, Ville,  21 dicembre 1747, notaio Francesco Maria Deidda.

[17] ASO, Atti insinuati, Tappa di insinuazione di Oristano, volume 1266 marzo aprile 1749 Ville.

[18] ASO, Atti insinuati, Tappa di insinuazione di Oristano, volume 1301 novembre dicembre 1753 Ville, atto N° 197, notaio Francesco Maria Deidda per quanto riguarda la donazione a Michele Ignazio. Il testamento è nel volume 1307, gennaio febbraio 1753, Ville, atto n° 97, notaio Francesco Maria Deydda.

[19] ACAO, San Vero Milis, Cartella 5, Defunti, 30 dicembre 1753.

 

[20] Il Campidano Milis è il terzo dei Campidani, insieme al Campidano Maggiore e al Campidano di Simaxis, che formano il Marchesato di Oristano. Questo comprende per certi aspetti anche la città di Oristano, che comunque gode di un’autonomia garantita dai privilegi concessi da Ferdinando il Cattolico nel 1479. Sulla città e sui tre Campidani non vi è alcuno studio recente. L’unico serie riferimento rimane la “Storia di Oristano” inserita nel Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati  di S.M. il Re di Sardegna. Torino 1837. La procedura di elezione dei sindaci, il ruolo degli eletos e dei prinzipales, si può ricavare dai verbali di elezione dei Sindaci, o Procuratori generali, dei villaggi, regolarmente eletti sino alla introduzione dei Consigli Comunitativi in seguito alla riforma del 1771.

[21] ASO, Atti insinuati, Tappa di insinuazione di Oristano, volume 1201, 8 aprile 1741, notaio Juan Deyola.

[22] ASC, Antico Archivio Regio, Q 48 B 55.

[23] ASO, Atti insinuati, Tappa di insinuazione di Oristano, volume 1489 aprile giugno 1774 Ville, atto n° 138, notaio Juan Deyola. Anche dopo l’istituzione dei Consigli comunitativi le comunità, in questo caso riunite in Giunta e non come assemblee di cittadini, continuano a nominare dei Sindaci curatori degli interessi più urgenti.

[24] Mario Cubeddu, Poeti ritrovati, poeti inventati, cit. Sull’opera del Licheri e la sua diffusione vedi anche Sette Ispadas de Dolore, Bonaventura Licheri e i gosos della Confraternita del Rosario di Cabras del 1784, a cura di Mario Cubeddu, Perda Sonadora Imprentas, Seneghe 2007.

 

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