MARCELLO TUVERI, IL GUSTO DELLA LEALTA’ PER L’AUTONOMIA REGIONALE (5) , di Gianfranco Murtas (parte quinta)

In questa quinta parte continua il lungo ed interessante contributo che l’amico  GIANFRANCO MURTAS  ci ha messo a disposizione per ricordare la figura di MARCELLO TUVERI, importante figura della classe dirigente sarda del  secondo dopoguerra, distintosi nei molteplici  ambiti in cui ha prestato la sua opera: intellettuale, sindacalista, dirigente d’azienda, militante e dirigente, prima  sardista (autonomista, in contrasto con Antonio Simon Mossa e la sua linea indipendentista-federalista) e poi repubblicano.

Dunque dopo due lunghi decenni di militanza, insieme disciplinata e creativa, propositiva e vivace all’interno del Partito Sardo d’Azione, Marcello Tuveri – già segretario del gruppo consiliare nella prima legislatura regionale, quindi assistente universitario e funzionario dell’Ateneo, infine funzionario del Centro di programmazione regionale (esperto di problemi giuridici ed istituzionali) – lascia i Quattro Mori ormai affascinati dalla mitologia nazionalitaria ed indipendentista predicata da Antonio Simon Mossa e partecipa alla esperienza del Movimento Sardista Autonomista che, affiancatosi per tre anni circa al Partito Repubblicano Italiano (come già lo era stato, dal 1962-63, lo stesso PSd’A), nel partito dell’Edera confluisce nel marzo 1971.

Assumendo di lì a poco la direzione generale dell’ARST, rallenta giocoforza la sua presenza sulla scena politica per qualche anno, accettando soltanto alla fine del 1976 di riprendere un suo ruolo nella dirigenza di partito. Accompagnerà l’ufficio, nel tempo, con delicati incarichi anche nel CIS come membro del collegio sindacale (quando la presidenza del Cd’A è tenuta da Paolo Savona), e dell’Aluminium Italia/ALSAR (gruppo EFIM) come consigliere d’amministrazione dal 1987. E in campo sindacale, trascorsa la lunga esperienza della CISL, si associa alla FNDAI e alla CIDA, organizzazioni confederali dei dirigenti d’azienda.

Nel 1988, dopo esser stato fra i più vigorosi sostenitori della segreteria politica di Salvatore Ghirra, si trarrà volontariamente da qualsiasi ruolo dirigente del PRI e con lo stesso Ghirra, Lello Puddu ed altri darà vita all’associazione politico-culturale “Cesare Pintus”, di cui terrà la presidenza – subentrando a Ghirra – dal 1998 e per otto anni.

Il presente articolo coglie il suo cursus vitae proprio alla ripresa di una più marcata visibilità politica nella dirigenza regionale del Partito Repubblicano Italiano, quando affianca l’on. Corona nella regia della “unità autonomistica” della quale il PRI si fa strenuo promotore.

Riprendendo il discorso sulle riforme istituzionali e amministrative…

Intanto ha ricominciato a scrivere sui giornali di grande diffusione. Del 1976 possono richiamarsi due editoriali usciti su L’Unione Sarda del 17 luglio e del 19 novembre, rispettivamente sotto il titolo “Il nocciolo della riforma” e “Cominciare subito e cominciare bene”; del 1977 una interessante riflessione, oltreché sulla specialità regionale e la riforma amministrativa centrale e periferica, sulla problematica soppressione delle Province: “Le Province sotto accusa”, ancora su L’Unione Sarda, in terza pagina, l’8 luglio (gliene dà l’occasione l’uscita di un libro del costituzionalista Augusto Barbera). Ecco i tre testi:

“Il nocciolo della riforma”

L’articolo di Giorgio Melis “Il braccio frenante” sull’Unione Sarda di Domenica 11, richiama l’attenzione delle forze politiche e dei sindacati sull’urgenza della riforma della Regione. Partendo dalle novità positive contenute nel piano della pastorizia sottolinea l’importanza della fase di attuazione delle riforme, il ruolo delle strutture burocratiche per evitarne il fallimento e l’impegno necessario a non ripetere gli errori accumulati comunque dall’autonomia regionale nel passato.

E’ inammissibile – dice per esempio – che gli 80 miliardi del piano della pastorizia siano rimasti inoperosi nelle banche dal 1969 ad oggi.

Le osservazioni, giuste e centrate, possono agevolmente estendersi a qualunque intervento economico e sociale si voglia realizzare con responsabilità diretta della pubblica amministrazione. La crisi e il fallimento della programmazione, nella passata fase del piano di rinascita, sono state causate oltre che da difetti di prospettiva, essenzialmente dalle carenze delle amministrazioni così dette ordinarie, cioè quelle preposte a tradurre in atti operativi le prescrizioni dei piani. Non diversa è la esperienza della pianificazione nazionale.

Nel “Rapporto sulla programmazione” Ruffolo, Segretario generale della programmazione, con sorpresa avvertiva sin dal 1972 che le resistenze delle amministrazioni pubbliche avevano impedito il processo innovativo negli anni del centro-sinistra. L’unica sorpresa, per chi ha confidenza con questi problemi, è che l’organizzazione dello Stato ed il suo ruolo frenante o propulsivo vennero scoperti dal Ruffolo quando era troppo tardi e la sfida era stata vinta dalle forze della conservazione.

Se i programmatori, politici o tecnici, avessero avvertito l’essenzialità degli strumenti normativi e istituzionali l’esperienza di pianificazione democratica avrebbe avuto ben diverso corso. Al momento della elaborazione politica del piano-messaggio sarebbe seguito quello amministrativo della concretizzazione operativa degli interventi. Ma soprattutto, invece che moltiplicare enti, uffici, comitati e commissioni si sarebbe affrontato il problema della riforma dell’amministrazione nel suo duro nocciolo centrale. Ora si tende a rilanciare la programmazione regionale e si ricomincia a fare i conti con le strutture amministrative. La loro riforma dovrebbe essere, più che rapida, istantanea.

L’esigenza è validissima ma non tiene conto della complessità dei problemi reali, di come siano avanzati gli strumenti giuridici e di tecnica amministrativa da usare e del processo di riconversione che uomini e prassi organizzative debbono sopportare. Certe regioni a statuto ordinario possono insegnare molto in materia di nuovi indirizzi, quali la collegialità del lavoro politico e amministrativo e la snellezza dei procedimenti attivi e di controllo.

Questi problemi di ingegneria delle istituzioni e di tecnica dell’organizzazione sono stati ignorati nei lunghi anni di “selezione negativa”, di “politica clientelare”, “corporativismo” e di “indifferenza”. Bisogna misurarsi, oltre che con questi vizi, con i nuovi valori emersi frattanto in modo prepotente: la partecipazione e l’efficienza.

La partecipazione ha sostituito nel nostro tempo il principio garantistico del secolo scorso. Il cittadino vuole essere presente non solo in forma episodica o occasionale alle scelte politiche ma desidera essere posto in grado di condizionare le determinazioni concrete e amministrative, perché ne avverte l’importanza decisiva. Non è nel momento dell’approvazione del piano di fabbricazione che il proprietario di Monserrato sente la sua assenza dalle decisioni, ma quando arrivano le ruspe del Comune!

Efficienza vuol dire oltre che prontezza e capacità di raggiungere il risultato, non aumentare il numero delle “amministrazioni parallele” che con troppa disinvoltura sono proliferate negli anni scorsi. Non portare fuori dalla Regione i problemi che essa dovrebbe e non sa risolvere. Attribuire agli organi ed enti esistenti compiti che essi possono assolvere correttamente, senza confusioni, sprechi e velleitarismi.

Ad esempio che senso ha attribuire agli organismi comprensoriali, ora e subito, quella programmazione urbanistica e quel coordinamento degli interventi sul territorio che non si riesce a dominare tra i diversi Assessorati regionali e gli enti di pianificazione settoriale? Che senso ha caricare su 25 organismi essenziali, ma nuovi e di difficile avvio, certe responsabilità attuative e che richiedono strutture tecnico-amministrative specializzate mentre si conserva al livello regionale l’istruttoria delle domande e la concessione di contributi e mutui di ogni genere? Efficienza vuol dire fare i comprensori senza sfasciare quel che rimane della Regione.

Per esperienza diretta, anche se non recente, ritengo che per l’avvio della riforma dell’amministrazione, però, non si parta oggi da zero. La riforma ha trovato nel sindacato dei dipendenti regionali e nel sindacato in genere un forza propulsiva di cui si può far conto. Gli impiegati della Regione si sono battuti e si battono per la riforma. I convegni e le tavole rotonde all’inizio degli anni ’70 sono stati animati da loro. Poi con la legge dei combattenti ed altre consimili sciagure è ripreso il momento corporativo e la stasi.

Ora che la programmazione esce da un cono d’ombra e diventa una funzione permanente della Regione, anche la riforma dell’amministrazione ha bisogno dell’impegno non più intermittente e occasionale di tutte le forze politiche e sindacali. Ma l’impegno deve essere finalizzato ad una idea chiara e concreta della Regione, dei suoi enti e delle sue strutture. Intorno a tale idea bisogna costruire un progetto pluriennale che coinvolga tutte le istituzioni primarie o strumentali, comprese quelle comunali e provinciali, consortili e comprensoriali. Istituire una scuola permanente di formazione del personale, di tutto il personale, di quello regionale e degli altri enti. Eliminare senza pietà la selva di leggi e procedure vecchie e paralizzanti, sopprimere gli enti e organismi inutili che ingombrano l’azione pubblica, sono altri punti qualificanti.

Bisogna ridisegnare le istituzioni sulla base delle nuove leggi sul piano di sviluppo economico e la programmazione regionale, aprirle alle novità, programmarne lo sviluppo organizzativo. E’ necessario in altre parole combinare impegno politico e rigore culturale e morale. Per rompere la spirale di sfiducia tra cittadino e amministrazione nella difficile opera di conciliazione tra il potere e l’autorità per tutti e la libertà per il singolo. Per far camminare le cose nelle direzioni utili alla Sardegna.

Solo così il “braccio frenante” dell’autonomia e delle riforme può diventare un braccio marciante.

“Cominciare subito e cominciare bene”

In un momento di crisi grave per l’economia e le istituzioni, la riforma della amministrazione regionale rischia di passare in secondo piano. Eppure tutti la vogliono.

I cittadini, gli enti locali, gli operatori economici e sociali si rendono conto che le cose in Viale Trento e palazzi collegati vanno male. Le forze politiche regionali, nel riconfermare l’intesa pongono, oggi, la riforma come uno dei tre obiettivi fondamentali per il programma della seconda parte della legislatura. Per le organizzazioni sindacali la riforma non è più da tempo un affare interno dell’amministrazione o dei sindacati di categoria. Sembra proprio che sindacati e forze politiche avvertano che essa è pregiudiziale all’insieme di tutta la politica delle riforme.

La sanità, la casa, lo sviluppo dell’agricoltura e il piano della pastorizia, l’artigianato e le leggi che li disciplinano restano pezzi di carta senza una amministrazione buona ed efficiente.

Insomma la ristrutturazione dell’amministrazione e il riordinamento del pubblico impiego sembrano diventati, assieme alla politica dell’occupazione, l’ultima spiaggia per far andare avanti le cose.

La situazione in Sardegna è aggravata da due novità che scuotono la già fragile struttura regionale: una istituzionale, l’altra economico-sociale.

Il progressivo sbaraccamento dei ministeri romani e la deconcentrazione di funzioni esigono prontezza di intervento in molti campi nuovi come la sanità, l’istruzione professionale, l’ecologia, l’urbanista, i trasporti etc. La crisi economica del Paese si riflette assai negativamente in Sardegna ed accresce a dismisura la responsabilità della Regione ed il peso delle sue scelte. La frequenza con cui minatori o contadini, operai od addetti ai servizi occupano, presidiano o visitano il “palazzo” ne è la riprova più evidente.

Poiché la Regione serve e serve a tutti e poiché gli apparati pubblici non sono più – come si credeva un tempo – macchine senza politica e fuori dalla storia, bisogna vedere come il problema si pone oggi concretamente.

Nell’ottobre dello scorso anno è stato presentato al Consiglio regionale un disegno di legge sull’ordinamento degli uffici e lo stato giuridico del personale di ampiezza (113 articoli più 5 tabelle) e contenuto tutt’altro che trascurabili. Nel testo sono compresi importanti principi e criteri di organizzazione amministrativa. Basti pensare alla contrattazione triennale, alla riduzione delle qualifiche, al principio della fungibilità delle mansioni, ai diritti sindacali, alla pubblicità degli atti, etc.

Certo, a leggerlo bene, non manca di rivelare le sue rughe. Anzi in alcune parti le rughe sono segno di antiche e non sopite propensioni per l’amministrazione monocratica e centrale di tipo ministeriale. Pur essendo anagraficamente posteriore alla legislazione sugli organismi comprensoriali non sembra enfatizzare il rapporto di cooperazione con le strutture periferiche.

In tempi di programmazione per progetti speciali e quindi di amministrazione per progetti (giacché programmare senza amministrare non significa niente!) doveva prevedersi una più ampia flessibilità delle strutture e non la ripetizione cara al passato dei settori paralleli. Nella stessa logica la possibilità di comporre ricomporre i gruppi di lavoro è certo più difficile quando alla figura del coordinatore si preferisce ancora il tradizionale “capo ufficio”.

Anche il principio della contrattazione poteva avere uno sviluppo ben più rilevante. Si poteva lasciare a quella sfera, invece che alla solennità e rigidità della legge, una miriade di minuziose norme di dettaglio veramente sub-regolamentari quale la disciplina per le brevi assenze, gli spazi per le affissioni, la indicazione dello straordinario.

Hanno ragione i “regionali” a dire che la collocazione degli uffici centrali forse era più corretto fosse rinviato alla fase successiva alla ristrutturazione della Giunta. E qua e là fanno capolino orientamenti che ricordano comportamenti corporativi forse tuttora vivi! Ma queste ed altre osservazioni non rendono meno grave ed urgente porre mano alla riforma. Bisogna incominciare e incominciare bene. La crisi che circonda le istituzioni è tale da far considerare efficienza e democrazia valori ormai accettati da tutti, anche da chi li discuteva sino a qualche giorno fa.

Incominciare subito con la consapevolezza che si tratta di fare un lavoro lungo è difficile. La strutture pubbliche non si rimettono al passo coi tempi e col progresso a furia di strattoni od a colpi di mano.

Ogni modificazione e ogni novità sul piano istituzionale e organizzativo scontano tempi e costi indiretti sconosciuti a chi non ha esperienza diretta del lavoro burocratico. Per questo bisogna approfondire la conoscenza e condurre seri studi tecnico-organizzativi, non solo giuridici, sulla machina non eccessivamente veloce di una amministrazione regionale nata circa trent’anni fa.

Altre regioni, quelle a statuto ordinario, si sono interrogate alla fine della loro prima legislatura ed il volume stampato dalla Fondazione Olivetti nel 1975 fornisce un dettagliato rapporto e un vivace e spregiudicato dibattito sulla funzionalità di quegli apparati regionali, sulla incidenza dei residui statalistici e sul modo di superare il borbonismo amministrativo.

Orbene, ora noi ci si interroga con frequenza sul nostro passato remoto, si ricerca con angoscia la nostra identità di popolo e si analizzano con finezza le componenti ideologiche di ogni nostro momento storico. E va bene! Ma non sapere se ancora ci vogliono 62 passeggi per far approvare un’opera pubblica o non conoscere il tempo medio per ottenere un contributo qualsiasi e come fare a ridurre gli uni e gli altri va male, molto male.

Avviare un processo permanente di studio delle strutture ed un pubblico dibattito sulle stesse è essenziale. La pubblica amministrazione non deve essere vista come un compartimento stagno, un ghetto riservato alla “mezze maniche”, a certe categorie o a certe forze. Se interessa tutti deve essere esteso a tutti il giudizio e il consenso intorno al suo cambiamento, che è premessa essenziale ad ogni mutamento sociale.

Ed infine se si vuole che il mutamento sociale e la buona amministrazione abbiano come centro propulsore gli apparati pubblici non basta scrivere in una o in molte leggi una frase che finalizzi un intervento perché tutti gli operatori amministrativi ne recepiscano il carattere innovativo.

Se si vuole un ceto professionale capace di fare della buona amministrazione e quindi capace di attuare una buona politica bisogna prepararlo, considerando cultura e formazione come strumenti indispensabili perché chi lavora nell’amministrazione si autorealizzi e si motivi nell’interesse della collettività.

… e puntando all’abolizione delle Province

“Le Province sotto accusa”

Negli ultimi anni si è discusso molto sulle nostre istituzioni. Il dibattito ha oscillato, almeno nelle sue posizioni estreme, tra chi nega che la loro sussistenza sia utile, in quanto sarebbero solo strumenti di oppressione di classe chi ne auspica la loro riforma convinto che il sistema rappresentativo sia insostituibile.

Nessuno o quasi sostiene più che possano essere conservate inalterate o semplicemente restaurate. Soprattutto oggi che la connessione “crisi economica – crisi politica – crisi delle istituzioni” è ritenuta un “unicum”.

Questa unità dei problemi economico-sociali con quelli politico-istituzioni ha bisogno non solo di un nuovo corso politico ma anche di raccordi giuridici diversi e più efficaci di quelli ereditati dallo stato liberal-fascista e presenti nell’ordinamento vigente in quanto convive con una pluralità mai vista di livelli di governo o di consultazione, di decisione o di cooperazione.

Il fenomeno è davanti agli occhi di tutti. La moltiplicazione dei centri di rappresentatività è avvertita in senso orizzontale (enti settoriali, comprensori della più varia finalità, distretti e uffici locali tra loro spesso interferenti) ed in senso verticale (circoscrizioni, comuni, organismi comprensoriali, province, regioni). Il quadro si completa con i numerosi spezzoni di potere statale periferico ancora saldamente incuneati nel tessuto comunitario ed il potere centrale nella complessità degli organismi costituzionali.

Come è possibile saldare questa pluralità di soggetti e di organi in un impegno comune? Come eliminare le sacche di inefficienza e di spreco che la moltitudine di figure organizzatorie determina attraverso il proliferare dei necessari supporti tecnici e burocratici?

Altri elementi rendono difficile il cammino delle nostre istituzioni. Il corporativismo del potere locale e la sua chiusura municipalistica sono un dato costante della storia italiana, come costanti sono le degenerazioni burocratiche dell’organizzazione amministrativa.

E’ possibile con l’azione politica delle assemblee elettive costruire un argine contro il campanilismo imperante nel territorio e la degradazione parassitaria degli apparati?

In senso più concreto e immediato ci si può chiedere: che fare delle regioni? Nate come strumenti di rottura del vecchio stato centralistico sono diventati enti amministrativi, cioè erogatori di contributi facili, di finanziamenti assistenziali vari, ovvero fondatori di nuovi enti ed uffici che spesso formano dei veri e propri corpi separati. Possono trasformarsi in enti di governo, cioè di legislazione e programmazione, capaci di rivitalizzare le strutture locali sub-regionali, invece che soffocarle con un neocentralismo regionale strisciante? «»

Questi ed altri problemi sono trattati in una prospettiva di sinistra non conformista, da Augusto Barbera in un volume dal titolo Le istituzioni del pluralismo (De Donato, Bari, 1977, pp. 318). “Pluralismo” è diventata una parola magica del nostro tempo e pertanto il lettore è portato ad accostarsi alle opere che ne trattano con la diffidenza che si prova per le facili mode.

Ma il taglio giuridico-politico dei quattordici saggi è tutt’altro che evasivo ed astratto. L’autore, titolare della cattedra di diritto costituzionale a Ferrara e deputato comunista al Parlamento, offre una serie di contributi originali e profondi per la risoluzione delle contraddizioni in cui naviga l’organizzazione dei nostri poteri pubblici. L’ordinamento regionale e gli enti locali, il territorio, gli indirizzi di spesa delle regioni, i loro rapporti con il Parlamento, gli enti ospedalieri, i controlli sul loro operato e i comprensori sono oggetto di valutazione critica. Questa critica è più attenta al superamento del vecchio che non alla costruzione del nuovo, più sensibile al momento politico-elettivo che non a quello tecnico-operativo dell’amministrazione. Tuttavia lo spaccato delle istituzioni che ci da è sempre inciso ed interessante, tanto da sembrare involontariamente una traduzione, in termini attuali e concreti, dei grandi temi che l’autore ha trattato sul piano scientifico (i principi costituzionali della libertà personale, leggi di piano e sistema delle fonti, regioni e interesse nazionale).

L’arco di tempo in cui i saggi sono stati scritti (dal 1973 al 1977) segna la evoluzione del pensiero dell’autore dalla contestazione delle istituzioni alla facile necessità delle loro riforme.

Il momento liberal-garantistico dei poteri pubblici è visto talvolta con fastidio e diffidenza data la tendenza a considerare il movimenti del 68 «un potente fattore di liberazione» e «un sicuro avanzamento della democrazia».

La diversa occasione degli scritti, espressi nel fuoco delle vicende del recente passato, incide sulla coerenza di determinate posizioni. Un esempio significativo è dato dal tema della provincia. Barbera la vede come una comunità comprensoriale, ridotta nei confini e con un sistema di competenze analogo a quello delle comunità montane. Da questa prima ipotesi fondata sull’ambito territoriale, disaggregato e privo di omogeneità di questo ente, se ne deduce la necessità della sua soppressione ovvero la sottrazione ad essa di tutte le funzioni che interferiscono con le competenze dei comuni.

La critica della provincia si estende alle contraddizioni e incertezze che i due maggiori partiti (DC e PCI) hanno mostrato nel loro tentativi di delineare una qualunque riforma.

Ma infine, dopo aver richiamato l’emergere dei comprensori come comunità (la “comunità concreta” di Adriano Olivetti) definisce ambigua la formula della trasformazione della provincia in provincia-comprensorio e propone la elezione diretta dei consigli di comprensorio. In tal modo dalle tesi iniziale della provincia-comprensorio si passa al riconoscimento di un unico livello di governo intermedio tra comuni e regioni.

In tutt’altro campo di interessi non sembrano accettabili le considerazioni riduttive del ruolo delle regioni a statuto speciale. Barbera accenna alle «ricorrenti tentazioni del vittimismo milazziano e sardo incapace di cogliere i nessi tra sviluppo capitalistico e sotto sviluppo meridionale».

L’affermazione, inserita nel contesto di una relazione sul regionalismo difficile del meridione, esclude che le cinque regioni nate prima del ’70 fossero valide espressione di autogoverno e rappresentassero un momento della più ampia riforma democratica dello stato.

Orbene, nonostante i limiti delle regioni a regime differenziato, l’autore non considera che esse hanno funzionato da “cavie” in vista della costituzione delle altre regioni. Ignora il confronto duro e difficile contro gli organi del governo, la totale indifferenza del Parlamento e la sommessa avversione giacobina delle forze di sinistra.

Nonostante questa ed altre inevitabili differenze di valutazione, l’opera è ricca di argomenti che inducono alla riflessione a volte per il loro carattere provocatorio, più spesso per la capacità di apprezzare l’affermarsi dei poteri locali fuori di ogni logica apologetica e mistificatoria. E questo non considerare gli enti oggetti di adorazione è tanto più importante oggi che si fa sempre più viva la coscienza del nesso inscindibile tra lotte sociali e assetto istituzionale. Tra sviluppo economico, razionalità e semplificazione della moltitudine di soggetti ed organi che popolano il nostro stato-comunità.

Regioni e poteri locali sono da apprezzare in maniera globale ma non necessariamente contrapposta allo stato con il quale va ricercata una sintesi unificante delle diverse espressioni politiche. A questa imprescindibile necessità sembra ispirarsi «l’idea di una legge sulle procedure della programmazione democratica che renda fluido, armonico e garantito, non caotico e frenante l’apporto della ricca rete delle assemblee elettive».

E ciò conferma chiaramente che il nesso “crisi economica – crisi politica – crisi istituzionale” ha un rovescio per cui da un ordine nuovo e più funzionale delle strutture pubbliche può risalirsi alla crisi politica e dominare la crisi economica. Non a caso si postula oggi un territorio ed un governo forte ma partecipe, unificante ma non totalizzante e tutto questo l’autore auspica senza quel capovolgimento distruttivo che sembrava l’anima della rivolta sessantottesca.

La riforma (sognata) della Regione in un saggio su “Nord e Sud”

Forte della sua esperienza (anche “manovriera”) all’interno degli equilibri consiliari, Armando Corona spende nella politica regionale dei secondi anni ’70 il meglio delle sue energie cercando di dare concretezza a quella “svolta” che egli ritiene necessaria all’interesse della Sardegna e la reale, dimostrabile fecondità della sua autonomia speciale. La prospettiva della “unità autonomistica” di cui il Partito Repubblicano Italiano, proprio perché forza di estrema minoranza, può farsi garante entra decisamente – in parallelo a quando sta avvenendo in campo nazionale (e se ne vedrà di più con le intese Moro-Berlinguer) – nell’agenda dei partiti politici e si connota su un duplice campo: nel rapporto con il ministero romano, che non sempre ha tenuto e tiene conto delle ragioni isolane (anche perché sostenute debolmente da una rappresentanza troppo spesso divisa nel suo fronte) e nella riforma, o autoriforma, di quel “governo complessivo” dell’autonomia, se non anche del suo assetto istituzionale, che è in capo interamente alla responsabilità delle forze politiche regionali.

Non a caso proprio a Corona saranno conferite le deleghe sulla Riforma della Regione ed è il caso di dire qui che, consigliere competente ed ascoltato dell’assessore e vice presidente della giunta Soddu, sarà proprio Marcello Tuveri fra i più impegnati a fornire le linee di un possibile ed impegnativo intervento legislativo in materia, oltreché tutti quei suggerimenti di taglio prettamente amministrativo-organizzativo che vanno a corollario di ogni riforma.

Una certa sistematizzazione delle sue riflessioni e delle concrete proposte normative cedute all’assessore (e suo compagno di partito) Corona, Tuveri la riversa in un prezioso saggio dal titolo “Una Regione da riformare che Nord e Sud – la prestigiosa rivista di Francesco Compagna – pubblica sul suo n. 26 in uscita a marzo 1977. Lo stesso lavoro è accolto anche da L’Amministrazione locale in Sardegna, trimestrale diretto da Bruno Arba (cf. fascicolo n. 2, aprile-giugno 1977).

Si tratta, come detto, di un corposo elaborato tendenzialmente organico, articolato in una decina di capitoli, vale a dire: “Programmazione e Amministrazione: un’occasione perduta”, “La spinta dei dipendenti”, “L’attività di studio e l’azione della Regione”, “La nuova fase del Piano di Rinascita”, “Il nodo della programmazione”, “Le proposte attuali sull’organizzazione degli organi esecutivi”, “Le proposte per l’ordinamento degli uffici e lo stato giuridico del personale”, “Quali i problemi della ‘nuova’ Regione?”, “Indicazioni per l’attuazione della riforma”. E’ qui possibile riprendere soltanto alcuni stralci del saggio (naturalmente, e necessariamente, anche omettendo le fonti).

La necessità di riformare l’organizzazione amministrativa della Regione si afferma chiaramente in Sardegna con la consapevolezza dei primi insuccessi del Piano di Rinascita. Sono gli stessi responsabili della Giunta regionale e gli organi della programmazione, oltre alle opposizioni di sinistra, ad avvertire intorno agli anni ’66-’67 che gli obiettivi fissati dai piani e dai programmi non sono stati raggiunti. E ciò non solo per cause esterne, che formano presto oggetto della contestazione anti centralistica (mancata aggiuntività degli interventi, inesistenza del coordinamento, mancata attività delle partecipazioni statali), ma anche per i ritardi di natura burocratica, le procedure anacronistiche e l’insufficienza degli strumenti della stessa Amministrazione regionale. Anzi tra i primi effetti della programmazione in Sardegna si può individuare un certo scombinamento dell’amministrazione in senso soggettivo. Portata ad agire secondo schemi statalistici e di derivazione burocratica ministeriale (cioè nel rispetto della nota sequenza del tipo di legge, regolamento, circolare, decreto, etc.) essa si trova, con l’avvento della programmazione, davanti a scelte alternative e procedure diverse e subisce un vero e proprio choc da novità al quale reagisce rifiutando il mutamento e richiudendosi nei propri schemi culturali consueti.

Il più vistoso sintomo di questa situazione di crisi è dato dalle dimensioni macroscopiche dei residui attivi nella tesoreria della Regione Sarda, che pur essendo una delle più povere del Meridione, tiene inoperosi nelle banche centinaia di miliardi.

E’ appena il caso di aggiungere che questo fenomeno accrescerà i tempi morti della predisposizione dei programmi esecutivi del Piano di Rinascita; favorirà una politica finanziaria di trasferimento sia verso i privati, con l’erogazione di massicci contributi in conto capitale, sia verso alcuni enti regionali; rinvierà certi investimenti, vanificando la volontà di provocare quella domanda aggiuntiva che era prevista dalla ipotesi globale di sviluppo.

Di questi effetti è concausa l’insufficiente realismo della programmazione regionale, la sottovalutazione degli strumenti istituzionali al fine del conseguimento degli obiettivi ed il distacco dai problemi reali della società sarda. […].

