MARCELLO TUVERI, IL GUSTO DELLA LEALTA’ PER L’AUTONOMIA REGIONALE (1) , di Gianfranco Murtas (parte prima e seconda)

Nel saggio più ampio che questo sito abbia mai pubblicato comprendiamo le parti prima e seconda, di cinque, che l’amico  GIANFRANCO MURTAS  ci ha messo a disposizione per ricordare la figura di MARCELLO TUVERI, importante figura della classe dirigente sarda del  secondo dopoguerra, distintosi nei molteplici  ambiti in cui ha prestato la sua opera: intellettuale, sindacalista, dirigente d’azienda, militante e dirigente, prima  sardista (autonomista, il contrasto con Antonio Simon Mossa e la sua linea indipendentista-federalista) e poi repubblicano.

 

MARCELLO TUVERI, IL GUSTO DELLA LEALTA’ PER L’AUTONOMIA REGIONALE (1)

(parte prima)

di Gianfranco Murtas

 

E’ trascorso un anno dalla scomparsa, avvenuta il 25 aprile – data evocativa della liberazione dal nazi-fascismo – 2021, di Marcello Tuveri. Ricordarlo da parte degli amici è doveroso, come è doveroso associarne il nome a quello di altri di pari lucida fedeltà agli ideali fondativi della Repubblica: Repubblica delle autonomie, interprete nella nuova storia vissuta come sviluppo dei migliori valori del risorgimento unitario – quello di Mazzini e Garibaldi, ma anche di Cavour, e di Cattaneo, dei grandi del liberalismo e della democrazia radicale – come anche della testimonianza antifascista.

Papà cagliaritano – Giuseppe Benvenuto classe 1889, che ama richiamare anche il cognome materno Fanni – e mamma carlofortina, Mariantonia Leone classe 1895. Una famiglia numerosa, sette figli, tutti proiettati a studiare e trovar lavoro poi, e far famiglia. Lui è il terz’ultimo, dopo Rino e Franco, Antonietta e Raffaele, e prima di Tonino ed Anna. Quest’ultima insegna all’istituto per geometri “Ottone Bacaredda” (passerà poi al “Dionigi Scano”), e professore (e vice preside) è anche Franco, all’istituto tecnico agrario “Duca degli Abruzzi”, Tonino è geometra e presidente di cooperativa, Lello lavora al Consorzio di Bonifica della Sardegna meridionale…

Studente dettorino, fra ginnasio e liceo nello stabilimento dell’antico collegio gesuitico, di fianco alla chiesa di Santa Teresa divenuta dopo la demanializzazione delle leggi eversive tante cose diverse – archivio di Stato, sede della GIL, sala concerti, ecc. – nello stesso quartiere della Marina dove abita. Studente dettorino, forse anche lui, come i compagni, irridente per gioco quel buon padre Dante (di sentinella là dal 1913) negli anni stessi della seconda guerra mondiale e immediatamente successivi, alla ripresa delle lezioni dopo lo sfollamento che ha comportato il trasferimento delle classi alcune a Mogoro altre a Isili (in quella Isili in cui il professor Nicola Valle con altri suoi colleghi ha dato vita all’associazione Amici del libro) e poi anche a Dolianova. Certamente avrà visto, prima della fuga, nell’anno scolastico 1942-43 (tempo ancora di ginnasio), l’androne massicciamente puntellato da pali anticrollo, rimedio possibile ai bombardamenti attesi…, e avrà udito – quante volte? – le sirene dell’allarme. Avrà goduto – goduto? – le lunghe vacanze protrattesi dal Natale 1942 alla metà di febbraio dell’anno successivo, e la sospensione delle lezioni a partire dal 27 di quel febbraio terribile. Una decina le giovani vittime dettorine dei bombardamenti su Cagliari. Erano allora – lo ha ricordato il professor Danilo Murgia nella sua ricostruzione per l’annuario del centenario – 324 gli alunni delle dieci classi ginnasiali e 605 i liceali distribuiti in diciassette classi.

 

C’erano una volta il Dettori e anche l’adolescenza

Lo sfollamento, il ritorno in città. Ritorna il Dettori nei suoi spazi semidevastati, è l’anno scolastico 1944-45, con preside Pietro Zucca, già provveditore agli studi. Alcune classi sono alloggiate provvisoriamente a Castello, alle magistrali di via Lamarmora, ma il più s’adatta a ripopolare un po’ per volta le antiche aule della Marina. La ripresa è graduale ma decisa, convinta. Dante non c’è più, di sentinella, all’ingresso: il suo busto ha rotolato in strada nei giorni dei bombardamenti, qualcuno l’ha salvato e giusto in quegli anni della ripresa è stato affidato al professor Valle, docente lui stesso del Dettori e per qualche tempo assegnato alla Biblioteca universitaria. Di più: anima degli Amici del libro e della sezione della Dante ormai al suo cinquantesimo compleanno.

La maturità di Marcello, dunque, nel 1948. Curioso: nello stesso anno in cui una futura istituzione dettorina quale senz’altro è stato il professor Antonio Romagnino – buon amico – esordirà in cattedra al liceo, inizialmente con qualche supplenza, poi … straripante titolare di italiano e latino.

 

Anni belli, quelli del liceo, dopo la tempesta bellica. Anni anche di sperimentazioni adolescenziali: la costituzione di una società segreta chiamata SSS (Società Sarda Segreta) insieme con amici e coetanei come Dino Sanna e Pupo Rocca. E, su un piano più istituzionale, ma sempre in tempi di liceo, esperienze di rappresentanza cui, sicuro di sé, Marcello non si nega. In parallelo, nella grande storia nazionale, nientemeno che l’Assemblea Costituente riunita a Montecitorio e illuminata quella volta e quell’altra, e altre ancora, dagli interventi di Pietro Mastino ed Emilio Lussu. A Cagliari numerosi diciassette-diciottenni sono protagonisti dell’interscolastica, ciascuno impegnato a riportare all’autorità d’istituto i problemi materiali e quelli didattici, le carenze di aule e biblioteche, forse anche di banchi e vetri alle finestre, perfino del gesso per le lavagne.

D’estate, in quel 1948, gli esami di maturità, in autunno la riparazione di qualcosa… come anche educazione fisica! Il 20 ottobre è pronto per il salto all’università. Il presidente della commissione che firma la certificazione scolastica (sette in storia) è nientemeno che il professor Paolino Mingazzini, celebre archeologo romano espertissimo di civiltà greca e latina, dal 1938 docente di archeologia all’università proprio di Cagliari! Autore di un’infinità di saggi pubblicati, prima di arrivare in Sardegna è stato ispettore ai Musei della soprintendenza del Sannio e della Campania e quindi ispettore a quelle di Firenze e di Palermo. Acquisita la libera docenza e trasferito alla direzione generale antichità e belle arti del ministro della Pubblica Istruzione, ha vinto finalmente l’ordinariato vacante a Cagliari, e negli anni trascorsi nell’Isola – quando ha dovuto temporaneamente reggere anche la locale soprintendenza alle antichità – ha pubblicato, fra l’altro, due saggi destinati a fare epoca: Sul tipo architettonico del tempio punico di Cagliari e Il santuario punico di Cagliari…

S’è detto… Marcello sindacalista dettorino, rappresentante dei suoi compagni nell’interlocuzione con il preside … E così collega di altri con cui avrebbe un giorno, da allora, maturato esperienze comuni, dapprima all’università, poi nella politica e nell’associazionismo culturale e civico. Nel novero anche Tito Orrù, indimenticato professore di Storia della Sardegna alla facoltà di Scienze Politiche e curatore, con Bruno Josto Anedda e Carlino Sole, dell’inedito Diario di Giorgio Asproni.

Dunque, nel 1948, in autunno studente matricola a Giurisprudenza, facoltà bianima: corso ordinario di legge e corso di scienze politiche. Il tutto governato dalla preside Paola Maria Arcari, un monumento di sapienza e di cultura. E, da quello stesso anno, tesserato al PSd’A, allora con sede nel corso Vittorio Emanuele (per qualche tempo ribattezzato “della Repubblica”), all’angolo con la via Sassari e memoria del secolare convento di San Francesco di Stampace. Con lui, classe 1929 (21 agosto), altri coetanei di valore. Fra essi Michelangelo Pira, bittese classe 1928, Virgilio Lai, ulassese classe 1926, altri dieci che, nel tempo, lasceranno traccia di sé fra politica e soprattutto professioni.

 

All’università e nel PSd’A risvegliato

In città operano due aggregazioni universitarie: l’Associazione Universitari di Sardegna, costituita per il più da studenti barbaricini e sassaresi e facente capo a Michelangelo Pira, concettuoso e brillante sempre, e la LAUC, Libera Associazione Universitari Cagliaritani, con sede in via Università e piuttosto scontrosa, per non dire ostile o comunque avara di cortesie, verso la concorrenza. E alla fine anche vincitrice. Sicché la concorrenza, appunto l’AUS, si trova costretta a sciogliersi in quanto tale, per fortuna recuperando rifugio, in quanto ai suoi soci, nella sede sardista. Giovani universitari di simpatie sardiste e repubblicane, Lello Puddu iscritto a ingegneria fra essi, e naturalmente Marcello Tuveri, e Tito Orrù, e Marco Diliberto e diversi altri.

 

Giugno di quel 1948: due mesi dopo le elezioni politiche del famoso 18 aprile (che hanno portato alla Camera Giovanni Battista Melis il direttore regionale del partito, e al Senato – eletto nel collegio di Nuoro – Luigi Oggiano, il quale a Palazzo Madama, affiancato da Pietro Mastino senatore di diritto, e dapprincipio anche da Lussu pure lui senatore di diritto, è iscritto al gruppo misto dei “democratici di sinistra”) e vigilia del congresso che vedrà competere diverse mozioni: quella socialista e classista di Lussu contro le altre, o tutte le altre – quella della maggioranza Mastino-Oggiano-Contu-Melis, quella centrista di Emilio Fadda, quella liberalsocialista (e federalista) di Gonario Pinna –, tempo che odora di scissione, la rottura insanabile. Carezzata la bandiera monserratina dei Quattro Mori (listati in rosso), Lussu lascia la sala del Cral alla Manifattura tabacchi dando vita al Partito Sardo d’Azione socialista, e fa di più, rilanciando il suo giornale Riscossa Sardista: occupa la sede del partito, assumendo che a Cagliari la maggioranza è sua. Ci vorrà un processo in tribunale per restituire al PSd’A ufficiale i suoi spazi.

Marcello Tuveri diciannovenne vive quel battesimo infuocato. Con gli altri compagni del consiglio direttivo della sezione giovanile di Cagliari ha sottoscritto una mozione, un’altra ancora, che merita di essere ripresa:

 

Il IX Congresso del PSd’A, pur riconoscendo che i risultati delle consultazioni elettorali del 18-4-48, che hanno assunto carattere di referendum, se pure non soddisfacenti e adeguati alle aspirazioni dei sardisti, possono considerarsi confortanti se si tiene conto del particolare aspetto assunto dalla campagna elettorale, pur rendendo il dovuto riconoscimento all’abnegazione degli organi dirigenti del Partito, identifica le cause di una mancata affermazione completa e decisiva del Partito, nei seguenti punti:

1) Mancanza di studi sulla questione sarda atti a documentare sufficientemente il programma particolareggiato presentato dal PSd’A;

2) Impostazione della propaganda e della campagna elettorale inadeguata alla situazione politica nazionale e regionale, scesa a manifestazioni spesso troppo cordiali e poco decisamente avverse a quelle forze politiche notoriamente e tradizionalmente lontane dal sentimento sardo;

3) Mancanza di una adeguata e necessaria partecipazione dei giovani alla vita del partito e alla propaganda ed alle iniziative da esso promosse ed organizzate.

Il IX Congresso del PSd’A, ritenendo necessario porre immediatamente rimedio alle suddette deficienze ed evitare il loro ripetersi soprattutto durante la prossima campagna elettorale per le elezioni regionali, delibera quanto segue:

1) Al fine di evitare le contestazioni degli avversari del partito e della autonomia, di rendere maggiormente coscienti e preparate le masse popolari sarde verranno curati dai dirigenti quelle documentazioni e quegli studi atti a togliere ogni parvenza di incertezza ed ambiguità alle precise affermazioni del nostro programma;

2) Il PSd’A è una forza politica regionale ben distinta e delineata: la sua posizione di critica intransigente verso qualunque governo unitario e centralizzato italiano e verso qualunque organismo politico che trae la sua autorità e la sua forza dalle masse e dagli interessi continentali, gli impedisce e gli impedirà di contrarre alcun rapporto o collegamento con partiti a carattere nazionale. In caso contrario la sua nobile missione di baluardo periferico della democrazia, di difensore dei diritti della Sardegna, cesserebbe immediatamente poiché non v’è dubbio alcuno che con l’autonomia del PSd’A cadrebbe conseguentemente l’autonomia della regione sarda;

3) Il PSd’A che trae la sua origine e la sua ragione di esistenza dalle genti di Sardegna, si farà ora e sempre interprete e sostenitore – com’ebbe già a fare in altre circostanze – delle esigenze e tradizioni spirituali e dei sentimenti morali del popolo sardo, dando in tal senso maggior sicurezza agli iscritti e agli elettori e togliendo ai partiti nazionali la principale fonte di una indegna e ipocrita speculazione politica;

4) In ogni circostanza, in ogni organismo politico nel quale possa esercitare la sua azione il Partito Sardo impegnerà i propri rappresentanti al fine di difendere lo Statuto Autonomistico della Sardegna, approvato dalla Ass. Cost. da ogni eventuale tentativo di sabotaggio o speculazione di parte e organizzerà le sue forze allo scopo di potenziare tale Statuto traendo il massimo beneficio per tutti i sardi, dai diritti che esso riconosce all’Isola, ed esercitando continua ed energica azione sia tra le masse sarde alle quali garantirà ampia partecipazione alla organizzazione autonomistica dell’Isola, sia presso gli organi regionali e nazionali al fine di ottenere – col metodo democratico – tutte quelle altre riforme e quei provvedimenti, ordinari e straordinari, necessari per il benessere ed il civile progresso della Sardegna, rifacendosi – in tal rivendicazione politica – alle richieste ed ai principi contenuti nello schema di progetto per lo Statuto autonomo della Sardegna approvato nel dicembre 1945 dal Direttorio del Partito;

5) Ai fini di mantenere più stretti e sicuri contatti con la base degli iscritti, la Direzione del Partito indirà, con opportuni procedimenti democratici un referendum fra tutti gli iscritti al partito ogni qualvolta lo ritenga indispensabile e qualora lo richiedano particolari eventi o situazioni politiche e determinate situazioni interne (per es. scelta dei candidati, accordi di speciale importanza e simili);

6) La nuova direzione del PSd’A interverrà con i provvedimenti che riterrà necessari a porre riparo, nel Mov. Giovanile, alle conseguenze della disorganizzazione a cui è stato portato dall’incuria della Direzione reg. del Movimento.

