L’avvento che tutti ci aspetta, di Barbara Stefanelli

Ci siamo infilati in questo dicembre travolti da tutto. Dall’invasione di Putin, era il 24 febbraio, neppure un cessate il fuoco in dieci mesi. Dalla guerra energetica, che abbandona le città ucraine alle notti sottozero e al ronzio dei generatori, per poi scivolare – dall’altra parte di una frontiera  cancellata a fine Novecento – nella nostra lista di spese mensili moltiplicate. Dallo sconvolgimento climatico, che ci trascina tra picchi di siccità e cascate di acqua. E che – incrociato agli abusi edilizi, ai disboscamenti, al terrìtorìo consumato e risputato dagli interessi privati – sgancia colate di fango sulle strade, i palazzi, le auto, sulle persone.   Su di noi, esposti senza tetto o scudo a una sequenza di accelerazioni di cui nessuno ha memoria. Travolti forse anche dalla fatica, dal dolore per le persone che abbiamo perduto, dall’insicurezza che resta.

Ma questa – proprio questa sequenza di domeniche – dovrebbe essere la stagione dell’Avvento.

L’Avvento è attesa della luce, del solstizio che dal 21 dicembre ricomincia a scalare il buio.

È rallentamento, riconoscimento di una direzione comune, di una freccia-cometa che ogni anno punta a un passaggio stretto attraverso il quale la criniera dei giorni si abbassa.

Dai primi secoli del Cristianesimo, la chiamata a spogliarsi di strati e distrazioni andò a saldarsi con la gioia del credente che sente avvicinarsi “la nascita del Signore”, il Salvatore, e quindi la propria rinascita nella speranza. Il tempo che si ferma e rinnova nel mistero di un Dio bambino.

Scrive Byung-chul Han, il filosofo sudcoreano docente in Germania, che «religione, non a caso, deriva da relegare, prendere nota». Ogni pratica religiosa è un esercizio che chiede, reclama attenzione. E l’attenzione è «la preghiera naturale dell’anima».

Noi facciamo forse l’opposto. Cerchiamo velocità, dispersione, scrolling & dopamina. Rifuggiamo da riti che non capiamo più e che sembrano negare la nostra ansia di separazione, di distinzione, di autorappresentazione.

I riti – ancora Byung-chul Han – sono azioni simboliche. Rappresentano e tramandano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. «Creano una comunità senza comunicazione».

Mentre noi in che direzione sciamiamo? Noi ci gettiamo in una comunicazione senza comunità. Per questo il nostro essere-nel-mondo rischia di non sciogliersi mai in un essere-a-casa. Sono i riti, invece, a rendere il tempo abitabile.

A noi la ripetizione fa paura, ci mette in allarme, in fuga. Eppure la poesia, la preghiera o le canzoni ci avvertono che sono le ripetizioni a entrare, a farsi strada, a calmare. I ritornelli calmano anche il pianto dei neonati insonni. È bello che “apprendre par coeur” sia la traduzione francese del nostro “imparare a memoria”. Cuore e testa che risuonano.

È già il 18 dicembre. Possiamo però recuperare: un calendario dell’Avvento – ogni mattina una finestra aperta su un giorno e poi su un altro giorno – può essere il nostro rito minimo.

Magari un ponte verso le pagine dei Vangeli, se quelle pagine rappresentano ancora radici e promessa per noi, o verso gli spazi scarni della meditazione buddhista. Oppure, perché no, verso la stanza senza pareti di un raccoglimento laico. Ogni percorso ha senso se ci riporta dentro il tempo, se ci sfila alla routine sfiancante della performance, per riconsegnarci all’intensità, alla quiete. All’attesa, ai desideri che non sfiammano ma lievitano lenti come il pane.

Editoriale di  SETTE del 09.12.2022

 

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