Ripercorrere puntualmente le dichiarazioni programmatiche delle Giunte e i documenti di politica economica del Centro Regionale di Programmazione, che più o meno cautamente denunciano l’insufficienza delle strutture regionali e la necessità delle loro riforme, sarebbe inutile oltre che impietoso.

La nuova fase del Piano di Rinascita

… l’impegno, per non dire la battaglia, di tutte le forze politiche affinché, prima delle elezioni regionali del ’74, si ottenesse il rifinanziamento del Piano di Rinascita con l’impegno, nel futuro decennio, di spendere in Sardegna altri 600 miliardi.

Tuttavia, non appena il Parlamento approva la legge 24 giugno 1974 n. 268, nella quale si prevedono interventi limitati allo sviluppo industriale e importanti novità in tema di riforma dell’assetto agro-pastorale, il nodo dell’amministrazione regionale e delle sue carenze riemerge in tutta la sua gravità.

Situazioni nuove premono per l’avvio della riforma. Avviene il passaggio di numerose competenze dai Ministeri alla Regione in seguito ad una serie di norme di attuazione dello Statuto che, similmente ai decreti delegati per le regioni a statuto ordinario, mirano a deconcentrare più che a decentrare le funzioni dei Ministeri in materia di lavori pubblici, trasporti, agricoltura, sanità e istruzione professionale. La stessa legge dì rifinanziamento del Piano di Rinascita esigerebbe un apparato pubblico più pronto ed efficace che non quello degli anni passati. Anche perché la crisi economica del Paese si riflette assai negativamente sull’isola ed accresce a dismisura la responsabilità della Regione ed il peso delle sue scelte. La frequenza con cui minatori o contadini, operai od addetti ai servizi occupano, presidiano o visitano i palazzi della Regione ne è la riprova più evidente, in effetti sia la situazione economica sia la natura nuova degli interventi legislativi programmati (monte dei pascoli, sezione speciale dell’ente di riforma, finanziamenti nel settore minerario e per lo sviluppo urbano), esigono un rapporto diverso tra l’amministrazione e i cittadini.

A questo scopo si provvederà, ad oltre un anno dalla legge di rifinanziamento del Piano di Rinascita, ad emanare due provvedimenti regionali insolitamente complessi, articolati e di non facile le attuazione. Il primo è la legge 7 agosto 1975 n. 33 che riconsidera i compiti della Regione nella programmazione e compone un quadro degli atti, dei contenuti e degli strumenti della nuova programmazione regionale, aprendola a nuovi strumenti di partecipazione quali il Comitato della programmazione, ove sono presenti in funzione di autonomo apporto politico anche le organizzazioni sindacali; e l’organizzazione di 25 organismi comprensoriali con funzione di decentramento di compiti regionali e di preparazione di piani urbanistici sub-regionali. Il secondo è la leggo regionale che dà corpo al funzionamento delle Comunità montane ed all’esercizio delle loro competenze.

L’una e l’altra sono segno tangibile di una prospettiva politica, il compromesso storico, che al livello regionale appare assai più prossima di quanto non lo sia sul piano nazionale. Il facile iter legislativo di entrambe le leggi è segno di questa profonda intesa tra i più importanti gruppi politici della DC e del PCI.

Successivamente la Regione viene impegnata dal problema della attuazione pratica della legge di rifinanziamento del Piano di Rinascita attraverso l’elaborazione di programmi esecutivi o di altre leggi statali. Ma nel quadro delle numerose attività innovative realizzate non si ritrova alcun provvedimento che appaia come frutto di un’opera che non sia estemporanea e di pronto soccorso e che voglia incidere sostanzialmente sul diverso modo di condurre l’amministrazione attiva regionale. Il dar vita agli organismi comprensoriali, senza che le strutture centrali siano preparate ed una trasformazione del loro ruolo, è solo uno dei tanti elementi che segnano la lacunosità del sistema posto in essere.

Per intendere la ritrosia ad affrontare i problemi connessi con l’organizzazione amministrativa, basta pensare che sono ancora da approvare la legge sulla composizione delta Giunta, della Presidenza e degli Assessorati, il riordinamento degli uffici e il nuovo stato giuridico del personale regionale. Questo stato di incertezza e di attesa si registra in un momento nel quale, per diverse cause (leggi a favore degli ex combattenti, mancata effettuazione, dei concorsi, selezione interna a rovescio) la degradazione degli apparati regionali è giunta a tal punto da far ritenere che «quello che in altre occasioni era stato definito il braccio inerte dell’autonomia, oggi è addirittura, in molte parti, anchilosato». La legge sulla riorganizzazione dell’ufficio del piano economico e dell’assetto territoriale è ancora da approvare. Per cui, dire che le strutture regionali siano oggi in condizioni assai peggiori di quanto non lo fossero nel recente passato, è ancora dire poco.

Il rilancio de/la programmazione

Questo lungo excursus tende solo a dimostrare come ancora una volta il problema dello sviluppo o, meglio, di un programma di sviluppo, sia stato impostato senza pensare con l’impegno dovuto alle strutture tecnico-organizzative necessarie a realizzarlo. E’ un’esperienza non nuova nel nostro Paese ed è la causa non ultima della crisi della programmazione nazionale.

La vera sorpresa, per chiunque abbia una modesta confidenza con questi problemi, è che si debba giungere al fallimento o all’insuccesso di una esperienza per constatare l’importanza della strumentazione sia normativa che istituzionale. E’ generosa quanto diffusa illusione che i sistemi amministrativi, anche a dimensione regionale, si muovano su semplice eccitazione legislativa, magari con una norma iniziale sulla finalizzazione degli interventi che dica frasi assai significanti, ma che figurerebbero meglio nella relazione. Poi magari si trascura la indicazione dei soggetti, degli organi, dei procedimenti e degli atti necessari a realizzare le riforme; ovvero si rinvia ad altra legge o regolamento il da farsi, ovvero, ancora, ed è l’ipotesi più frequente e verosimile, non si calcola la capacità o la potenzialità degli uffici esecutivi necessari a realizzare l’intervento.

Le osservazioni della passata esperienza dovrebbero essere tenute presenti ancor più in un momento nel quale l’esigenza del buon governo è ormai trascurata anche nella gestione dell’amministrazione ordinaria che è diventata pesante, inefficiente e costosissima in qualunque settore. Per cui, anche in Sardegna, andrebbero rivisti con particolare cura gli apparati e tutta quella «fungaia di strutture, di centri, di comitati, divenuti strumenti operativi della distribuzione clientelare delle risorse», come, con bella immagine ha ricordato Adolfo Battaglia alla Camera dei Deputati l’11 agosto scorso.

Programmazione (cioè l’indicazione degli obiettivi di sviluppo) e riforma dell’amministrazione non possono continuare a percorrere strade diverse, soprattutto nel momento in cui si tenta dl aprire la Regione a nuove forme di partecipazione a livello comprensoriale e si mira a rilanciare un programma di sviluppo discusso, elaborato ed approvato dopo una stimolante conferenza sulla programmazione, nella quale le rappresentanze locali non hanno mancato di esprimere, rispetto ai progetti degli uffici centrali, suggerimenti e critiche concrete. La stessa diversa disponibilità del PCI e della altre forze laiche che hanno dato vita ad un’intesa autonomistica doveva favorire l’eliminazione del principio della separazione tra programmazione e organizzazione dell’intervento ed il superamento radicale del passato.

Tanto più che proprio in questa logica in altre regioni a statuto ordinario era venuto assumendo «rilievo sempre maggiore il momento organizzativo della predisposizione degli apparati amministrativi, che possono garantire e controllare l’attuazione del piano, posto in essere attraverso procedure, che ne rendono più partecipata la scelta degli indirizzi» (cf. Mario A. Quaglia). Nel quadro di tale prospettiva già compaiono in alcune regioni atti di indirizzo che condizionano i contenuti dei provvedimenti successivi con una cogenza indiretta alle scelte del piano che dovrebbe far sì che la funzione amministrativa venga esercitata in modo coerente con gli obiettivi del piano e dei programmi.

In altre parole, il rilancio della programmazione non doveva e non deve lasciare sostanzialmente inalterato il quadro delle strutture della amministrazione operativa, ma provocare una simultanea riconsiderazione generale della stessa che tenga conto delle esperienze negative passate, del decentramento intraregionale delle funzioni e del trasferimento degli uffici dai Ministeri alla Regione.

Le proposte attuali sull’organizzazione degli organi esecutivi

Si è già detto che con una legge regionale del giugno ’74 la Giunta era stata invitata a ristrutturare la propria organizzazione amministrativa entro sei mesi e come tale termine fosse, data l’estrema brevità, sostanzialmente elusivo di ogni serio impegno. Un precedente legislativo altrettanto vacuo si era già avuto con la legge regionale 30 giugno 1970, n. 6 che preannunciava le linee fondamentali, per il riordinamento delle carriere del personale regionale, nel quadro della riforma della burocrazia regionale e della ristrutturazione della amministrazione, entro il 31 marzo 1971. Orbene il tempo trascorso dalla legge del ’70 come da quella dei ’74 non è stato certamente impiegato nel migliore dei modi. La politica legislativa in materia non ha cessato di essere frammentaria e settoriale. Se si eccettua la costituzione degli organismi comprensoriali e l’inizio delle attività delle relative assemblee, i fatti innovativi sono veramente pochi e non tutti positivi.

In ogni caso, vanno registrati: la costituzione della Sezione speciale dell’ente di sviluppo per il riassetto del settore agro-pastorale, con la quale I’ETFAS (eredità giacente della riforma agraria degli anni ’50) con circa 1.600 dipendenti viene recuperata per l’attuazione degli interventi previsti dalla legge sul rifinanziamento del Piano di Rinascita. Si è proceduto, pure, a stabilire modalità diverse per il finanziamento delle opere pubbliche dei Comuni e delle Province a carico del bilancio regionale, sostituendo la politica del caso per caso con un programma triennale di interventi del quale anche la spesa è stata decentrata, aumentando la velocità di talune fasi del procedimento.

Ma, sia nella costituzione degli organismi comprensoriali, sia nella determinazione delle quote di fondi da assegnare agli enti locali, non è stata neanche affacciata l’utilità, anzi l’essenzialità, di evitare un quinto livello di governo e la conseguente formazione di una quinta burocrazia. L’occasione della istituzione di comprensori poteva preparare il passo verso la soppressione di enti inutili come le province, in Sardegna divenute recentemente quattro. Ma orientamenti come questi, ispirati dall’esigenze di escludere il mantenimento di tutte le strutture sorpassate dello spreco di mezzi che esse comportano, sembrano preclusi alla classe politica regionale come a quella di tutto il Paese.

E’ indirizzo organizzativo corrente che il riassetto dello pubbliche funzioni passi attraverso la giustapposizione di istituti nuovi ai vecchi organismi, senza nessun’opera di semplificazione e riallocazione delle funzioni. Il rischio che con la proliferazione di nuovi organismi aumenti il disordine e la confusione dei ruoli tra gli apparati pubblici non è stato sufficientemente apprezzato.

L’aumento della partecipazione con l’intervento degli organismi comprensoriali potrebbe tradursi così in un elemento ulteriore di inefficienza a causa della duplicazione di compiti e la commissione di funzioni. In una società poco omogenea come quella isolana gli organismi potrebbero divenire sedi di accentuazione dei conflitti intraregionali tra le diverse aree e occasiono per l’esplosione dei vecchi campanilismi.

Nella linea di un cauto riformismo sono stati presentati quasi contemporaneamente i due disegni di legge sugli organismi esecutivi della Regione e sugli uffici amministrativi, di cui si è fatto cenno: il primo prevede la modifica del numero degli Assessorati (da 9 dovrebbero divenire 12) ed il secondo il riordino dell’amministrazione e il nuovo stato giuridico del personale regionale.

La prima proposta non è certo nuova ed e conseguenza diretto sia dell’attribuzione di molte competenze alla Regione, in seguito all’accennato decentramento di funzioni statali, sia dell’espansione della sfera di azione della medesima in nuovi campi (tutela dell’ambiente, trasporti, lavori pubblici ed edilizia). Essa colma obiettivamente una lacuna. A 30 anni quasi dall’istituzione della Regione «manca ancora oggi una organica e completa disciplina positiva dell’Amministrazione centrale della Regione Sarda» e le poche norme regolanti l’organizzazione sono insufficienti e frammentarie. Mentre il disegno di legge attende di essere discusso, alla elevazione del numero degli assessorati si è proceduto, in una prima fase, con un decreto del capo dello Stato modificativo delle norme di attuazione. In ogni caso la proposta – accettata dopo un lungo dibattito da quasi tutte le forze politiche – dovrebbe consentire la sistemazione negli assessorati di alcuni servizi, secondo criteri di maggiore omogeneità.

Un limite del disegno con cui il Consiglio determinerà mediante legge i compiti degli Assessorati e della Giunta, come vuole l’art. 97 della Costituzione, è dato dalla ripetizione, tutt’altro che originale e innovativa, dei compiti previsti dallo Statuto speciale. Un altro è dato dalla previsione di addirittura due assessori preposti ai compiti propri della Presidenza senza alcun’altra specificazione. In un ordinamento come quello italiano, nel quale ad ogni organo con responsabilità politica diretta è attribuita una branca di attività, è singolare che si configuri un assetto così ampio per affari da determinare. Ciò è ancora più singolare in Sardegna, il cui Statuto stabilisce che i componenti della Giunta sono «preposti ai singoli rami del l’amministrazione» (art. 37). Il testo è lacunoso, inoltre, in ordine alla riorganizzazione degli uffici centrali (dalla programmazione, alla ragioneria, dalla segreteria generale a quelli per l’organizzazione e metodo e personale) che qui non trovano alcuna collocazione. Nessuna novità appare neanche in materia di coordinamento di branche omogenee di servizi (i dipartimenti di alcune amministrazioni dell’Italia centrale), attraverso i quali si potrebbe evitare la parcellizzazione eccessiva del lavoro e favorire il coordinamento strutturale dell’operato di più assessorati: il testo del disegno di legge concepisce i servizi come strutture parallele e tra loro incomunicabili e nega qualunque possibilità di coordinamento tra attività omogenee (economia, servizi sociali, territorio, servizi generali). Segno, questo, che non si vuol cogliere la novità dell’importanza della collegialità nel lavoro politico-amministrativo.

In definitiva, la carenza di principi generali e di una moderna ispirazione organizzativa, in un momento nel quale il potere regionale si trova, davvero, di fronte a responsabilità sempre più ampie ed a poteri sempre più ristretti, appare come una singolare continuazione dell’azione pubblica secondo due piani che diversificano da un lato la programmazione e dell’altro l’amministrazione ordinaria.

Quali i problemi della «nuova» Regione?

Da quanto si è detto appare chiaro come non si può sperare che una «vecchia» Regione si adegui alle esigenze delle nuove per processo spontaneo. Ciò è semplicemente illusorio. Come è illusorio voler rifare da cima a fondo i testi legislativi presentati al Consiglio e pensare di ricondurli integralmente alla logica delle linee della riforma che erano emerse negli incontri, di cui si è fatto cenno, agli inizi degli anni ’70 e che si sono evolute nella esperienza delle regioni a statuto ordinario. D’altro canto fare una nuova legge quadro o di principi significherebbe, oltre che rinviare la soluzione di un problema urgente, cadere in un vecchio errore. Non si legifera più per soli principi. Il momento dei documenti-messaggio è finito. Davanti alla crisi dell’economia, delle istituzioni e della società bisogna muoversi e muoversi bene. Prendere atto, in primo luogo, della gravità dello stato dell’amministrazione regionale, il cui tessuto organizzativo, tra provvedimenti provvisori e inerzia legislativa, e tra leggi per i combattenti e pensioni anticipate, più ché sdrucito appare disfatto.

La Regione non è stata capace di risolvere l’intreccio programmazione-amministrazione. In questo ha seguito la sorte dell’apparato statale che, tranne la Cassa per il Mezzogiorno e la legge sulla dirigenza (in gran parte fallita), in venti anni di ministeri per la riforma burocratica non ha prodotto nulla di nuovo. La programmazione ha rivelato uno stato di insufficienze ma non è riuscita ad invertire il processo di progressiva burocratizzazione degli interventi.

La seconda osservazione è che sinora il rapporto tra amministrazione regionale e l’arcipelago delle amministrazioni centrali è stato episodico ed occasionale. Più affidato al «gioco di rimessa» per i provvedimenti presi dal Governo centrale o dal Parlamento che ad un collegamento organico. E’ auspicabile che la emanazione dei decreti previsti dalla legge 22 luglio 1975, n. 382 sull’ordinamento regionale e l’organizzazione della pubblica amministrazione si possa contare su «un assetto globale dei pubblici poteri che non sia casuale e contraddittorio come quello che abbiamo».

Ma inserire nuove funzioni, uffici e personale nel corpo del l’amministrazione regionale non è semplice ed è, secondo l’esperienza passata, tutt’altro che indolore. L’inserimento di nuovi uffici conseguente alla assunzione da parte della Regione di nuove competenze accelererà il lento disfacimento della struttura burocratica-dicasteriale, sia perché la Regione si troverà privata d’improvviso del vertice direzionale rappresentato dal «superiore» Ministero, sia perché non dispone di nuove strutture che lo sostituiscano prontamente. I ritardi nell’azione amministrativa o nel procedimenti di spesa sono già oggi enormi, come enorme è prevedibile che sia la perdita del livello di efficienza residua in molti campi dell’amministrazione diretta.

La terza osservazione riguarda più da vicino il problema umano del personale regionale. Le modificazioni necessarie a fare della Regione un ente di indirizzo e programmazione comportano una vera e propria rivoluzione nel modello di comportamento. E i modelli di comportamento sono più duri a morire delle stesse leggi. Molti interrogativi sull’efficienza delle strutture regionali hanno risvolti amaramente negativi nell’esperienza passata. Sinora, cioè, la carriera è stata percorsa più sulla base della fedeltà in senso politico clientelare che non sulla scorta delle capacità, delle esperienze professionali, della formazione e dei risultati del lavoro compiuto. L’amministrazione regionale è stata, per troppo tempo, campo riservato ai poteri di gestione esclusiva dell’esecutivo ed è stata ben poco permeata della domanda di partecipazione della collettività. Inoltre, avendo operato secondo una logica clientelare, qualunque valutazione di costi e tempi è secondaria rispetto al problema delle garanzie giuridiche dell’operatore amministrativo. Il funzionario, oltre che per habitus mentale, segno spesso di insufficienza culturale complessiva, sceglie la strada del rigore giuridico-formale anche come rifugio e difesa. La frequenza delle variazioni della dirigenza politica, attraverso le crisi ed i rimpasti e la scarsa stabilità delle giunte regionali in Sardegna, è seconda solo ai governi siciliani. Ebbene l’arma del diritto è uno scudo nei confronti della discrezionalità politica e di chi può rendere responsabile il funzionario colpevole di certi comportamenti nel quadro di una diversa valutazione futura.

Può dirsi, inoltre, che il concetto di efficienza, intesa come prontezza e capacità di raggiungere il risultato, attraverso strumenti adeguati, non ha avuto molta fortuna. Più che ricercare la razionalità all’interno dell’apparato, si è preferita la moltiplicazione di amministrazioni parallele che talvolta hanno portato fuori della Regione funzioni proprie della struttura centrale. Un esempio tipico e recente è il trasferimento della urbanistica comprensoriale agli organismi nascituri privi tuttora, e per chi sa quanto tempo, del personale tecnico necessario a compiti che sinora neanche la Regione è riuscita ad assolvere.

Indicazioni per l’attuazione della riforma

A questo punto bisogna chiedersi se quanto non è stato possibile in passato potrà essere fatto in futuro. Vi sono cioè, in Sardegna, le idee, le forze e le condizioni politiche per realizzare la «nuova» Regione di cui talvolta si parla con enfasi ma che nessuno sa se e come si farà?

In questa nota non ci sentiamo di proporre altro che alcuni suggerimenti di metodo. Il primo dei quali è riprendere ed approfondire il disegno mai realizzato della Regione-ente di governo e confrontarlo con la realtà attuale e con le prospettive future.

Non mancano elementi come si è detto, di novità, come la legge regionale sull’attuazione del Piano di Rinascita, quelle per l’organizzazione comprensoriale e le comunità montane e le proposte di ristrutturazione di alcuni enti, che si collocano in questa linea di tendenza. Ma la pluralità di organi e soggetti vecchi o nuovi ha bisogno di essere ricondotta ad un rapporto più funzionale e razionale. Semplificare le strutture e studiare una corretta riallocazione di poteri e funzioni in sintonia con l’assunzione dl nuovi compiti sinora affidati allo Stato è un impegno veramente eccezionale.

La difficoltà si accresce in una società come quella sarda che vuole essere partecipe delle scelte ed esprime una sempre più vivace capacità di freno quando tali scelte non la soddisfino. Per ottenere il consenso intorno alla riforma è necessario dunque che il metodo della consultazione, specie degli enti locali e delle organizzazioni sindacali, cui si è fatto ricorso eccezionalmente nelle fasi più acute della contestazione anticentralistica e prima dell’approvazione dei programmi di sviluppo per il Piano di Rinascita, sia esteso alle leggi fondamentali che rivestono interesse generale per tutta la società e gli apparati che essa esprime.

Tale consultazione renderà il confronto intorno ai problemi dell’amministrazione più autentico ed ovvierà due inconvenienti di segno opposto che talvolta la partecipazione dei sindacati ha posto in luce. Il primo è la tendenza delle organizzazioni confederali «a proporre ad ogni piè sospinto soluzioni globali e definitive di riforma della pubblica amministrazione» che «sta lì a dimostrare quanto sia debole e carente l’analisi conoscitiva delle situazioni concrete». La seconda tendenza ugualmente inaccettabile, è quella di far partecipare soltanto la categoria degli interessati, rappresentata dai sindacati dei dipendenti. E ciò non tanto per queste organizzazioni sindacali in particolare, che hanno mostrato più volte di essere sensibili ai problemi della riforma, quanto per una considerazione in generale. La partecipazione, che nel nostro tempo sembra aver sostituito il principio garantistico del secolo scorso, deve riguardare non solo gli interessati organizzati ma investire tutta la collettività in quanto l’amministrazione interessa tutti i cittadini. Una presenza ridotta agli interessati sarebbe l’antitesi della partecipazione.

Inoltre, l’opera di consultazione pre-legislativa deve essere preceduta da indagini che partano dall’esame obiettivo degli ostacoli che hanno sinora impedito l’affermarsi di nuovi metodi di gestione. Bisogna scavare, e non tanto in termini giuridici, nelle diverse branche dell’amministrazione, prendendo ad esame l’attività esplicata, settore per settore, fare la critica del lavoro compiuto e dei risultati conseguiti ed individuare i possibili rimedi per la sua riorganizzazione. Indubbiamente nella Regione Sarda, come in tutte le strutture burocratiche pubbliche, si sono verificati fenomeni di degenerazione quali «una certa sostituzione dei mezzi ai fini (regolamento al posto degli obiettivi), una scarsa incentivazione all’operatività (numero chiuso nelle qualifiche e promozioni per anzianità) e la rigidità dell’innovazione (regolamento e status quo sono strumenti di difesa per gli appartenenti all’organizzazione)».

Ma l’avvio di un processo di riconversione di strutture, norme e prassi organizzative non è facile. Esige l’impianto di un apparato permanente per la riforma dell’organizzazione e per la formazione del personale a tutti i livelli. Da un organo ad hoc, con impiego di personale a tempo determinato, più che dai corsi statali di Caserta e dalle Università, può venire la progettazione pluriennale della riforma. Infatti, per capovolgere e rendere funzionale e moderno il sistema attualmente in atto, è necessario un processo che per approssimazioni successive investa uomini e uffici, norme e comportamenti. Esige un profondo ripensamento politico e amministrativo di tutta una selva di norme e procedimenti, la soppressione di organismi inutili, la revisione del ruolo di corpi separati, come la Corte dei Conti, non ultima responsabile dell’instaurazione, attraverso il controllo rigidamente formale, di un comportamento astrattamente giuridico.

L’insieme dei suggerimenti proposti dovrebbe trovare nelle scelte strategiche del momento attuale elementi di sostegno. La programmazione regionale, infatti, sembra uscire da un cono d’ombra con il rifinanziamento del Piano di Rinascita e l’attuazione dei suoi piani pluriennali. C’è la legge del 2 maggio 1976, n. 183, che prevede i finanziamenti regionali di sviluppo e dei progetti speciali della Cassa per il Mezzogiorno. Ora, se la programmazione per progetti diventa un metodo permanente e non più occasionale ed intermittente, come si può non ipotizzare un programma pluriennale di sviluppo organizzativo che coinvolga, come si diceva, tutte le istituzioni primarie e strumentali?

Le forze necessarie a realizzare un simile disegno non dovrebbero mancare. Tanto che nel più recente documento dell’intesa politico-programmatica la DC, il PCI, il PSI, il PSDI, Il PRI, Il PLI, il PSd’A e il MPS hanno posto al primo punto l’attuazione del programma triennale e la riforma della Regione. Il significato di tale accordo si esplica quando il documento, siglato e fine novembre, chiarisce che la Regione deve porsi nei confronti della società sarda, come «occasione di promozione e dl stimolo» del pluralismo ed insiste nei valori come il «rigore e l’efficienza operativa nella conduzione della Regione, contrastando formalmente tutte le forme di degenerazione burocratica, di parassitismo e di sprechi, di egoismo corporativo e localistico» e si richiede, ancora, un «sistema di amministrazione che dia certezza ai cittadini, nell’ambito del sistema diritti-doveri della Regione». Il richiamo alla buona amministrazione ed alla certezza del rapporti con i cittadini è significativo ed importante, in un momento nel quale bisogna combattere il senso di disarmo, lo scetticismo e persino il sospetto che coglie chiunque abbia relazione con gli apparati pubblici. Ed è giusto che sia chiarito che la riforma non sarà un’operazione di recupero politico-clientelare né di neocorporativismo. C’è la possibilità di avere in Sardegna una dirigenza che sappia e voglia «realizzare degli indirizzi invece che dei servizi per se medesima e per i gruppi su cui fa affidamento» [G. Amato]?

Altrettanto significativo ed importante è il richiamo all’efficienza operativa. E’ possibile che organi ed enti, gruppi di lavoro e singoli possano essere ritenuti responsabili dei risultati in termini di tempi e di costi, mutuando dalla tecnica organizzativa moderna quell’interesse al raggiungimento dei risultati che tanto spesso sfugge all’esercizio di attività amministrative? E’ possibile, soprattutto, sottrarsi alla facile tentazione di ricercare in questo momento di disoccupazione intellettuale, il proliferare di nuove strutture, di nuovi uffici e continuare così il metodo della giustapposizione degli enti e delle amministrazioni a quelle già esistenti?

E, infine, un’ultima domanda che investe amministratori e dirigenti, tecnici e politici, impiegati con compiti attivi o di controllo. C’è la possibilità che si crei un’amministrazione al servizio di tutta la collettività e di tutti gli organi che essa esprime e non solo della Giunta e degli Assessori?

Il cambiamento in atto nei ruoli dell’assemblea regionale e della Giunta lo fa sperare. Il Consiglio da qualche tempo, ma con frequenza sempre più accentuata, va interessandosi non solo all’esercizio del potere politico legislativo ma anche all’attività di alta amministrazione, alla ristrutturazione degli enti e degli organi regionali, alla scelta degli amministratori e dei sistemi di gestione. Se questa partecipazione nuova per la Sardegna sarà ispirata all’interesse pubblico ed all’imparzialità, e non a più vasti e profondi sistemi di lottizzazione, il ruolo del Consiglio potrebbe offrire un correttivo notevole all’arbitrio ed alle propensioni clientelari.

Il quadro dei suggerimenti metodologici si completa non solo con il riferimento ad un comportamento imparziale dei dipendenti ma con un cenno al miglioramento professionale dei quadri. Si tratta, come si è detto altre volte, di far posto a tecnici di discipline diverse da quelle giuridico-contabili, ampliando il ventaglio della preparazione alle scienze sociali oltre che a quelle tecniche. Bisogna motivarne l’opera attraverso l’attribuzione di funzioni proprie di cui possono rispondere e non di deleghe e sub-deleghe a cascata in cui la doverosità dell’agire si diluisce sino a perdere la connotazione di chi ha impresso l’indirizzo. Il lavoro collegiale deve essere un incentivo a rendere sinergica l’opera delle strutture, cioè a potenziare la contemporaneità dell’azione, e non un alibi per rendere difficile l’individuazione dell’errore e della colpa. La consuetudine al contatto ed al dialogo con i cittadini, che già è diffusa sul piano della buona volontà, deve divenire un corollario del principio della pubblicità e del contraddittorio, non più in fase giurisprudenziale, ma nel momento istruttorio e nel farsi del procedimento amministrativo. Le relazioni pubbliche nell’amministrazione devono essere strumento non per manipolare il consenso ma per aumentare la convergenza tra i cittadini e i poteri pubblici.