Parte sociale

Il IX Congresso del PSd’A considera tra le cause del parziale insuccesso elettorale l’orientamento sociale non univoco ma mutevole secondo le situazioni e le posizioni locali. Questo frazionamento della nostra politica sociale ha creato un profondo disorientamento nelle masse che militavano nel partito e precisamente:

1) I ceti medi dei grandi centri che dal 1945 intesero essere diventato il partito vassallo di una forza politica che non garantiva sufficientemente la libertà dal pericolo di una dittatura comunista;

2) La piccola e media proprietà sarda che costituisce l’ossatura economica dell’Isola, ha preferito orientarsi verso le organizzazioni a cui davano il loro appoggio i pochi agrari di Sardegna, giacché il Partito non era più per loro presidio del diritto di proprietà;

3) Le masse operaie dei bacini minerari, tradizionalmente schierate nei partiti di estrema sinistra, hanno preferito confluire nel più disciplinato e forte tra essi.

 

Il partito non è più l’organizzazione della classe lavoratrice dell’Isola nei suoi vari ceti. Esso deve avere una funzione sociale ben chiara e derivata dalle esperienze delle lotte passate e adeguata alle esigenze dei nuovi tempi. Deve in sostanza conquistare i sardi alla causa di un socialismo moderno, democratico e liberale adeguato alla fase coloniale e precapitalistica della nostra economia;

1) Favorendo l’iniziativa privata nel campo industriale perché con una forte industria si crei una grande ricchezza suscettibile di socializzazione;

2) Facendo in modo che ogni complesso economico-finanziario monopolistico e di interesse pubblico venga espropriato con indennizzo e retto da commissioni di tecnici responsabili del suo buon andamento verso l’ente Regionale;

3) Tutelando la media e la piccola proprietà;

4) Evolvendo in senso cooperativistico contadini e pastori, ora divisi fra di loro dall’individualismo caratteristico del nostro Paese; liberando i primi dalla malattia e dalla polverizzazione della terra e i secondi dallo sfruttamento dei commercianti;

5) Risolvendo organizzativamente su vasta scala il problema dei reduci e dei disoccupati con la creazione di corsi di riabilitazione e con il potenziamento delle attività produttive;

6) Rendendo accessibili con sussidi speciali per le classi disagiate, le scuole di ogni ordine e anche più divulgando, in relazione al livello culturale dei vari ceti, problemi pratici di ogni genere;

7) Sostenendo che dell’economia dell’Isola solo i sardi possono intendere e risolvere i problemi ed in conseguenza chiedere che vengano ampliati i poteri dell’ente Regione in questo campo.

 

Organo di stampa dei giovani, nell’occasione congressuale, è un Bollettino – questa la testata che, come numero unico, si presenta ai lettori, tanto più alla militanza – stampato dalle macchine de L’Unione Sarda. Dichiara, il Bollettino, i perché della sua presenza: non come artificio delle banali ambizioni di questo o quello che vorrebbero scrivere e firmare, «ma perché è necessario che chi non è un vile impari a discutere. Impari che tutti facciamo parte della società, in questo caso del partito, e che tutti dobbiamo partecipare attivamente alla sua vita, con la discussione, con l’agitazione di determinanti problemi, con la critica più spiegata verso chi sbaglia. Se così non si fa la responsabilità dei disastri, nei partiti come nelle nazioni, ricade in pieno su tutti e non si ha il diritto di recriminare o di tagliare la testa ai capi quando i disastri sono avvenuti».

Ecco qui il Bollettino: «frutto di lunghe discussioni», esso intende «portare a tutti i sardisti del nuorese e del campidano, una parola chiara, senza senile ipocrisia e malignità». (Interessante il mancato riferimento anche ai sassaresi che, forse, hanno da organizzarsi in proprio o forse sono ancora piuttosto marginali nel coinvolgimento partitico, quello elettorale compreso).

Originale la chiosa alla nota titolata “Ai lettori”: “«Non tenetelo in tasca e non usatelo come carta igienica, ma passatelo ad un altro amico».

La redazione comprende, con Lai e Tuveri, anche Peppino Dodero, Antonio Enardu, Antonio Porcu e Cesare Mandis. (Tutti firmano o siglano un qualche contributo, tranne proprio Marcello: ma suo potrebbe essere, celato nell’anonimato o dietro uno pseudonimo, il pezzo “Un partito non si giudica dal numero degli iscritti: ricerca inutile”, o il corsivo “Piccoli vermi all’ombra dei ‘grandi’” firmato “I giovani”, o ancora un puntuto j’accuse a certe manovre lussiane così come ad una passiva obbedienza al leader da parte di molti seguaci: titolo “Asterischi” e firma “Lo spigolatore”).

 

E’ un apostolato che i ventenni del PSd’A alla fine degli anni ’40 – si sono volontariamente caricati sulle spalle e di cui danno conto anche in altro numero unico uscito nel novembre dello stesso 1948 a cura del movimento giovanile di Oristano (testata Forza Paris, direttore responsabile Francesco Bianchina).

L’obiettivo è un convegno regionale che, «con piani di studio e di lavoro, con mete e compiti prefissati», possa gettare le concrete basi dell’organizzazione.

V’era stato, nel maggio 1946, alla vigilia del referendum istituzionale e dell’elezione dei deputati costituenti (vincitori, per numero di preferenze nella lista sardista, Lussu e Mastino, iscritti poi con i sette azionisti e un valdostano nel gruppo detto “autonomistico”), un congresso convocato a Macomer. Allora s’era approvato lo statuto che prevedeva (unilateralmente?) il voto deliberativo del presidente regionale del movimento giovanile e quello consultivo dei dirigenti provinciali nel direttorio del partito. Ché certamente il rapporto fra i giovani organizzati ed il partito strutturato nei suoi organi eletti ai congressi (così ad Oristano nel 1945, sarebbe poi toccato a Cagliari nel 1947) costituiva e costituisce un punto da centrare con chiarezza.

 

Né soltanto di questo si tratta: occorre anche chiarire se e in che misura l’organizzazione giovanile possa elaborare una sua linea politica e godere di una autonoma amministrazione.

Invero la debolezza delle strutture del partito e l’associazione in capo agli stessi elementi delle cariche negli organi direttivi di adulti e giovani, hanno impedito il decollo ed ora infatti ecco tutti a mettere nuovamente a fuoco la questione.

Possibile girare alla direzione giovanile i quattrini recuperati col tesseramento (dei giovani stessi, fra i 14 e i 22 anni) al partito? possibile avere uno spazio autogestito su Il Solco?

Né i giovani ora tanto esigenti o rivendicativi sono o sarebbero privi di meriti: «Gli amici di tutte le sezioni – si legge in una nota di Forza Paris – ricorderanno che i giovani […] erano diffidenti nei riguardi di Lussu anche quando alcuni anziani erano disposti a seguirlo ancora e molti altri tentavano di conciliare l’inconciliabile e ricorderanno pure come Lussu avesse paura dei giovani perché li sapeva tenaci difensori della linea politica tradizionale del Partito. E’ vero che non avremo più da combattere una battaglia come quella del IX Congresso e la politica dell’attuale Direttorio Regionale ve ne fa fede ma in un Partito democratico i contrasti e le tendenze conciliabili son fondamentali per la sua attualità storica e per la continua fase di adeguamento alle vicende economiche e sociali della regione, per cui dobbiamo chiedere ai nostri anziani di poter non solo combattere al loro fianco ma anche, relativamente alla nostra preparazione politica, di pensare e di discutere con loro per il bene della nostra Sardegna».

 

Sardismo o sardo-socialismo? L’apostolato giovane

C’è da fare i conti con questa fedeltà ai principi e alla tradizione, non di meno però – e la cosa rimane sottotraccia non soltanto nella militanza giovane del partito, ma ad ogni livello – se e quanto socialismo debba riconoscersi nel sardismo pur “depurato” della componente lussiana. Ché quella qualifica – “socialista” cioè – è entrata nelle considerazioni di molti intervenuti alla tribuna congressuale di luglio per assumerla e magari definirla o per respingerla ritenendola pertinente ad altre correnti politiche e piegata al classismo. Così come nel dibattito entra la questione dei “collegamenti” con altre formazioni nazionali. Ché se la convergenza è sull’autonomia piena del partito, è certo però che l’ipotesi, quando è balenata in qualche affaccio dialettico, è sempre stata riferita al Partito Socialista Italiano o, prima, al Partito d’Azione marcatamente lussiano e perciò socialista (così all’appuntamento del 2 giugno 1946). Nulla quaestio se i voti ai Quattro Mori giungono spontanei, senza contrattazione: come è stato appunto alle elezioni per la Costituente o a quelle per il Senato della Repubblica (ed anche alle amministrative in quel centro e in quell’altro), quando i repubblicani – minoranza infima per numero non certo per idealità – hanno orientato il loro consenso, nell’Isola, alla lista ed ai nomi proposti dal PSd’A.

Fra i più attivi nel proselitismo è Marcello Tuveri: nel giro di pochi mesi appena, fra il 1948 ed il 1949, egli riesce a promuovere ben 37 sezioni nella provincia di Cagliari, qui includendo dunque anche l’Oristanese così come il Sulcis-Iglesiente. Fra le più attive quelle di Bacu Abis, Gonnesa, Sanluri ed Oristano.

Rievocando quel suo specialissimo impegno di propagandista, e riproponendo il testo del vademecum allora affidato ai propagandisti, così racconterà a Salvatore Cubeddu che ne riferisce nel secondo volume del suo Sardisti: viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia: documenti, testimonianze, dati e commenti (cf. Sassari, EDES 1995):

Conquistare aderenti tra gli amici ed i parenti divulgando il giornale del partito e sostenendo in discussione gli argomenti in esso trattati. Tra i conoscenti, non scendendo a discussioni violente se non in presenza di persone che dalla sicurezza del nostro tono possano essere convinte della serietà delle nostre argomentazioni. Parlando con una persona non bisogna contraddirla mai completamente, ma fare in modo che non abbia ad irritarsi per gli eventuali scacchi polemici che gli farai subire.

Tra le organizzazioni di cui fai parte (circolo cattolico-sindacale-ass. comb. ecc.) devi cercare di occupare e di far occupare ai sardisti posti direttivi che possano mettere in luce le vostre buone qualità, farvi stimare ed in conseguenza seguire con simpatia nelle vostre attività politiche.

Alle elezioni regionali del maggio 1949 il Partito Sardo d’Azione (che gode anche del voto dei tremila repubblicani sparsi fra le tre province e nelle sue liste candida anche alcuni militanti del PRI) elegge sette consiglieri, di cui due soltanto in provincia di Cagliari pur forte di 170 sezioni. Marcello, ancora diligente studente di giurisprudenza, viene chiamato a collaborare, in veste di segretario, con il gruppo consiliare. Diversi degli altri suoi compagni del movimento giovanile sono assunti chi come segretario del presidente Contu (è Marco Diliberto) e dell’assessore Soggiu (è Salvatore Brianda), chi come redattore dell’ufficio resoconti e stampa del Consiglio (è Michelangelo Pira).

Ancora impegnato nella organizzazione, egli, adesso 22enne, è tra i firmatari di una lettera indirizzata al direttore regionale pro tempore, Piero Soggiu, cui è chiesto un intervento per il ripristino degli organi provinciali di Cagliari, vacanti da tempo, e la riorganizzazione delle attività di assistenza alla militanza (il riferimento deve essere soprattutto alle problematiche di pastori e contadini ma anche di combattenti e reduci disoccupati da favorire con buoni spesa o collocazione dei figli nelle colonie marine o montane). Così anche, sul piano prettamente organizzativo, viene prospettato l’acquisto di una tipografia per il tramite di una società ad hoc, l’allestimento di una stabile redazione al Solco, la cui direzione è affidata a Michelangelo Pira.