Sarà in grado l’ “intesa autonomistica” di realizzare quello sviluppo programmato dell’amministrazione che non è stato capace di realizzare il centro-sinistra? E’ un interrogativo a cui solo il futuro potrà dare una risposta. Per ora sussistono solo alcune premesse. La tendenza è al rinnovamento. Ma quando non lo è stata? Le idee di democrazia amministrativa, di partecipazione, di decentramento sono state espresse in maniera più che embrionale negli scorsi anni. La possibilità di sperimentarlo in questa nuova situazione politica determinata dall’ “intesa autonomistica” ci sono. Le forze politiche e quelle sindacali avvertono l’importanza della posta in gioco. Gli ostacoli più forti sono dovuti alle condizioni economico-sociali. La crisi del Paese, e la Sardegna è uno degli anelli più deboli della catena regionale, e il rovinoso metodo di lavorare alla giornata sui problemi emergenti distoglie tutti da un impegno così carico di implicazioni tecnicistiche come lo sviluppo organizzativo, la ristrutturazione amministrativa, la riconversione dell’apparato, la mobilità del personale e le sua formazione.

A fronte di queste condizioni non ideali ci sono sintomi positivi, come la volontà di rinnovamento della categoria, l’interesse dei lavoratori e degli operatori economici al funzionamento degli apparati. Saprà vincere il nuovo o il vecchio modo di fare amministrazione? Al di là di ogni facile enfasi politica, e dato lo stato deplorevole delle strutture amministrative, è possibile credere che la consapevolezza del reciproco condizionamento in cui si trovano amministrazione regionale e sviluppo economico dell’Isola sia in grado di imprimere un moto a quella che era una rugginosa macchina di voti per farla diventare la macchina delle riforme?

1977, nasce l’unità autonomistica e il PRI… s’allarga (con qualità)

Nel gennaio 1977 prende dunque l’avvio l’esperienza delle larghe intese fra le tradizionali forze di maggioranza ed il PCI (e, sulla destra, i liberali): l’“unità autonomistica” significa nuovi equilibri anche nella copertura dei maggiori incarichi istituzionali, fra Consiglio e giunta, includendovi esponenti di primo piano della opposizione comunista. Affidata la presidenza dell’Assemblea a quest’ultima, in persona del capogruppo Andrea Raggio, viene varata la seconda giunta Soddu, destinata a una durata di quasi due anni. Si tratta di un centro-sinistra quadripartito – dunque con la presenza anche del repubblicano Armando Corona (come assessore agli Affari generali, personale e riforma della Regione e delega al coordinamento interassessoriale) – con l’appoggio esterno del PCI. Ad essa farà seguito, per restare in carica fino alla fine della legislatura, un esecutivo privo della partecipazione socialista, ma sempre a presidenza Soddu e ancora con la presenza, alla testa del medesimo assessorato, di Corona.

Accanto a Corona ancora per un lustro pieno – fino al 1982-83 – Marcello Tuveri vive questa fase della vita politica ancora dai ranghi dell’… intelligenza consultiva, con qualche progressivo, ma ancora discreto, inoltro (o rienoltro) nell’azione esposta. La sua presenza nel campo repubblicano si farà poi, per alcuni anni, nuovamente di primo piano… Occorre dunque rivisitare, con qualche indugio sui momenti più significativi, l’attività politico-istituzionale del PRI sardo per poter anche comprendere a fondo le scelte ultime, perfettamente coerenti con le premesse, del manager-intellettuale formatosi con i Quattro Mori repubblicani dell’immediato secondo dopoguerra. E dunque…

Precede di poche settimane la formalizzazione degli accordi che porteranno alla giunta Soddu-Corona una lunga e importante intervista del leader repubblicano a La Nuova Sardegna (cf. 1° dicembre 1976), nella quale egli si dice fiducioso circa la stabilità della nuovo quadro politico. Competendo a lui la responsabilità della riforma dell’apparato regionale (secondo le intese ancora in fieri), egli affaccia alcune linee d’intervento destinate a rifluire nel disegno di legge della giunta. In breve, si tratta di metter mano non soltanto alla burocrazia – attraverso il sistema dei dipartimenti aggregativi degli diversi assessorati – ma al cosiddetto “governo complessivo” della Regione, puntando anche alla funzionalità dell’esecutivo come organo collegiale (ivi comprendendo il rapporto assessore/presidente), alla relazione fra Consiglio e giunta, ed alla operatività della rete degli enti strumentali alcuni dei quali paiono al momento quasi isole autoreferenziali.

Mentre dunque l’intero PRI è intensamente impegnato a sostenere l’esperienza di governo del suo maggiore esponente, che di fatto ne mette alla prova dei fatti l’abilità amministrativa, e riesce a catturare pressoché per un anno intero l’attenzione dei mass media, il 1° ottobre 1977 Salvator Angelo Razzu lascia il suo incarico di segretario regionale. La chiamata alla vice presidenza del comprensorio di Sassari non gli lascerebbe tempo per assolvere, evidentemente per il grosso a Cagliari, all’ufficio di “sponda” del solo consigliere regionale repubblicano… peraltro imprigionato nella giunta.

La direzione regionale, riunitasi nel capoluogo, a dicembre lo sostituisce con Mario Pinna, funzionario dell’Ente turistico regionale e fra i maggiori referenti dell’ENDAS, in direzione regionale da lunghi anni. Egli punta da subito ad un rilancio organizzativo, cercando di compattare quei segmenti meno spontaneamente propensi ad una visione comunitaria del partito. Dà corso al rinnovo dell’esecutivo, ponendolo in capo alle segreterie provinciali affidate rispettivamente a Merella (Sassari), Massaiu (Nuoro), Bandiera (Oristano) e Tronci (Cagliari).

Primo appuntamento rilevante della nuova segreteria è l’assemblea plenaria del movimento – partito più enti collaterali – chiamata a Bauladu nel gennaio 1978, preparatoria di quella, organizzativa e programmatica ad un tempo, convocata a Macomer, ed a quella successiva ancora, a Oristano, piuttosto orientata allo studio e al confronto di proposte circa l’occupazione giovanile. Significativo, il 4 giugno dello stesso anno, l’incontro fissato a Nuoro sui problemi della scuola e le sue prospettive di riforma, con la partecipazione non solo degli esponenti del partito ma anche dei rappresentanti dell’ENDAS che di organi collegiali nella scuola si occupano particolarmente.

Nella primavera 1978 il PCI preme per un suo ingresso in giunta, mentre crescono, specularmente, le perplessità e anche le opposizioni da parte della DC tese a modificare il quadro politico. In tale contesto si procede a una verifica attenta degli adempimenti programmatici da parte dell’esecutivo. Da parte sua il nuovo segretario repubblicano affronta le varie problematiche in una lunga intervista a Tuttoquotidiano, nella quale richiama gli orientamenti del partito, insistendo sulla necessità di rafforzare un “patto sociale” – nell’Isola come a livello nazionale – che comporti una collettiva assunzione di responsabilità non soltanto delle forze politiche ma anche dei sindacati e delle organizzazioni datoriali. Centrale è la contrarietà alla crisi della giunta (date certe tensioni fra i partiti che la compongono), che non avrebbe rapida soluzione, e l’affermazione che il punto di equilibrio individuato nel “patto autonomistico” fra le forze politiche che sono state tradizionalmente avversarie è da individuarsi nel “governo effettivo”, o allargato della cosa pubblica, che non può limitarsi all’ambito dell’esecutivo e che dunque non esclude affatto il PCI.

1978, il MAPS di Bruno Fadda nel PRI ed il congresso nazionale

Di particolarmente significativo, nel 1978, è la confluenza nel PRI, domenica 2 aprile, del Movimento Autonomista Popolare Sardo, di derivazione sardista. Lo guida Bruno Fadda, il quale, come detto, nell’estate è subentrato in Consiglio regionale a Giovanni Battista Melis, deceduto dopo lunga malattia. Egli, al momento presidente della commissione speciale Trasporti e Lavori Pubblici dell’Assemblea, porta fra i repubblicani valide energie, soprattutto dell’area cagliaritana (Casale, Ferru, Massazza, Piretto, Scampuddu ecc.).

Di fatto l’intesa marcia, tanto più in Consiglio regionale, da oltre un anno. Ai primi di dicembre 1977, poi, un incontro fra la dirigenza del Movimento e quella regionale del PRI ha definito i termini politici dell’operazione. In una nota diffusa unitariamente dalle due componenti è detto che «preliminare ad ogni fattiva azione politica è apparsa l’esigenza di rivalutare l’autonomia in termini concreti, sia come strumento di governo dell’economia isolana nell’attuale grave stato di crisi, sia come mezzo di partecipazione reale alle scelte nazionali in ordine ai problemi emergenti e indifferibili del Mezzogiorno».

Centrale è il passaggio politico-ideologico che giustifica l’intesa: «La considerazione dell’autonomia trova come punto di riferimento la peculiarità dell’originaria esperienza sardista che per il PRI e per il MAPS hanno valore storico ed attuale se concepiti, al di fuori di ogni velleitarismo separatista, come fatto partecipativo e di democrazia sostanziale dello Stato. La attualità della linea politica del PRI che sul piano nazionale e regionale va sostenendo l’importanza del ruolo di richiamo e di stimolo per le grandi forze politiche sulla gravità della crisi economica, sociale e istituzionale, trova riscontro del tutto positivo nella valutazione del MAPS». Pertanto – prosegue il documento – «il PRI ed il MAPS ritengono fondamento di ogni nuovo discorso sul governo dell’economia sarda sia la riforma della Regione sia il mantenimento delle attività industriali esistenti. Le scelte in favore dell’agricoltura e degli altri settori produttivi impongono la necessità di adeguare l’organizzazione sociale ai bisogni reali delle popolari».

Il 12 febbraio 1978 il passo in avanti è costituito dall’incontro che a Roma l’on. Fadda, accompagnato da Corona, Puddu e Pinna, ha con il presidente repubblicano Ugo La Malfa. Al termine di esso, ricordando che l’ispirazione autonomista del MAPS rifugge da ogni suggestione separatista, un comunicato esplicita «la completa adesione del Movimento sardista e autonomista alla cultura, al pensiero sociale ed economico del PRI» esprimendo anche «apprezzamento per il grande valore morale della battaglia che il PRI conduce senza soste da sempre per il risanamento della crisi nazionale».

Formalmente la confluenza è celebrata, quasi due mesi dopo, in una grande assemblea alla Fiera di Cagliari, alla presenza del segretario politico nazionale Oddo Biasini. Presentando l’evento, La Voce Repubblicana evidenzia tanto l’avversione del MAPS alla linea separatista (nazionalitaria indipendentista!) che è divenuta, o sta divenendo, ampiamente maggioritaria nel PSd’A quanto l’efficacia dell’azione politica ed amministrativa degli esponenti del Movimento nelle province di Cagliari e di Oristano.

Apre i lavori un intervento di Armando Corona, che ricorda l’impegno da lui profuso insieme con Bruno Fadda nelle diverse attività del Consiglio regionale e la comune matrice sardista. Egli dà quindi lettura di un messaggio fatto pervenire dall’on. La Malfa: «Tenete alto cari amici sardi con fermezza l’ideale dell’autonomismo democratico e del sardismo. Esso è stato il sostegno più importante nei giorni difficili della dittatura, lo sarà ancora in questi giorni altrettanto duri della Repubblica». (Sul paese soffia il vento del terrorismo, e già da un mese è stato rapito l’on. Aldo Moro).

Nel suo discorso Bruno Fadda afferma il significato della «unificazione ideologica» appena ufficializzata proiettandola «come fatto di fede e di impegno politico concreto» secondo i valori della tradizione, in cui è da vedere un «fatto rivoluzionario permanente teso al perseguimento dell’autonomia quale strumento insostituibile di crescita difficile e di conquista democratica del popolo sardo».

Le conclusioni sono dell’on Biasini, che valorizza l’evento cagliaritano nel quadro della irriducibile testimonianza repubblicana in difesa dello Stato democratico, come l’ancora irrisolta vicenda del sequestro Moro dimostra».

E’ di pochi giorni successivi un’altra adesione importante: quella di Giannetto Visentini, socialista, ex presidente della provincia di Nuoro, medico e rappresentante dell’UNICEF in Sardegna.

Giusto una settimana dopo la confluenza degli autonomisti popolari si svolge a Porto Torres, all’insegna della celebre frase di Giuseppe Mazzini «Colpevole è quella società in cui un solo uomo cerchi lavoro e non lo trovi», il congresso provinciale di Sassari presieduto dal segretario regionale che, nel corso del suo intervento, conferma la fiducia del partito nella giunta Soddu-Corona.

I lavori sono aperti dalla relazione del segretario uscente Giovanni Merella che ribadisce i tratti distintivi del partito come «coscienza critica della sinistra e di tutta la democrazia italiana»; seguono gli interventi di Fadda, che illustra le ragioni della recente confluenza, degli esponenti algherese Angius ed olbiese Cattrocci, i quali insistono sui temi della programmazione e del cattivo governo provinciale del PCI (perché non si sono saputi cambiare i metodi clientelari della trascorsa amministrazione DC), e di numerosi altri delegati delle diverse sezioni (Spissu e Murineddu di Sorso, Cerroni, Lucchi, Rundine, Corrias e Losito di Sassari, Ferroni di Alghero, ecc.), fino a Nino Ruju e Alberto Mario Saba, il quale ribatte al sindacalista della CGIL ed al sindaco di Porto Torres, passati per la tribuna, per alcuni rilievi critici da essi mossi al partito.

Nella lunga mozione finale viene riproposto un ampio sforzo unitario di tutte le forze autonomistiche per «individuare credibili programmi di intervento, come ad esempio l’attuazione di massicci investimenti nel settore dell’edilizia pubblica e sovvenzionata e dei lavori e opere pubbliche; la definizione di un coraggioso discorso sulla opportunità di finalizzare la cassa integrazione in cui oggi si trovano migliaia di lavoratori ad un loro nuovo inserimento in grossi programmi di ammodernamento dei servizi e di strutture pubbliche; la celere riforma della Regione e delle sue strutture burocratiche al fine di prepararle adeguatamente per la nuova legislatura», ecc. Da ciò scaturisce, si conclude «la necessità di concretizzare la riforma e la ristrutturazione degli enti regionali, tesa alla abolizione di quelli inutili, ed al potenziamento di quelli necessari; a dare pratica attuazione al dettato programmatico realizzato per la nostra provincia nella scorsa estate», e «a realizzare nel modo più sostanziale il concetto politico di pluralità con il varo di una nuova legge elettorale regionale che tolga, tra le regioni, la Sardegna dalla posizione di regione detentrice del sistema elettorale più iniquo».

Al referendum dell’11 e 12 giugno per l’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti e della legge Reale sull’ordine pubblico i repubblicani propongono all’elettorato un doppio no.

E’ ad un mese soltanto dal ritrovamento del cadavere dell’on. Moro assassinato dalle BR, che si svolge (dal 14 al 18 giugno) a Roma il XXXIII congresso nazionale, aperto da una relazione dell’on. Biasini. I delegati sardi che prendono la parola dalla tribuna, riportando la realtà isolana nel contesto nazionale fattosi drammatico, sono Corona, Pinna e Fadda. Così quest’ultimo: «Il Movimento autonomista popolare sardo, confluito poche settimane fa nel PRI, era sorto nel 1975 [recte: 1976] da una scissione politica avvenuta nel Partito sardo d’azione, a seguito di un inconciliabile conflitto ideologico e politico che si trascinava da alcuni anni e che aveva come elemento nodale l’interpretazione del sardismo sia nella sua idealità che nei rapporti con lo Stato. In una parola, il MAPS sosteneva la piena validità dell’autonomismo federalista che mai aveva messo in discussione l’unità nazionale contrapponendolo alla concezione separatista-indipendentistica emergente nella maggioranza dirigenziale del PSd’A, ma in realtà avulsa dalla coscienza dei sardi. Il MAPS affermava l’inscindibilità dello Stato repubblicano che proprio nell’autonomia e nel federalismo individua gli strumenti istituzionali atti ad unificare effettivamente gli italiani nella giustizia e nella libertà. E in questo spirito esso ha raccolto, nel suo profondo significato, il messaggio di Ugo La Malfa, recependolo e sostenendolo nella memoria della comune origine politico-ideologica, che si fonda sulla scuola democratico federalistica della sinistra storica del Risorgimento e sulla presenza rivoluzionaria del movimento dei combattenti sardi… Per questo il MAPS ha avvertito che il punto di riferimento politico doveva essere l’aggregazione degli autonomisti sardi al PRI. Perché il PRI ha questa capacità aggregante. Lo dimostrano la sua storia di partito che ha sempre saputo arricchire la sua ideologia con fecondi innesti culturali, la pertinenza della sua impostazione politica, il valore delle sue battaglie, specie di quelle che conduce con coerenza e con perseveranza in mezzo ad ostilità provenienti da più parti, il più spesso maldestramente mascherata da interessi generali, ma che invece si rivelano chiusure di carattere particolaristico, quando non elettoralistico».

Le votazioni finali per il Consiglio nazionale vedono eletto, fra gli altri, Lello Puddu, chiamato poi (dallo stesso Consiglio nazionale) a far parte della commissione Statuto; nel Collegio nazionale dei probiviri è confermato Armando Corona, presidente uscente.

1979: la morte di Ugo La Malfa, la segreteria Spadolini e molti turni elettorali

La scomparsa improvvisa di Ugo La Malfa, il 26 marzo 1979, nel contesto di una crisi politica e di governo gravissima e solo apparentemente risolta con il varo del nuovo ministero (elettorale) Andreotti , ma che, in una prima fase, si era sperato, da parte del presidente Pertini, di poter risolvere affidando proprio al leader repubblicano la responsabilità di comporre e guidare un nuovo esecutivo di emergenza, impone altri equilibri allo stesso partito che adesso deve presentare alla nazione e all’elettorato una identità complessa ed emancipata dalla sua storica guida. Superato il triplice appuntamento elettorale del 1979 – politiche, europee e regionali sarde – il PRI a settembre si affiderà alla diarchia Spadolini-Visentini, indubbiamente il meglio che, per l’autorevolezza verso l’opinione pubblica e l’affezione della militanza, esso poteva esprimere.

Per intanto, quale ministro della Pubblica Istruzione, Giovanni Spadolini compie una rapida visita in Sardegna nel mezzo della campagna elettorale, anche se non affronta, nell’occasione, temi di partito. Sono poche ore il 14 giugno, in gran parte negli spazi solenni dell’Ateneo di Cagliari, per un incontro con il rettore Aymerich (in procinto di passare il testimone al prof. Casula), il Senato accademico e il Consiglio d’amministrazione dell’università. Si trasferisce quindi nel vasto teatro salesiano dell’Auxilium, per un più ampio incontro con gli uomini della scuola e dell’università, non senza le contestazioni dei Cobas.

Al centro dei suoi interventi, ovviamente, budget ministeriale – con l’annuncio dell’arrivo di 13 miliardi di lire per i progetti di edilizia di facoltà – e precariato (sono oltre ventimila gli iscritti alla università di Cagliari, l’organico docente è di 187 unità cui sono state aggiunte altre 71, già bandito il concorso per 131 posti). Tornerà in Sardegna, Spadolini, il 3 novembre per il convegno di studi in onore di Giorgio Asproni organizzato a Nuoro.

Il triplice turno elettorale della primavera 1979 impegna anche il PRI sardo in un inedito sforzo di “emancipazione” dalla icona del suo leader scomparso. La scelta operata dalla direzione regionale è di offrire la capolistura per la Camera dei deputati al segretario nazionale Oddo Biasini (suffragato infine da 5.250 elettori). Per il resto si punta, come sempre, su quella riserva di militanti o indipendenti nell’area di simpatia che vantano, nei singoli territori, relazioni sociali e professionali suscettive di tradursi anche in consenso elettorale (ciò che vale per Angius ad Alghero, Mele a Sassari, Massaiu, Marletta e l’ex parlamentare socialista Cesare Pirisi a Nuoro, Martignetti a Cagliari, ecc.). In lista, ancora per la Camera, anche il segretario regionale Mario Pinna e il chirurgo Achille Tarquini che, da questa cimento, muoverà per un più intenso impegno politico destinato a portarlo in Consiglio regionale (nel 1984) ed alla stessa segreteria del partito (nel 1987).

Consapevolmente partendo svantaggiato, a causa della polarizzazione sui grossi partiti favorita dalla stessa legge elettorale che non consente il recupero dei resti, e in sovrappiù dallo scarto demografico con l’altra regione costituente la circoscrizione insulare, il PRI presenta, per le europee, nella lista Sicilia-Sardegna i nominativi di due soli sardi, candidati di bandiera: Armando Corona e Alberto Mario Saba.

Più motivata è la partecipazione alla gara per il rinnovo del Consiglio regionale. La nuova normativa elettorale e l’accredito presso l’opinione pubblica di cui si hanno diversi ed evidenti riscontri, nonché l’alto numero di candidati che favorisce una parcellizzazione della ricerca del consenso fiduciario, fanno prevedere una importante affermazione.

In quanto alla campagna di propaganda, è poi da dire che, pur ovviamente modulando i loro interventi sulla natura del turno elettorale più ravvicinato, inevitabilmente il faticoso impegno per comizi all’aperto o in teatro, per incontri con categorie professionali e genericamente con segmenti della cittadinanza frazionati nei vari territori, per interviste e dibattiti alla radio o alle televisioni locali, insomma tutta l’attività di presentazione di idee e personalità diventa, tra fine maggio e prime settimane di giugno, trasversale, nel senso che non distingue più di tanto fra il voto per le Camere, quello per il Parlamento europeo o quello per il Consiglio regionale. Essa tende ad illustrare la coerenza politico-programmatica del PRI così a livello nazionale o continentale come a livello isolano.

Vengono a supportare i candidati numerosi dirigenti nazionali e parlamentari di nome come Oscar Mammi, presidente della commissione Interni della Camera dei deputati come Oddo Biasini, Antonio Del Pennino, Giorgio La Malfa. Vengono anche il segretario nazionale della FGR Ugo Magri ed il segretario confederale della UIL Aride Rossi, che tiene alcuni comizi insieme con Annico Pau ad Orune e Bitti.

Naturalmente non sono da meno, nei loro giri di propaganda, i candidati, secondo quanto le tabelle pubblicate giornalmente dai giornali documentano: Gabriella Martignetti, Benito Follesa ed Emilio Marotto, Mario Pinna e Giampaolo Schinardi, Ignazio Podda, Bruno Fadda. Tonino Uras, naturalmente Armando Corona…

I temi europei sono portati da Alberto Mario Saba a Nuoro e ad Oliena, dove parla con Giannetto Massaiu, e, con Corona, a Cagliari, nel quadro di un convegno animato da Aldo Piras dell’AEDE e Franco Cabras del Movimento Federalista Europeo…

Tanta fatica per quale risultato? Il voto lima di un decimo di punto la consistenza elettorale regionale del PRI, fissandola a 17.591 voti (pari all’1,9 per cento) per la Camera ed a 13.997 (pari all’1,8 per cento) per il Senato.

Particolarmente lusinghiero il risultato di consensi che premia Tarquini. E’ proprio lui, nuorese con prolungata residenza professionale a Cagliari, a coprire la miglior posizione, alle spalle dell’on. Biasini, con 3.410 preferenze, pressoché equamente divise fra le Barbagie e il Cagliaritano.

Nettamente più modesto (per la polarizzazione sui grossi partiti) è il risultato delle elezioni europee – le prime a suffragio universale – che si svolgono la settimana successiva: la lista è suffragata da 12.052 elettori appena (pari all’1, 4 per cento).

In netta risalita, il 17 dello stesso mese, il dato delle regionali: i 29.660 voti raccolti nei quattro collegi provinciali sono abbastanza equamente distribuiti nei singoli territori: 11.737 (pari al 2,9 per cento) a Cagliari, 9.845 (3,9 per cento) a Sassari, 5.104 (3,2 per cento) a Nuoro, 2.974 (3,2 per cento) ad Oristano.

La nuova legge elettorale, frutto diretto del clima positivo instaurato fra le forze politiche nella stagione della “unità autonomistica”, portando ad 80 il numero dei consiglieri e consentendo il recupero dei resti, ottiene al PRI, insieme con la conferma di Armando Corona ora alla sua terza legislatura (sostenuto da 4.464 preferenze nel collegio di Cagliari, di cui 2.088 nel capoluogo), l’elezione del sassarese Giovanni Demontis (2.204 preferenze personali) e del nuorese Antonio Catte (1.665). Ciò consente la costituzione di un gruppo autonomo in Consiglio regionale.

Proprio l’elezione di tre esponenti rappresentativi delle diverse province isolane determina un primo indubbio salto di qualità anche nel potenziale organizzativo del partito. L’elezione di Corona alla presidenza del nuovo Consiglio e la presenza di Catte, sia pure a legislatura avviata, in responsabilità di giunta accentueranno ulteriormente il profilo del PRI sardo, il quale, pur restando una formazione di minoranza, avrà modi crescenti di valorizzare il proprio potenziale di rappresentanza ed abilità amministrativa.

Corona presidente del Consiglio, per il PRI un altro congresso con relazione Pinna

L’avvio dell’VIII legislatura vede dunque protagonisti i repubblicani. Pur nel mutamento del quadro politico, a causa del ritorno del PCI a ruoli di opposizione, il nominativo di Armando Corona – inizialmente posto in alternativa a quello di un altro laico (il socialdemocratico Alessandro Ghinami) – viene considerato tale da poter assicurare, se speso in una carica istituzionale, il mantenimento di un clima positivo e costruttivo fra le forze consiliari. Ed infatti – terzo non democristiano, dopo il sardista Anselmo Contu e il comunista Andrea Raggio – egli viene eletto, nella seduta del 19 luglio, presidente dell’Assemblea, grazie ai voti di DC e PRI, con l’astensione dei socialdemocratici, mentre le altre forze politiche depongono scheda bianca.

«Occorre riaggregare un quadro politico che abbia nella sostanza la consapevolezza – dichiara il neopresidente – che la crisi esiste più profonda di prima e vi è, di conseguenza, la necessità che si addivenga ad un coagulo di forze il più vasto possibile per porre rimedio all’attuale grave situazione. Se vogliamo rafforzare le istituzioni, riportando nel giusto valore l’equilibrio che deve esistere tra le varie fonti decisionali a livello di partiti, forze sociali e gruppi consiliari, credo dobbiamo esaltare la dialettica dell’Aula, delle commissioni, delle conferenze dei capigruppo e di tutte quelle occasioni che il Consiglio regionale istituzionalmente mette a disposizione delle forze politiche…

«Non vi sarà alcuna ingerenza che sia perfettamente legittimata dalle facoltà accordate alla presidenza del Consiglio. Con scrupolo e puntiglio verranno ricercati tutti gli spazi consentiti per far procedere il dialogo politico e per far sì che il Consiglio regionale non sia soltanto la fonte della legislazione, ma anche quella di un indirizzo politico generale. Del resto nei momenti più drammatici della vita dell’Isola sono stati gli ordini del giorno unitari del Consiglio che hanno dato il via alla volontà di redenzione autonomistica della Sardegna e che hanno dettato gli indirizzi e direttive che hanno permesso di camminare per lungo tempo in grande unità e senza commettere grandi errori».

In parallelo alla elezione di Corona alla presidenza della Assemblea, avviene (dopo estenuanti trattative e interdizioni incrociate fra i maggiori partiti) quella del socialdemocratico Ghinami alla guida di un esecutivo tripartito DC-PSI-PSDI appoggiato dal PRI.

Onde meglio definire il posizionamento repubblicano, il 15 e 16 dicembre – l’anno è sempre il 1979 – si tengono i lavori del XVII congresso regionale, convocato ancora una volta nella sala Casmez della Fiera Internazionale di Cagliari e presieduto dall’on. Giuseppe Puligheddu.

Il segretario Mario Pinna anticipa dalle colonne de L’Unione Sarda i temi che affaccerà alla platea dei delegati, ed il titolo che il giornale dà all’articolo bene interpreta il giudizio complessivo che egli esprimerà sul presente e sul futuro della vita politica: “La solidarietà nazionale è una necessità impellente”.

La corposa relazione di trenta pagine (incluse le “linee programmatiche”) è nella sua prima parte una rigorosa analisi critica ed autocritica dello stato del partito, in paradossale contrasto con i successi da esso riscossi alle conte elettorali e anche nei riconoscimenti pubblici, fra i quali è certo da segnalare la presidenza consiliare affidata all’on. Corona.

Dice, Pinna, di un certo allentamento della tensione ideale che gli è parso registrare nei quadri dirigenti, come dimostrerebbe anche la scarsa partecipazione agli incontri chiamati ai vari livelli, e a quello regionale in particolare, ed anche la difficoltosa gestione dei rapporti con il gruppo consiliare e in generale con gli eletti nelle rappresentanze amministrative e politiche. Ombre, ma anche qualche luce, pure nelle relazioni con enti ed organizzazioni collaterali al partito, soggetti autonomi di quel movimento repubblicano che si vorrebbe irrobustire più e meglio, dalla FGR all’ENDAS all’AGCI, per non dire anche dell’Associazione Mazziniana Italiana e del movimento femminile (sempre e con fatica soltanto abbozzato). Pur con tutte le sue specificità, la questione investe anche il rapporto con la UIL, ove la componente repubblicana vanta una presenza ormai storica.