Ad Oristano (teatro Arborea), nel maggio 1951, si svolge il X congresso del PSd’A che riporta nelle mani di Giovanni Battista Melis, deputato in carica, le funzioni di direttore regionale. A Cagliari siamo ancora nel contesto, a due anni dall’esordio della specialità autonomistica, della giunta bicolore DC-PSd’A con assessori Alberto Mario Stangoni ai Trasporti e Piero Soggiu all’Industria e commercio, mentre Anselmo Contu è presidente dell’assemblea legislativa. In aula e nelle commissioni lavorano – eletti anch’essi nel maggio 1949 – Pietro Melis, Peppino Puligheddu, Luigi Satta e Giangiorgio Casu.

Ancora pochi mesi e il PSd’A ritirerà i suoi assessori e al monocolore democristiano, ancora presieduto da Luigi Crespellani, concederà soltanto tecnici di area: Mario Azzena ai Trasporti e Mario Carta (invero di prevalenti simpatie socialdemocratiche) all’Industria e commercio. Dimissioni anche per Contu, con subentro del democristiano Alfredo Corrias.

Così come a quello della Manifattura Tabacchi anche a questo X congresso Marcello partecipa e viene addirittura eletto, naturalmente all’interno della quota cagliaritana, nel direttivo regionale (platea di 27 membri per la circoscrizione provinciale, 67 nella plenaria regionale). Come adattamento delle delibere congressuali, egli viene aggregato all’esecutivo provinciale del partito unitamente a Giuseppe Barranu, Mario Granella e Giovanni M. Manunta.

Con questa responsabilità, e mentre ancora continua le sue fatiche (sia intellettuali che operative) nel movimento giovanile, inizia una più attiva collaborazione alle attività “alte” del partito, dedicandosi alla traduzione scritta delle posizioni politiche del PSd’A: l’esordio è nel 1952, quando consegna a Sardegna – testata che unifica una breve sequenza di numeri unici direttamente riferiti alla “gioventù sardista” (così nella sottotestata) – due articoli che escono in prima pagina nelle edizioni di settembre ed ottobre. Rispettivamente: “Impedire una truffa” (con occhiello “L’errore elettorale”) e “Antidemocraticità e corruzione nella D.C.” (con occhiello “Il manifesto dell’on. Petrone” e sommario “Il manifesto è un violento atto d’accusa contro la direzione del partito democristiano. Le vie del finanziamento dei partiti”).

Gli articoli del 1952, la questione della “legge truffa”

Se ingrata è, per colpa propria o degli dei, l’intero corso della vicenda del sardismo storico del dopoguerra – intendo per “storico” quello rimasto fedele alla tradizione, dunque prima della svolta nazionalitaria e indipendentista – certo il 1952 è di sofferenza acuta e addirittura drammatica. Siamo, temporalmente, nel contesto di un’astensione sardista al governo bicolore DC-PRI a presidenza De Gasperi e di una estraneazione del partito anche dal governo regionale dopo la crisi dell’autunno 1951. Debolissimo il PSd’A nelle sue strutture organizzative e anche nei suoi bilanci economici. Incerta ogni strategia che porti il sardismo ad incidere nella politica ai diversi livelli, crescente il distacco polemico dagli ex alleati democristiani – con cui si ritenterà un accordo in termini di apparentamento nel maggioritario del 1953 (ridenominato impropriamente “legge truffa”) –, permanente la diffidenza verso i comunisti che pure tentano la carta del listone alle amministrative: alleanza a sinistra, simbolo sardista e presidenza – a successo conseguito – ad esponenti del PSd’A. Incerto il partito sull’intero fronte: terza forza con repubblicani, socialdemocratici e liberali e, con tale interpartito, negoziato più equilibrato con la DC? cedimento all’allettamento comunista? partecipazione in solitaria per una sconfitta certa? Lo smarrimento è totale e le risposte sono infatti differenziate per territorio: nel Cagliaritano si sperimenta la terza forza, nel Sassarese (e/o nel capoluogo) si sperimenta l’accordo a sinistra, nel Nuorese si va per l’abbinata con i socialdemocratici (considerandosi i repubblicani quasi “interni” al PSd’A).

Se così va alle comunali il risultato delle provinciali è di 51.253 voti (contro i 78.317 di sei anni prima, e percentuale 8,6): 2 seggi a Cagliari, 54 a Nuoro, nessuno a Sassari. La forza (o la debolezza) del PSd’A nel 1952 è questa.

E Tuveri? Pare di singolare importanza il primo dei due articoli sopra richiamati e pubblicati dai numeri unici di Sardegna. Esso si riferisce alle complesse elaborazioni parlamentari sulla modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Ad essa starebbe lavorando De Gasperi su forte spinta del suo partito in logica – al meglio – di miglior funzionalità dell’esecutivo se sostenuto da una più ampia maggioranza numerica, o – al peggio – di un consolidamento del potere in termini di … prepotere della Balena bianca. Si sa: i partiti alleati tradizionali della DC stanno soffrendo essi stessi di lacerazioni interne fra idealisti-proporzionalisti e pragmatici-maggioritari (tutti infatti subiranno, alla fine, delle scissioni da parte degli sconfitti) e l’opposizione di sinistra come quella di destra stanno minacciando barricate contro questo che giudicano un vero e proprio golpe. Tuveri è su queste posizioni e non a caso richiama la famosa frase di Orwel: «Tutti sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri». Si dice contrario alla modifica legislativa che interpreta – forse con una punta dottrinaria connaturata alla giovane età – come ispirata da intenti puramente di potere, non di governabilità:

La democrazia non si difende accedendo supinamente alla voglia di strapotere di un partito. La democrazia è lotta continua e rischio. Ma soltanto seguendo questi suoi pregi e difetti insieme potremo farla apprezzare a tutti e diminuire le forze totalitarie in Italia. La pretesa di realizzare una sicurezza che sarebbe molto probabilmente tale solo nella forma, rimanendo immutate nel paese le forze che più attivamente possono metterla in pericolo anche se diminuirebbe il numero dei deputati espressi da tali correnti, darebbe a quanti, e sono i più in Italia, credono nella libertà e nella uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, un tale senso di sfiducia e di nausea che diminuirebbe sensibilmente l’apporto attivo di molti alla vita pubblica. E se il popolo si disinteressa dei problemi dello Stato la strada verso la dittatura è aperta.

Nel Partito Sardo, così come negli altri, c’è dibattito fra i possibilisti e i contrari (gli stessi Mastino ed Oggiano, in Senato, hanno dichiarato la loro contrarietà). E anche chi si dice, in linea di principio, contrario – in difesa degli alti valori della democrazia –, osserva come la stessa legge vigente non rispetti integralmente il riparto proporzionale, ma favorisca i maggiori partiti non importa se al governo o all’opposizione (e qualcuno porta esempi concreti, mostrando come il PCI sardo – ostile alla modifica legislativa – conquistasse nel 1948 tre quozienti rispetto al solo riconosciuto al PSd’A, che pure di voti ne aveva ricevuto due terzi e non un terzo di quelli dell’avversario!).

Un processo elaborativo (e deliberativo) lungo e complesso, forse contraddittorio, infine risolto in chiave di realpolitik: sì all’apparentamento con le formazioni laiche del cosiddetto “centro democratico” (integrato da altoatesini e valdostani) alleato o apparentato a sua volta con la DC. A risolvere la questione, indirizzando la maggioranza del consiglio regionale del partito in senso favorevole, è il direttore Piero Soggiu che sostiene di poter contare sul consenso e anzi sulla spinta della dirigenza locale e della militanza; per parte sua, Giovanni Battista Melis, in quanto deputato, si pone come interlocutore privilegiato con i vertici politici nazionali.

Nelle ragioni della realpolitik, che rovesciano gli originari distinguo o le diffuse perplessità, si pone anche la valutazione preoccupata di una imprevista concorrenza elettorale che sarebbe promossa da Gonario Pinna – già esponente di livello del Partito Sardo (per l’avvenuta confluenza azionista dell’autunno 1944) – alla guida, si dice, di una lista di “indipendenti di sinistra”.

Si sa come poi andrà a finire. Per pochi voti – lo 0,2 per cento (in termini assoluti circa 50mila) – non scatta il premio di maggioranza e tutto cambia sulla scena politica, così persistendo un’oggettiva indisponibilità governativa della sinistra socialcomunista ancora legata alle direttive staliniste (nel 1953 muore Stalin ma non ancora lo stalinismo) e indebolendosi tutti quanti i partiti della … scommessa persa per l’uscita dai loro ranghi di esponenti (di radice azionista) di rilievo per autorevolezza più che per riscontro elettorale: Parri lascia il PRI, Calamadrei e Codignola il PSDI, e De Gasperi consegna di fatto la sua leadership a un Fanfani che trasformerà il suo partito in una macchina di potere più spesso fine a se stessa.

Ma c’è, tornando al 1952, un secondo articolo di Marcello Tuveri che merita un richiamo: si tratta del commento alle prese di posizione del deputato democristiano Carlo Petrone, di origini campane e ideale seguace di Lugi Sturzo, riconosciuto antifascista senza macchia. Egli ha proposto alla Camera un intervento legislativo disciplinante i conflitti di interesse coinvolgenti la rappresentanza politica. Si tratta di regolamentare le incompatibilità, il cumulo degli incarichi pubblici e delle indennità. La legge sarà approvata a larga maggioranza nel febbraio 1953, poche settimane prima di quell’altra che farà ancor più discutere: appunto la cosiddetta “legge truffa”.

Ecco la conclusione dell’articolo:

Basta! questa materia dovrebbe esser trattata non con la penna ma con delle pinze e gigantesche data la sua estensione.

Va notato però, e qui torniamo al nostro discorso iniziale, che talvolta i cittadini non tollerano certe violazioni di ogni norma morale e, all’interno dello stesso partito, insorgono contro certi sistemi. Ci pare questo un confortante indice della volontà di perfezionamento della nostra democrazia. E’ vero, sono tanti gli scandali che abbiamo visto soffocare con la facile argomentazione che l’accusatore non era documentato o, addirittura, era poco sano di mente. Ma l’appello dei dc onesti dimostra che certe critiche rivolte anche nel passato ai grossi papaveri non erano prive di fondamento. Siamo convinti che l’atmosfera politica del nostro paese, se queste critiche continueranno e saranno tenute nella dovuta considerazione, sarà notevolmente purificata. E con ciò avremo fatto un grosso passo in avanti. Non si fa buona politica se non si rispettano i principi etici sui quali si fonda una sana democrazia. Il cittadino, l’uomo della strada, sente a lungo andare, per i partiti che hanno introiti poco leciti, la stessa ripugnanza che prova davanti a chi vive col denaro proveniente da affari non confessabili. E non è detto che nei prodotti che si acquistano perché ben propagandati la gente abbia molta fiducia. Basta infatti che cambi il nome dei cartelloni pubblicitari e lo slogan sui prodotti perché cambino anche… i gusti dei consumatori.

Il nostro ragionamento ci conduce ad una conclusione abbastanza semplice: i partiti che vivono del sostegno di interessati fiancheggiatori e di gente che si sente sicura dietro un tavolo dopo ver sborsato una certa somma non possono aspirare ad una duratura fiducia nel popolo.

Noi sardisti, che abbiamo posto alla base della nostra battaglia di redenzione una accentuata intransigenza morale (che ci fa parere talvolta addirittura ingenui), sentiamo l’orgoglio della nostra onestà.

Lo sdegno per gli “aggreppiamenti” e la provenienza dei fondi che sostengono la nostra lotta (chi ha mai pubblicato sui giornali liste di sottoscrittori così lunghe e vere come quelle apparse su Il Solco?) sono aspetti di questa nostra purezza. Gli uomini del PSd’A non sono mai comparsi in tribunale per aver abusato dei fondi loro affidati dai cittadini e non hanno mai avuto bisogno di scendere in piazza a proclamar “noi abbiamo le mani pulite”.

 

Così su “L’idea repubblicana”

Fra gli articoli del 1952 merita segnalare anche, recuperato in bibliografia da Carlo Figari, l’articolo “Lotte, vicende, moniti”, uscito nel numero di gennaio-febbraio de L’Idea repubblicana, periodico facente capo a Giulio Andrea Belloni, leader dell’ala … più sociale del repubblicanesimo italiano e, per qualche tempo, anche cosegretario nazionale del PRI. Presente in Sardegna in diverse circostanze, e tanto più in occasione della campagna elettorale regionale del maggio 1949 tutta spesa a favore delle liste del PSd’A, con lui, molto probabilmente, Marcello – al tempo appena ventenne – ha avuto occasione di prendere contatto e conoscerlo stabilendo, forse con la mediazione preziosa di Lello Puddu pure lui giovanissimo, un rapporto utile.

Ecco alcuni stralci dell’articolo che si sforza di fotografare quanto realizzato dalla Regione nei suoi primi due anni di vita (1949-1951):

Alcuni mesi sono passati dalla formazione di una nuova Giunta Regionale Sarda ed è lecito valutare, sia pure a grandi linee, l’attività di quest’organo confrontandola specialmente con l’opera svolta nei due precedenti anni di attività. […] la proporzione delle forze non consente alla DC di governare da sola. Perciò nei primi due anni di autonomia è stata alleata con il Partito Sardo di Azione al quale concedette importanti responsabilità, quali gli Assessorati all’Industria e Commercio, Agricoltura e Foreste e quello ai Trasporti. In questo periodo […] la Regione Sarda si è data un volto, impostando le più importanti riforme della prima legislatura regionale e cercando, malgrado l’avversione manifesta della burocrazia e del Governo centrale, di precisare i suoi compiti nell’ambito del suo Statuto speciale.