In ordine alla linea politica generale del partito in Sardegna, Pinna si pone sulla linea Corona-Puddu della solidarietà autonomistica, analizzando la complessità identitaria della sinistra con la quale pur deve, il PRI, coltivare rapporti secondo parametri di “cultura di governo”, ed anche con altre formazioni di estrazione democratica, come il Partito Liberale, di cui ravvisa una incoerenza fra il recente ”aperturismo” filocraxiano ed una storia avversa a tutti i capisaldi della battaglia repubblicana di venti o trent’anni, dalla riforma agraria a quella tributaria di Vanoni, dalla programmazione lamalfiana al regionalismo. Resta al momento ancora ineludibile riconoscere alla DC la centralità della rappresentanza e sarebbe velleitario alzare bandiere ideologiche ad essa ostili, pur se la pratica francamente riformatrice potrebbe, da parte degli alleati, imporre ai democristiani rettifiche importanti al costume fra loro invalso nella gestione del potere.

Circa gli indirizzi programmatici il centro viene posto sulla «istituzionalizzazione del metodo della programmazione», l’«avvio di una nuova politica regionale per il lavoro e la occupazione», il «rilancio ed un più attento controllo della politica del credito», la «ristrutturazione ed il potenziamento del sistema dei trasporti», la «valorizzazione delle strutture scolastiche e dell’Università». Ognuno di questi alinea è sviluppato con il dettaglio delle modalità operative che potrebbero scegliersi per l’attuazione degli obiettivi.

Ampio spazio riserva ancora, il segretario uscente, alla attesa riforma della Regione, all’urgenza della semplificazione dei livelli di rappresentanza infraregionale, al rapporto della Regione con l’Amministrazione centrale dello Stato.

Dopo ampia discussione fra i delegati, è Nino Ruju a proporre una mozione unitaria, che infatti raccoglie l’unanimità dei voti dei delegati, con sei sole astensioni.

Ai lavori presenzia, nella giornata di domenica 16 anche il nuovo segretario nazionale (in carica dal 23 settembre). Spadolini parla nella tarda mattinata.

Fra gli eletti alla nuova direzione regionale è ancora Marcello Tuveri e con lui sono anche Marisa Anedda, Pier Giorgio Cadeddu, Gianni Corrias, Bruno Fadda, Giuseppe Fara, Emilio Ferru, Salvatore Ghirra, Renzo Ibba, Giuseppe Losito, Sebastiano Maccioni, Marco Marini, Salvador Marletta, Gabriella Martignetti, Marco Martis, Antonio Masia, Nino Mannoni, Nino Mele, Giovanni Merella, Franco Murtas, Angelino Olmeo, Annico Pau, Roberto Pianta, Mariano Pili, Mario Pinna, Giorgio Pipia, Peppino Puligheddu, Salvator Angelo Razzu, Marco Rombi, Nino Ruiiu, Gianni Scampuddu, Alberto Tasca, Tonino Uras, Pierluigi Zanata e Piero Zazzara.

Ruju è il nuovo segretario politico. Già segretario provinciale e consigliere regionale nella legislatura 1965-1969 per il PSd’A, coordinatore regionale del Movimento Sardista Autonomista fra il 1968 ed il 1969, è stato fin dall’inizio uno dei motori organizzativi tanto dell’ENDAS quanto dell’AGCI nel nord isolano; da quattro anni è membro del Comitato regionale della programmazione e da qualche mese è capo di gabinetto del presidente del Consiglio.

La linea politica, da lui elaborata e condivisa dalla direzione punta alla ripresa della stagione unitaria interrottasi prima delle elezioni del 1979 per i crescenti contrasti fra DC e PCI e la contrarietà soprattutto del vertice nazionale democristiano (l’on. Piccoli). Seguendo questo indirizzo si affrontano le elezioni amministrative della primavera 1980 e si è assicurata nel 1981 alla costituenda maggioranza di sinistra un benevolo voto di astensione (concordato con la DC).

Ritorna il tema della riforma regionale (dentro la riforma dello Stato)

La cosa deve essere chiara: la scuola democratica che è propria del repubblicanesimo così come del sardismo delle origini – quel sardismo cui i sardo-autonomisti confluiti nel PRI, e Marcello Tuveri fra loro, continuano a fare riferimento – colloca il centro della libertà non nell’economico (come fanno, da destra e da sinistra e per opposte ragioni, i liberisti e i socialisti) ma nel civile e nell’istituzionale. Da qui la sensibilità speciale che, a distanza ancora di trent’anni dall’esordio dell’autonomia speciale, il PRI e la sua dirigenza manifestano per la reale efficacia dell’azione regionale promossa, secondo le riserve dello statuto, a rimedio dei problemi socio-economici dell’Isola. E naturalmente, con l’autonomia speciale, è l’intero apparato statale ad entrare nel giudizio di chi ha della Repubblica una visione alta e larga.

Tuveri è il capofila dei dirigenti repubblicani che studiano e trattano, con ripetuti scritti di approfondimento e divulgativi nonché con apprezzati interventi convegnistici, l’argomento. Ecco, collocabile ancora al 1979, un suo contributo apparso sulla prima pagina de L’Unione Sarda: “Uno Stato su nuvole di leggi” (cf. 16 dicembre):

“Uno Stato su nuvole di leggi”

Ministro serio di un dicastero dalla denominazione un po’ comica “della pubblica funzione”, Massimo Severo Giannini raccoglie nel Rapporto sui problemi dell’amministrazione dello Stato l’esperienza di decenni di rigoroso lavoro scientifico e di apporti concreti alla soluzione dei problemi dell’apparato pubblico italiano.

Il rischio della strumentalizzazione è notevole. Già taluni hanno messo in rilievo le chiavi di lettura più facili: lo scandalo per gli statali che non lavorano, i guasti della legislazione corporativistica, il costo eccessivo della macchina pubblica, i guai dell’accentramento e le insufficienze del decentramento.

Onestà vuole che si sottolinei prima di tutto il valore del metodo rigorosamente empirico: si parla di quel che serve fare e fare subito. In secondo luogo l’interesse che il rapporto può suscitare va ben oltre la macchina statale: tutte le amministrazioni e le aziende possono trovare indicazioni utili. In terzo luogo il carattere obiettivo del documento: nessun inquinamento ideologico lo devia mai dalla sua natura scientifico-pedagogica.

Non mancano riferimenti all’esperienza di altri paesi, specie dell’occidente europeo, ma questi confronti non nascono mai da una scelta di campo. Non c’è volontà di difendere o di attaccare il “proprio Stato” contro quello degli “altri”.

Tra i molti mezzi che aveva per eccitare gli indirizzi e le scelte del Parlamento e dei Consigli regionali il vecchio Maestro ha scelto l’aderenza alla verità. Inerzia, faciloneria, superficialità, corporativismo e persino arroganza di potere si leggono tra le righe del documento. Bastano pochi esempi: «il potere pubblico viene sovente a presentarsi come un singolare malfattore legale che permette a sé ciò che invece reprime nel privato», oppure «le decisioni centrali sono basate più su indicazioni che sui dati organicamente acquisiti» oppure ancora «le miniriforme di settore… si sono risolte in gratificazioni della burocrazia», e «se i Comuni non funzionano – si legge altrove – non funziona lo Stato» che è retto da «nuvole di leggi e leggine costituenti la percentuale maggiore dell’attività del Parlamento».

A parte la notevole efficacia rappresentativa del testo (al limite dell’invettiva!) colpisce l’organicità della diagnosi: tecniche di amministrazione, tecnologia, riordinamento della macchina statale sono sottoposte ad analisi in maniera limpida ed essenziale.

Bastano due suggestive proposte a dare la misura della validità del rapporto: la verifica dell’attuabilità amministrativa delle leggi (e aggiungerei dei programmi!) e gli uffici di missione. Il problema dell’attuabilità si collega alle tecniche di amministrazione. Da noi ha particolare rilievo «per l’abbondanza delle grida in forma di legge del Parlamento e delle regioni». In altri paesi esiste una norma non scritta che impone la verificazione preventiva di attuabilità di ogni progetto ovvero c’è un ufficio del Governo che procede alla verificazione.

In Italia invece vige il principio della separazione della tecnica e della amministrazione dalla politica. I politici quando una legge non si attua accusano i “burocrati” di cattiva volontà. I “burocrati” quando si trovano davanti ad una difficoltà sollevano le spalle e dichiarano che si tratta di un problema di “scelta politica”.

La soluzione più ovvia, oltre ad un rapporto di cooperazione non antagonista tra tecnici e politici sarebbe la istituzione di un organo attrezzato professionalmente per la verifica, composto di esperti in procedura ed economia aziendali.

Nello stesso filone dell’efficienza viene introdotta la proposta di creare amministrazioni di missione e meccanismi di allarme. Si tratta di far seguire lo svolgimento delle pratiche, dalla origine alla fine, ad uno stesso ufficio, come si usa frequentemente nella organizzazione privata e in diversi ordinamenti stranieri. In Italia potrebbero servire ad assicurare la realizzazione di certi deliberati ma anche per eliminare, per quanto attiene la spesa, la montagna dei residui passivi. Uffici simili potrebbero utilmente svolgere il ruolo di meccanismi di allarme, segnalando la presenza di strozzature e impedimenti, tutt’altro che infrequenti per il non coordinamento fra amministrazioni diverse.

Sono due esempi, fra i tanti, di come cultura ed esperienza pratica possano suggerire una strada per uscire dall’attuale situazione di sfascio dell’amministrazione pubblica. Non solo di quella statale ma anche di quella regionale. Nei primi anni settanta la costituzione delle regioni ha provocato una febbre salutare per la organizzazione centrale dello Stato che ha tentato alcune trasformazioni di carattere efficientistico. Non sempre la febbre è rimbalzata sulle regioni, troppo spesso incapaci di superare lo stadio dell’aspettativa e della speranza, nella loro organizzazione nata vecchia ed insufficiente. Anche per le regioni, anzi per ciascuna di esse, ci vorrebbe un programma per recuperare soglie minime di efficienza. Impossibile realizzarlo in tempi brevi. Il tempo minimo si può calcolare con un quinquennio, a condizione, come dice Giannini con linguaggio datato ma efficace, che «l’azione sia diuturna e perseverante, appoggiata da politici, funzionari e sindacalisti che si impegnino in un cammino di spine senza attendere ricompense».

Alla conferenza regionale Trasporti

S’è visto: uomo di scrittura da sempre, Marcello Tuveri accompagna al pieno della sua attività professionale all’ARST ed alle partecipazioni associative plurime, ma tanto più al club rotariano di “Cagliari est” ed alla loggia giustinianea “Sardegna” n. 981 (di cui è stato, fra il 1978 ed il 1979, tra i fondatori), ed ovviamente a quel certo impegno richiestogli in quanto dirigente repubblicano, la buona pratica pubblicistica cominciata da giovanissimo (benché l’iscrizione all’albo sia soltanto del gennaio 1980).

Di “Trasporti pubblici e privati” – così il titolo – scrive sul n. 1 di gennaio-febbraio 1975 de Il Meridiano, mentre sul n. 6 di dicembre 1978 della Rivista trimestrale di economia, istruzione e formazione professionale riferisce di “Esperienze di formazione: un seminario per dirigenti di una azienda pubblica di trasporti”. E ancora: partecipando ai lavori della Conferenza regionale dei trasporti della Regione Autonoma della Sardegna (in svolgimento a Cagliari dal 26 al 28 giugno 1980 – negli stessi giorni del disastro di Ustica!), pubblica poi, negli Atti, la sua corposa relazione (ben 26 pagine) dal titolo “Problemi istituzionali”.

Esito dei lavori della 3.a commissione (“Problemi istituzionali e tariffe”), essa è articolata in sette capitoli oltre alla premessa: così distintamente per i trasporti esterni – “Le infrastrutture portuali”, “Il traffico marittimo”, “I poteri regionali in materia di trasporti esterni e l’art. 53 dello Statuto” – e per quelli interni – “I trasporti pubblici locali e quelli di competenza statale”, “La riforma delle Ferrovie dello Stato e la Regione”, “Il regime transitorio delle Ferrovie in concessione”, “Le autolinee tra pubblicizzazione e concessione”. Le conclusioni guardano poi a “L’ordinamento dei trasporti pubblici locali e il Comitato regionale trasporti”.

Di tanto credo meriti riprendere almeno le poche righe della premessa che illuminano l’ampiezza dello sforzo ricognitivo dell’esistente e della elaborazione propositiva in termini sempre di positivo concerto e pragmatica (forse anche minimale) integrazione della… frammentatissima parte nazionale (o statale) e di quella regionale. Eccole:

La presente relazione introduce il dibattito sui problemi istituzionali dei trasporti per la Sardegna con la conferma di una proposizione di metodo già espressa in sede di conferenza nazionale trasporti. E cioè «che il settore dei trasporti debba essere razionalizzato e coordinato in tutte le sue parti soprattutto dal punto di vista delle istituzioni» [Fabio Semenza]. Si tratta di utilizzare al meglio «le risorse di qualsiasi provenienza nell’intento di rendere lo stesso settore efficiente in tutti i suoi aspetti» [idem].

A questa esigenza la peculiarità della situazione sarda, con il problema deli collegamenti alla penisola e la situazione scombinata dei trasporti interni, unisce il bisogno di individuare strumenti giuridici capaci di avviare la pianificazione (globale e/o settoriale) e, nell’immediato, dare al settore un assetto più razionale di quello esistente. Razionalità, coordinamento e specificità della condizione dell’Isola, impongono che si individuino nel sistema dei trasporti, anzi tra i molti sub-sistemi in cui è frammentato, forme organiche di collegamento e di «aggancio» per la tutela degli interessi della comunità regionale.

Allo scopo di raggiungere obiettivi diversi ma non opposti sarebbe stato utile condurre un esame dei materiali giuridici per darne una corretta ricostruzione sistematica. Ma il breve tempo a disposizione non consente di affacciare una soluzione concettuale soddisfacente dei molti problemi esistenti.

In un’ottica del tutto diversa sarebbe stato possibile collocarsi al centro del dibattito regionale, assai vivo oggi in materia d politica economica, e rilevare gli adattamenti necessari al sistema dei trasporti facendo ricorso alla “ingegneria istituzionale”: disciplina che trova nuovi cultori in momenti di crisi come quello in cui viviamo.

Inventare più avanzate forme di organizzazione del settore che superino l’esistente con un netto distacco dai suoi vincoli giuridici e organizzativi è propensione diffusa quanto quella della redazione di programmi-messaggio o di “libri di segni”.

Si è preferito seguire una strada che, senza trascurare il tentativo di una ricerca giuridica obiettiva, o quello di guardare alle ipotesi correnti di politica legislativa, proceda dai problemi pratici emersi in sede politica ed economica, verso l’esame della situazione normativa e dell’organizzazione del settore. Si cercherà di individuare i principali ostacoli e le difficoltà che si incontrano per soddisfare le esigenze, che in forma talvolta drammatica, la collettività è venuta esprimendo.

L’intenzione è offrire ai partecipanti a questa Commissione spazi per costruire una trama di proposte di cui le questioni individuate non vogliono essere altro che fili conduttori di carattere preparatorio.

Ancora sulle pagine de “L’Unione Sarda” e alla RAI, ancora materia Trasporti

Del 1982 (proprio nel giorno di capodanno) è, in materia, una conversazione tenuta a Radio Sardegna: titolo “I trasporti nelle leggi regionali”, e nello stesso anno esce sul numero di gennaio-febbraio de L’impresa pubblica e municipalizzazione l’articolo “Comincia la pianificazione dei trasporti”.

Naturalmente non manca, in quanto alle testate di maggior diffusione, L’Unione Sarda – testata in questi anni affidata alla direzione di Gianni Filippini. E restando strettamente alla materia, merita qui segnalare alcune sue recensioni librarie e qualche affaccio nelle tribune libere. In quanto alle prime ecco infatti “Ferrovie ‘parlamentari’ e autostrade ‘politiche’: come si viaggia in Italia, una ricerca di Fiorentini e Russo” (il 20 agosto 1977) e “Un’isola vista dall’autobus: i trasporti in Sardegna in un libro di Elettrio Corda” (il 25 agosto 1981); in quanto agli interventi “di contenuto” ha rilievo l’articolo “Fondo trasporti e realtà regionali” che, con occhiello “Una legge da correggere”, esce il 4 maggio 1978).

Ecco, di quest’ultimo, il testo integrale. Ben al di là della importanza – che è importanza obiettiva – della materia, le argomentazioni dell’autore dimostrano (e merita rilevarlo!) la sua attitudine analitica, quella capacità critica che resta sempre sull’oggetto e dunque costringe l’ipotetico interlocutore (e talvolta avversario) ad un confronto “sulle cose”, mai concedendosi evasioni… di furbizia dialettica, e però senza neppure costringere o imprigionare l’argomentare in una dimensione asfittica, incapace di cogliere il contesto. E si vedrà anche in questo caso come la materia “tecnica” dei trasporti sia sussunta di necessità, ad un certo punto, nel grande pensare istituzionale, nelle logiche del regionalismo e anche della specialità, e così dunque del rispetto costituzionale…

“Fondo trasporti e realtà regionali”

Sono ormai diversi anni che si parla di un fondo nazionale per i trasporti, cioè di una certa somma da destinare ai trasporti pubblici “non protetti” dallo Stato. Ma questa esigenza si è espressa in forme vincolanti per il Governo solo con i provvedimenti urgenti per la finanza locale. Entro giugno si dovrebbe concretizzare la iniziativa dell’esecutivo.

Nonostante la formulazione precisa dei “decreti Stammati uno e due” il fondo nazionale trasporti non figura però tra i 147 impegni programmatici (completi dei relativi tempi d’attuazione) che il Presidente del Consiglio Andreotti ha inviato qualche settimana fa ai Ministeri perché cominciassero a mettere “nero su bianco”.

Supplisce a questa assenza del Governo l’iniziativa del Parlamento. Due proposte di legge in tema di trasporti pubblici degli Enti Locali, presentate dai rappresentanti dei più forti partiti italiani, sono all’esame della Commissione Trasporti della Camera dei Deputati, anzi i due testi sono stati unificati eccetto che per poche norme. Presto intorno ad essi dovrebbe incominciare la discussione, mentre la consultazione può dirsi aperta con la visita della Commissione in Sardegna nello scorso febbraio. Insomma non sembra che il parlarne sia un’operazione a vuoto, come spesso accade nel nostro Paese.

Le proposte degli onorevoli Marzotto e altri (DC) e Bocchi, Pani e altri (PCI) di cui si discute, tendono entrambe a riordinare le competenze in materia di trasporti urbani e interurbani, di un settore cioè che, pur sopportando la metà dei trasferimenti di persone che avvengono in Italia, è stato completamente trascurato dalla politica nazionale dei trasporti. E questa può dirsi la prima finalità-obiettivo della proposta.

La solita legge provvedimento? Un tampone nella grossa falla aperta dalle aziende di trasporto nei bilanci degli Enti Locali? I propositi ed una serie di norme che li traducano fanno apparire la legge di natura decisamente diversa.

A prescindere dalle consuete dichiarazioni di principio sulla correlazione tra sviluppo economico e trasporti, la legge vuole collegare la politica delle varie regioni al piano nazionale dei trasporti, di cui si va discutendo da più di un anno il quadro di riferimento generale.

In quest’ordine di idee le competenze che devono essere esercitate dalle regioni in attuazione di questa vera e propria legge “cornice” riguardano l’organizzazione e ristrutturazione dei servizi secondo una concezione unitaria del bacino, la formazione di organismi consortili per l’esercizio di tali funzioni e la partecipazione degli stessi alla elaborazione e attuazione del piano regionale dei trasporti.

Nella stessa ottica della normazione contenente sempre disposizioni di principi si colloca una definizione delle forme di gestione dei servizi di competenza regionale e l’impegno che ad esso le regioni provvedano con fondi propri e dello Stato.

La seconda finalità-obiettivo della legge è ispirata dall’esigenza di conseguire in prospettiva l’equilibrio economico delle aziende di trasporto. Questo equilibrio deve essere determinato attraverso calcoli sul «costo ottimale del servizio con riferimento a criteri di rigorosa ed efficiente gestione», fissando i ricavi del traffico nella misura del 50% del costo del servizio, e stabilendo contribuiti da erogare sulla base di parametri obiettivi. Non si tratterebbe più della solita pioggia di miliardi, caratteristica di esperienze assai diffuse nel passato, ma di prefissare gli stanziamenti secondo una logica economica di ottimizzazione dei servizi. Si vorrebbe inoltre scoraggiare la pratica per cui in certe aziende di trasporto per ogni lira che si incassa se ne spendono ben 13!

Ma poiché lo squilibrio attuale è troppo forte si istituisce il fondo nazionale che prevede per l’anno 1978 spese di esercizio per 1.300 miliardi e per investimenti 275 miliardi da ripartire secondo certi criteri. C’è quindi una terza finalità che è quella di rimettere in sesto le aziende di trasporto pubbliche.

Quel che appare interessante è ora cercare di vedere se le esigenze da cui sono nate le proposte unificate o unificande sono state soddisfatte.

Certo è importante che con la definizione legislativa dell’organizzazione comprensoriale, si tenda a superare la ormai desueta distinzione tra ambito comunale ed extraurbano. La città d’oggi non è più il nucleo rigorosamente delimitato della cerchia daziaria dei primi del secolo ma tende a diffondersi nel territorio dando vita strutture di dimensione sovracomunale.

Altrettanto utile è che il regionalismo che fa capolino nella legge sia di tipo collaborativo e non contestativo anche se la pianificazione dei trasporti, nella sua sequenza piramidale (piano nazionale, piano regionale, piano comprensoriale, piano comunale) mostra pericolose propensioni gerarchizzanti. Si tratta in fondo di una pianificazione “a cascata” per cui dall’ambito nazionale discendono quelli periferici. Le distorsioni che ne nasceranno sono intuibili, specie per una regione come la nostra.

Anche la definizione delle forme di gestione del servizio lascia spazio a qualche perplessità. Si è preferito ripetere la formula vecchia e obsoleta del testo unico sulla municipalizzazione del 1925 piuttosto che attingere alle nuove forme che nascono dalla Costituzione e dalla pratica sociale degli ultimi anni.

A queste osservazioni di carattere generale bisogna aggiungerne qualcuna di tipo specifico riguardante la sola Sardegna.

Il provvedimento dovrebbe rivolgersi a tutte le regioni ivi comprese quelle a Statuto speciale. Ma una serie di espressioni presenti nel testo degli articoli induce a ritenere necessaria una messa a punto. L’art. 2 del ddl stabilisce quali sono i servizi che appartengono alla competenza regionale, ma le fonti a cui fa riferimento (il decreto per l’attribuzione delle funzioni alle regioni del 1972 e quello più recente in applicazione della 382) non comprendono la normativa delle regioni a regime speciale in quanto per queste essa è determinata dai loro statuti e dalle relative norme di attuazione. L’art. 7 dello stesso testo prevede che i contributi che le regioni stanzieranno per le spese di gestione saranno attinti dal fondo comune istituito per le spese delle regioni a statuto ordinario e dalla ripartizione del quale sono escluse le regioni a statuto speciale. E poiché l’art. 11 prevede che vengano erogate somme destinate a sovvenzioni di esercizio alle regioni che esercitano i servizi di cui all’art. 2, la lettera della legge, nel testo Marzotto-Caotorta, escluderebbe quelle a statuto speciale come la Sardegna. Nel testo Bocchi un analogo riferimento all’art. 7, che a sua volta rinvia all’art. 2 e cita altra norma non applicabile alla nostra regione. La lettera delle proposte di legge alimenta il sospetto che – nonostante forse ogni migliore intenzione – la Sardegna potrebbe essere esclusa dal finanziamento se non intervengono mutamenti nel testo in esame.

Altra osservazione, non marginale per la Sardegna, è quella relativa ai criteri di ripartizione del fondo tra le diverse regioni. E’ indubbio che se la ripartizione dovesse avvenire per sei decimi in proporzione alla popolazione residente in ciascuna regione e per quattro decimi in proporzione alle vetture/chilometro, staremmo freschi.

La Sardegna è una delle regioni meno densamente popolate del Paese (63 abitanti per kmq. contro 369 della Lombardia per esempio) e nella nostra Isola i km/autobus percorsi dalle imprese pubbliche e private sono tra gli ultimi livelli regionali. Anche in questo caso sono essenziali correttivi che tengano conto della necessità di riequilibrare il rapporto tra regioni ad alta concentrazione di popolazione e di diversi modi di trasporto e regioni a bassa intensità di abitanti o numero di veicoli in servizio pubblico. Si tratta di impedire che le aree forti sul piano delle infrastrutture e dei servizi divengano sempre più forti e quelle deboli sempre più deboli. Non manca la possibilità di ritrovare parametri che tengano conto del sottosviluppo, della disoccupazione, della emigrazione.

Il Fondo nazionale per i trasporti è dunque molto importante per l’economia dei trasporti e per quella della nostra Isola in particolare. Non si tratta di soddisfare una protesta settoriale, quanto di determinare con una nuova legge un’organizzazione più razionale ed efficiente delle reti di trasporto. In tal modo si contribuisce, forse, più che con altri provvedimenti (aumento del prezzo della benzina, imposte indirette su certi tipi di veicoli, ecc.) a soddisfare meglio la crescente domanda di mobilità della collettività. Ma perché il fondo assolva veramente queste funzioni è opportuno che alla legge che lo prevede siano apportati alcuni correttivi sia di carattere generale sia di carattere specifico per quel che riguarda le regioni a statuto speciale.

1980, rinnovo amministrativo

Frenatosi il tendenziale bipolarismo DC-PCI e avvantaggiati i socialisti craxiani rispetto alle altre forze laiche nell’area intermedia, si registra in Sardegna un primo rilancio del sardismo, seppure non possa più dirsi essere quello del 1980, dopo cioè la svolta nazionalitaria e indipendentista, il sardismo della tradizione.

I repubblicani migliorano le loro posizioni un po’ ovunque e recuperano alle provinciali il seggio perduto nel 1975 a Cagliari a vantaggio di Oristano. Il 3,4 per cento come dato regionale – abbastanza equamente spalmato sul territorio (dal 2,5 di Cagliari al 4 di Oristano, al 3,2 di Nuoro ed al 3,6 di Sassari) e riferito a 27.358 voti in termini assoluti – si accompagna a risultati più che soddisfacenti alle comunali nelle principali città dell’Isola ed al raddoppio delle rappresentanze tanto a Cagliari quanto a Sassari ed a Nuoro, mentre ad Oristano viene rieletto un solo consigliere.

Conquistano il seggio nei diversi Consigli provinciali Ignazio Podda a Cagliari, Fellino Peralta a Oristano, Mario Salis a Nuoro e Mario Nieddu a Sassari. Circa invece i maggiori Consigli comunali, a Cagliari (6.481 voti e una percentuale del 4,8) vengono eletti Marco Marini (uscente) e Salvatore Ghirra. Ad Oristano (755 voti pari al 4,3) l’eletto è Tonino Uras. A Nuoro (997 voti pari al 4,9 per cento) conquistano un seggio Annico Pau e Paola Puligheddu. Infine a Sassari (3.175 voti pari al 4,7) è confermato Nino Ruju ed è eletto per la prima volta Giovanni Merella. Molto positivi i risultati anche di molti centri di media dimensione, soprattutto nel capo di sopra. Significative anche le performance alle circoscrizionali almeno dei maggiori capoluoghi: sono cinque i seggi conquistati a Cagliari, altrettanti a Sassari.

I nuovi assetti delle assemblee civiche valorizzeranno come non mai, in alcuni casi, la presenza repubblicana. Così a Nuoro, dove nel gennaio 1981 il consigliere Annico Pau viene eletto sindaco a capo di una giunta laica e di sinistra capace di reggere per circa due anni.

Diversamente va ad Alghero dove l’incapacità della rappresentanza di dar vita a una stabile Amministrazione, e le pressioni della DC – esclusa dalla competizione – per il ritorno “nei giochi”, portano al commissariamento e alla ripetizione delle elezioni nel marzo 1981. Il PRI perde, in un sol colpo, circa 650 voti, scendendo a 2.248 e ridimensionando il suo gruppo consiliare, da sei a cinque unità. Il nuovo commissariamento del Comune è la conseguenza della generale incapacità dei partiti di governare la città.

1981, per il centro-sinistra e relazione Ruju al congresso di Oristano

Il 19 marzo del 1981 Armando Corona si dimette dalla presidenza del Consiglio regionale. Ne fornisce spunto un incidente d’Aula, ma naturalmente le cause sono assai più profonde. Esse attengono al perdurante clima di scontro fra le rappresentanze consiliari e, a monte, fra i partiti. In alcune dichiarazioni alla stampa il dimissionario insiste da sempre su questo tasto: poiché nell’Isola il dibattito politico esterno alle istituzioni è ancora relativamente episodico, la dialettica “di peso” fra le forze rappresentative di valori e interessi si scarica interamente nel Consiglio regionale, generando spesso la ingovernabilità, per la reciproca interdizione fra il gruppo democristiano costretto all’opposizione e la coalizione di sinistra frammentata al suo interno e incapace di un disegno strategico per l’Isola. Bloccata sovente l’Aula, spessissimo le commissioni, a fatica governabile la conferenza dei capigruppo, il Consiglio diviso a metà fallisce il suo compito legislativo obbligando di conseguenza la stessa giunta a procedere a vista e quasi soltanto nell’ordinaria amministrazione.