Si noti che l’organizzazione autonomistica della Sardegna si è iniziata praticamente con l’elezione del Consiglio Regionale, giacché l’Alto Commissariato che l’aveva preceduta non aveva preparato alcuno studio, né aveva pensato a risolvere alcuni dei tanti problemi che vengono a crearsi quando si dà vita ad un nuovo organismo. La prima seduta del Consiglio Regionale, ad esempio, fu tenuta nella sala delle assemblee del Comune di Cagliari “gentilmente concessa”. E’ stato, il periodo cui stiamo facendo cenno, un’epoca di lotta e di formazione nella quale si è constatato che alla guida del Consiglio Regionale sono stati i rappresentanti del Partito Sardo d’Azione.

Passando al campo dell’attività legislativa, diremo che sono stati ancora i Sardisti ad impostare la lotta conclusasi vittoriosamente (unica Regione in Italia!) contro il monopolio della energia elettrica; a costringere la SITA, altra Società monopolistica nel settore automobilistico, a spendere svariati miliardi per adeguare i suoi servizi, pena la decadenza della concessione di molte linee; ad incrementare la piccola industria e l’artigianato con una serie di leggi che concedevano mutui a lungo e medio termine; a favorire l’aumento della produzione agricola con la concessione di mutui per miglioramenti fondiari in proporzioni addirittura triple rispetto a quelli concessi dal Governo centrale. Si aggiunga che, sempre ad opera del Partito Sardo d’Azione, era in preparazione un progetto di riforma agraria che avrebbe rivoluzionato l’agricoltura tipicamente arretrata e tradizionalista dell’Isola.

Un primo atto di questa profonda opera di rivolgimento sociale era stata data da un progetto di legge caduto per l’ostilità sia dei democristiani che dei comunisti, contenente una serie di norme che costringevano i proprietari di terreni adibiti a pascolo a coltivarne razionalmente una porzione. Secondo calcoli prudenziali quella legge avrebbe dato lavoro a due terzi dei disoccupati agricoli dell’Isola. Su questo terreno, veramente rivoluzionario, giacché prevedeva la concessione dei pascoli da parte di cooperative nel caso i proprietari rifiutassero di coltivare, i democristiani, nella loro maggioranza conservatori, non potevano certo seguire il Partito Sardo d’Azione. Perciò respingendo una legge sul bilancio già approvato dalla giunta e dalla competente commissione di Consiglio, i democristiani aprivano la crisi chiedendo un allargamento a destra (luglio del ’51). Per destra essi intendevano i monarchici ed i fascisti che avrebbero dovuto in una Giunta color fantasia, controbilanciare le istanze sociali dei sardisti. I sardisti rifiutarono questo ibrido connubio di forze repubblicane e monarchiche, democratiche e totalitarie, progressiste e reazionarie e la Democrazia Cristiana governa da quattro mesi con l’appoggio dei nemici del popolo sardo, dell’Autonomia, della Repubblica, della Democrazia. […].

L’immobilismo più sfacciato caratterizza l’azione politica dell’attuale maggioranza, basta ricordare che le popolazioni duramente colpite dalla recente alluvione non hanno ancora avuto alcun aiuto concreto, quale poteva essere, ad esempio, la costruzione di opere pubbliche utili che alleviassero, nel contempo, la disoccupazione; che del bilancio della Regione per il ’52 portato all’esame del Consiglio è stata rimandata la discussione per il pericolo che non venisse approvato dagli stessi democristiani; che infine il Consiglio Regionale, presieduto da un democristiano ex qualunquista e di fede dichiaratamente monarchica, si è riunito, in quattro mesi, tre o quattro volte, senza discutere alcuna legge importante.

Tanto abbiamo voluto dire, trascurando la sterile e vuota opposizione dei social-comunisti, rappresentata al Consiglio da incompetenti funzionari di Partito perché sia chiaro a quanti hanno a cuore l’Istituto regionalistico, che una sola è la strada perché esso si rafforzi: la lotta a fondo contro i partiti irreggimentati e contro le forze reazionarie che dominano il nostro paese; lo sviluppo di quelle energie politiche locali che, nel rispetto della Costituzione repubblicana, dimostrano di essere aderenti alla realtà peculiare di ogni regione.

 

Fra congressi e scritti nella metà degli anni ’50

Gli appuntamenti più significativi del decennio, strettamente relativi al Partito Sardo d’Azione, sono i seguenti: congressi regionali (l’XI e il XII) del novembre 1953 e dell’aprile 1957, convocati rispettivamente ad Oristano ed a Cagliari; turni elettorali politici del 1953 (lista autonoma) e del 1958 (in collegamento con Comunità e il Partito dei contadini), regionali del 1953 e del 1957, amministrative del 1956 e del 1960 (dopo che nel 1952).

Nello stesso periodo sono due gli episodi di maggior rilievo, sul piano tutto privato, riguardanti Marcello Tuveri: la laurea nel 1954, il matrimonio con Marcella Pilia – docente della scuola pubblica e figlia dell’ogliastrino Egidio Pilia (eminente intellettuale ed uno dei fondatori del PSd’A) nel 1958. La famiglia si allieterà, nel tempo, di due figli – Anna Maria e Maurizio – purtroppo poi anche abbuiandosi quando una crudele malattia strapperà alla vita, quindicenne appena, Maurizio.

A dire della laurea conseguita, in perfetta tempistica, con una tesi sui “Controlli dello Stato nella potestà legislativa della Regione Sarda”. E’ una stagione, questa dei mediani anni ’50, di studi specialmente orientati, nelle università isolane, alla novità intervenuta nell’ordinamento della Repubblica con la costituzionalizzazione dell’autonomia sarda (oltre che delle altre regioni a statuto speciale: Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta; verrà anni dopo anche il Friuli Venezia Giulia). I colleghi Efisio Piras ed Efisio Orrù, nella stessa sessione, trattano infatti de “Gli organi costitutivi della Regione Sarda” e de “La natura giuridica dell’Ente Regione”. Così sarà anche l’anno successivo.

La conclusione degli studi avvia il Nostro all’impiego, per alcuni anni, presso la stessa università di Cagliari, prima importante tappa di un corso professionale che proseguirà negli uffici della Programmazione regionale (negli anni della Rinascita) e, dal 1972, alla direzione generale – conquistata per concorso – dell’Azienda Regionale Sarda Trasporti.

Intanto, comunque, continua con impegno la militanza nel Partito Sardo Azione che vive, nel decennio, una sostanziale fase di … stanca, provocata anche dalla modestia dei risultati elettorali, dalla perdita della rappresentanza parlamentare e dalla riduzione di quella consiliare regionale, cui offrono rare occasioni di risveglio ora la ipotesi di un cartello di “terza forza” laica a livello nazionale (nel 1955), ora la sindacatura Mastino a Nuoro (nel quadriennio 1956-1960), ora l’alleanza con Olivetti (nel 1958) nella fiducia che l’emigrazione sarda nelle maggiori città del continente possa irrobustire di voti le liste elettorali e promuovere una rinnovata rappresentanza almeno a Montecitorio. In questo stesso quadro perde temporalmente consistenza la prospettiva di un’alleanza formale con i repubblicani e con i radicali (costituitisi in partito, questi ultimi, nel 1955 con una scissione da sinistra del Partito Liberale Italiano): una prospettiva cui la presenza al congresso sardista del 1957 di Ugo La Malfa e Max Salvadori aveva offerto motivi non banali.

Nella varietà dei diversi momenti sembra interessante registrare la riflessione critica di Marcello Tuveri consegnata alle pagine de Il Solco che purtroppo, almeno fino al 1958 (quando interverranno i soccorsi finanziari di Adriano Olivetti), soffre di una continua precarietà, rinunciando alle serie e affidandosi soltanto ai numeri unici.

Nella tarda primavera 1953 prima le politiche, poi le regionali, fotografano il grado di sentimento dell’elettorato isolano per il Partito Sardo. Ed è un crollo, o comunque un consistente indebolimento rispetto ai turni del 1948 e del 1949. Finisce la prima deputazione nazionale di Giovanni Battista Melis ed anche Luigi Oggiano deve lasciare il Senato (insieme con Mastino, essendo cessata quella prima legislatura cui la 3.a norma transitoria della Costituzione ha affidato l’ideale ristoro ai parlamentari dichiarati decaduti dal fascismo nel 1926). In Consiglio regionale i seggi da sette diventano cinque.

A restare alle politiche: sono 25.080 i voti del 1953 (percentuale del 3,9), contro i 61.928 raccolti cinque anni prima (percentuale del 10,25), quando pure si era sfiorata l’elezione del secondo deputato; si portano a 27.799 (e la percentuale scende al 3,8) nel 1958, quando il partito si allea con Comunità ed il piemontese Partito dei contadini. E’ soltanto la circoscrizione nuorese a superare le due cifre percentuali ed entrambe le volte, pur nella sterilità del risultato, è da registrare la migliore performance nelle candidature senatoriali (il doppio che alla Camera), come a dire che a fare la differenza sono la più marcata anzianità dell’elettorato e la più efficace attrazione dei candidati proposti nell’uninominale. Relativa marginalità, dunque, non soltanto nel Sassarese ma ora anche nel Cagliaritano – penalizzato dalla fuoriuscita dei sardosocialisti lussiani – in quanto ai territori, ma anche nelle simpatie delle quote giovanili.

Come detto, è simile la tendenza alle regionali: contro i 60.525 voti del 1949 (percentuale 10,45), la raccolta del 1953 è di 43.224 (percentuale 7,0) e quella del 1957 è di appena 40.214 (percentuale 6,02). Migliorerà, ma non di molto, la resa del 1961: 50.039 voti (percentuale 7,23), ancora con cinque seggi in Consiglio.

A guardare ai risultati delle amministrative il sorriso è ancora più spento. Perfino difficile è fare la conta delle comunali, ché in numerosi centri – anche medio-grandi – la presenza delle liste è rapsodica, quasi occasionale (così nel 1956 come già nel 1952, tentandosi qua e là qualche accordo con partiti più o meno prossimi). Puntando l’analisi sulle provinciali emerge che a fronte dei 78.317 suffragi del 1946 – al nuovo esordio democratico dell’Italia non ancora repubblicana (si è votato ad aprile) – sono soltanto 47.495 (percentuale 8,02) quelli del 1956, con il quasi dimezzamento nel Cagliaritano e nel Sassarese ed una contrazione di circa un terzo nel Nuorese. E ulteriormente limati saranno i dati del 1960: 46.120 (percentuale 6,90).

Il doppio insuccesso del 1953 – così per il calo dei voti tanto alle politiche quanto alle regionali – e la perdita della rappresentanza parlamentare – da tre a zero – così come la contrazione dei seggi in Consiglio regionale azzoppano quasi mortalmente il Partito Sardo: tanto più che si profila per l’intera seconda legislatura regionale una sequenza di giunte non soltanto a guida democristiana, ma costituite interamente da democristiani e, per di più, appoggiate dalla destra. Per sei mesi governa, ancora con un monocolore, Crespellani; per pochi mesi gli succede (ancora con la benevola astensione sardista) il dc Alfredo Corrias – esponente oristanese peraltro assai stimato in ogni settore della vita pubblica – che poi, per un anno intero (giugno 1954-giugno 1955) varerà un bicolore DC-PSd’A, dando spazio a Giangiorgio Casu e Pietro Melis rispettivamente all’Agricoltura e foreste ed agli Enti locali e trasporti. Per quasi tre anni e mezzo toccherà poi a Giuseppe Brotzu di guidare, in successione, due giunte “sdraiate a destra” e avversate duramente dal PSd’A: due anni nella seconda legislatura (1955-1957), un altro anno e più nella terza. Soltanto dopo, dal novembre 1958, con Efisio Corrias presidente, i sardisti torneranno al governo regionale.

 

Focus 1953, 1955…

Tornato alla guida del partito all’indomani del congresso del 1951, e libero ormai dagli impegni parlamentari, Giovanni Battista Melis convoca il nuovo congresso nell’autunno del 1953 a Cagliari. Il tema alto e drammatico che si pone alla riflessione degli oltre duecento delegati è riassunto dal sen. Mastino, presidente dell’assemblea, in queste parole: «Noi dobbiamo decidere oggi se il partito possa continuare a vivere». La sensibilità autonomistica, con maggiore o minore pregnanza, è ormai presente in tutte le forze politiche, qualcuno considera esaurita la missione “seminatrice” del Partito Sardo.

Nella sua conversazione (del 10 luglio 1991) con Salvatore Cubeddu, Marcello Tuveri rende la sua testimonianza rievocando soprattutto il clima creatosi nel partito durante e dopo l’episodio elettorale su cui aveva aleggiato lo spirito della cosiddetta “legge truffa”…

Il congresso del 7-8 novembre 1953 – ecco le sue parole – risentiva ancora della polemica precedente alle elezioni. I quattro-cinque mesi che avevano preceduto la consultazione elettorale erano stati mesi di estrema sofferenza all’interno del PSd’A. Il dibattito era stato feroce, contrapponendosi all’interno del partito due anime: quella democratico-liberale, rappresentata da Mastino e Oggiano, che respingeva in maniera assoluta l’apparentamento con la DC, e quella cattolica rappresentata da Anselmo Contu, che aveva fatto il presidente del Consiglio con l’accordo dei democristiani e che da loro era considerato benevolmente. Titino Melis aveva un problema essenziale, quello di mantenere e di assicurare uno sbocco alla forza elettorale del partito. Avvertiva cioè, da uomo politico di grande sensibilità quel era, che nella lotta tra i due colossi (DC e PCI) la posizione del PSd’A, come partito regionale, difficilmente avrebbe potuto tenere. Lo scontro della guerra fredda era il più violento in quegli anni: è il periodo più buio dello stalinismo, del conflitto tra Russia e America, della guerra di Corea.

Titino Melis, che era laico quanto Mastino e Oggiano come formazione culturale e atteggiamento mentale, ravvisa nell’ “apparentamento” l’ancora di salvezza (la più frequente polemica con i sardisti, allora, era: «avete ragione ma siete pochi e non contate niente!»).

L’alleanza con la DC era originata dalla consuetudine, nata durante il periodo fascista, tra l’on. Antonio Maxia e l’on. G.B. Melis, consuetudine nutrita di amicizia personale, la stessa professione di avvocato, la militanza antifascista e l’amicizia personale profonda, pur piena di contrasti e di accesi furori. Lo stesso Maxia ha certamente faticato a fare accettare alla Democrazia Cristiana l’apparentamento con il Partito Sardo d’Azione perché, nonostante l’alleanza nella prima legislatura, il fatto e i modi della rottura avevano lasciato rapporti non certo ottimi.

Ma allorché nel Consiglio regionale del partito Mastino e Oggiano sostenevano che la legge era «una legge truffa e una vergogna», che dare un premio di maggioranza significava preparare tempi oscuri e il fascismo all’Italia, Anselmo Contu ricordava giustamente che, a sostenere questa legge, non era solo la DC, ma persone di squisita formazione antifascista e democratica come G. Saragat, liberali come L. Einaudi, azionisti di area laica come Salvemini.

Quindi l’XI congresso ha come sottofondo queste polemiche che traspaiono nelle posizioni che vengono qui a contrapporsi. Difatti, a decidere sull’alleanza elettorale fu anche il vero e proprio referendum che si svolse nelle sezioni: sezione per sezione si votò per decidere a favore o contro; in tutta la Sardegna, dovunque le sezioni fossero organizzate, i tesserati votarono riuniti in assemblea. E vinse il sì all’alleanza, tra gli iscritti più che tra i dirigenti … Ma l’alleanza non aveva portato alcun risultato; una delle parti in qualche modo ne faceva carico a Titino Melis che pure, come espressione unitaria del partito, aveva sentito nel profondo la lacerazione della scelta.

La parte ampiamente prevalente del dibattito, una volta generalmente condivisa la volontà – ribadita dal direttore uscente – di non ammainare la bandiera, è quella di riorganizzare il partito e decidere come fare, ancora in autonomia (mentre non è mancato chi abbia rilanciato l’idea del collegamento con le forze del centro laico, sostenuta da Contu, Diliberto e altri): si parla di collegialità (attorno al direttore regionale) e di nuovo volontarismo, di costo delle tessere ed autofinanziamento, di un apprestamento funzionale in vista di un nuovo congresso di grande rilancio. L’affaccio ideologico (la prospettiva «dello Statuto Federale per la Sardegna», una visione «del divenire sociale, socialista non statalista») è timido, si capisce che non è tempo. Per il resto è la conferma dell’impegno per la difesa «delle prerogative attuarie della Regione», la rivendicazione «dei diritti derivanti alla collettività sarda dagli articoli 7-8, 12 e 13 dello Statuto regionale sino alla completa attuazione del piano organico per la rinascita economica e sociale dell’Isola», e così anche della perequazione del sistema tributario nazionale.

Conclusione: un direttorio allargato con Melis, Mastino e Oggiano, Contu e Soggiu, Cambule e Piretta, in rappresentanza di tutti i territori governerà il partito. La linea politica appare disomogenea: è l’opinione ancora di Marcello Tuveri che commenta: «L’ordine del giorno finale è un capolavoro di sintesi tra le diverse istanze, fatta da una mente lucida, preparata, consapevole qual era quella di Pietro Melis».

S’è detto: pur in posizione di astensione nella fiducia, il Partito Sardo sostiene i monocolori Crespellani e A. Corrias e finalmente, nel giugno 1954, rientra pienamente in gioco assumendo due assessorati di rilievo – l’Agricoltura e gli Enti locali e trasporti – per i consiglieri Casu e Pietro Melis. Il lavoro di un anno. Poi la svolta democristiana che privilegia interessi che sono sotto l’ombrello della destra.

Ed è in questo ultimo contesto che Marcello Tuveri riprende una sua visibilità, sia pubblicando diversi articoli su Il Solco sia svolgendo a Santulussurgiu la relazione di base al convegno giovanile (“universitari e autodidatti”) convocato ai primi di settembre del 1955.

Gli articoli escono rispettivamente il 28 agosto 1955 (“Prospettive inesatte”) e il 25 settembre (“I Comuni e lo Stato” con sommario: “Il Ministro dell’Interno annuncia nuove misure restrittive delle autonomie locali”).

Il primo commenta l’iniziativa assunta dall’on. Giorgio Tupini, di nuova riflessione sulla questione meridionale, cogliendo lo spunto dalla presentazione della rivista Prospettive meridionali. Alla affermazione di fondo dell’esponente democristiano circa la positività delle politiche governative attuate per ridurre lo storico e strutturale divario fra nord e sud, risponde l’articolista elencando le situazioni che chiaramente denunciano la piena permanenza di quello scarto. Ad iniziare, tabella dopo tabella, dai differenziali nella capacità di acquisto del mercato (media dei consumi rappresentativi): 19 per cento il sud, l’81 per cento il nord. E così l’occupazione operaia, i volumi degli investimenti pubblici e privati, ecc.

La conclusione è in chiave sarda:

L’Isola, che non ha mai fruito in passato di provvidenze creditizie, e che ha visto sorgere con notevole ritardo la sezione di Credito Industriale del Banco di Sardegna, ha perduto persino le magre possibilità offerte dalla legislazione statale per le industrie del Sud.

Basti pensare, oltre al fatto che il fiscalismo dei crediti assume nei nostri confronti un tale rigore da rendere insuperabili le deficienze economiche ambientali, che degli 80 miliardi (sopra citrati) la Sardegna ne ha ottenuto soltanto 5. Tale dato confrontato con le possibilità industriali, con la popolazione e con il territorio dell’Isola, ci consente di rilevare che, nelle occasioni offerte da vari prestiti a tasso di favore, oltre che essere stati “buggerati” come “meridionali” lo siamo stati come “sardi”.

Infatti criteri di giustizia distributiva consiglierebbero che alla Sardegna venisse corrisposto almeno il 12 per cento dei fondi che vengono devoluti al Sud. Negli anni che vanno dal 1944 al 1953, i cinque miliardi suaccennati hanno potuto garantirci meno del 4 per cento degli investimenti dello Stato in tale direzione. Tanto diciamo, tacendo la recente esclusione della Sardegna da un prestito di 70 milioni di dollari e il palese ostruzionismo ministeriale all’attuazione del piano di Rinascita, perché sia chiaro che la questione meridionale e la questione sarda son tutt’altro che chiuse con gli interventi statali del secondo dopoguerra. Il problema non è, come afferma l’on. Tupini, di «integrare l’opera intrapresa», ma di rivoluzionare il criterio di valutazione sin qui seguito perché sia annullata la dicotomia geografica del nostro Paese, e la Sardegna possa considerarsi italiana anche di diritto.

L’altro articolo che ho richiamato fa riferimento a nuove regolamentazioni delle autonomie degli enti locali. Parlando a Recoaro il ministro Tambroni – titolare del dicastero dell’Interno nel tripartito DC-PSDI-PLI a presidenza Antonio Segni (appena succeduto a Mario Scelba presidente del Consiglio e ministro dell’Interno) – s’è qualificato, e fatto qualificare dalla stampa amica, come «tutore e difensore dei legittimi interessi dei Comuni italiani». La cosa, all’apparenza innocua, nasconde invece una filosofia politica che all’articolista appare inappropriata e anzi inaccettabile.

Sino a prova contraria – scrive – ci pare di poter affermare che […] i Comuni hanno avuto un costante violatore dei loro interessi (sia pe le scarse possibilità tributarie che sono lasciate loro, sia per il peso dei controlli in tutti i loro atti, etc.) nello Stato con la sua organizzazione periferica delle prefetture [e] perché i Comuni non hanno e non debbono avere, se la democrazia vuol fondarsi rettamente sull’autogoverno, una più o meno pressante tutela come i pupilli, ma finalmente possono considerarsi maggiorenni.

L’insistenza con cui da Roma (dal ministero ma anche dalla DC) si ammonisce la rete comunale a limitarsi alla amministrazione e a non… sconfinare nella politica rivela un intento repressivo che pare giusto contrastare.

Trent’anni di dottrina politica hanno identificato nell’accentramento, di cui il fascismo non è stato che un momento caratterizzato dalla esasperazione dittatoriale, uno dei più profondi mali dell’organizzazione statale italiana. Da vari decenni la giurisprudenza italiana ha studiato il concetto di autonomia ed ha constatato che tanto lo Stato che i Comuni amministrano ugualmente interessi generali e che i Comuni godono di fronte allo Stato di una sfera nella quale allo Stato è inibito ogni intervento. Tanto diciamo a prescindere dai diritti riconosciuti alla Regione in materia e sui quali pure gioverebbe intrattenersi…

Amministrare significa – è la conclusione di un lungo ragionamento preoccupato e perfino indignato – operare su di un piano di subordinazione, agire in sottordine, in esecuzione di direttive altrui. Se si connette questa nozione con quello che è stato uno dei motivi conclusivi del discorso, si comprende perfettamente dove si vuol giungere: «D’ora in avanti – ha ammonito il ministro – i prefetti dovranno occuparsi più da vicino del funzionamento delle amministrazioni comunali… per impedire che dal metodo di amministrare le finanze comunali derivi una deviazione di mezzi per servire a scopi politici»…

Tale orientamento, nel quale si ravvisa la volontà dichiarata di controllare sempre più i Comuni, congiunto al richiamo ad una «patria unita, ordinata, disciplinata» ci ha fatto pensare, lo confessiamo, a qualcosa di peggio che al qualunquismo. Ci ha richiamato alla memoria uno stile autoritario ed antidemocratico – proprio perché antiautonomista – tipico di un regime che i lutti e le sciagure non riescono a farci dimenticare.

 

Al convegno di Santulussurgiu

Allo stesso settembre del 1955 rimonta il convegno giovanile, presso il Centro di cultura popolare del Montiferru, cui si dà il titolo di “Sardegna d’oggi” e che, per alcuni versi almeno, rappresenta uno sviluppo delle premesse seminate nel congresso universitario di Cagliari del dicembre 1954. La tensione verso un futuro dell’Isola che per molta parte dovrà poggiare sulle competenze e la visione politica, in senso ampio, della nuova generazione giunta alla maggiore età nel dopoguerra, è quanto attraversa ed ispira le diverse relazioni (fra esse quella di Antonio Cossu, prossimo sardista olivettiano, di Alfredo Roncioni, sulle comunità agricole isolane, di Giuseppe Contini, sull’attuazione statutaria regionale, ed Antonio Caratzu che tratta in specie della lotta all’analfabetismo che permane, seppure in misura più contenuta che in passato, fenomeno di massa).

Il resoconto steso da Marcello – adesso giovane 26enne e proiettato nella carriera pubblica – è riportato, in sintesi, su Il Solco dell’11 settembre. Esso registra quanto la questione giovanile sia entrata, almeno teoricamente, nella progettualità non soltanto della classe dirigente politica sarda, ma anche di ampie quote della società professionale ed economica così come del sindacato. Per converso registra anche l’esistenza di un certo processo di autocoscienza che il ceto giovanile di quella parte mediana del decennio sembra aver azionato interrogando se stesso sul ruolo che esso deve svolgere nei passaggi evolutivi che attendono la Sardegna proiettata nel nuovo modello di sviluppo, tra modernità e integrazione nel rispetto delle sue peculiarità. Ecco il punto:

Dato fondamentale di tale atteggiarsi non ancora organico è la assoluta spontaneità della battaglia e il conseguente rifiuto degli schemi politici di qualche anno fa: qualunquismo, fascismo, comunismo e dc. Unico dato certo cui si ricollegano i giovani in questo momento è il sardismo, inteso in senso ampio, non ancora dottrinalmente compiuto, ma lontanissimo da coloro che del sardismo assumono tatticamente l’atteggiamento verbale.

Dalla relazione di Marcello Tuveri e dalle altre risaltano istanze che, nel mondo rurale soprattutto, vagheggiano sistemazioni sociali e forse utopistiche forme comunitarie (in qualche modo imparentate con la visionarietà, tradotta però in cose concrete, di quell’Adriano Olivetti che il PSd’A incontrerà nel giro di pochi anni) e che però sembrano cozzare con una certa ingessatura che la generazione ora al comando, anche nel Partito Sardo, fatica a comprendere per non dire che impedisce di comprendere fino in fondo.