Ne è ennesima manifestazione la messa in minoranza della coalizione di governo nella votazione sulla inversione dell’ordine del giorno della sessione che deve trattare della legge sul Mezzogiorno, di servitù militari, del bilancio 1981, di bilinguismo e di edilizia costiera. Su proposta dei radicali appoggiata dai democristiani, che pur si sono accordati diversamente, e dai missini, e contro il parere dei partiti di maggioranza in fortuito sottonumero in Aula, l’articolato di legge sul bilinguismo scaturito da una iniziativa popolare (oltre 13mila firme a supporto) prende la precedenza, acuendo le tensioni.

Le dimissioni del presidente, la sua rielezione nella seduta del 24 marzo (stavolta con i voti dei partiti che non lo sostennero nell’estate 1979 e con l’astensione di democristiani e repubblicani che invece lo votarono allora) non accettata però dall’interessato, e la sua successione da parte del socialdemocratico Ghinami sono eventi che segnano anch’essi la sorte della legislatura che, sia pure con fasi di passaggio, cominciata all’insegna dell’alternativa di sinistra finirà con il ritorno al centro-sinistra .

Ancora, per bocca dello stesso Corona nel mezzo delle trattative per la ricomposizione del vertice dell’Assemblea, vengono parole di mediazione e disponibilità a favorire il recupero di un clima di corretta dialettica fra le forze politiche. Egli conferma il voto favorevole dei repubblicani al bilancio, e dunque nega il passaggio del PRI alla opposizione: «Non ho preannunciato per il Partito Repubblicano lo schieramento all’opposizione. Ma ho detto che il mio partito non potrà non tener conto delle condizioni di rigidità dell’attuale quadro politico ».

Convocato ad Oristano, dopo vari slittamenti, per l’11 e 12 aprile, il nuovo congresso regionale (segnalato come XVIII, ma dovrebbe essere il XVII) si concentra sulle rilevanti novità intervenute nel quadro politico: le dimissioni di Armando Corona dalla presidenza del Consiglio, il subentro nella carica da parte dell’on. Ghinami, ex presidente della giunta DC-PSI-PSDI che ha aperto la legislatura (e fino al cambio di maggioranza che ha confinato la DC, per la prima volta, all’opposizione). Ai lavori partecipa anche il sen. Giovanni Spadolini, accolto con un’ovazione nella sala dell’albergo CAMA: per lui si tratta di una piena immersione non soltanto nella “questione sarda” per come è vissuta e trattata dalla militanza regionale ma anche nella sensibilità sociale e politica dei repubblicani dell’Isola.

Con una relazione di grande respiro, culturale e politico insieme, che rivendica le ascendenze ideali repubblicane sarde fino ad Asproni e Tuveri e allo stesso Garibaldi deputato ozierese e cittadino di Caprera, il segretario Nino Ruju svolge il tema “Il movimento repubblicano in Sardegna dal Risorgimento, per una nuova stagione dell’Autonomia”.

Egli cerca di strappare la questione identitaria dalle polemiche contingenti e dalle fumisterie dottrinarie che paiono confonderne il profilo: «Il tema della lingua sarda affrontato in termini di bilinguismo rimane il confine inaccettabile, per quanti come noi ritengono inadeguato ed improprio il mezzo “lingua” al conseguimento di quella pari dignità politica con il resto del paese che è il vero nocciolo della questione sarda… Poiché l’art. 6 della Costituzione tutela le minoranze linguistiche, tale norma deve essere applicata alla Sardegna. Del resto alcune regioni anche a statuto ordinario, prevedono specificamente la tutela delle minoranze etnico-linguistiche. Si tratta quindi di adeguare la legislazione ordinaria alle disposizioni della Costituzione. Ciò è altra cosa da un regime di bilinguismo totale che nella pratica oltretutto non è realizzabile data la mancanza di una lingua sarda standard. Sono invece da realizzarsi iniziative per l’utilizzo delle varietà sarde nelle scuole elementari con l’intento di un ampliamento delle conoscenze linguistiche dei bambini. Così come deve essere garantito a tutti i cittadini di esprimersi nel modo per loro più semplice nei rapporti non scritti con la pubblica amministrazione».

Entrando nelle questioni istituzionali tratta, il segretario, del cosiddetto “governo dei tecnici” da molti «messo alla gogna» (anche se poi – dice polemicamente – «che di governo non si riesca a farne, che se fatti non governino, o se governano discriminino, ai padri della democrazia non interessa») e lo ipotizza nella Regione atteso che lo Statuto ne darebbe la possibilità. Tratta quindi, con ampiezza e profondità, della riforma della specialità dell’autonomia sarda: «la mia proposta – afferma – è che venga rivendicato a cominciare dal partito in Sardegna una maggiore autonomia. Maggiore autonomia nelle decisioni politiche, ma anche maggiore autonomia nei suoi modelli organizzativi interni, e maggiore peso sul versante delle decisioni del partito sia livello nazionale». Intrecciando una rettifica delle modalità della rappresentanza di partito con quella trasformazione da delineare nelle architetture della specialità regionale, egli sembra voler marcare la responsabilità pubblica lì dei dirigenti verso il servizio della politica, qui della istituzione dell’autonomia verso l’interesse generale della patria comune, che tutti include e nessuno aggiunge.

Naturalmente la parte principale della lunga relazione riguarda l’economia e il lavoro, di cui Ruju cerca di individuare i punti critici e qualche linea d’attacco. Trattando della occupazione (e, con essa, della formazione professionale) e dei settori trainanti o suscettivi di maggior sviluppo, come il turismo, ma altresì degli spazi della intermediazione bancaria, guarda all’intero sistema e alle sue dinamiche. Dice fra l’altro: «concordo pienamente con le tesi del prof. Savona che propongono un’economia sarda “destinazione export” con tutto ciò che ne consegue, convinto che l’agro-alimentare legato alla esportazione interna e cioè al turismo sarà la nuova frontiera per l’agricoltura sarda». Da questo punto di vista, importanza di primo piano riveste il comparto energetico: «Convinti d’essere esportatori di energia verso la terraferma, ci siamo scoperti di recente importatori e per buona parte dipendenti dagli autoproduttori di aziende in crisi. Certa moda ecologica dopo aver, se non sconfitto, certamente arrestato la marcia dell’elettronucleare pesta i calli al carbone, dopo aver ritardato con la vicenda della centrale di Fiumesanto l’entrata in funzione di un produttore a combustibile tradizionale. L’asse portante della politica energetica è vero dovrà essere il carbone, ma a condizione che si faccia presto e non sembra ciò sia possibile. Si ha l’impressione che anche per il carbone non mancheranno gli oppositori anche perché non manca inquinamento in questi processi. Non vorremmo dare per acquisito che prima viene la protesta e poi la ragione per la quale essa si manifesta. Attenti, quindi, a non assecondare all’infinito i sofisticati giochi di molti attori in cerca di proscenio. La preferenza per il nucleare da parte degli industriali sardi va visto come un grido d’allarme responsabile che deve trovare comunque risposta. Ma è chiaro che bisognerà impegnare la Sardegna nelle energie cosiddette rinnovabili: vento, sole, biomasse ecc. il tutto prima di ogni cosa con la predisposizione del piano energico regionale e quindi la partecipazione puntuale e determinata alla definizione del piano energetico nazionale, proponendo la Sardegna come un vero e proprio laboratorio per studi ed esperimenti in questo campo e quindi con il varo di una legislazione che favorisca effettivamente la nascita e la diffusione di una cultura cosiddetta del risparmio energetico all’interno della quale l’utilizzazione delle fonti naturali vanno a collocarsi».

Non meno approfondita è la parte riguardante la relazione istituzionale fra politica e azione sindacale, e in essa gli spazi professionali rivendicati dai quadri intermedi, dei quali i repubblicani amano farsi, in qualche modo, rappresentanti. Idem la parte istituzionale riguardante il riordino delle autonomie infraregionali (l’ente intermedio) e, naturalmente, le relazioni del PRI con l’intero schieramento parlamentare, a cominciare dalle forze elettoralmente più rappresentative. Nel novero anche i sardisti, per i quali è alle viste un rilancio destinato però a rivelarsi passeggero (compiendosi tutto all’interno di un decennio) e programmaticamente deludente.

Il dibattito (cui intervengono ben 38 delegati, fra i quali, particolarmente applaudito, è Bruno Fadda che ha molto insistito sulla bontà di una legislazione pro-bilinguismo) colloca l’ampia maggioranza dei votanti fra i sostenitori della linea del segretario (ora battezzata linea Corona-Ruju), e la minoranza attorno alle tesi Puddu-Fadda. Peraltro entrambe le mozioni andate ai voti presentano un giudizio di riserva sulla giunta uscente, la prima a presidenza Rais, che appare irresoluta nell’affrontare i più spinosi problemi dell’Isola ed entrambe, ancorché con accentuazioni diverse, sollecitano una larga intesa fra le forze politiche in chiave emergenziale.

La mozione vincitrice (che raccoglie 3.105 voti contro i 392 di quella alternativa) afferma: «Il PRI rivendica una linea di assoluta autonomia rispetto alla Giunta regionale. Tale autonomia si eserciterà nel costante confronto su problemi e programmi. Il PRI conferma di essere disponibile a far parte di una maggioranza che esprima una giunta di “unità autonomistica e, nel caso che essa non sia immediatamente realizzabile, per decisione di uno o più partiti, di una maggioranza che dia vita ad una giunta che abbia un programma ed una composizione tali da dare solide garanzie di muoversi nel quadro dell’unità autonomistica e di operare per rendere possibile al più presto la formazione di una giunta di unità autonomistica. A maggior ragione il PRI è contrario a formule di governo regionale che operino comunque una discriminazione verso uno o più partiti autonomistici, in considerazione sia dell’accentuarsi della crisi, sia degli effettivi rapporti di forza esistenti nel Consiglio regionale».

Questi gli eletti alla direzione: con Armando Corona, Nino Ruju – confermato alla segreteria – e ancora con Marcello Tuveri, sono Giuseppe Puligheddu, Salvatore Ghirra, Salvator Angelo Razzu, Antonio Masia, Tonino Uras, Mario Pinna, Giovanni Merella, Giannetto Massaiu, Anna Bonfiglio Berri, Gianni Scampuddu, Sebastiano Maccioni, Gabriella Martignetti, Salvatore Piras, Mario Usai, Annico Pau, Celestino Badas, Ignazio Pau, Edoardo Mallus, Pietro Tronci, Boricheddu Trogu, Ignazio Podda, Nino Mannoni, Bruno Porcu, Roberto Pianta ed Ettore Marletta. Nonché, per la minoranza, Raffaello Puddu, Bruno Fadda e Marco Marini.

La rinuncia di Corona alla presidenza del Consiglio regionale riporterà, nel giro di pochi mesi, Nino Ruju a Sassari. Saranno allora gli impegni amministrativi in capo alla municipalità ad avere la priorità fra le sue scelte (gli verranno assegnate le funzioni di vice sindaco e di assessore allo sviluppo economico). La proroga della sua segreteria politica mostra affaticamenti imprevisti e crescenti e forse anche qualche divaricazione da Armando Corona. Non per caso egli è stato sostituito nella delegazione che tratta per la risoluzione della crisi, a seguito delle dimissioni della giunta Rais di alternativa di sinistra. Il 6 giugno rinuncia alla segreteria ma poi, aderendo alle forti insistenze, soprassiede fino al gennaio 1982… Intanto il quadro politico resta in fibrillazione: il PRI – che a maggio si è astenuto (come la DC) nella rielezione dell’on. Rais alla guida dell’esecutivo – si dichiara leale verso la maggioranza cui partecipano ancora PSI-PCI-PSd’A e PSDI, ma pure conferma la necessità di un rapporto dialettico aperto nei confronti della DC, partito di maggioranza relativa nell’Assemblea. E’ questa la condizione che il PRI ha posto alla coalizione di governo (non a caso detto di “garanzia autonomistica”), sembrando ad esso di poter salvare così almeno le premesse d’un auspicato riavvio delle intese di “unità autonomistica”.

La fibrillazione anticipa l’ennesima crisi e il cambio radicale del quadro politico. A tanto concorrono alcuni malesseri interni alle forze in campo, un compattamento del gruppo democristiano e quanto nello stesso PRI sta avvenendo per l’ormai imminente vittoria di Armando Corona nella competizione per l’alto seggio di gran maestro della Massoneria giustinianea.

Ritornano i contrasti sull’indipendentismo

La divisione del Consiglio in due metà di pari dimensioni paralizza tutta l’attività regionale. Di qui il continuo ricorso a cosiddette “verifiche” che, associando i vertici dei partiti a quelli dei gruppi consiliari, non sbloccano però la situazione. L’andamento del congresso regionale comunista, che ribadisce posizioni ostili alla DC, alimenta l’instabilità inducendo progressivamente chi – come il PRI – ha lavorato e lavora per un patto di “unità autonomistica” a prospettare un proprio sganciamento definitivo dalla maggioranza.

Di più. L’opzione indipendentista («seppure colorata di federalismo») del PSd’A è tornata nelle discussioni correnti, tanto da indurre l’esecutivo repubblicano ad esprimersi, per bocca del segretario Ruju, in termini molto netti, naturalmente per il suo rigetto facendo capire che il partito avverte un disagio reale a permanere nella maggioranza che include i portatori di ideologie così estreme. E’ ottobre, e se pure non sia ipotizzabile una crisi prima della discussione e approvazione del bilancio, l’uscita del PRI dalla maggioranza entra nelle prospettive di medio periodo.

A complicare la situazione è, peraltro, anche la “sfida” nuovamente lanciata dal congresso sardista in svolgimento a Porto Torres ai primi di dicembre. Per i repubblicani la credibilità della giunta non può non essere condizionata dai dottrinarismi introdotti nella dialettica politica dell’Isola. Ne è preso tutto dicembre e strascichi si registreranno, con dichiarazioni alla stampa o articoli di giornale, anche nel mese successivo. Intanto procedono indagini di polizia circa presunti (e indimostrati) gruppi eversori, di matrice indipendentista, il che è veleno ulteriore che piove sui rapporti politici.

Ancora a fine dicembre 1981 Ruju ribadisce le riserve dei repubblicani: «Noi non lanciamo ultimatum. Ma neppure stiamo alla finestra. Esigiamo chiarimenti… Tutti devono dire la loro sull’indipendentismo, verso il quale ribadiamo una preclusione ideologica di fondo. Abbiamo sempre confermato di essere contrari alle crisi al buio, ma questo non deve costituire un espediente per prendere tempo».

In una intervista a L’Unione Sarda lo stesso segretario riferisce essere intenzione del partito di organizzare, a fine gennaio, un convegno di studi sul tema. «Per noi deve essere chiaro – sostiene – che la politica autonomistica non ha niente a che fare con la scelta di Porto Torres. Attendiamo il giudizio degli altri schieramenti. Poi, il 16 gennaio, la nostra direzione tirerà le somme».

(Sembra d’essere tornati indietro di quindici anni: simpaticamente il leader sardista Michele Columbu ironizza su L’Unione Sarda dell’8 gennaio 1982 sui detrattori dell’indipendentismo pacifista del PSd’A: «mai visto Nino Ruju con una pecora sotto il braccio?», «… Il dolore dei repubblicani, ufficialmente, accampa motivazioni più astratte [di quelle dei radicali] e in certo senso più nobili, come si addice a un partito di tradizioni risorgimentali. Ora purtroppo non sembra che i nostrani pronipoti dei martiri, dei perseguitati e dei pensatori dell’Ottocento vogliano ispirarsi al Mazzini e al Cattaneo; si direbbe bensì che essi attingano fedeli consigli dalla più forcaiola letteratura antirisorgimentale. Essi infatti non si limitano, come per esempio fanno i comunisti, a dissentire dal nostro programma indipendentista; no, essi pretendono che la nostra posizione venga dichiarata eretica e messa al bando come una dottrina antidemocratica e talmente vergognosa che un partito perbene come il PRI non può collaborare con i sardisti, nemmeno provvisoriamente, per amministrare quel che di amministrabile resta alla Regione e nei Comuni della Sardegna…»).

E’ in tale contesto temporale che il consigliere Demontis, già sardista ed eletto con i repubblicani (fra i quali milita ormai da un decennio e più), comunica il suo passaggio al gruppo PSd’A. Conseguenza: gli altri due eletti repubblicani – Corona e Catte cioè – debbono confluire nel gruppo misto.

L’abbandono data dalla fine di ottobre 1981. Il disagio dichiarato alla stampa da Demontis fa riferimento alla dichiarata inconsistenza del dibattito e all’accentramento in pochi, a livello di consociazione e sezione di Sassari, delle decisioni politiche, non meno che a presunte scorrettezze personali usate nei suoi confronti al tempo della campagna elettorale. Afferma anche che la dichiarata propensione per l’ “unità autonomistica” non risponderebbe alla volontà vera degli uomini del PRI, che cercherebbero spazi di affermazione individuale con altra maggioranza. Da parte dell’esecutivo regionale del PRI così come degli organi del territorio si ribatte che egli non avrebbe mai espresso riserve sulla linea del partito e si rammenta che osservazioni critiche a lui furono mosse per un certo assenteismo ai lavori consiliari, essendo egli trattenuto a Sassari da prevalenti interessi professionali. (Quando, tempo dopo, chiederà di rientrare nel PRI, a Demontis non sarà data risposta).

1982, un gran maestro in politica

Sabato 16 gennaio Nino Ruju rinnova le sue dimissioni, ormai irrevocabili, dalla segreteria e la direzione regionale riunitasi ad Oristano elegge al suo posto Salvatore Ghirra il cui compito immediato sarà di promuovere degli incontri bilaterali con tutte le forze consiliari in vista di una verifica circa le realizzazioni del programma da parte della maggioranza e dell’esecutivo, tanto più alla vigilia della discussione sulla legge finanziaria 1982.

Il 9 febbraio le delegazioni dei vari partiti si incontrano per un confronto a tutto campo sul presente e le prospettive dell’immediato futuro. Un certo orientamento, variamente declinato, a favore della ripresa del quadro di “unità autonomistica” pare emergere, proprio con la caduta di quelle pregiudiziali che un tempo impedivano anche il dialogo, nelle forze maggiori presenti in Consiglio, dai democristiani ai comunisti e socialisti, oltreché ovviamente dai repubblicani. Riserve invece, peraltro non nuove, da PSDI e PLI che temono lo “schiacciamento”. Le possibili intese potrebbero facilitare il varo della legge finanziaria e di bilancio all’ordine del giorno dei lavori consiliari: si punta a un coinvolgimento di tutti nella formulazione di un programma di vasto respiro – inclusivo di questioni “brucianti” come le servitù militari, il piano di sviluppo del nucleare, ecc. – , lasciando a ciascun gruppo di decidere infine se partecipare direttamente oppure soltanto appoggiare dall’esterno (anche con la formula della astensione) il nuovo esecutivo unitario.

Una intervista di Ghirra a La Nuova Sardegna, proprio all’indomani degli incontri fra i partiti lascia intendere come l’accordo quanto meno su una limitata elencazione di materie, e senz’altro però sul bilancio, sia a portata di mano. Al dunque così non sarà. La giunta guadagna un altro mese di vita, non di più. Il 5 marzo essa, prendendo atto della ufficializzazione della uscita del PRI dalla maggioranza, rassegna le dimissioni. Si dice di pressioni di Craxi su Spadolini perché costringa la dirigenza regionale repubblicana a favorire il quadro politico che vede i socialisti in posizioni preminenti negli equilibri consiliari. Ghirra e Puddu, interpellati, confermano però la dissociazione del PRI dalla coalizione. Essa viene comunicata al presidente Rais dal segretario Ghirra e dall’on. Catte.

Per oltre un mese il nuovo segretario repubblicano e in generale la dirigenza del partito si impegnano a favorire una qualche soluzione alla crisi, tale da riportare come prioritario sugli stessi impegni di programma un quadro politico di solidarietà fra tutte le forze dell’ex maggioranza e dell’ex opposizione. In tale sforzo essi trovano sponda volenterosa e… inaspettata nel PSd’A, ed in specie nel segretario politico on. Carlo Sanna. Si ipotizza anche un documento unitario dei due partiti e consultazioni condotte insieme con le altre formazioni. Si deciderà poi che tale impegnativa opera di mediazione sia svolta in prima persona dal Partito Sardo d’Azione, date le insorte riserve degli esponenti comunisti e socialisti verso il PRI.

La crisi dura a lungo e soltanto a luglio si riesce a sbloccare la situazione con il ritorno al centro-sinistra ed un esecutivo a presidenza democristiana (affidata all’on. Roich) e con la diretta partecipazione repubblicana nella persona del consigliere Catte.

Si dirà insistentemente essere stato motivato, il ritiro repubblicano dalla maggioranza, e come bis dell’“agguato” che nell’aprile 1981 fece cadere la prima giunta Rais, di una “manovra” massonica, ispirata da Corona: circostanza sempre smentita con veemenza e, obiettivamente, infondata nel mondo del reale.

Vero è che l’elezione di Corona al vertice di Palazzo Giustiniani qualche novità l’ha portata. Intanto con la rinuncia da parte dell’interessato alla tessera del partito, pur confermando l’adesione agli ideali politici del repubblicanesimo autonomista. Poi con una contestazione ad un atto della sua trascorsa presidenza del Consiglio che si configura in un vero e proprio impeachment davanti alla commissione d’inchiesta costituitasi nell’ambito della II commissione permanente (Informazione e diritti civili).

Tale circostanza determina un oggettivo e progressivo distacco di Corona dalle attività consiliari, mentre da parte della direzione di partito ripetutamente gli viene richiesto di riprendere, pur da indipendente, il lavoro. Tanto più che si è costituita nel frattempo una nuova giunta con la partecipazione diretta del partito, “ingessando” l’on. Catte nelle sue mansioni di assessore e togliendo al PRI la presenza in Aula.

Le ripetute sollecitazioni a dimettersi e consentire il subentro del primo dei non eletti, ove egli ritenga di non poter riprendere la frequenza ai lavori, indispongono l’anziano leader che a tanto risponde da una parte mobilitando una parte della militanza rimastagli acriticamente fedele (i cosiddetti “amici di Corona” che come tali si presentano ai congressi sezionali e provinciali e infine anche al regionale), dall’altra attivando una certa stampa definita di “controinformazione”- leggi Sassari Sera – che si esibisce in ripetute prove di dileggio della dirigenza, cominciando dal segretario Ghirra e dal consigliere nazionale Puddu, ma coinvolgendo i più noti esponenti come lo stesso Tuveri e, con lui, Pau, Puligheddu e Merella.

Come detto, a luglio ottiene la fiducia del Consiglio il quadripartito di centro-sinistra presieduto dall’on. Roich. Intervenendo nel dibattito Antonio Catte conferma la linea della “unità autonomistica” come scelta di fondo dei repubblicani, rammaricandosi che, per veti incrociati, a tanto non si sia pervenuti. Confida peraltro che la giunta cui egli partecipa come titolare della Difesa dell’ambiente (assessorato che ha rilevato da Mario Melis) sappia mostrare, nel concreto della sua azione, quello spirito aperto ed unitario vanamente richiesto alla precedente coalizione. Circa le forti critiche rivolte al collega Corona da esponenti del PCI osserva che esse non vi sarebbero state ove questi avesse continuato ad appoggiare la giunta di sinistra.

Con battute fortemente polemiche verso le ragioni e le modalità della crisi politica che per quasi cinque mesi ha paralizzato la Sardegna, volgendo dure critiche e accuse allo stesso Armando Corona – cui addebitano di farsi portatore di interessi oscuri e occulti, extraistituzionali – intervengono anche i comunisti Raggio e Angius.

E’ indubbio che, al di là anche degli eccessi polemici e “complottisti” denunciati dal PCI, per l’intera seconda parte dell’anno e per diversi mesi anche del 1983 il PRI viva come prigioniero di una “sindrome di Corona”, e ciò sia per le cennate manifestazioni di sofferenza interna sia l’immagine pubblica che esso, in parte almeno, rende di se stesso, essendogli sovrapposto il profilo del suo ex leader, che mantiene il suo seggio in Consiglio regionale e tira le fila di quadri e militanti a lui legati da antichi affetti e/o interessi.

La segreteria Ghirra, che gode comunque di un’ampia solidarietà negli organi dirigenti del partito, si sforza di uscire dalle strettoie delle correnti polemiche, cercando di qualificare la proposta programmatica del PRI anche con iniziative di alto rilievo aperte alla cittadinanza. Così avviene il 14 maggio 1983 con il convegno, organizzato a Sassari, su “L’impresa pubblica in Sardegna”. Al centro di tutto le crisi produttive o di export dei maggiori comparti industriali isolani, dall’alluminio al minerario-metallurgico, alla chimica. Le ristrutturazioni tecniche e finanziarie passano per un nuovo equilibrio fra mano pubblica e mano privata, ridefinendo l’intero sistema economico, produttivo e commerciale, della Sardegna.

I lavori si aprono con una relazione del professor Paolo Savona che rilancia la sua nota metafora della “pentola bucata” secondo cui lo sbilancio fra import ed export di beni e servizi di un certo territorio determina in esso una tensione in termini di compensazione del potere d’acquisto perduto dall’area, con diretto indebolimento del suo concreto potenziale di sviluppo. Associando incentivi ed economicità dell’impresa, a parere del presidente del CIS è ravvisabile «una netta superiorità morale» nelle iniziative industriali aventi radici nella tradizione produttiva dell’Isola, dall’estrattivo non minerario-metallurgico al sugheriero, dal tessile all’alimentare. Ma è proprio in tali settori che si riscontrano «pesantezze gestionali e diseconomie nell’area pubblica o semipubblica, mentre i privati prosperano». Conclusione: «E’ proprio la lettura della crisi industriale come crisi politica e non come crisi economica a motivare il convincimento che non è possibile fondare il futuro economico della Sardegna sul contributo proveniente dall’industria pubblica».

Prendono quindi la parola, con interventi mirati ai campi di rispettiva competenza, il giurista Franco Farina, il geologo Ilio Salvadori e gli economisti Roberto De Santis e Riccardo Gallo. Interviene anche, in quanto pro tempore revisore dei conti dell’Alsar (ma è ancora in servizio all’ARST), Marcello Tuveri.

Nelle sue conclusioni, l’ex ministro del Bilancio Giorgio La Malfa così sintetizza la posizione del partito: «Non si può far pagare alla Sardegna ed ai lavoratori sardi il costo delle scelte politiche ed economiche sbagliate e dell’industrializzazione di rapina degli anni ’60 e ’70… Bisogna saper difendere i livelli di occupazione raggiunti e aumentarli chiamando a raccolta non solo l’iniziativa pubblica, ma anche e soprattutto il risparmio e quindi il sistema creditizio della Sardegna e l’imprenditorialità privata, che pure esiste. Ma ciò che è mancata e manca è una capacità delle strutture regionali di incanalare gli sforzi in questa direzione e di sollecitare interventi adeguati da parte delle strutture centrali dello Stato. Nella mia esperienza di governo ho dovuto constatare che dalle regioni meridionali vengono con il massimo di forza le richieste di assistenza più che le richieste di sostegno dello sviluppo. Noi non crediamo che le forze che fino ad oggi sono state interpreti di una gestione tradizionale e assistenziale siano in grado di divenire portatrici di valori opposti a quelli che esse hanno proclamato e favorito».

1983, alle politiche l’alleanza con i liberali

Il rinnovo parlamentare fissato a giugno rilancia per il Senato il rapsodico sogno di aggregazione laica con liberali e socialdemocratici. I repubblicani offrono alla minialleanza i nominativi di Luciano Pittoni e Lello Puddu nei collegi rispettivamente di Iglesias e Nuoro (dove riscuoteranno rispettivamente il 3 ed il 4,5 per cento dei suffragi espressi).

Relativamente alla Camera dei deputati la lista (in perfetto ordine alfabetico) rispecchia i criteri altre volte adottati per ottimizzare le risorse effettive, invero comunque limitate, del partito: vale a dire la rappresentatività territoriale e l’accredito sociale per aree fiduciarie professionali o amministrative. Anche stavolta i maggiori esponenti del partito non si negano alla fatica di una campagna elettorale benché il risultato sia sempre problematico. Va peraltro rilevato che la presidenza Spadolini, conclusasi da non più di sei-sette mesi, ha orientato una corrente di simpatia verso i repubblicani e di essa si spera di poter godere anche nell’Isola. Tanto da considerare stavolta non assolutamente esagerata la prospettiva della conquista di un quorum.

Se stavolta parlamentari e dirigenti nazionali non sono in grado di fornire un importante supporto nei giri di propaganda – viene soltanto l’on. Mammì (per una manifestazione a Quartu con il prof. Luigi Concas, candidato al Senato) – sono impegnatissimi tutti quanti i candidati a raggiungere ogni centro abitato per incontrare gli elettori.

Pur mancando l’obiettivo della elezione di un deputato, il risultato delle urne sarà comunque positivo per più aspetti e non sfigura in assoluto rispetto al complessivo 5,1 per cento raggiunto a livello nazionale. Stavolta i voti sono 29.523, pari al 3 per cento del totale. L’alleanza senatoriale tocca il 6,2 per cento.

Particolarmente degne di nota sono le performance di alcuni candidati, a cominciare da Achille Tarquini che supera i settemila voti personali. Seguono Bruno Fadda e Moreno Cecchini che oltrepassano rispettivamente le 4.200 e le 3.200 preferenze (ad Alghero il PRI tocca l’11,4 per cento).