 

Il problema dei giovani al congresso provinciale di Cagliari

Tratterà direttamente l’argomento qualche mese più tardi, Marcello, al congresso provinciale di Cagliari del marzo 1956, convocato al cine-teatro Ariston. A quasi tre anni di distanza dal congresso regionale, con Giovanni Battista Melis saldamente alla guida del partito e nella (apparente) calma piatta per assenza di chiamate elettorali, questa assemblea provinciale cagliaritana pare segnata da un missione di portata che travalica il dato puramente territoriale. Provenienti da Nuoro e da Sassari i quadri dirigenti del partito convergono tutti sul capoluogo e ascoltano e si fanno una idea o imbastiscono una speranza (o un timore) di cosa sarà il futuro. Intanto però ancora si pena – ed è pena di tutti! – sotto le giunte di centro-destra di Giuseppe Brotzu e gli stanchi governi centristi a Roma (Pella, Fanfani, Scelba, Segni, saranno poi Zoli, e ancora Fanfani e ancora Segni e poi Tambroni)…

Nella imminenza adesso del voto amministrativo, ad un anno soltanto dal voto per il rinnovo del Consiglio regionale, e senza che nulla di risolutivo sembra si sia fatto per il rilancio organizzativo del partito, il congresso è di fatto un convegno (come ben ha sottolineato Salvatore Cubeddu, cf. pag. 199 del suo Sardisti) e Marcello Tuveri – presente anche nell’ufficio organizzativo dell’evento – ne sembra il mattatore.

Sì, Giovanni Battista Melis colpisce duro sull’esecutivo Brotzu qualificandolo fascista ed addebitandone l’esistenza nientemeno che a Segni e Piero Soggiu riferisce dettagliatamente circa le fatiche dei consiglieri regionali che non trovano spazi in un Consiglio incapace di una dialettica che sia effettivamente costruttiva, ma la novità, forse anche per la organicità della rappresentazione, è stavolta proprio la relazione che il giovane Tuveri offre alla riflessione generale. Il giornale del partito la pubblica integralmente nel numero del 24 marzo. Titolo: “Il problema dei giovani e il Partito Sardo d’Azione” (e sommario: “Il sardismo è stato creato da giovani che sbloccarono rivoluzionariamente la situazione di chiusura clientelistica delle vecchie classi dirigenti. Il nostro sforzo deve essere rivolto a ricreare il clima di lotta del primo dopoguerra”).

Eccone il testo:

 

Amici congressisti, non è facile in un Partito come il nostro parlare, da giovane, dei problemi e delle esigenze dei sardisti della terza generazione.

Non è facile perché il Partito Sardo è stato creato da giovani che con la loro iniziativa avevano rivoluzionariamente sbloccato la situazione di chiusura clientelistica delle vecchie classi dirigenti.

Questo atto di origine ha fatto sì che è stato per lungo tempo ed è, direi, impossibile distinguere un atteggiamento giovanile indipendente dalla tradizione del Partito.

Anzi, se c’è un modo valido di proporre qualcosa da parte della gioventù sardista e di tutta la gioventù sarda è nella rivalutazione del più importante avvenimento storico della Sardegna di questo secolo, il movimento combattentistico ed il Partito Sardo d’Azione.

Per cui è costante in noi lo sforzo di ricreare, nelle mutate condizioni politiche, intorno alla idea centrale dell’autonomia, concepita come fatto rivoluzionario e non come meschina riforma burocratica, il clima delle lotte che hanno dominato l’Isola nel primo dopoguerra.

Testimonianze di questo nostro richiamo al passato della precedente generazione giovanile si hanno scorrendo gli atti del Convegno Universitario Sardo del dicembre 1954. «… E’ un processo storico al quale la Sardegna cominciò a partecipare come protagonista con la prima guerra mondiale e precisamente con l’esperienza del Partito Sardo d’Azione, in cui bene intravvide Piero Gobetti il nucleo iniziale di quel movimento rinnovatore che sostenendo le prime organizzazioni agricole del Sud, tentava il primo effettivo inserimento del popolo sardo e meridionale nella storia d’Italia».

 

Vorrei parlare di un altro importante fatto che dimostra l’interesse che il Partito Sardo riveste per i giovani.

Universitari di Sassari e di Cagliari pongono da vario tempo il problema della loro azione politica alla fine degli studi, in termini che possono definirsi commoventi per la spontaneità della loro manifestazione: «Se il Partito Sardo non fosse esistito – hanno detto più volte questi amici – noi lo avremmo inventato».

Nessuna verifica più chiara di questa possiamo offrire della giustizia delle nostre posizioni.

Noi, privi di mezzi, fiaccati in un battaglia di interessi giganteschi, abbiamo l’orgoglio di trovarci nel corso della nostra lotta al fianco di persone che hanno maturato con originalità e fuori della nostra propaganda, con assoluta spontaneità, le idee che guidano il Partito Sardo.

Questo accade in Sardegna mentre negli altri partiti è costante il lento abbandono dei giovani dalle posizioni di lotta per chiudersi nel piatto ossequio verso gli anziani più forti che dispongono di posti di lavoro e di remunerati impieghi.

Quanto è stato affermato se vale, in piccola parte, a chiarire il significato di una partecipazione giovanile alla battaglia sardista, pone però, automaticamente, il problema della gioventù sarda all’attenzione del Partito dei Sardi.

E’ il caso di dire che la questione dei giovani non è un problema di settore, come può apparire da un certo angolo visuale, ma investe tutta la struttura della società regionale.

Nessun problema economico e sociale può essere imposto senza tenere presente l’importanza dell’elemento demografico, delle forze umane, cioè, che debbono essere al centro di ogni rinnovamento e di ogni evoluzione.

I giovani non sono solo i lavoratori, i dirigenti, gli imprenditori e di intellettuali di domani, quasi strumento che si affida – come tanti altri – allo svolgimento del caso. Costituiscono – e le loro manifestazioni in seno alle organizzazioni politiche ce ne danno costante riprova – un grosso problema dell’oggi.

Problema che va affrontato, è bene dirlo, con il tradizionale senso di concretezza politica che il Partito ha avuto sin dalle origini. Perciò niente nebulose prospettive ed oscure tematiche. Vanno ricercate piuttosto soluzioni positive alla luce della situazione obiettiva.

Accenno così al problema fondamentale dell’assorbimento delle nuove leve del lavoro.

Si può dire, in genere, che la disoccupazione strutturale e la sottooccupazione della Sardegna grava soprattutto sulle classi al di sotto dei venticinque anni. Il numero delle domande di sardi che chiedono di arruolarsi nei Carabinieri e nella Guardia di Finanza non figura tra i dati che avremmo voluto poter considerare, ma riteniamo – per conoscenza comune – che non possa considerarsi marginale rispetto al nostro problema. Sta di fatto che, al costante aumento del tasso di natalità (tra i più alti d’Italia) non corrisponde affatto un incremento dei posti di lavoro.

Una cifra può essere citata a titolo esemplificativo: a Carbonia, nell’aprile 1955, sono stati licenziati 2.000 operai. I nuovi posti di lavoro stabile che il settore industriale offre in provincia di Cagliari sono 350 all’anno.

Prendiamo in esame un attimo i dati sulla disoccupazione sarda.

Si sa che il rilievo di queste cifre, effettuate dagli uffici competenti in funzione del collocamento, non ci fornisce un quadro completo del fenomeno. Tuttavia va rilevato che un’inchiesta del settembre 1952 ci dava su 30.000 disoccupati in tutta l’Isola 14.000 persone in gran parte giovani. Quasi la metà dei disoccupati in cerca di lavoro erano al di sotto dei 21 anni.

Inquadrato questo elemento in relazione alla percentuale della popolazione attiva su quella globale, il fenomeno diventa veramente preoccupante ed assolutamente nuovo per le altre regioni italiane.

Si tenga presente che la [disoccupazione] oggi è andata progressivamente [aumentando fino a] raggiungere, al 31 luglio 1955 (cioè in un mese nel quale il lavoro sia agricolo che industriale raggiunge le punte massime) la spaventosa cifra di 52.777 unità.

La percentuale dei giovani in cerca di lavoro non accenna a diminuire: essa raggiunge oltre il terzo della cifra globale.

Su 100 nuovi iscritti alle liste di collocamento solo 50 possono essere avviati al lavoro; ed il fenomeno – per ammissione degli stessi responsabili della politica del lavoro in Sardegna – non dà segno d’essere in via di esaurimento.

Di recente in campo nazionale, nella presunzione di porre riparo al fenomeno della disoccupazione giovanile è stata approvata la legge Vigorelli sull’apprendistato.

Orbene su questo piano è appena il caso di ricordare che le imprese industriali, capaci di assumere apprendisti è limitatissimo e la legge servirà a consentire – nonostante le pene previste – un più razionale sfruttamento della mano d’opera giovanile, generalmente non qualificata.

Esiste un problema dei ragazzi che, specie nella città, alimentano continuamente le file dei “commissionari” e dei “fattorini”. Questo vuol dire che ragazzi sui 14-15 anni passano da una ditta all’altra, lavorando indifferentemente in un bar o in una calzoleria, da un barbiere, da un negoziante, senza apprendere alcun mestiere.

Difficilmente la legge Vigorelli risolverà questo ed altri problemi.

Le leggi elaborate a livello nazionale sono quasi sempre un fallimento. Le leggi nazionali in materia di lavoro sono sempre e sicuramente una rovina per la Sardegna.

Valga per tutti l’ultimo esempio della legge sulla abolizione delle ore di lavoro straordinario nel settore industriale. In tutta la provincia di Cagliari, a distanza di qualche mese, il numero delle persone occupate in conseguenza di quel provvedimento ha raggiunto la cifra di 81 unità.

A completare il quadro della disperata situazione occupativa si è aggiunta la assenza dello Stato nell’indirizzare una organica preparazione professionale dei giovani.

In un mondo che si avvia verso la meccanizzazione e l’alta specializzazione in Sardegna si vanno moltiplicando le scuole ad indirizzo umanistico e si accentua la deleteria tendenza ad avviare gli adolescenti verso le cosiddette professioni liberali.

Esiste quindi il problema di spostare l’indirizzo degli studi per una gran massa di giovani.

Due parole sentiamo di dover dire anche sui corsi professionali. Questi corsi, istituiti dallo Stato e dalla Regione, hanno lo scopo di formare una mano d’opera specializzata.

Ebbene, fatta eccezione per limitati settori agricoli, questi corsi non hanno raggiunto affatto lo scopo. In primo luogo perché i programmi che svolgono costituiscono appena un inizio della specializzazione. In secondo luogo perché la loro breve durata non può far pervenire il giovane alla formazione necessaria per essere considerato qualificato.

In ordine a questo problema si impone la creazione di istituti veri e propri aventi carattere puramente professionale e pratico, che possano mettere l’allievo in condizioni di seguire fin dalle prime fasi la sua futura attività lavorativa anche a contatto con specializzati in seno alle imprese operanti.

Bisogna pensare a far sì che la disoccupazione cessi di essere incrementata dall’apporto costante e così grave delle giovani leve.

Se passiamo ad esaminare il problema della crescita culturale delle nuove generazioni sarde, la situazione non è meno sconfortante. Ritorna qui, come tema dominante della nostra sintesi, la deficienza di un ordinamento scolastico che non risponde alla sua funzione orientativa, limitandosi a dare una preparazione del tutto disinteressata rispetto alla situazione reale dell’economia regionale.

La preparazione dei ragazzi oscilla in Sardegna, nella maggior parte dei casi, tra due situazioni o “scuola senza lavoro” o “lavoro senza scuola”. Manca la capacità degli enti responsabili di far librare la scuola tra i due limiti estremi dell’accademismo e del tecnicismo. Non mi soffermerò molto su questo problema. Ancora oggi tra le fonti che ritengo più autorevoli in proposito stanno gli atti del Convegno Universitario Sardo. […].

E’ nota a tutti la profonda frattura esistente tra studi e professione, nei diversi ordini di insegnamento. Né è meno grave la situazione dal punto di vista delle attrezzature. Il numero degli edifici scolastici per l’insegnamento primario in provincia di Cagliari era, sino allo scorso anno, di 137. Per soddisfare le esigenze della scuola elementare ne dovrebbero essere costruiti altri 1.475. Più della metà dei giovani delle scuole elementari fruisce di locali assolutamente inadeguati.

Su 100 giovani del Distretto di Cagliari, alla visita di leva nel 1952, 55 erano analfabeti.

La percentuale dei giovani che proseguono gli studi oltre le elementari è del 15% contro la media nazionale del 21%.

Nonostante le notevoli lacune nel settore della scuola professionale si ostacola la istituzione di scuole di avviamento. Così contro una percentuale nazionale del 55,2%, iscritti a tali scuole, la nostra Isola offre una percentuale del 33,33%. In sintesi può dirsi che la situazione giovanile richiede un energico impegno del Partito ed una prova di coscienza da parte dei giovani che in esso militano.

I due fondamentali termini del problema (mancanza di sufficiente sviluppo produttivo, inadeguatezza degli istituti di istruzione vanno affrontati, discussi e avviati a soluzione. Ma soprattutto bisogna rendere partecipi le masse giovanili sarde della complessità dei loro problemi, fornendo loro un valido strumento di rivolta e di costruzione di una nuova realtà.

E’ qui che ritengo utile sottoporre alla attenzione del Congresso la opportunità di rafforzare il Movimento Giovanile Sardista. Non si tratta di creare un partito nel Partito, in termini polemici, ma di conquistare gradatamente, nella linea del sardismo correttamente interpretato e vissuto, una autonomia tecnica nel settore giovanile. Questa autonomia tecnica ci consentirebbe di esplicare quella funzione di iniziativa e di guida nel mondo giovanile, che l’appartenenza al Partito e la sua disciplina ci impongono.

Non è questa la sede per dilungarci sulle linee di azione del Movimento Giovanile. Ma qualche considerazione va fatta.

In primo luogo tutti possono ammettere che i problemi giovanili sono talmente vasti da giustificare la presenza politica di una organizzazione siffatta.

In secondo luogo la responsabilità di parlare in termini sardisti ai giovani deve portarci non ad elucubrare schemi politico-letterari, ma umilmente e democraticamente a verificare le nostre opinioni attraverso l’azione organizzata del Partito e dello stesso Movimento Giovanile.

Dobbiamo non solo prendere conoscenza della realtà, ma cercare di dominarla. Modificare ogni aspirazione limitativa, od illuministica che dir si voglia, a contatto col popolo sardo nelle sue case, nelle sue fabbriche, nei suoi ovili, nelle sezioni del partito, nella vita dell’Isola.

In questo senso dobbiamo tener presente che una notevole parte della gioventù sarda sensibilizzata ai problemi della nostra terra, ha ripudiato una posizione di messianica attesa degli interventi esterni per la soluzione dei nostri problemi e si è accostata ad una concezione dell’autonomia in tutto simile a quella che è alla base del Partito Sardo d’Azione.

[Non è un caso] che nell’Università siano stati espressi dalla gioventù organismi automaticamente e democraticamente creati. La volontà che presiede a detti organismi è di rinnovamento radicale della vita sarda.

Particolarmente interessante è, nel campo della democrazia universitaria, il movimento dell’Unione Goliardica che si trova oggi in una posizione laica, democratica ed autonomista veramente positiva. Come sardisti non possiamo non appoggiare questo movimento nell’assoluto rispetto della sua autonomia e originalità.

A questo punto la relazione potrebbe considerarsi conclusa. Riteniamo opportuno però prospettare un’importante posizione politica del partito ed una esperienza che si inserisce nel doloroso quadro di Carbonia.

Fin dalla sua fondazione il Partito ha assunto una posizione federalista. Bellieni, nella relazione al congresso del 1922, parla espressamente di Stati Uniti d’Europa.

L’orientamento europeista e federalista si legava, sulla scorta della migliore tradizione risorgimentale italiana, all’esigenza maturata dal Partito Sardo di rompere le barriere doganali, combattere i monopoli, inserire la Sardegna in Europa.

Idee generiche, potrebbe sostenere taluno. Se si leggono le pubblicazioni di quegli anni si osserverà l’attento studio che i nostri dirigenti prestavano all’organizzazione della confederazione svizzera ed a tutti i fermenti federalistici ed autonomistici dell’epoca.

Il secondo dopoguerra ha visto il partito schierato ancora più decisamente su questa via. Le proposte di regolamentazione della vita regionale, fatte alla Consulta erano di natura federalista, ed alla esigenza di creare una federazione di regioni si ispirarono i sardisti durante la Assemblea Costituente.

Più o meno distintamente ci siamo sempre resi conto che lo Stato accentratore e burocratico, espressione degli interessi che contrastano l’avvenire della Sardegna, deve essere combattuto con tutti i mezzi che possono rafforzare la struttura e l’azione delle autonomie regionali.

Perciò i parlamentari sardisti hanno sempre dato il loro valido contributo in seno ai gruppi europeisti.

Perciò un consigliere regionale sardista ha operato nella Associazione per il Consiglio dei Comuni d’Europa.

D’altro canto non può trascurarsi lo sforzo che i sardisti – specie i giovani – hanno svolto nel Movimento Federalista Europeo e nella Gioventù Federalista Europea.

Di recente si è presentata la necessità di impegnare a fondo le nostre energie nella Campagna Europea per la Gioventù.

Come vedete, vi è una non comune tradizione di orientamento federalista.

Le ragioni di questo atteggiamento sono abbastanza chiare.

Se vogliamo che lo sviluppo di una società più libera divenga possibile, perché dei reali poteri autonomistici si aggiungano a quelli che già esistono, dobbiamo proporci di continuare la battaglia per l’Europa. Lo Stato nazionale diventa ogni giorno più burocratico e centralizzatore.

Non si tratta quindi di combattere una battaglia utopistica e astratta. Attraverso la Federazione europea si colpiscono i monopoli italiani, le grandi industrie parassitarie, la finanza che nega alla Sardegna i mezzi per avviarsi al progresso civile.

E’ azione politica a cui siamo guidati da esigenze concrete e dalla convinzione sicura che l’Europa ha interesse e capacità di contribuire a modificare il volto dell’Isola, più di quanto non ne abbia l’Italia di oggi.

Chi vi parla ha avuto in proposito la riprova di questo interesse e di questa capacità dell’Europa.

La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, l’unica comunità sopranazionale che esista oggi in Europa, ed a cui gli stati hanno ceduto una parte della loro sovranità, ha fatto per Carbonia più di quanto non ha realizzato il Governo italiano. Non ci riferiamo soltanto agli investimenti CECA che ascendono al 30% di quanto spenda lo Stato nell’Isola. Ma ad un grave episodio del quale abbiamo affidato la cronaca al Solco. Qui ci si limita ad osservare che per conoscere una passione molto simile a quella che nutriamo noi per i nostri problemi, ed in particolare per Carbonia, giova avvicinare gli ambienti europeistici della Comunità carbo-siderurgica.

A chi chiedeva come mai l’industria di Carbonia, nonostante le larghe possibilità di finanziamento di questa CECA, corresse il rischio di morire, anzi andava estinguendosi – trascinando nella sua disgrazia una notevole parte del popolo sardo – sono stati forniti gli elementi che provano la grave responsabilità dello Stato italiano nei nostri riguardi.

Non solo, ma si è aggiunto con franchezza e obiettività che se l’isola soffre di questa condizione mortificante, ciò è dovuto esclusivamente ad una assenza di volontà politica dei sardi a sapersi conquistare una attenzione da parte di tutta la comunità nazionale ed europea.

Si è identificato, a qualche migliaio di chilometri dall’Isola, il punto cruciale della nostra situazione.

Il Popolo sardo non ha ancora un peso politico tale da meritare che si desse da parte del Governo italiano una risposta alla lettera con cui la CECA richiedeva notizie sulle conclusioni con cui sono stati privati del lavoro duemila fratelli di Carbonia.

L’Isola conta così poco che non vale la pena di preoccuparsi se tra il Natale e il Capodanno scorsi si preparavano altri ottocento licenziamenti.

Questa realtà abbiamo considerato in una recente visita alla sede della CECA. Le parole che sono state pronunciate in quell’occasione dai responsabili di tale istituto dovrebbero essere scritte in ogni casa sarda perché – nella loro chiarezza – ripetono il luogo comune di Carlo V aggiungendovi la gravità dell’analisi del secolo XX.

La battaglia della Sardegna e del Mezzogiorno passa, ne siamo convinti, in buona parte per l’Europa.

 

Ancora 1956: “Carbonia tradita”

Ancora del 1956, e precedente il congresso dell’Ariston, è l’articolo “Carbonia tradita” (con sommario “I denari erogati dalla CECA per assicurare agli operai dimessi dalle miniere continuità di lavoro in altri settori sono stati impiegati per indennità di licenziamento”) che Il Solco pubblica, in prima pagina, nel suo numero del 4 marzo.

Il tema del lavoro (o non lavoro) nel bacino minerario del Sulcis – s’è visto – appartiene alla riflessione di Marcello Tuveri che lo ribalta alla vasta platea del congresso provinciale sardista del 1956. Egli lo ha approfondito non soltanto con gli studi ma anche con l’esperienza dei contatti in loco.

La ricostruzione delle vicende carboniesi è lunga e dettagliata ed è attraversata da un giudizio critico rispetto alle diserzioni dell’autorità pubblica nazionale a fronte delle aperture che si è dato registrare da parte della CECA. Ecco alcuni stralci dell’articolo e la sua conclusione:

Chi legge le pubblicazioni ufficiali della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) e conosce i problemi del movimento operaio italiano non può non restare perplesso di fonte alle informazioni che vengono date sul problema di Carbonia ed al tono riservato con cui, in genere, se ne parla.

Non ci si riferisce evidentemente ai volantini ed agli opuscoli di propaganda, nei quali pure figura degnamente l’opera della Comunità per il riadattamento dei lavoratori siderurgici delle industrie del nord Italia, ma ad atti importanti come la Relazione sull’attività dell’Alta Autorità destinata alla sessione straordinaria dell’Assemblea comune (novembre 1955), ed alla pubblicazione di Alcuni aspetti economici e sociali della CECA, al Bollettino Ufficiale della Comunità, etc. […].

Le cronache della nostra stampa ci avevano informato di un impegno della CECA, di proteste e di interventi richiesti a tale autorità sovranazionale da parte della CISL di Cagliari, di visite effettuate da funzionari, etc.

Sapevamo di un famoso paragrafo 23 della Convenzione allegata al Trattato e di un art. 46 del Trattato istitutivo della Comunità, in forza del quale non si può procedere a licenziamenti se non sono stati predisposti gli strumenti per il riassorbimento della mano d’opera licenziata. Ricordavamo che è il Governo dello Stato interessato al sopravvivere di una industria che può e deve chiedere l’intervento della Alta Autorità se vuole fruire degli aiuti finanziari e di studio di quest’ultima.

Malgrado ciò era lecito pensare che «il piccolo episodio carbonifero del Sulcis» – come viene cordialmente definito negli ambienti europeisti – non avesse soverchiamente interessato i dirigenti del mercato comune europeo esistente.

Una recente esperienza ci ha fornito la chiave di certe sibilline affermazioni e soprattutto il significato di quelle «attese informazioni complementari e proposte precise».

La lettura di una nota su un settimanale nazionale ci consente di chiarire, uscendo da un certo riserbo, i termini di una situazione che suona vergogna per tutta la nazione italiana, che è insulto ai lavoratori sardi e costituisce la riprova della consumata incoscienza con cui vengono trattati i problemi dell’economia sarda (e non solo sarda) dal governo centrale […].

Carbonia soffre la sua logorante crisi dal 1948-49. Nel 1953, e precisamente dal mese di maggio, l’apertura del mercato comune del carbone in Europa consentiva, barattando la abulia governativa nei riguardi del Sulcis come conseguenza del Trattato, di richiedere l’assistenza finanziaria per migliorare le condizioni dell’industria più importante per la Sardegna. La dirigenza dei ministeri romani si è ben guardata dal farlo e non ha mai neppure chiesto, col coraggio di chi dovrebbe ammettere la propria incompetenza per garantire il lavoro nella zona più depressa d’Europa, un aiuto per avviare studi sull’avvenire della unica miniera di carbone di cui disponga lo Stato italiano.

Settembre 1954: i sindacalisti democratici, preoccupati dei minacciati – e con alcuni sotterfugi attuati – licenziamenti nel bacino, rivolgono un telegramma all’Alta Autorità chiedendone l’intervento. Mancando una richiesta del Governo nazionale l’organo esecutivo della CECA chiede a quest’ultimo il permesso di poter inviare una commissione per studiare il problema e avviarne la soluzione […]. A tutt’oggi in Lussemburgo attendono ancora la risposta.

A dispetto dei santi, la missione della CECA viene inviata ugualmente in Sardegna nel dicembre dello stesso anno.

Il governo, nonostante conosca i risultati della inchiesta, non domanda alcun intervento.

Nell’aprile del 1955 si arriva, come tutti sanno, ai licenziamenti in massa. Solo allora da Roma si chiede l’intervento della Comunità. La CECA lo accorda nella misura di 700 milioni di lire con lettera 20 aprile 1955 […]. Si chiedeva però, perché fosse garantita la continuità dell’impiego (prevista dall’art. 2 del Trattato), il modo con cui i danari sarebbero stati spesi per assicurare il lavoro agli operai di Carbonia. Il Governo non ha risposto che alla fine di giugno comunicando puramente e semplicemente di aver licenziato 1985 operai con la attribuzione di una indennità di licenziamento di £. 450.000 a persona ed informando i lavoratori che i danari erano stati dati in quella forma con l’accordo della Comunità.

L’assurdo del misfatto compiuto, con tipica noncuranza burocratica, viene contenuto dai funzionari della CECA entro alcuni rilievi tecnici: 1) il modo di liberarsi dei lavoratori con un’elemosina non è conforme ai principi del Trattato e della solidarietà verso i lavoratori in esso sancita; 2) la semplice indennità di licenziamento è sconosciuta come sistema di riadattamento della mano d’opera.

L’Alta Autorità, informata dalle organizzazioni sindacali dell’episodio, chiede, con lettera dell’8 luglio 1955, come è stata assegnata la somma della “superliquidazione”. Il governo di Segni risponde (quanta sollecitudine!!) il 12 dicembre giustificando questa forma di dispersione del denaro non proprio e chiedendo il rimborso dei 700 milioni che la CECA aveva deciso di erogare.

La cronaca potrebbe concludersi a questo punto. Duemila licenziati in una provincia in cui si creano solo 350 nuove occasioni di lavoro industriale all’anno, senza contare l’apporto delle nuove leve, sono una cifra che […] grava pesantemente sull’economia della Sardegna.