Nella stessa tornata elettorale si vota anche per le amministrative in numerosi comuni, fra i quali una quindicina con il sistema proporzionale. In tale novero, i repubblicani presentano proprie liste a Porto Torres, Assemini, Carbonia, Quartu e Villaputzu.

L’addio di Nino Ruju

Un grave lutto colpisce, nello stesso autunno, il partito: se ne è andato Nino Ruju, vicesindaco di Sassari, l’intelligenza vivida e colta del repubblicanesimo e dell’autonomismo turritano. Consigliere comunale di Sassari dal 1975, confermato nel 1980 e dal 1982 vicesindaco e assessore allo sviluppo economico, e tante tante cose – a partire dal movimento universitario degli anni ’50 – prima di quel 1975. La messa funebre è celebrata, in duomo, dall’arcivescovo Isgrò. Dalla camera ardente, allestita a Palazzo Ducale, la salma, accompagnata dalla marcia funebre di Chopin, è portata in spalla dagli amici repubblicani ed al monumentale di Sassari. La commossa orazione funebre è tenuta da Lello Puddu.

A fine novembre si tengono ad Alghero le elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale dopo molti travagli fra annullamenti di risultati delle amministrative e gestioni commissariali. Da sempre una delle sezioni più vivaci del repubblicanesimo sardo, quella di Alghero ha saputo in più occasioni distinguersi anche per straordinarie performance elettorali e conquista di seggi. Non di meno il successo talvolta si è tradotto in tensioni interne e perfino in rotture e abbandoni.

Nelle strettoie dei contrasti recenti fra i gruppi che si richiamano alla segreteria e ad Armando Corona, di cui si avrà nuova prova al prossimo congresso regionale, gli algheresi hanno tenuto un atteggiamento prudenziale e quasi di terzietà. Ora al potenziale politico della militanza algherese offre un importante appoggio lo stesso segretario nazionale che viene ad Alghero (reduce da una missione di governo a La Maddalena) giovedì 4 novembre e parla in un affollatissimo teatro “Selva”. Sono 1.521 i voti raccolti dalla lista, pari al 6,45 per cento, dato senz’altro migliore di quello delle precedenti comunali (il 4,5 per cento). Gli eletti sono ancora due: Moreno Cecchini e Aurelio Ferroni.

1984, prima il congresso e s’avvia il “dopo Corona”

Il XVIII congresso regionale si svolge a Quartu, nei saloni dell’hotel Diran, il 3 e 4 marzo 1984, all’insegna di “I repubblicani partito della democrazia partito dell’autonomia”. Le assemblee sezionali hanno appassionato, ma anche logorato, i militanti, appiattendoli inevitabilmente nella conta di una parte – quella di Ghirra e della grande maggioranza della dirigenza uscente, che politicamente vorrebbe caratterizzare il PRI svincolandolo dall’abbraccio di DC o PCI – o dell’altra – quella di Corona e dei suoi amici (informale corrente di “Nuova Autonomia” nella quale si riconoscono, fra gli altri, il segretario provinciale Benito Orgiana e l’economista Gianfranco Sabattini). Alla vigilia dei lavori si profila su una posizione mediana, ancorché largamente minoritaria, l’area che fa riferimento a Bruno Fadda, già consigliere regionale e segretario della sezione di Cagliari.

Una lettura sullo stato vitale del partito la offre, alla vigilia dello svolgimento congressuale il periodico Sassari Sera, fattosi sempre più, in un’apparente (e non credibile) terzietà, voce effettiva dell’ala coroniana. Le ragioni profonde dello scontro interno al partito sono ravvisate dal giornale di Pino Careddu nella permanenza di distinzioni fra i portatori di un’istanza autonomista, giunta ad arricchire il partito che era stato di Ugo La Malfa, e i repubblicani definiti, con linguaggio favolistico, «preistorici». Dopo la confluenza del 1971 – a parere di Sassari Sera (cf. “Repubblicani preistorici Repubblicani autonomisti”, gennaio 1984) – «il PRI si è proposto come il referente più autorevole di una tematica che ha difeso la centralità dello statuto speciale come fattore determinante della programmazione e della rinascita economica attraverso la comune direzione politica di tutte le forze operanti nel consiglio regionale. Il fallimento della proposta di una giunta unitaria autonomistica e l’avvento ella giunta laica di sinistra, l’uscita dalla scena di Armando Corona e la morte prematura di un teorico di prestigio come Nino Ruju, ha sconvolto la vita interna del PRI che, per una serie di vicende personali incredibili, ha indotto il partito ad appiattirsi sulle posizioni “metropolitane” dei nuovi leaders alla Spadolini, facendo riaffiorare il rancore rimosso di chi non aveva sopportato un arricchimento del pensiero di La Malfa con quello dei padri fondatori dell’autonomismo sardo».

Si tratta di una lettura delle vicende interne al PRI palesemente partigiana e pregiudiziale, e perfino banale, perché non tiene conto che la parte prevalente dell’area già sardista confluita nel 1971 è del tutto coinvolta nella linea ufficiale del partito, che anzi essa gestisce, in prima persona, da anni. La sofferenza repubblicana alla metà degli anni ’80 sembra nascere piuttosto dalla incapacità della dirigenza di proporre una “alterità” effettiva e riconoscibile, esemplare e imitabile: in ciò contraddicendo alle premesse che s’erano accompagnate, anni prima, al quadro unitario visto come sfondo necessario per la riforma del profilo della Regione ad autonomia speciale in rapporto ad uno Stato che, con le sue sedi ed i suoi meccanismi di spesa, esigerebbe anch’esso una revisione profonda nella logica della programmazione. Quando anche la programmazione s’è ormai perduta da tempo in negoziazioni parziali e non coordinate sul vasto territorio nazionale ed affidate oltretutto ad un sistema di Partecipazioni Statali fattosi burocratico, inefficiente e in parte perfino corrotto.

Insomma, ai ritardi e alla debolezza della politica nazionale, travolta dalle emergenze degli anni ’70 e dei primi anni del decennio successivo – dalle tempeste sia economiche che terroristiche sulla scena mondiale e dalle crescenti problematiche interne (inflazione a due cifre, disoccupazione di massa, obsolescenza industriale, perdite di quote di mercato nell’export, ecc. e, sul fronte dell’ordine pubblico, lo stragismo e il brigatismo) – ha corrisposto una permanente episodicità della politica regionale e il PRI non ha saputo esserne la “controtendenza”. In altre parole, la crescente omologazione del pensare e fare politica dei repubblicani sardi (sia di quelli chiamati “preistorici” che di quelli confluiti nel 1971 e di quelli accostatisi al partito negli ultimi tre lustri per simpatia verso personalità del valore di Ugo La Malfa o Giovanni Spadolini ed entrati perfino negli organi dirigenti e/o datisi alle candidature amministrative e politiche) non ha offerto al partito uno spazio di rappresentanza, di analisi e di proposta effettivamente nuovo e rispondente alle necessità sociali dell’Isola. Tale omologazione ha via via interessato anche le modalità della vita interna del partito, retrocedendo questo a schemi anche organizzativi consunti e rinnegando di fatto quella ipotesi di “partito aperto” che era stata lanciata alla fine degli anni ’60 dalle segreterie Anedda e Satta.

Autentica sovrastruttura politica contingente, ad interrogare e schierare i rappresentanti dei circa tremila iscritti sono le pressioni vere o presunte che dall’esterno il vecchio leader Corona esercita sul partito e, anche per suo tramite, sulla politica isolana. In questo senso sembra eclatante la riforma della legge elettorale penalizzante le formazioni minori che, portata in Aula nottetempo e celata in articolati di legge afferenti altre materie, è stata votata allo scadere della VIII legislatura, quasi come… vendetta postuma – si sostiene da più parti – dello stesso Corona con la copertura trasversale dei partiti maggiori, interessati a divorare le spoglie dei minori a rischio.

Sono 250 i delegati chiamati al confronto di idee e posizioni e si mischiano fra loro tanti cronisti quanti non se ne sono mai visti alle assemblee repubblicane. I giornali insistono, con strilli e commenti in prima pagina e nella foliazione interna, sulla drammaticità dello scontro. Anche perché si sa che le forze numeriche si equivalgono. Evidentemente, ad interessare la stampa è la singolarità di una situazione che vede un partito squassato – così viene (impropriamente) presentato – dall’intervento della Massoneria.

Incaricato dalla segreteria nazionale, partecipa ai lavori il deputato Antonio Del Pennino, che a Roma dirige proprio l’ufficio degli affari interni del partito. Le atmosfere sembrano prevalere, al congresso, sul merito del confronto tanto programmatico quanto politico, circa le coalizioni cui prendere parte, e ciò rimbalza puntualmente anche nei resoconti della cronaca l’indomani. E’ la partita che si gioca soprattutto, nel marzo 1984, con due partiti interni avversari, ciascuno dei quali pensa di poter sussumere la complessità del repubblicanesimo isolano nella propria frazione.

Ghirra, in quanto a scenario generale, prende atto della impossibilità di procedere verso l’obiettivo della “unità autonomistica” e non si vincola però ad alcuna formula succedanea: valgano i programmi, in linea di massima il PRI potrebbe aderire ad una coalizione di centro-sinistra o pentapartitica, così come ad uno schieramento laico e di sinistra affrancato da dottrinarismi: «Alla DC diciamo che non possiamo fare sempre il pentapartito, anche se è la nostra scelta preferenziale. Non accettiamo gabbie. E lo stesso discorso facciamo al PCI che propone l’alternativa democratica: è un’altra gabbia. Non abbiamo alcuna pregiudiziale, il confronto avverrà sui programmi. Cercheremo di rilanciare il ruolo delle forze laiche e socialiste».

Circa le scelte programmatiche, centrale rimane la riforma, avviata e mai conclusa, dell’Amministrazione regionale, un restyling dei suoi organi parlamentari e di governo (anche con la riduzione del numero dei consiglieri), la revisione della spesa in chiave di razionalizzazione, con l’eliminazione dei tanti inutili comitati e la riduzione drastica di USL e comprensori. E riguardo agli enti strumentali indica, il segretario repubblicano, la scelta di amministratori guidata da probità e competenza insieme, fuori da stretti criteri spartitori, ipotizzando anche un comitato di garanti costituito da magistrati ed esponenti degli ordini professionali.

Fra le urgenze realizzative indica il nuovo piano sanitario regionale, un piano triennale per l’occupazione (tanto più quella giovanile), provvedimenti a sostegno di centri rieducativi e terapeutici impegnati nel recupero dal disagio psichico e dalla droga.

In appoggio al segretario, Marcello Tuveri tratta specificamente della riforma efficientista della Regione e di tutta la rete dell’autonomia territoriale, auspicando un rilancio qualitativo della legislazione contro ogni deriva indipendentista, mentre da Bruno Fadda ed Angelo Rundine vengono riserve, pur diversamente motivate, verso la linea politica del partito che sembrerebbe delegittimata da una insufficiente consultazione della militanza.

Imponente il numero degli intervenuti alla tribuna, pro o contro la segreteria, e specularmente pro o contro la… linea Corona. Da Maccioni: «Nessun personalismo. Quando abbiamo parlato del caso Corona in direzione era per questioni politiche: il partito voleva recuperare quel seggio del consiglio regionale che Corona non voleva occupare più da quando era diventato gran maestro. Ben due volte gli abbiamo chiesto di rappresentare ugualmente i repubblicani sardi, ha detto di no. Allora gli abbiamo chiesto di lasciare quel mandato a disposizione del partito. Ha rifiutato e la sua risposta ci ha indignato», così da Massaiu (magari con un soffio di nuova fiducia): «Il leader non l’abbiamo cacciato, se n’è andato per libera scelta, lasciando il partito in una situazione difficile. Ma morto un leader il partito non muore».

L’invito di Del Pennino a calmare le acque, con uno sforzo collettivo di maturità democratica e riportando il senso delle tensioni presenti entro le coordinate politiche nazionali, che vedono il PRI come fattore di stabilità e di promozione programmatica, e le battute conclusive di Salvatore Ghirra, volte ad esortare tutti a non esaurire la carica ideale e politica della militanza in una lotta fronte contro fronte, ripartendo tutti insieme per obiettivi condivisi e d’interesse generale stemperano effettivamente qualche polemica. Si va quindi alla conta. La mozione Ghirra raccoglie il 50,27 per cento dei voti congressuali – fra i quali sono dichiarati quelli della Federazione Giovanile –, mente quella di “Nuova Autonomia” ne raccoglie il 42, e circa l’8 per cento lo cattura la mozione presentata dalla sezione di Alghero che forse ha accarezzato l’ambizione di diventare l’ago della bilancia fra le due maggiori correnti.

Positive le reazioni soprattutto degli sconfitti: «Ha vinto il PRI» (Bulla), «Ci siamo scontrati democraticamente, ora pensiamo al partito, che è quello che conta» (Fadda). Ghirra, in una dichiarazione a La Nuova Sardegna commenta: «Da oggi stesso occorre riprendere un’azione unitaria. Anche in questo congresso siamo stati diversi dagli altri, dando un segnale di civiltà e maturità discutendo apertamente dei nostri problemi interni. Quale altro partito è in grado di farlo?». Aggiungendo: «Il PRI non ha rifiutato un capo per trovarne un altro. Ha vinto il partito e saranno i suoi organi a decidere chi dovrà guidarlo. Il congresso ha dimostrato che siamo cresciuti e il dibattito è stato all’altezza del compito. E’ stata tracciata una linea politico-programmatica che cercheremo di approfondire e sviluppare prima delle elezioni. Perché non siamo un partito di schieramento ma di contenuti e dobbiamo presentarci al confronto con le altre forze politiche con un programma ben definito».

Seguitissimi dalla stampa, i lavori si concludono con l’elezione dei 31 dirigenti regionali: 19 (con premio di maggioranza) quelli della lista Ghirra. Con il segretario è Marcello Tuveri e sono poi anche Celestino Badas, Anna Bonfiglio Berri, Sebastiano Maccioni, Giannetto Massaiu, Giovanni Merella, Gonario Murgia, Germano Nurchis, Annico Pau (il più votato con 2.564 preferenze), Mario Pinna, Lello Puddu, Salvator Angelo Razzu, Angelo Rundine, Alberto Mario Saba, Paolo Sardo, Sergio Segneri, Achille Tarquini e Franco Turco. In rappresentanza della minoranza entrano in direzione Sergio Baldussi, Pietro Bulla, Bruno Fadda, Luigi Greco, Gian Carlo Lucchi, Benito Orgiana, Ignazio Podda, Giovanni Scampuddu, Alberto Siddi, Pietro Tronci, Liliana Zara. Solo eletto della terza lista è Dario Angius. Il 16 marzo la direzione conferma Ghirra alla segreteria: votano per lui in sedici, mentre i nove componenti della minoranza si astengono. Elegge anche l’esecutivo: Maccioni, Puddu, Pinna, Razzu, Turco e Segneri.

Il parziale ricambio della dirigenza può essere interpretato positivamente se visto nella luce di un fisiologico passaggio generazionale ma, nel concreto, esso pare piuttosto determinato dal delinearsi di nuove gerarchie d’influenza, sia personali che territoriali (crescono i sassaresi, emergono personalità come Pau e Merella). Altre novità – ora ingressi ora uscite – derivano anche dalla spaccatura verticale registratasi al voto delle mozioni e, date le collocazioni tattiche di questo o quello, per l’effetto trascinamento che esso provoca nelle lunghe liste dei candidati ad un posto in direzione. Nell’analisi di tali dinamiche possono trovarsi le spiegazioni di quanto avverrà nei mille giorni a seguire, gli ultimi della segreteria Ghirra e… delle ostilità dei “coroniani”.

Al rinnovo del Consiglio regionale

Il rimescolamento congressuale anticipa e prepara la partecipazione repubblicana alle elezioni regionali di giugno (ed a quelle, che le anticipano di una settimana, per il rinnovo del Parlamento europeo).

La nuova legge elettorale impone al PRI l’alleanza con i liberali, così come peraltro avviene, a livello nazionale, per le europee. All’insegna di “rigore ed efficientismo”. Al solito, quando è in parte verità in parte rituale scontato, le dichiarazioni pubbliche e le interviste ai giornali indicano come ragione profonda dell’incontro fra i due partiti una opzione ideale e politica, la scelta propriamente politica e non soltanto tattica o soltanto elettorale, di dar corpo ad un’area presidiata ancora da una presenza troppo debole.

In una ennesima intervista a La Nuova Sardegna ed in altre dichiarazioni alla stampa, Ghirra si esprime, all’inizio della campagna elettorale, anche sullo scenario politico generale: «Roich, dimostratosi inaffidabile, non avrà più i nostri voti. Appoggiarlo, mentre infuriava la questione morale, è stato un grave errore». Il riferimento è a quell’insieme di polemiche che hanno investito il presidente della giunta per cointeressenze di varia natura che lo hanno visto coinvolto nelle inchieste sul faccendiere Flavio Carboni e le spericolate operazioni finanziarie e alleanze d’affari con gli uomini del Banco Ambrosiano, della P2 ecc. Naturalmente non minore è la delusione per l’appoggio determinante offerto da Roich, presidente di una giunta peraltro a partecipazione repubblicana, alla modifica della legge elettorale penalizzante le formazioni minori e in via diretta il PRI.

Secondo la stampa è diffuso nel partito il giudizio che il segretario ribadisce, con spirito autocritico, nella campagna elettorale: «Nel corso di questa legislatura abbiamo commesso un grave errore: quello di aver concesso la fiducia alla giunta quando nei confronti di Roich era stato sollevato il problema della questione morale». E circa la modifica surrettizia della legge elettorale non manca, il segretario repubblicano, di alzare la polemica verso la Democrazia Cristiana: «Abbiamo sempre chiesto chiarimenti e sollecitato riunioni del pentapartito prima e dopo l’approvazione dell’emendamento elettorale. Le riunioni non sono mai state convocate e, anche due giorni prima del voto, ci era stato assicurato che non era prevista nessuna modifica elettorale. Sta qui la scorrettezza della DC e l’inaffidabilità di Roich. L’emendamento elettorale è un atto vergognoso e se lo si vuole giustificare sostenendo l’esigenza della governabilità del Consiglio significa voler nascondere la sostanza del problema». (Lo stesso Spadolini spende, in proposito, parole di fuoco scrivendone su La Voce Repubblicana).

Circa la denuncia dei cosiddetti “poteri esterni”, Ghirra sostiene di condividere la preoccupazione espressa da altri in proposito: «Il problema è presente e attuale anche se taluna delle forze politiche, con interpretazione strumentale, considera il problema riferito solo alla caduta della giunta laica e di sinistra. E’ una visione parziale». Se poi per “poteri esterni” sia da considerarsi la Massoneria, a domanda precisa egli risponde: «Non escludo e non dico che è questo. Per quanto riguarda il PRI le interferenze esterne le abbiamo denunciate apertamente al recente congresso, le abbiamo combattute e abbiamo vinto».

Repubblicani e liberali presentano liste nei quattro collegi provinciali nella convinzione di poter questa volta strappare quel consenso altre volte mancato. Ad incoraggiare è anche la consapevolezza che l’assenza dalla competizione delle due maggiori personalità che hanno segnato, nel bene e nel male, i destini di entrambe le formazioni per lunghi anni – vale a dire Armando Corona e Sebastiano Medde (in Consiglio rispettivamente dal 1969 e dal 1965) – conceda spazio ai candidati in lista. L’obiettivo generale è di superare i pur rimarchevoli risultati del 1979 (sul filo dei 30mila voti i repubblicani e dei 18mila i liberali), e consentire ad entrambi i partiti di avere una replica e anzi una implementazione della rappresentanza.

Nel concreto i repubblicani ed i liberali portano in lista un numero pressoché pari di nominativi, puntando peraltro su alcuni uomini-forza che potrebbero disputarsi il seggio ritenuto alla portata in ciascuno dei quattro collegi (con una realistica possibilità di un doppio seggio a Cagliari). Con la generosità propria delle formazioni minori, ovviamente la parte preponderante delle liste è costituita dai cosiddetti “portatori d’acqua”, gregari che per idealità od amicizia nei confronti dei candidati eccellenti contribuiscono alla raccolta del consenso in aree sociali e professionali dell’intero territorio.

Sono proprio loro ad animare spesso le manifestazioni pubbliche che tendono a porre alla ribalta in modo particolare quegli esponenti dei rispettivi partiti con maggiori chance, anche se pare evidente che le dimensioni elettorali delle componenti od il loro potenziale di successo sia diverso: molto più legato alle persona è, tradizionalmente, l’elettorato repubblicano, il che obiettivamente favorisce nelle previsioni i candidati dell’Edera piuttosto che quelli della Bandiera. Forse soltanto Lucio Lecis Cocco Ortu, a Cagliari, vanta credibili chance di successo, per il resto, diffusi fra i quattro collegi, i nomi che corrono sono tutti di repubblicani: Tarquini, Farina, Siddi, Bulla, Marini, Orgiana, Fadda a Cagliari, Merella, Razzu, Cecchini, Olmeo, Micheletti, Tilocca a Sassari, Uras ad Oristano, Catte e Pau a Nuoro.

A sostenere la lista arrivano nell’Isola il segretario nazionale della FGR Oscar Giannino (a Nuoro), il presidente dei deputati repubblicani Battaglia (a Cagliari), dello stesso sen. Spadolini (ministro della Difesa) tanto nel capoluogo – festeggiato dai giovani che incontra al “Bounty” – quanto ad Alghero, Sassari (dove visita la redazione de La Nuova e s’incontra con Cossiga presidente del Senato) e Sorso. Ovunque celebra la natura del sardismo repubblicano: «L’indipendentismo è una degenerazione dell’ideale autonomistico, Il PRI rispetta il sardismo, i due partiti hanno filoni in comune e anche una storia in comune. Ma oggi nel PSd’A ci sono atteggiamenti indipendentisti che giudichiamo discutibili e pericolosi».

Di pura testimonianza sono le candidature, alle europee, della repubblicana Anita Garibaldi Jallet e del liberale Vincenzo Caredda, presentati in una grande manifestazione a Cagliari, il 2 giugno, dal professor Paolo Ungari: «Noi chiediamo che il Parlamento italiano approvi il trattato per l’unione federale, sul quale esiste già una convergenza maggioritaria, larghissima nell’euroParlamento, subito e così come è».

Il risultato delle urne è modesto: appena 21.905 voti, che sono almeno cinquemila in meno di quelli raccolti dai due partiti presentatisi separatamente nel 1979. Le percentuali sono piuttosto allineate fra i territori provinciali: 2,8 nel collegio di Cagliari, 1,8 in quello di Oristano, 1,9 e 2,2 rispettivamente in quelli di Nuoro e Sassari, per un dato regionale del 2,4. Caredda raccoglie 4.905 preferenze, la Garibaldi Jallet 1.870.

Certamente migliore, come già nelle previsioni, il dato – la settimana dopo – delle regionali. I 39.665 voti consentono l’elezione di tre consiglieri e tanto basta a considerare complessivamente positiva – per i repubblicani, non per i liberali – l’esito delle urne e, di conseguenza, della alleanza. Entrano in Consiglio Achille Tarquini eletto nel collegio di Cagliari, Giovanni Merella a Sassari ed Antonio Catte a Nuoro.

Per quanto riguarda il PRI in questa prima prova del “dopo Corona”, certamente costituiscono elementi valutativi importanti del gruppo dirigente chiamato a guidarne le sorti le tabelle delle preferenze nei singoli territori. In provincia di Cagliari, dove maggiori sono state le tensioni fra la parte schieratasi, al recente congresso, a sostegno del segretario Ghirra e quella definita degli “amici di Corona”, si registra la conferma complessiva di un equilibrio di forze: alle spalle dell’eletto Tarquini – inquadrabile nella maggioranza – e, come primo dei non eletti repubblicani, di Franco Farina, risultano diversi dei “coroniani”. Sola eccezione, nel gruppo di testa, l’assessore comunale Marini, titolare-beneficiario di un cospicuo pacchetto di voti fiduciari.

A Sassari, dietro l’eletto Merella, da lui distanziato da circa trecento preferenze, si piazza Salvator Angelo Razzu, e dopo questi, con oltre 2.100 preferenze l’algherese Moreno Cecchini. Limpide conferme ad Oristano, con la netta primazia di Tonino Uras, ed a Nuoro dove primeggiano Catte, grazie al massivo consenso garantitogli dalla sua Oliena e ad una buona raccolta anche in provincia, ed Annico Pau.

Ritorna il confronto/scontro con il PSd’A

Il successo sardista alle regionali, confermato poi alle amministrative del 1985, e i numeri che consentono e forse esigono una maggioranza di sinistra alla Regione, pongono ai repubblicani in termini non più evasivi il problema di dove collocarsi: se in uno schieramento, almeno nominalmente, progressista e riformatore, nonché rivendicativo nei confronti dello Stato centrale (e non senza applicazione pratica di alcuni postulati del PSd’A indipendentista), oppure all’opposizione, stretti accanto ad una DC spodestata del suo storico quasi monopolio del potere.

A fronte dei 27 seggi democristiani e dei 3 della destra missina, in Consiglio si pongono i 24 del PCI, i 12 dell’area socialista e gli altrettanti del PSd’A. I margini di maggioranza sono netti per lo schieramento di sinistra, ed i voti repubblicani sarebbero comunque soltanto aggiuntivi. Il che costituisce motivo supplementare di un libero esame che il PRI può compiere sulle sue opzioni prioritarie, salve restando ovviamente le verifiche sulle compatibilità programmatiche.

La IX legislatura si connota per la sequenza di tre giunte presiedute tutte e tre dall’on. Mario Melis, leader riconosciuto del Partito Sardo d’Azione. La prima è un bicolore PSd’A-PCI integrato da alcuni tecnici di entrambe le aree (fra essi Bruno Arba, da sempre “condiviso” da sardisti e repubblicani); la seconda è un quadripartito PSd’A-PCI-PSI-PSDI con un assessore tecnico designato dai repubblicani; la terza, varata nell’estate 1987, è un pentapartito di sinistra, inclusivo perciò dei repubblicani.

E’ da rilevare, in tale contesto, che il passaggio dalla seconda alla terza giunta Melis provocherà nel PRI acute tensioni dove non saranno forse propriamente né l’aspetto politico né quello programmatico ad imporsi alla valutazione degli organi di partito e dello stesso gruppo consiliare, ma interessi non tutti commendevoli di parte. Il che favorirà la crisi del partito, fino agli epiloghi che incroceranno le cause nel crollo dell’intero sistema cosiddetto della “prima Repubblica”.

Lo stesso segretario nazionale Spadolini e La Voce Repubblicana seguono con grande attenzione, nell’estate 1984, l’evolversi della situazione politica sarda. Il giudizio è di forte riserva sugli eccessi dottrinari che il PSd’A porta o intende portare nella attività del governo regionale, anche se è da osservare che la statura del presidente Melis si mostrerà, nel tempo, capace di grande equilibrio tanto più nella interlocuzione istituzionale della Regione con il governo e in generale con l’Amministrazione centrale dello Stato.

La prima giunta Melis gode del pieno consenso del PSd’A e del PCI e, dall’esterno, del PSI. I repubblicani al pari dei socialdemocratici si astengono nel voto di fiducia. Le lunghe trattative che precedono la formazione dell’esecutivo, e che vedono i socialisti in una posizione di riserva rispetto alla «centralità» pretesa dai sardisti e neppure in grado però di coagulare attorno al proprio gruppo tutta l’area laica, coinvolgono all’inizio anche il PRI. Esso peraltro, dichiarandosi svincolato da ogni pregiudiziale avversa ai vincitori delle elezioni e in specie al PSd’A, condiziona tutto alla verifica delle compatibilità, invero problematiche, tanto politiche quanto programmatiche. La caratterizzazione indipendentista dei sardisti in campagna elettorale ha infatti marcato distanze bisognose di nuove letture critiche.

La direzione del PRI riunitasi il 7 luglio prende atto «della diffusa volontà di cambiamento espresso dal corpo elettorale» e riconosce al PSd’A il diritto di avanzare e argomentare le sue proposte. Certo è che – sostiene un suo comunicato – «spetta alle forze politiche dare alla volontà di cambiamento sbocchi positivi, in termini di modifica sostanziale del modo di essere della Regione, attraverso la radicale riforma degli istituti che la regolamentano, un processo di moralizzazione reale della vita pubblica, l’eliminazione degli sprechi, la soppressione degli enti inutili, un processo di delegiferazione che elimini assistenzialismo, clientelismo e corporativismo». Quel che teme il PRI è «il crescente trasformismo delle grandi forze politiche che nella rincorsa all’alleato sardista offrono l’olocausto di antiche posizioni antisardiste».

Il rifiuto del Partito Sardo ad un’alleanza con la DC, tanto nella formula di un pentapartito “autonomista” quanto in quella della unità assembleare registratasi alla fine degli anni ’70, offre spazio soltanto ad un accordo con il PCI e sarà questa infatti la soluzione per l’esordio della legislatura.

1985, anno di decantazione e il protagonismo delle giunte Melis

Le imminenti elezioni amministrative consigliano anch’esse di cercare migliori rapporti fra le varie anime, o i vari “circuiti” interni. Ne dà prova il congresso provinciale di Cagliari del 10 marzo 1985 cui partecipano i consiglieri nazionali Puddu e Fadda, dirigenti di livello come Marcello Tuveri, l’assessore comunale di Cagliari Marini. La relazione introduttiva è del segretario Giorgio Pipia (cui darà il cambio Benito Orgiana).

Un atteggiamento di benevola disponibilità il partito provinciale, forte di un’ottantina di sezioni o gruppi organizzati, lo mostra nei confronti della giunta Melis, pur ancora nella distinzione delle linee ideali che ancora premono sull’esecutivo. La mozione finale impegna il PRI a ricercare maggiori consonanze con le altre formazioni di democrazia laica e socialista, senza pregiudiziali e con speciale cura per i programmi di buona amministrazione.

Il 12 maggio si va alle urne. Ed i risultati limano appena quelli del 1980: sono 26.173 voti pari al 2,9 per cento, percentuale ancora tendenzialmente omogenea nei quattro territori provinciali: 2,3 a Cagliari, 4 sia ad Oristano che a Nuoro, 3,3 a Sassari. A Cagliari è confermato il consigliere (e assessore ai Servizi ambientali) Ignazio Podda, a Nuoro ed a Sassari sono eletti rispettivamente Giovanni Soru e Germano Nurchis.

In quanto alle comunali si registra un discreto incremento tanto a Nuoro quanto a Sassari a fronte della lieve flessione negli altri due capoluoghi: Cagliari con 5.213 voti sfiora la conferma dei due seggi (mancano sette voti per il secondo quorum) – in Consiglio ritorna il solo Marco Marini (mentre sono nove i seggi alle circoscrizionali); Oristano conferma l’unico seggio per Sergio Segneri, mentre a Nuoro gli eletti sono l’ex sindaco Annico Pau ed il segretario provinciale Giannetto Massaiu; a Sassari i tre seggi (uno in più che nel 1980) sono conquistati da Franco De Franceschi, Giovanni Merella e Toni Murgia.

Da rilevare anche il doppio seggio (uno in più) conquistato ad Olbia, dove si registra un raddoppio dei voti in termini assoluti (1.030). Ma eletti in liste di partito o civiche sono anche a Sestu, Maracalagonis, Selargius, Ussaramanna, San Gavino Monreale, Bosa, naturalmente Oliena (con quattro seggi), Tortolì, ecc. Sono una quindicina gli eletti in più rispetto a quelli del 1980.

Pochi giorni dopo il voto, che in generale ha visto un rafforzamento dell’area progressista ed un calo dei democristiani, Salvatore Ghirra propone ai partiti della maggioranza di avviare un confronto politico-programmatico in vista di allargare, ove possibile, la maggioranza di governo alla Regione, auspicando che il PRI possa trovare una più facile base d’accordo e collaborazione con le altre forze dell’area laica e socialista.

L’esecutivo regionale del partito anticipa un confronto che sarà sviluppato dalla direzione. Il PRI comunque, a detta del segretario, è soddisfatto del proprio risultato elettorale, tranne che per quanto è stato al Comune di Cagliari. In linea generale i repubblicani ritengono che si stiano realizzando le condizioni perché la formula impostasi alla Regione possa essere estesa alle quattro Province.

Svoltosi il 9 e 10 giugno il referendum sul taglio dei punti di scala mobile e riportata sui binari dell’ordinario la dialettica politica, la direzione regionale, convocata il 14 dello stesso giugno ad Oristano, formalizza la disponibilità del partito a partecipare all’allargamento della maggioranza politica alla Regione. Ma precisa: l’on. Melis potrebbe presiedere una «nuova giunta», libera da ipoteche di parte (la cosiddetta «centralità sardista») ed impegnata a dare maggior concretezza ad una attività che è sembrata finora più dichiarata che provata. Il giudizio dei repubblicani verso la prima giunta Melis resta infatti di grave perplessità, seppur si scorgano i margini per un recupero di fattività, evitando lo spreco della legislatura.

Tali propositi, pur se manifestati in forma assolutamente prudente, incontrano però riserve da parte della segreteria nazionale tesa a difendere il quadro nazionale del pentapartito, e comunque a non esporre il PRI ad accuse di incoerenza con gli impegni assunti con la Democrazia Cristiana, che pur rimane il partito di maggioranza relativa. La Voce Repubblicana si esprime in termini inequivoci: «Siamo nettamente contrari all’ingresso delle forze laiche e, per quanto ci riguarda, dei repubblicani nella Giunta regionale di Melis».

Le intervenute dimissioni dell’esecutivo, a dieci mesi dal suo varo, impongono tempi rapidi di soluzione della crisi ed il PRI non può essere un elemento “ritardante”. Il capogruppo Catte giudica «incauta ed inopportuna» la nota del giornale del partito, affermando che i repubblicani sardi decideranno autonomamente cosa fare. A decidere sarà la direzione regionale già convocata per il 26 luglio, «ci muoveremo – aggiunge – pur rispettando le esigenze nazionali del partito, sulla base degli interessi della Sardegna».

Il dibattito all’interno della direzione si rivela assai complesso, dovendosi bilanciare esigenze diverse e talora opposte. La segreteria si esprime favorevolmente all’ingresso in maggioranza, ma non anche nell’esecutivo; altri sostengono, per ragioni di coerenza, la scelta di campo piena a favore di una presenza con funzioni di amministrazione. Un punto di mediazione si trova infine lasciando in una indeterminatezza la modalità della partecipazione alle sorti del nuovo esecutivo, mentre si insiste sulla necessità di una preventiva piena concordanza programmatica. Dice il documento: «nella trattativa sono maturati elementi di convergenza politica e programmatica tali da consentire al PRI di valutare positivamente il lavoro svolto; permane tuttavia l’esigenza di ulteriori approfondimenti sul terreno delle iniziative straordinarie per l’occupazione e la ripresa economica, la riforma della Regione, il riassetto degli enti strumentali al di fuori di ogni prospettiva spartitoria, il superamento dell’attuale legge elettorale, iniqua e antidemocratica, la pari dignità delle forze politiche che concorrono alla formazione della maggioranza. Garantito su questi irrinunciabili aspetti di linea politica e di programma, il PRI è pronto ad assicurare il suo sostegno aperto e leale alla costituenda coalizione e ad assumere eventuali responsabilità di governo».

L’intesa programmatica viene trovata tranne che, almeno per la tempistica, circa la riforma della legge elettorale, ed il PRI si lega a questo specifico punto per non darsi ad una partecipazione, altro che con un tecnico di fiducia ed a termine, alla giunta. Si ipotizza così per il PRI l’assessorato ai Lavori Pubblici o, in alternativa, quello agli Enti locali. Naturalmente, trattandosi di tecnici, anche il nominativo del possibile assessore è condizionato al “posizionamento” che il PRI sceglierà per sé d’intesa con il presidente Melis. Opzionando il PCI l’assessorato agli Enti locali, al PRI viene riservato quello dei Lavori Pubblici. Di qui la scelta concordata dal segretario Ghirra, dall’esecutivo del partito e dal gruppo consiliare a favore dell’ing. Roberto Binaghi, già direttore generale dell’Ente Autonomo del Flumendosa (importante la sua intervista a L’Unione Sarda dell’8 agosto). Entro cinque-sei mesi il Consiglio dovrebbe poter votare una nuova legge elettorale, tale da consentire il recupero dei resti nella distribuzione dei seggi, evitando la emarginazione delle formazioni minori: allora, sussistendo ancora le altre condizioni politiche e di programma, i repubblicani potranno entrare a titolo pieno nella giunta.

Il 7 agosto Mario Melis presenta il suo esecutivo pentapartito di sinistra, con PSd’A, PCI, PSI, PSDI e PRI. Il 9 l’Assemblea vota la fiducia.

Ad ottobre Ghirra si dimette dalla segreteria del partito. In una intervista a L’Unione Sarda egli conferma il leale appoggio alla seconda giunta Melis, che peraltro incalza per l’attuazione del programma concordato «chiedendo la spesa dei miliardi giacenti nelle banche e la moralizzazione degli enti». Smentisce ogni ragione di tensione o polemica con il gruppo consiliare che premerebbe per porre fine alla esperienza dell’assessore tecnico ed assumere in proprio la responsabilità di giunta, ma che, presentandosi alla riunione di direzione convocata ad Oristano, prospetterebbe soluzioni non univoche.

Tuveri fra i “saggi” e nell’esecutivo repubblicano

In vista di individuare la figura che potrebbe, con altrettanta efficacia, subentrare a Ghirra la direzione, nella sua tornata di lavori del 24 ottobre, elegge tre “saggi” nelle persone di Marcello Tuveri, Salvator Angelo Razzu e Sebastiano Maccioni, in rappresentanza delle tre maggiori aree territoriali isolane. Essa esamina anche alcune situazioni locali in cui il PRI ha concordato giunte con democristiani e/o comunisti e sardisti, escludendo i socialisti – a Quartu, La Maddalena, Alghero ecc. – il che avrebbe compromesso i buoni rapporti fra i due partiti, fattisi particolarmente tesi nel Nuorese. Alleggerite della loro portata politica e ricondotte a opzioni puramente amministrative, le decisioni locali sono ratificate. Con forza è invece ripresa la questione della riforma elettorale regionale, su cui chiede il rispetto della tempistica concordata per l’approvazione da parte del Consiglio.

Il mandato dei “saggi” si compie nell’arco di due settimane accertando che, al di là di ogni distinguo, da ogni settore si chiede che il segretario receda dal suo proposito e accetti di riprendere, con rinnovata autorevolezza, il suo incarico. Sembra importante, da questo punto di vista, che tale invito venga unanime anche dal gruppo consiliare. Così il 29 novembre la direzione nuovamente tratta la materia in un’apposita riunione convocata, com’è ormai prassi, ad Oristano. Ancora resistono differenze di approccio e proposte di soluzione alle questioni, che per certi aspetti si fanno “brucianti”, della partecipazione a talune amministrazioni locali così come dell’avvicendamento in giunta all’assessore Binaghi. Non pienamente convinto di essere garantito dalla convergenza delle opinioni dei colleghi Ghirra guadagna tempo, sciogliendo le sue riserve soltanto il 13 dicembre.

La crisi interna al PRI pare risolta definitivamente in occasione della nuova riunione di direzione dell’11 gennaio 1986: confermato (all’unanimità) Ghirra, è confermato anche l’esecutivo chiamato ad assisterlo: ne fanno parte Maccioni, Orgiana, Pinna, Razzu, Segneri e ancora Tuveri.

Una generale insoddisfazione viene espressa dalla direzione circa il rispetto della tempistica concordata con gli altri partiti e il presidente Melis in ordine ad alcuni punti di programma, tanto in materia economica quanto riguardo alla riforma della legge elettorale. Circa il rinnovo dei vertici negli enti regionali si conferma la volontà di rispettare le competenze istituzionali della giunta, cui spetta procedere alle nomine, mentre i partiti debbono soltanto verificare che le scelte dell’esecutivo rispettino gli identikit di professionalità già definiti. Piena fiducia viene infine ribadita all’assessore Binaghi, pregato di restare al suo posto fino a che non si creino le condizioni per una presenza diretta del partito nell’esecutivo.

Ma è soprattutto la modalità che giunta e partiti vanno seguendo, nel concreto, nelle “spartizioni” dei posti nei consigli d’amministrazione degli enti strumentali e delle banche regionali che, una volta ancora, inquieta i repubblicani. In particolare preoccupa l’insistenza con cui si prospettano gli “assalti” alla presidenza del CIS, per la quale la conferma del professor Paolo Savona sembra al PRI un dovere. Nel novero delle nomine non di giunta ma di Consiglio sono comprese quelle ai comitati del servizio radiotelevisivo e della programmazione. I repubblicani segnalano i due consiglieri nazionali: rispettivamente Lello Puddu e Bruno Fadda.

In un lungo articolo che Salvatore Ghirra firma per L’Unione Sarda all’indomani del XXII congresso sardista (febbraio-marzo 1986) che ha ribadito la linea indipendentista o indipendentista-federalista del partito, il segretario repubblicano ribadisce le ragioni di delusione che il PRI ne ha tratto: per la pochezza della proposta programmatica emersa dall’assise del PSd’A e per l’irrealtà della prospettiva costituzionale: «I repubblicani respingono fermamente la scelta indipendentista e restano fedeli sostenitori della Costituzione repubblicana e dello Statuto sardo che riconosce la specialità dell’autonomia dell’Isola nel quadro della unità statuale. Il vero problema – aggiunge – è un altro: come sono stati esercitati i poteri autonomistici attribuiti alla Regione e quali nuove e diverse competenze rivendicare per potenziare l’autonomia regionale. Ma non meno importante è oggi sapere quale capacità operativa e concreta la Regione è in grado di esprimere per l’avvio a soluzione dei problemi della occupazione e per favorire la ripresa economica. Per passare da una fase superata di sviluppo distorto ad un’altra di sviluppo programmato».

E più oltre: «La Sardegna in questi anni, pur ricevendo flussi importanti esterni che hanno portato ad un apprezzabile incremento del reddito pro capite non è stata tuttavia capace di realizzare il passaggio dalla condizione di arretratezza e di sottosviluppo allo sviluppo, e se la situazione ancora oggi è grave ma non drammatica è dovuto agli interventi esterni statali e in parte regionali che hanno agito da ammortizzatori sociali…». L’imminente approvazione del bilancio dovrà aprire – sostiene in conclusione Ghirra – una nuova fase caratterizzata da maggior speditezza e incisività dell’azione amministrativa: «Per quanto ci riguarda non faremo nulla per turbare ulteriormente i rapporti all’interno della maggioranza; voteremo il bilancio, chiediamo alle altre forze politiche di votarlo senza stravolgerlo».

Il 21 marzo Giovanni Spadolini è in Sardegna. Viene in veste ancora di ministro della Difesa, per incontri istituzionali ma non manca, come sempre, di ritagliarsi uno spazio per abboccamenti politici con la dirigenza del partito e la stessa militanza. All’hotel Mediterraneo tiene un discorso in cui parla di politica estera per poi arrivare alle questioni sarde che conosce benissimo. Ricorda il suo amico Francesco Cossiga, parla della storia del sardismo e della attualità dell’alleanza di sinistra che coinvolge, non senza riserve o cautele, il PRI accanto al PSd’A e ad altre forze progressiste. Dice della stima che ha per il presidente Melis e del grande apprezzamento per l’opera dell’assessore Binaghi. Naturalmente non mancano le frecciate che insaporiscono ogni suo discorso: «Riconosciamo a una Regione come la Sardegna tutti i diritti democratici che la Costituzione repubblicana le riconosce. Ma due diritti devono essere indiscutibili: la politica estera è patrimonio della Repubblica ed è patrimonio della Repubblica la politica della Difesa». Evidente il riferimento alle ricorrenti polemiche sulle servitù militari, per le quali peraltro si impegna ad una revisione nell’interesse di entrambe le parti: il territorio vincolato e la Difesa.

Il discorso è lungo e naturalmente ricco di spumeggianti riferimenti e trova spazio nelle cronache di stampa (fra l’altro trova spazio nella fitta agenda degli impegni una visita alla redazione de L’Unione Sarda, tornata da poche settimane alla direzione di Fabio Maria Crivelli).

L’indomani Spadolini incontra l’intera giunta Melis in viale Trento e successivamente le altre autorità del Consiglio regionale. Raggiunge quindi la base militare di La Maddalena, visita l’arsenale, l’Ammiragliato, improvvisa un discorso ad ufficiali e truppa, incontra gli amministratori comunali nell’aula consiliare. Quindi è a Sassari: visita la redazione de La Nuova Sardegna, risponde anche qui alla raffica di domande dei giornalisti, infine è trascinato dagli amici repubblicani ad una assemblea conviviale.

1986, il convegno programmatico (Tuveri fra i relatori) e ancora discutere e discutere

Preparata da varie riunioni sia dell’esecutivo (integrato dal gruppo consiliare) che della direzione – che ancora manifestano l’insoddisfazione circa la capacità o incapacità della giunta Melis a tradurre in cosa le ipotesi operative giudicate perfino «eccellenti» -, il 2 e 3 maggio si svolge al Diran Hotel di Quartu l’attesa conferenza programmatica dei repubblicani sardi, presente il vice segretario nazionale Giorgio La Malfa.

Impostata su relazioni e tavole rotonde aperte a esponenti di tutti i partiti, dei sindacati e delle organizzazioni datoriali, la due giorni si apre con un lungo intervento preparato da Paolo Savona (assente per indisposizione, e letto dunque dal professor Sabattini) su “La Sardegna nel passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo”. Alla tavola rotonda che segue, coordinata da Lello Puddu, partecipano Romano Mambrini, Manlio Sechi, Adreano Madeddu, Nino Carrus, Giorgio Macciotta e Franco Mannoni. Seguono alcune comunicazioni di Franco Farina sul credito, Riccardo Gallo sull’industria pubblica, Gianfranco Sabattini sulla zona franca e Ilio Salvadori sull’industria mineraria.

La seconda giornata si articola in due sessioni coordinate rispettivamente da Antonio Catte e Achille Tarquini. La prima vede la partecipazione di Franco Turco sulla questione giovanile, Romano Giulianetti sull’energia, Roberto Binaghi sul piano delle acque, Mario Pinna sul turismo, Antonio Catte stesso sui trasporti, Agostino Puggioni sull’artigianato, Raniero Massoli Novelli sull’ambiente, Vallj Paris Giulianetti sui beni culturali e architettonici, Alberto Tasca sulla formazione professionale e Roberto De Santis sui problemi della chimica. Conclude Giorgio La Malfa.

Nel pomeriggio, dopo una relazione di Giovanni Merella sui problemi e le prospettive dell’agricoltura, una nuova tavola rotonda mette a confronto Giancarlo Rossi, Antonio Pinna, Gesuino Muledda, Giovanni Nonne e Pietro Soddu; seguono tre comunicazioni: rispettivamente di Francesco Nucara sulla nuova legislazione per il Mezzogiorno, Mario Del Vecchio sull’intervento straordinario nel Sud. Marcello Tuveri interviene sulla riforma della Regione.

La stampa da grande rilievo all’evento, che rappresenta indubbiamente la dimostrazione che, se si vuole, un partito politico può “pensare in grande” aprendosi agli apporti delle competenze, che poi molto spesso sono interne agli stessi partiti ma non sono colte come dovrebbe essere dalle varie dirigenze. Sotto il profilo puramente politico vengono ripresi dai cronisti alcuni passaggi dell’intervento di La Malfa, perché danno il tono dello stile con il quale il PRI intende collaborare alla alleanza che sostiene la giunta Melis: «Da parte della Regione ci vorrebbero meno rivendicazioni autonomistiche e più capacità di programmare in autonomia… bisogna anche mettersi nelle condizioni di utilizzare le risorse».

Appena un mese dopo si replica. Un incontro-dibattito sulla riforma della Regione all’insegna di «La Regione degli anni Novanta: modernizzazione efficienza produttività» è organizzato ancora a Quartu dalla segreteria repubblicana per il 7 giugno e certamene segnata dagli interventi dei consiglieri Catte e Merella (ma poi – e sarà a luglio – alcuni temi si riaffacceranno in un nuovo convegno organizzato dal Banco di Sardegna a Sassari, con interventi di Giorgio La Malfa e Paolo Savona).

La relazione di base tenuta da Marcello Tuveri (“Una nuova Regione per una nuova autonomia”); ad essa seguono due comunicazioni, la prima di Alberto Siddi su “Gli enti locali tra partecipazione ed efficienza”, la seconda di Angelo Sannia su “L’innovazione tecnologica tra privato e pubblico”. Un ampio dibattito fra addetti ai lavori – sia amministrativi che politici – impegna tutta la mattinata.

«Il decentramento, la programmazione, la partecipazione sono altrettanti obiettivi mancati, così come sono mancati i tentativi di sperimentazione. Di qui la disgregazione del corpo burocratico, mentre non si è mai affermata l’esigenza di analizzare i livelli produttivi», sostiene, aprendo la sua relazione, Tuveri. E’ necessario, egli afferma, «che l’Amministrazione regionale si riorganizzi in forma aziendale e manageriale, rivendendo l’organizzazione interna a tutti i livelli, anche negli enti strumentali e non soltanto nella dirigenza. Tale processo di ristrutturazione deve coinvolgere anche il tradizionale rapporto/confronto con lo Stato», evitando lo sterile e deresponsabilizzante rivendicazionismo: il generale processo di riorganizzazione deve avvenire nell’ambito dei poteri sanciti dallo statuto speciale.

Almeno alcune delle sue riflessioni il Nostro le riproporrà presto in articoli usciti su L’Unione Sarda rispettivamente il 12 ed il 25 settembre con i titoli “La Sardegna e lo Stato” ed “Affari pubblici o privati?”. Eccone i testi:

“La Sardegna e lo Stato”

Assistiamo tutti i giorni all’esplosione di conflitti tra la Regione-istituzione e gli organi o gli uffici dello Stato. Come cittadini di un’area periferica, l’unica vera regione-isola dell’Italia, ci siamo dentro sino al collo. Il conflitto può sorgere sia sull’attività legislativa sia nel più banale atto di amministrazione.

Le cause? Una questione sostanziale (si pensi alla travagliata vicenda del condono edilizio) o di carattere meramente formale (l’uso di una graduatoria in un concorso). Unica costante sembra essere la volontà sistematica degli organi dello Stato di contenere il potere regionale anche a costo di stravolgere il disegno regionalistico della Carta costituzionale.

Per converso l’atteggiamento della nostra Regione ha indotto più di uno studioso a parlare del regionalismo sardo come di un fenomeno a sé nel più ampio panorama della dialettica Stato-regioni. L’aggressività spinta fino al separatismo, la negazione di qualunque valore all’unità e la ricerca di ogni causa di divergenza sono i sintomi più gravi di questo atteggiamento.

Vi è da domandarsi: sono questi gli unici modi di proporre i rapporti tra la Sardegna e gli organi dello Stato? Non vi sono altre strade da percorrere?

In verità esiste, anche se meno noto, un tipo di regionalismo “solidaristico” che ha forti radici nella legislazione di vario livello e nella pratica della gestione politica. Un regionalismo che, senza rinunciare alle specificità delle nostre e delle altre comunità esistenti dentro lo Stato, mira a realizzare forme di composizione e di accordo tra le periferie ed il centro e tra le stesse regioni.

Ha fondamento costituzionale in quanto l’art. 119 della Carta prevede l’erogazione di contributi speciali a favore di singole regioni ed in particolare per quelle del Mezzogiorno e per le Isole. Trova una esplicita e precisa prescrizione nello Statuto speciale per la Sardegna quando l’art. 13 prevede il Piano di rinascita come strumento permanente di intesa tra Stato e Regione per favorire lo sviluppo economico e sociale dell’Isola. Norme simili sono presenti nella legislazione per le regioni di diritto comune ed in altri statuti speciali.

Ancora. La più recente legislazione sul Mezzogiorno prevede «l’iniziativa integrata e coordinata di regioni ed enti locali» per concludere «accordi di programma». Le norme di attuazione degli statuti speciali sono piene zeppe di atti di intesa, di cooperazione e di accordo. Neppure le norme di attuazione sono frutto di volontà unilaterali dello Stato. Anzi. Sono esse stesse risultato di un accordo normativo proposto da una Commissione paritetica ed emanate con decreto legislativo del Presidente della Repubblica.

Ma se sussistono queste premesse giuridiche perché la tutela degli interessi affidati a ciascuna istituzione regionale diventa così spesso causa di conflitto con gli organi centrali?

Il problema è tutt’altro che astratto. Ma male si farebbe ad attribuire l’origine ad una sorta di atteggiamento di malevolenza verso la nostra regione. La realtà è che dopo quarant’anni di Repubblica e quindici di creazione delle regioni ordinarie, l’ordinamento regionale non è stato ancora accettato dalle strutture statali. E le stesse regioni non sono riuscite, anche per loro inefficacia, ad incardinarsi compiutamente nel corpo sociale del Paese. Vi sono troppi personaggi che rifiutano – a Roma e in periferia – di credere che lo Stato regionale sia poco più che un’espressione verbale. Perciò cercare in motivi di carattere etnico le cause di un atteggiamento persecutorio è decisamente vano.

Le regioni sono una novità istituzionale non ancora acquisita nella loro dimensione di soggetti partecipi della sovranità statale. A nulla vale, perciò, che con metodo informale – cioè non legato a precise regole procedimentali – leggi ed atti delle regioni non vengano impugnati dallo Stato in quanto su di essi interviene un negoziato con l’Ufficio regioni della Presidenza del Consiglio ovvero con altri Ministeri. Né basta che qualche legge settoriale abbia stabilito che tra le regioni e i grandi enti (ENEL, ENI, ENEA) si concludano accordi per la realizzazione del risparmio energetico. Così sembrano di effetto limitato le procedure pattizie previste per gli interventi delle Ferrovie dello Stato o dell’ANAS. Anche se, come in quest’ultimo caso, il contributo della Regione sembra più ispirato all’esigenza del concorso finanziario alla spesa che ad una partecipazione alle scelte tecnico-economiche.

Che fare per salvaguardare la varietà e la specificità della Regione? Non solo per la Sardegna ma per tutte quelle esistenti ed in ispecie per quelle meridionali? Fuori della logica della contestazione ad ogni piè sospinto, al di là della costante autocommiserazione e dell’acuto vittimismo non resta che ritornare alle origini, alle fonti primarie del potere regionale, cioè alla Costituzione ed agli statuti speciali. Per salvare i valori storico-politici del regionalismo sardo e di quello delle altre regioni, senza accettare l’asservimento ad uno stato sempre più accentratore nel suo decisionismo, non resta che pensare alto e puntare sulla riforma degli organi costituzionali. Solo portando nel cuore dello Stato il principio della rappresentanza regionale è possibile assicurare tra le periferie regionali ed il governo centrale l’equilibrio necessario allo sviluppo del nostro Paese. Bisogna cioè che le regioni partecipino a pieno titolo sia alla funzione legislativa che a quella del controllo della legittimità costituzionale. Senato della Repubblica e Corte Costituzionale sono i due pilastri su cui far poggiare un nuovo regionalismo. La prima vera battaglia per la difesa della specialità della nostra Regione è trasformare il Senato in camera delle regioni. Nel rispetto della rappresentatività delle diverse forze politiche farne l’espressione delle diverse aree regionali dello Stato. Anche la Corte Costituzionale dovrebbe essere integrata con una partecipazione significativa delle regioni specie nei giudizi che investono le loro potestà.

Ora la Commissione Bozzi per le riforme istituzionali non ha recepito nessuna delle proposte avanzate dalle regioni e nella relazione ha motivato l’omissione con il ritardo con cui esse erano pervenute. La Commissione dell’assemblea regionale sarda ha avanzato timidamente le proposte di cui si diceva ponendole alla fine del documento presentato alla Commissione Cossutta.

Bisogna che intorno al tema della regionalizzazione dello Stato parta dalla Sardegna – come altre volte è accaduto nella storia di questo secolo – una seria proposta di riforma sulla quale possano misurarsi tutte le forze politiche. Su tale proposta bisognerebbe costruire il consenso di tutte le regioni intendendo la modifica della Costituzione non un attentato alla unità dello Stato ma un accrescimento della sua legittimazione politica attraverso uno sviluppo coerente di quel regionalismo solidaristico che è, nei fatti, l’unico capace di produrre conseguenze positive.

“Affari pubblici o privati?”

La spesa cosiddetta sociale e più in generale lo Stato assistenziale sono sommersi ogni giorno di più da valanghe di critiche. E’ idea diffusa che la macchina pubblica sia incapace di assolvere le sue funzioni nei più vari servizi.

Quando arriva la bolletta salata della SIP o dell’ENEL, quando il pullman non passa in orario, o si riceve la posta con incredibile ritardo. Quando non si riesce ad avere la pensione è diventato usuale esclamare: «Se fosse privato sarebbe meglio!». In effetti la sanità è diventata un problema molto serio. I trasporti pubblici collettivi cedono il passo a quelli privati individuali. La scuola funziona sempre peggio. Per non parlare della raccolta dei rifiuti, l’erogazione dell’acqua, etc.

Per di più si ha la convinzione che tutti questi servizi, pur essendo inefficienti, abbiano un costo insopportabilmente elevato. Anzi l’onere per i servizi e quello dell’amministrazione pubblica, in generale, sembrano diventati l’unica palla al piede dell’economia.

Senza lo “spreco di Stato” l’economia italiana volerebbe, per forza spontanea, verso traguardi di sviluppo – come dire – americani anzi giapponesi.

Peccato che questo assunto, come molti altri luoghi comuni in materia di servizi pubblici non abbia finora ricevuto alcuna conferma tecnica e scientifica apprezzabile. Il vero problema in un settore come quello della economia pubblica e della finanza è l’assenza di valutazioni quantitative. Oltre le impressioni di questo o quell’articolista, di questo o quell’operatore non si hanno prove che la gestione privata di un sevizio come di altre attività amministrative sia più conveniente per la collettività. Ma vi è di più: persino le basi della comparazione ed i parametri per il confronto sono di difficile predeterminazione. Ad incominciare dal rapporto tra obiettivi e risultati delle prestazioni di ciascun tipo di azienda. Per le imprese private la riuscita ed il successo si misurano con una sola variabile: il profitto. Da questa variabile dipende la sopravvivenza, lo sviluppo o il declino dell’azienda.

Alle imprese pubbliche si chiede che siano efficienti nella produzione e nella distribuzione dei servizi, che tali servizi siano forniti a prezzi equi, che essi costino poco alla collettività (cioè non siano in deficit) e che, contemporaneamente, favoriscano la stabilizzazione e il consenso attorno alle istituzioni di cui sono al servizio.

Le imprese pubbliche corrono minore rischio di sopravvivenza, nel senso che prima di rinunciare ai loro servizi le istituzioni ne sostengono l’esistenza colmando gli squilibri di bilancio.

In altre parole la individuazione delle “performance” (intese come utilizzazione delle risorse e produzione di prestazioni in rapporto agli obiettivi) è diversa per i due tipi di struttura e soprattutto non è meccanicisticamente confrontabile. Nel mercato la decisione, il servizio ed il pagamento sono legati dallo scambio e dal prezzo. Nel caso di fornitura di beni pubblici, al contrario, chi paga, chi usa, chi decide, chi offre (sia produttore, sia fornitore) sono di regola separati.

Fin qui le basi critiche sulle quali non è difficile convenire. Ma cosa c’è di nuovo che induce ad occuparsi dell’argomento? Il nuovo è rappresentato da un denso volume di saggi dedicati alla efficienza e produttività della pubblica amministrazione (FORMEZ, Napoli, 1986, pp. 450), che si occupa dei concetti teorici e delle analisi organiche offrendo una antologia delle più recenti e significative ricerche. Un’introduzione di Alessandro Petretto inquadra il tema nella sua attualità. La materia è oggetto di studi – come dimostrano i quattordici contributi – fin dai primi anni Ottanta, negli USA, in Germania, in Belgio etc. I profili disciplinari interessati investono la finanza, la economia, l’econometria.

L’aspetto più significativo dell’opera non è costituito dalle novità in termini di analisi della politica economica quanto dall’esposizione di alcune tecniche di misurazione e di controllo dell’efficienza che pur rifacendosi a metodologie diverse convergono su un punto: le impietose analisi critiche delle produzioni di beni pubblici potranno produrre effetti positivi solo se accompagnate da una notevole dose di buon senso.

Diversamente la logica del confronto tra pubblico e privato nella organizzazione sarà in fatto sterile e meramente scandalistico.

Tante storie per un assessorato

A dicembre la direzione, con una maggioranza di 17 contro tre astensioni (e contro l’opinione del segretario), decide di aderire alla richiesta dell’assessore Binaghi di essere avvicendato (al sedicesimo mese di mandato che avrebbe dovuto concludersi in appena cinque mesi) e dar corso alle sollecitazioni che vengono dal gruppo consiliare di affidare ad uno dei propri membri l’incarico in giunta. Il prescelto è il capogruppo Catte, chiamato ad reggere interinalmente, in veste “istituzionale”, l’assessorato di Binaghi, con riserva di concordare con il presidente Melis i termini del rimpasto a dopo l’approvazione del bilancio 1987.

La stampa rileva il crearsi di nuove fratture interne al partito, tanto più da parte di quell’area che si riconosce nel consigliere Merella, assente alla riunione della direzione ma, secondo taluni, interessato a coprire lui il seggio assessoriale e dà spazio anche ad altri… preannunci di turbolenze. Nel conto c’è certamente la messa in minoranza di Ghirra (il quale avrebbe ottenuto da Binaghi la disponibilità a procrastinare di un altro mese o due la formalizzazione delle proprie dimissioni) e più ancora la reazione del presidente Melis, che non accetta di procedere ad alcun rimpasto prima del voto dell’Aula sul bilancio, ancora in discussione nella competente commissione: una accelerazione nel senso a lui prospettato (ma non condiviso) da Ghirra – e cioè la surroga provvisoria e “istituzionale” di Binaghi da parte di Catte –, determinando inevitabili ritardi nel voto della legge finanziaria, comporterebbe la crisi politica, di cui i repubblicani avrebbero la piena responsabilità.

Ghirra raccoglie le osservazioni del presidente per portarle all’attenzione degli organi del partito. «Chiederò al mio partito di attendere, per non creare ostacoli al varo di un provvedimento fondamentale per l’economia e la società sarda. Se questa non passerà, annuncio sin d’ora che lascerò la segreteria. E’ importante il proprio orgoglio di partito, ma ancor di più l’interesse generale», dichiara alla stampa.

La nettezza della presa di posizione del presidente Melis e dello stesso segretario repubblicano induce gli esponenti pronunciatisi per l’immediata sostituzione assessoriale ad accogliere la tesi di soprassedere e rinviare ogni decisione a dopo le scadenze indicate come assolutamente prioritarie per il Consiglio e la giunta. Anche il consigliere Giovanni Merella – indicato sempre più come l’“uomo forte” che punta ad entrare in giunta con l’incarico di assessore all’Agricoltura e foreste – tende a moderare, con dichiarazioni distensive, la frettolosità di qualche suo amico. Per parte sua Catte accompagna il segretario del partito in un giro di incontri con gli esponenti degli altri partiti di maggioranza, nel tentativo di tranquillizzare tutti sulla volontà del PRI di non creare difficoltà al quadro politico ed alla giunta.

Di fatto la vicenda Binaghi e questione della sua sostituzione si protrarranno per lunghi mesi ancora, ben oltre la scadenza del voto consiliare sul bilancio 1987. Ciò a causa dei contrasti interni al partito che, attraverso varie vie, porterà ad una sua crisi strutturale, si direbbe… perfino alla perdita dell’anima e alla sua omologazione al peggior sistema partitocratico fino all’estinzione. Di tanto può darsi qualche dettaglio.

Approvato il documento finanziario, l’ing. Binaghi consegna le sue annunciate dimissioni al presidente Melis che le accoglie e si riserva di decidere sulla sua sostituzione, nelle more della verifica ormai imminente fra i partiti della maggioranza. Per intanto comunque l’assessore continua nella sua attività di giunta. Ghirra riconosce al presidente la piena competenza a decidere se surrogare l’assessore ai Lavori Pubblici con il capogruppo Catte o assumere lui stesso l’interim («è un fatto istituzionale che deve essere risolto dal presidente»).

Gli incontri che ai primi di febbraio si svolgono fra i partiti per dettagliare la prossima agenda di lavoro della maggioranza – modifiche alla legge 33 sulla programmazione e della legge n. 1 sull’organizzazione burocratica, con le deleghe agli enti locali, la riduzione delle USL e lo scorporo degli ospedali di interesse regionale – paiono soddisfare i repubblicani che vi si sono impegnati, che ancora insistono per la presentazione del bilancio triennale.

L’esecutivo del partito, insieme con i tre consiglieri regionali ed i segretari provinciali, il 2 febbraio concorda di interloquire con il presidente Melis senza imporgli tempi e modi di rimedio. All’inizio di aprile però Catte lascia la guida del gruppo. Nonostante gli sforzi di contenerne le manifestazioni pubbliche, il malessere coinvolge ormai tutti i segmenti del partito, sia a livello territoriale che di rappresentanza.

A maggio, mentre anche il PSd’A prepara l’avvicendamento dell’assessore Sanna con il consigliere Giorgio Ladu, non avendo ancora formalizzato il PRI il nominativo del successore di Binaghi, il presidente Melis affida l’interim dei Lavori Pubblici all’assessore socialista Emidio Casula. Ciò nel contesto di un ricambio di ben sei consiglieri, conseguente alle dimissioni di chi ha voluto candidarsi alle elezioni politiche.

Dopo aver tanto tergiversato, sono adesso loro – i repubblicani – a metter fretta ed esigere l’ingresso di Giovanni Merella in giunta. In una dichiarazione all’Agenzia Italia Ghirra sostiene che «i repubblicani sono rimasti fortemente e negativamente impressionati dal fatto che il presidente della Regione, nel procedere all’assegnazione dell’interim dei Lavori Pubblici, non abbia sentito il dovere di consultare preventivamente il segretario regionale. Sul piano più squisitamente politico, la coalizione di maggioranza è nata sul principio della pari dignità di tutte le forze politiche che la formano. Ecco perché è indispensabile provvedere, in tempi assolutamente brevi…, all’inserimento in giunta del consigliere Merella».

Una nuova polemica si apre all’interno della maggioranza. Il presidente Melis, ancora costretto da un ricovero a Roma, spiega le ragioni del suo operato: «La mancata sostituzione di Binaghi non è dipesa da motivazioni politiche ma dall’improvvisa quanto imprevedibile infermità che mi ha costretto e costringe a sospendere qualsivoglia attività istituzionale». E’ impossibile procedere ad un rimpasto in assenza del presidente, ciò per strette ragioni giuridico-statutarie, dato che «la peculiarità e straordinarietà di un’iniziativa che appartiene in modo specifico al presidente».

A tali dichiarazioni l’on. Melis fa seguito con una lettera al segretario Ghirra, nella quale con tono più diplomatico ribadisce le ragioni, certamente non ostili, che lo hanno indotto a non procedere al rimpasto ma ad affidare l’interim dei Lavori Pubblici ad un collega socialista. Ma è bonaccia breve. Perché altre battute polemiche piovono contro Melis che, rientrato in sede e presente nella campagna elettorale del suo partito, ben potrebbe procedere al rimpasto, ma ad esso non procede. Sennonché, essendo la politica regionale nel pieno della “bagarre” per il rinnovo parlamentare, non sembra opportuno – ribatte il presidente – intervenire con atti rilevanti come è la modifica nella composizione della giunta, che esige anche una discussione consiliare.

Così di settimana in settimana scivola l’atteso rimpasto. Il 1° luglio infine la giunta si dimette e si avviano i negoziati per la formazione di un nuovo esecutivo che finalmente si costituisce, al volgere del mese, confermando la formula politica e la presidenza, ed associando, in rappresentanza del PRI, l’on. Merella cui è destinato l’assessorato agli Enti locali, finanze ed urbanistica.

1987, elezioni politiche poi il congresso della svolta down

Il turno elettorale di giugno per il rinnovo parlamentare segna buona parte anche della vita politica regionale ritardando, come accennato, le conclusioni della verifica fra i partiti e l’ingresso di Giovanni Merella nella terza giunta Melis.

Al solito, fra comizi e polemiche, la campagna elettorale coinvolge anche la dirigenza nazionale del partito. Nuovamente si immagina nelle potenzialità del partito di riuscire ad eleggere, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, un deputato. I nomi “forti” sono quelli del segretario politico Ghirra e del segretario provinciale di Sassari Salvator Angelo Razzu. Si predispone una lista combattiva, con una certa dose di innovazione rispetto a quelle presentate negli ultimi turni e si offre ad Adolfo Battaglia la capolistura (dopo che è tramontata la ipotesi Susanna Agnelli).

Per quanto riguarda il Senato nuovamente si gioca la carta dell’alleanza laica estesa questa volta però anche ai socialisti e ai radicali: sono candidati a Cagliari ed a Nuoro i penalisti Luigi Concas e Aldo Marongiu, non iscritti al PRI ma certamente di area laica –, ad Iglesias, Sassari e Tempio i socialisti Paolo Fogu, Nino Castellaccio e Ottavio Spano, ad Oristano il socialdemocratico Sandro Ghinami.

Giovanni Spadolini si fa presente con una lettera agli elettori sardi, in cui riepiloga le ragioni tanto della storia quanto della cronaca per cui una forza come il PRI meriterebbe il suffragio, e questo messaggio si combina, nella campagna elettorale, alle numerose interviste rilasciate dai maggiori candidati, a partire da Adolfo Battaglia, alla stampa regionale ed ai discorsi che essi tengono nei diversi centri isolani.

I risultati sono, un’altra volta ancora, deludenti. I 23.550 voti raccolti dalla lista Edera, pari al 2,30 per cento delle schede scrutinate, sono ben seimila in meno di quelli raccolti nel 1983. Scarso l’apprezzamento dell’elettorato anche alle candidature presentate per il Senato: appena 84.872 voti, pari al 10,1 per cento, quasi la metà di quanto le varie forze che hanno concorso al polo laico e socialista hanno raccolto nel turno politico precedente.

Nella complessiva negatività dei dati sono peraltro da cogliere come elementi positivi il rafforzamento della credibilità, com’è suggellata dal consenso delle urne, di Salvator Angelo Razzu, che raccoglie ben 6.601 preferenze; ottimo anche il risultato raggiunto da Ghirra, con 4.553 preferenze e da Franco Turco, finito terzo con 2.483 preferenze. Ma in generale è tutta la lista che ha risposto bene se è vero che dei diciotto candidati ben 13 hanno superato le mille preferenze.

Il XIX congresso è convocato a Quartu (e sempre all’Hotel Diran), per il 28 e 29 novembre 1987. Necessità di chiarimenti interni ne provocherà il rinvio di tre settimane.

Il quadro della situazione alla vigilia dei lavori si mostra alquanto definito: Ghirra intende passare la mano, sente che la sua stagione si è ormai conclusa. Quasi sei anni di faticoso quotidiano servizio ad un partito in cui cresce la litigiosità, a fronte dei doveri cui è chiamato in modi sempre più stringenti, hanno logorato la fibra del segretario. Non sono mancati i casi che hanno generato tensioni, oltre che per la partecipazione alle maggioranze ed agli esecutivi regionali anche per quella a giunte assembleari, con democristiani e comunisti insieme, in comuni di grande rilievo come La Maddalena e Quartu Sant’Elena.

Ultimo episodio in ordine di tempo, s’è visto, la pressione dei consiglieri regionali per passare dall’appoggio esterno alla giunta Melis ad una presenza diretta all’esecutivo. Una opzione peraltro non declinata in tutta trasparenza e ancor meno in armonia, dandosi alla scelta finale due candidature: quella di Antonio Catte e quella di Giovanni Merella, che infine l’ha spuntata. E di più: una pressione filogovernativa… purchessia, neppure più condizionata alla modifica della legge elettorale, che restituisca alle minoranze la possibilità di un recupero dei resti su scala regionale.

In quanto titolare dell’Urbanistica – la principale fra le competenze del suo assessorato – Merella appare, a torto o a ragione, favorevole ad una legislazione meno vincolistica che nel passato, suscitando così ripetute prese di distanza: «Fa apparire il PRI disponibile alla cementificazione indiscriminata delle coste, mentre non siamo né cementificatori né amici dei cementificatori», dichiara Ghirra a La Nuova Sardegna.

La relazione stesa dal segretario e passata alle sezioni per la discussione delle sue tesi e la conseguente elezione dei delegati parte, si può dire, dalla stessa persona del suo estensore, il quale socializza anche i suoi stati d’animo, fra delusione e frustrazione. Si tratta comunque di rinnovare i quadri dirigenti del partito ed affermare un approccio all’impegno politico meno sensibile al potere per il potere e più attento alle ricadute sociali che una determinata scelta legislativa o amministrativa può avere. Ed è proprio l’impoverimento del dibattito interno attorno alla “conquista” di un assessorato che sconcerta il segretario, che di tanto fa addebito al gruppo consiliare. E comunque, ora che l’assessorato è entrato nelle dotazioni politiche del partito, si tratta di impegnare l’intero PRI in una responsabile interlocuzione sia con il titolare di quell’incarico sia con l’esecutivo nel suo complesso. La questione dei vincoli edificatori posti dalla precedente amministrazione si fa centrale nel disagio e nella polemica.

Come già nel 1984, e in verità anche durante l’intero corso della legislatura che ormai s’avvia al suo compimento, la stampa locale guarda con interesse alle posizioni repubblicane e alla dialettica interna del partito. Con risalto dà notizia di un inviato del segretario nazionale – è il deputato Giorgio Medri, capo della segreteria di Giorgio La Malfa (subentrato a Giovanni Spadolini eletto presidente del Senato) – venuto in Sardegna per appurare i termini esatti del contenzioso e, se possibile, ristabilire un clima di armonia, e non minore evidenza riserva alle dichiarazioni di Merella che replica a Ghirra.

In una intervista a La Nuova Sardegna, l’assessore dichiara: «Ho semplicemente sostenuto che il territorio va certamente difeso, ma anche utilizzato per lo sviluppo economico». E circa le vicende interne del partito: «Gli amici sono venuti da me spontaneamente perché erano scontenti della gestione del segretario, che puntava a dividere anziché a unire». Riguardo all’imminente congresso anticipa di voler presentare una lista unitaria e di puntare su una personalità di grande prestigio per la segreteria.

Questi sono gli argomenti presenti anche in un colloquio con Giacomo Mameli, di cui è ampio resoconto su L’Unione Sarda. «Nel 1982 – ricorda Merella – ero assessore all’Urbanistica a Sassari. Senza ruspe di Stato ho fatto demolire duemila metri cubi abusivi messi su da un grosso imprenditore. Non ho paura del piccone, anzi. Ma parto da un altro punto di vista: il decreto di Cogodi è fatto solo di vincoli che mi stanno benissimo, ma sui quali non c’è accordo politico. Ciò vuol dire che se si porta in Aula un provvedimento di quel tipo può anche non passare. Ciò vuol dire che la maggioranza va in crisi. Si vuole questo?». E dunque? «Che dopo i vincoli si creino regole. In tempi brevi, in quattro o sei mesi al massimo, si può varare un disegno di pianificazione territoriale che dia certezze a tutti i soggetti pubblici e privati. Oggi questo vademecum non c’è. Perché su un progetto urbanistico interviene il mondo: il mio assessorato, l’Ecologia, la Pubblica istruzione con la Divisione dei Beni ambientali, l’assessorato alla Programmazione, quello ai Lavori Pubblici. Ciò vuol dire stasi, paralisi. In tal modo non si può amministrare. Io propongo un dipartimento unico: che decida. Ritengo che gli scempi finora compiuti siano infiniti e vergognosi. Per colpa di chi? Della Regione che non ha avuto il coraggio di legiferare in materia. Dobbiamo uscire dall’incertezza e organizzare il territorio».

Conclude commentando la relazione che il segretario ha diffuso con largo anticipo sulla data congressuale: «Ghirra si è soffermato più sui temi di frizione esistenti anziché sull’analisi, non affronta i temi della maggioranza che governa, delle nostre alleanze. Non ha spiegato perché c’è stata la scelta a sinistra, se è stata o meno determinante per il rilancio economico. Manca secondo me l’analisi della Sardegna proiettata verso il Duemila. E noi, che siamo una piccola forza ma caratterizzata ideologicamente, abbiamo il dovere di far riflettere prima di tutto noi stessi: diversamente è inutile predicare agli altri…».

Dei contatti pacificatori, o chiarificatori – dieci ore e più! – , promossi dall’on. Medri sia con il segretario regionale che con i tre consiglieri ed i vertici delle consociazioni provinciali si ha notizia da quanto gli stessi partecipanti riferiscono ai cronisti: si sarebbe confermato l’incrocio di accuse fra Ghirra e Merella avente ad oggetto l’autonomia rivendicata dal gruppo consiliare ed un supposto braccio di ferro voluto dai sassaresi in vista della “conquista” di un assessorato visto come centro di potere e per mutare gli equilibri tradizionali fra i territori isolani; chiarimento invece sulla politica urbanistica. Medri ricorda essere il PRI il partito della legislazione Galasso, e tutti convengono sulla necessità di onorare, nel concreto, i principi ispiratori della normativa. Conclusione: la relazione del segretario terrà conto dei chiarimenti intervenuti e dell’abbassamento della… febbre polemica.

Dunque il congresso (e colpisce, per la coincidenza di calendario, che l’assessore Merella partecipi a Putzu Idu, venerdì 18, ad un convegno promosso dalla Provincia di Oristano, e per essa dall’assessore repubblicano Boricheddu Trogu, su “Sviluppo e difesa ambientale”: è l’occasione in cui egli ribadisce le sue posizioni in materia urbanistica, giudicando «fuorviante e inefficace» la legge Cogodi ed incontrando però ancora le perplessità di non pochi amministratori locali).

Alla presenza anche di folte delegazioni dei partiti Salvatore Ghirra svolge la sua relazione, in gran parte a braccio, recuperando i concetti contenuti nel testo a suo tempo distribuito alle sezioni. Non carica oltre il dovuto la parte relativa ai contrasti interni, anche se non manca di evocare episodi rivelatori del calo ideale di taluno che non ha saputo penetrare veramente, a suo avviso, la cultura delle istituzioni e dell’alta politica onorata da uomini come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Piuttosto guarda, il segretario, allo scenario politico presente, ponendosi il problema di come condurre a conclusione positivamente la legislatura segnata dalla presidenza Melis, per il che auspica un recupero dello spirito unitario fra le maggiori forze politiche isolane. Alludendo ad Achille Tarquini – indicato come prossimo segretario –, fa riferimento ad una successione di alto profilo che il partito sicuramente è in grado, secondo lui, di darsi. Non si ritrae infine all’abbraccio con l’“avversario” Merella e la commozione che, con i protagonisti, coinvolge la platea dei delegati è autentica.

Il dibattito si apre subito, purtroppo con i toni stonati di qualcuno, ma segnato per il più dalla qualità dell’ampio concorso di idee ed analisi dei molti iscritti presentatisi alla tribuna. Catte, rinunciando ad una ipotizzata staffetta assessoriale, contribuisce al rasserenamento del clima, mostrandosi peraltro critico quando afferma che «la giunta sta tornando ai cantieri-scuola, all’assistenzialismo» e Massaiu ricorda che «da noi si viene per dare e non per prendere».

Nella logica del ricambio generazionale dichiarano di trarsi indietro, con Ghirra, due altri dirigenti storici del partito, Lello Puddu e Marcello Tuveri e la lista che circola fra i delegati è infine il prodotto di un incontro unitario e, all’apparenza almeno, pacificato.

Questa la mozione approvata all’unanimità: «I delegati repubblicani sardi al termine dei lavori del XIX congresso regionale del partito, dopo un lungo e approfondito dibattito

«a) valutano positivamente i contributi portati al dibattito congressuale e dalla relazione congressuale e dai numerosi interventi dei molti delegati di tutte le sezioni dell’Isola;

«b) indicano nella attuale collocazione del partito, impegnato nella attuale esperienza di governo della Regione, la posizione più consona e coerente con quelle indicazioni programmatiche poste a premessa di qualsiasi ipotesi di collaborazione tra le forze politiche presenti nella assemblea regionale sarda;

«c) ribadiscono anche in Sardegna il vincolo inalienabile a considerare la nostra regione territorio non separabile dalla nostra Repubblica rifuggendo da camuffate vocazioni separatiste o da nostalgie di malintese istanze indipendentiste;

«d) riaffermano l’esigenza indifferibile di rispetto del sistema delle alleanze internazionali, oggi ancora più di ieri, alla luce della nuova fase di distensione internazionale che il paese sta conoscendo;

«e) condizionano la loro prosecuzione dell’esperienza di governo nella giunta regionale alla realizzazione di alcuni punti programmatici non più rinviabili:

«1) portare alla celere approvazione del piano per l’occupazione che eviti la parcellizzazione delle risorse finanziarie e la loro utilizzazione nei vecchi ed anacronistici cantieri di lavoro. Dovrà al contrario privilegiare l’incentivazione delle iniziative imprenditoriali della piccola e media impresa, dell’artigianato, del turismo, della trasformazione dell’industria agro-alimentare;

«2) nuovo impulso al proseguimento mirato della infrastrutturazione dell’isola migliorando innanzitutto il suo sistema viario, la sua organizzazione telematica, l’avvio e lo sviluppo di una componentistica e l’adeguamento di una rete di trasporti al passo con le esigenze di un paese moderno;

«3) sostanziale salvaguardia di tutto il tessuto ambientale sardo con l’approntamento di una legge quadro sull’uso e la gestione delle risorse territoriali, che privilegi l’assetto costiero vincolandolo all’inedificabilità, ove necessario, ma dotandolo anche e soprattutto di regole che evitino gli abusi e le insorgenze di fenomeni di speculazione e di edificazione che lo degradino definitivamente ed irrimediabilmente;

«4) completamento dell’iter legislativo dei disegni di legge di riforma sulla struttura burocratica della Regione che accorpi le competenze soprattutto in materia di gestione del territorio, che individui compiti ben specifici e distinti delle istituzioni regionali preposte al governo o all’approvazione degli strumenti legislativi evitando le commistioni di ruoli che tanta confusione hanno generato nel passato;

«f) ribadiscono infine l’esigenza che lo spirito unitario che ha consentito l’individuazione di una lista unitaria di candidati rappresentanti le diverse realtà del partito, sia il presupposto per un rinnovato concorde impegno di tutti i repubblicani finalizzato alla affermazione degli ideali repubblicani».

La nuova direzione è così composta, in quanto ai territori, e considerato sopra le parti Tarquini – segretario in pectore (che sarà eletto all’unanimità il 9 gennaio 1988) –, da 14 esponenti del Cagliaritano, da 8 sassaresi, 6 nuoresi e 2 oristanesi.

Una lettura più analitica degli svolgimenti congressuali e in specie delle sue conclusioni indica in una solida maggioranza l’area merelliana, due minoranze nei gruppi cagliaritani che fanno capo a Marco Marini, ancora assessore comunale nel capoluogo, ed a Bruno Fadda; in posizione mediana e di “cuscinetto” i nuoresi, non soltanto Massaiu e Pau ma anche Catte, da sempre piuttosto defilato. Naturalmente non mancano gli arzigogoli su cui si esibiscono i cronisti politici, ma che comunque riflettono realtà di cui occorrerà tener conto. Scrive Filippo Peretti su La Nuova Sardegna del 22 dicembre: «La componente del sassarese Merella e del nuorese Giannetto Massaiu ha undici membri in direzione, la componente cagliaritana di Franco Turco e di Benito Orgiana ne ha nove, la componente del nuorese Antonio Catte e del cagliaritano Bruno Fadda ne ha sette, mentre degli ultimi tre seggi due fanno capo all’assessore cagliaritano Marco Marini e uno a un “indipendente”. Sul piano delle alleanze, il rapporto più solido è quello tra la componente di Merella-Massaiu e quella di Turco-Orgiana: complessivamente 20 membri. Ma con la mediazione di Tarquini, c’è stato il riavvicinamento tra Merella e Catte…».

Interessante un’intervista rilasciata, in questi giorni, da Tarquini presentato nella sua veste professionale di chirurgo e di lettore appassionato della Yourcenar. Egli dice d’esser felice della ritrovata unità del partito, assicura di voler dare la priorità, nel suo impegno di segretario, alla moralizzazione della vita pubblica («Quando si spendono i soldi dei cittadini bisogna essere rigorosi») ed all’efficientamento del servizio sanitario («Non dimenticherò certo la mia esperienza professionale»).

Questi i propositi nel segretario neoeletto: consultare la base valendosi delle competenze presenti nel partito, e dunque farsi «itinerante» fra consociazioni provinciali e sezioni presenti in città e paesi dell’Isola tutta. Anche la direzione regionale dovrebbe migrare periodicamente fra i quattro capoluoghi e convocare ogni sei mesi assemblee plenarie della militanza.

L’esecutivo che affiancherà il segretario è formato dal capogruppo Catte, dai segretari provinciali Massaiu, Razzu e Siddi –, nonché da Franco Turco, assessore comunale a Quartu. Ignazio Podda è nominato amministratore regionale.

Segreteria Tarquini, l’epilogo

Ogni sforzo spiegato dal nuovo segretario è teso a riassorbire le polemiche interne, cercando di concentrare l’impegno di tutti sul merito dell’arte politica, sui programmi e la cura degli adempimenti amministrativi che debbono essere nella priorità sia dei rappresentanti negli enti locali che dei responsabili delle sezioni sul territorio.

Va detto peraltro che la costituzione, a maggio, della associazione politico-culturale intitolata a Cesare Pintus ad iniziativa di Salvatore Ghirra, Lello Puddu e Marcello Tuveri (ed altri con loro), alleggerisce di elementi polemici le sedi proprie del partito, consentendo ai repubblicani cagliaritani che hanno sofferto il lungo momento turbolento di indirizzare le loro energie etico-civili su un piano associativo autonomo, capace di affermare idealità politiche svincolate da qualsiasi ragione di convenienza di sigla.

In questo contesto è di un qualche rilievo la pubblicazione, nello stesso 1988, del libro di Gianfranco Murtas L’Edera sui bastioni. I repubblicani a Cagliari nell’età di Bacaredda, cui farà seguito, l’anno successivo, il volume Ugo La Malfa e la Sardegna, primi titoli di una lunga serie di saggi che cercheranno di dar conto dell’onorata storia del Partito Repubblicano Italiano nell’Isola inquadrata nel più largo sfondo della democrazia radicale e, nel tempo, antifascista.

In una conclusiva puntata di questa ricostruzione biografica – o della biografia pubblica – di Marcello Tuveri collegata strettamente al suo impegno politico, cercherò di dar conto ordinato di quanto da lui compiuto e pubblicato in vari organi di stampa e nell’editoria dal 1988 alla morte, intervenuta il 25 aprile 2021. Si tratterà naturalmente di un riepilogo sommario, seppur impegnerà ancora… qualche decina di pagine! e tutto sarà volto, come sempre, a dare onore a una memoria cara, ad una personalità che ha germinato soltanto virtuose applicazioni in molti di coloro che se ne sono fatti compagni lungo il tempo.

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Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

 

 

 

 

 

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