Ma vi è un fatto nuovo. Mr. Finet, membro dell’Alta Autorità, viene in Italia per trattare e definire – dopo le preoccupanti notizie avute – i problemi ancora in sospeso. E’ il 20 dicembre. Prescindiamo dal fatto che i ministri Cortese e Vigorelli sono irreperibili e Mr. Finet non viene ricevuto se non dopo qualche giorno. Il grave è che, mentre Finet parla del Sulcis, il ministro preme distrattamente un bottone ed un funzionario solerte reca un manifesto (da pubblicarsi tra Natale e Capodanno) in cui si annunciano altri ottocento licenziamenti. Di fronte a questa sconcertante risposta alle premure per i lavoratori del Sulcis il rappresentante della Comunità assume un atteggiamento di dura fermezza ed il ministro Cortese sospende per un po’ la pratica […].

Probabilmente la CECA citerà il governo italiano davanti alla Corte di Giustizia per la violazione del Trattato. Il governo, presieduto da un sardo, sarà sul banco degli imputati – purtroppo senza manette – ad ascoltare una requisitoria che in nome del diritto internazionale lo vorrà condannato a pagare i danni recati alla CECA.

Ma chi pagherà mai i danni compiuti alle spalle dei sardi di Carbonia se si pensa che sarebbe bastato che il Governo fosse meno pigro e incompetente per garantire loro la sicurezza del lavoro? Quale Corte, ci chiediamo soprattutto, giudicherà nell’interesse dell’Isola il delitto che è stato compiuto ai suoi danni? La risposta è ancora una volta, come davanti a tutte le ingiustizie e miserie che li opprimono, affidata ai Sardi pazienti ed obbedienti.

Come detto, nello stesso anno si tengono le elezioni amministrative, complessivamente senza infamia e senza gloria (o magari con qualche grammo di infamia più che di lode nella conta dei seggi conquistati): colpisce l’incapacità di presentare la lista comunale a Sassari (un consigliere si piazza alle provinciali), pare apprezzabile – nonostante l’attiva concorrenza (adesso formalmente socialista) di Gonario Pinna – il risultato nuorese (dei sette consiglieri eletti, uno – il sen. Mastino – sarà poi prescelto, per voto corale anche, seppure ritardato, democristiano, allo scranno sindacale, mentre alla Provincia due sono i seggi sardisti come premio degli oltre 18mila voti raccolti fra Barbagia, Baronia ed Ogliastra: eletti Mario Melis e Carmelo Floris); solo eletto a Cagliari è Giovanni Battista Melis un tempo accompagnato in Consiglio comunale da Anselmo Contu, ed uno l’eletto al Consiglio provinciale (Nicolò Mura).

 

1957, Ugo La Malfa e i Quattro Mori

Certamente è però il congresso regionale dell’aprile 1957, ancora all’Ariston di Cagliari, l’evento di maggior rilievo per il PSd’A che davanti a sé ha la doppia problematica prova del rinnovo consiliare regionale e di quello parlamentare.

Tutta una serie di sondaggi condotti discretamente dalle due parti – e di cui è testimonianza documentale l’archivio Puddu – fanno ipotizzare che, per palesi ragioni di convenienza elettorale sostenute comunque da una prossimità ideale e politica, non soltanto per Mazzini e Cattaneo ma anche per il futuro centro-sinistra e il piano di Rinascita che dovrà venire –, una intesa fra Partito Repubblicano Italiano e Partito Sardo d’Azione possa formalizzarsi, dando plastica evidenza ad una fraternità che rimonta al 1921 e si è rinsaldata nel 1924, nell’antifascismo, nella battaglia per la Repubblica e l’Autonomia speciale e anche nelle numerose gare elettorali politiche e amministrative (con candidati repubblicani nelle liste dei Quattro Mori). Per questo Ugo La Malfa – che con Giovanni Battista Melis si conosce dal 1928, dai tempi della comune carcerazione antifascista a San Vittore – è presente con Max Salvadori (fratello di Joyce Lussu) nella sala dell’Ariston. Fra repubblicani e radicali ormai si va a un’intesa programmata alle politiche del 1958, e l’ideale sarebbe aggregare anche il PSd’A – dominus assoluto della coalizione nell’Isola – e dar corpo ad una terza forza democratica e riformatrice non socialista, di cultura autonomista.

Una certa prossimità alle speranze della piccola coalizione è presente nella mozione finale del congresso all’ottavo alinea in cui si individua «nella propria interpretazione politica delle esigenze di progresso economico e sociale dell’Isola, il punto di incontro delle forze democratiche laiche sarde»: così «nella prospettiva di una unificazione sardista che rappresenta in Sardegna quella alternativa di governo alla DC che le forze politiche italiane ricercano nella confluenza delle forze democratiche di sinistra.

In quanto a Marcello Tuveri egli viene rieletto nel consiglio regionale del partito come rappresentante del mandamento di Pula.

S’è già ricordato: le elezioni di giugno (1957) segnano un ulteriore decremento rispetto al turno del 1953 e anche rispetto alle provinciali del 1956; gli eletti all’Assemblea legislativa dell’Isola sono ancora due nel collegio di Cagliari (o Cagliari-Oristano), due in quello di Nuoro ed uno in quello di Sassari.

L’elezione di Efisio Corrias alla presidenza di quell’Assemblea, all’indomani del voto, fa sperare che la DC – affidatasi a menti più aperte – sia pronta ad abbandonare la sotterranea alleanza con le destre. In questo senso si pone l’iniziativa sardista di cui Tuveri – che è membro del consiglio direttivo della sezione di Cagliari (composto anche da Giuseppe Marongiu, Antonio Cao, Ciro Napoli, Antonio Murtas, Giomaria Manunta e Sergio Bellisai, con Emilio Fadda segretario politico) – è coprotagonista, insieme con Pietro Melis e Piero Soggiu, di alcuni abboccamenti con i democristiani (per numero soverchiante in Consiglio regionale) al fine di rilanciare un’alleanza di governo.

La delegazione porta all’incontro la mozione approvata dal congresso concluso da appena alcune settimane in cui hanno spazio – per quanto si sia trattato di un congresso più di riflessione organizzativa che di elaborazione e proposta programmatica – le questioni del rinforzo autonomistico della Regione nel confronto con l’Amministrazione centrale dei ministeri (ad esempio sulle fonti di entrata), del controllo sugli atti degli enti locali, dell’istituzione di enti decentrati (sul tipo dei trascorsi circondari) e dell’avvio di quel programma di Rinascita richiamato dallo Statuto, ecc. L’orientamento (o la decisione) della Balena bianca di confermare alla guida dell’esecutivo, anche nella nuova legislatura, il prof. Brotzu preclude però ogni ulteriore impegno del PSd’A. La discussione interna al consiglio regionale del partito è accesa, molto partecipata. E fra gli intervenuti è anche Tuveri. Conclusione: non possumus. Sicché la giunta che va al voto della fiducia consiliare (ricevendolo anche da sette monarchici e tre missini) è ancora un monocolore democristiano.

 

1958, l’orizzonte Adriano Olivetti

E’ ancora un anno di passaggio, ancorché sembri delineare una prospettiva che presto si tradurrà in cose, il 1958. Lo stesso ritorno sardista a responsabilità di giunta, a novembre, nel bicolore presieduto da Efisio Corrias – sarà per mille giorni – dopo la conclusione della lunga stagione Brotzu (con Pietro Melis adesso all’Industria e commercio ed Anselmo Contu ai Trasporti, viabilità e turismo), e i più avanzati adempimenti elaborativi della attesa legge di Rinascita, ne sono la prova. Ma per intanto si tratta di decidere come posizionare il PSd’A alle elezioni politiche convocate per fine maggio. E Marcello Tuveri partecipa attivamente alle decisioni accompagnandole con tutta una serie di articoli che escono nei primi mesi dell’anno su Il Solco il quale, finalmente con riconquistata regolarità, dalla tipografia raggiunge la militanza e quella parte di opinione sociale (ed elettorale) da cui si spera d’ottenere attenzione e consenso.

Salvatore Cubeddu, compulsando pazientemente gli archivi del PSd’A e di Giovanni Battista Melis confluiti fortunatamente negli spazi della Fondazione Sardinia, ha offerto una dettagliata ricostruzione delle fasi preparatorie della alleanza che infine il PSd’A sottoscrive con Comunità e il Partito dei contadini. Per parte mia, conosco le carte dell’archivio Puddu, che pure registrano i tentativi esperiti dai repubblicani, e da Ugo La Malfa in primo luogo, per concludere l’intesa elettorale condividendo il simbolo dell’Edera (così come avverrà nel 1963 e che varrà il ritorno a Montecitorio dell’on. Melis).

Sembra – a dirla in breve – che infine la questione del simbolo sia dirimente: i sardisti non rinunciano al loro simbolo, ancorché esso sia graficamente ridimensionato in una compresenza con la campana (con cartiglio) olivettiana e gli altri dei contadini e dei “gruppi autonomisti”: scudo con grappolo d’uva, vanga, spiga e ramo d’olivo, stilizzazione d’una fabbrica con ciminiera (il che indurrà qualcuno a scherzare, senza malignità, sulla … pizza alle quattro stagioni od ai quattro formaggi).

Certo è comunque che i primi contatti con Comunità avvengono già alla fine del 1957 e che nelle settimane a seguire si dettaglia il programma che naturalmente riguarda la Sardegna ma non soltanto la Sardegna: «istituzione delle regioni… nel quadro dell’Unità nazionale», «riforma della legge comunale e provinciale», «creazione di un ministero della Pianificazione Urbana e Rurale», «attuazione di una politica agricola italiana… soprattutto in vista degli irrimandabili problemi posti dal Mercato Comune», «decentralizzazione e democratizzazione del potere economico, attraverso la creazione di Fondazioni autonome di diritto pubblico a fini sociali, culturali e scientifici, comproprietarie dei grandi complessi monopolistici, ivi compresi quelli appartenenti allo Stato», «difesa della libertà sindacale», «rinnovamento della Scuola in vista delle necessità di una moderna società europea», «riconoscimento della necessità del dialogo tra Occidente ed Oriente, come precisa e attiva vocazione europea»… Ogni titolo è ovviamente accompagnato da una espansione argomentativa che nobilita idee e proposte.

Non sarà, purtroppo, una carta fortunata: nobile sì, ma sfortunata. Solo eletto sarà Adriano Olivetti (e alla sua morte ne prenderà il seggio il prof. Franco Ferrarotti), non ce la fa Giovanni Battista Melis, capolista nell’Isola, accompagnato certamente da largo consenso, direi affettivo e non soltanto ideale o politico, ma purtroppo – per il “peso” elettorale – insufficiente.

Marcello Tuveri, come detto, presidia la speranza di successo con tutta una serie di articoli sulla nuova serie de Il Solco che tendono, per il più, a illustrare il programma politico condiviso dai sardi (e sardisti) con i continentali piemontesi e non soltanto piemontesi.

 

Gli articoli su “Il Solco”… olivettiano

Si tratta, per la precisione, di sette contributi che escono tutti in prima pagina – più spesso come fondi o come spalle – dal 23 febbraio al 27 aprile.

Questi i titoli: “Autonomia e coscienza democratica” (n. 4, 23 febbraio 1958); “Punti d’incontro: sul nostro programma” (n. 6, 9 marzo); “La libertà sindacale: sul nostro programma” (n. 8, 23 marzo); “Tempo di bilanci e di prospettive: per la scadenza del 25 maggio” (n. 9, 30 marzo); “Noi e i Socialisti” (n. 11, 13 aprile); “Autonomia e federalismo: sul nostro programma” (n. 12, 20 aprile); “Democrazia elettorale” (n. 13, 27 aprile).

Meriterà un giorno pubblicare l’intera raccolta come documento-prova di cosa sia stato, per la generosità idealistica prima ancora che politica, l’esperienza dell’alleanza con Comunità e l’affascinata partecipazione allo specifico visionario eporediese.

Soltanto ai fini di sorta di rappresentazione simbolica o allusiva di idee e sentimenti propongo qui di seguito, di ciascun articolo, uno stralcio brevissimo, a mo’ di rapida antologia.

da “Autonomia e coscienza democratica”:

… L’esigenza autonomistica ha trovato, nel documento che andiamo commentando, il rilievo che merita a tutti i livelli: istituzione delle Regioni, riorganizzazione delle Provincie, antistoriche e antifunzionali, ripartizioni del territorio in distretti amministrativi minori e più efficienti, autonomia dei Comuni e lotta all’accentramento burocratico con la riforma delle leggi comunali e provinciali […]. Nessun richiamo alle strutture del potere pubblico poteva essere più corretto e di più evidente attualità. Senza i motivi tattici cari all’estrema sinistra, si chiede l’attuazione della parte più tradita della Costituzione Repubblicana: il titolo quinto delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni.

La battaglia per la rivalutazione delle tradizioni civiche dell’Italia, per l’accostamento del governo ai governati, ha avuto la concreta affermazione che merita e costituisce, per noi Sardisti, la riprova della universalità della nostra azione nei decenni scorsi.

L’autonomismo, così seriamente riaffermato, garantisce che gli aspetti sociali ed economici di politica interna ed internazionale, che hanno formato oggetto della dichiarazione di “Comunità della cultura, degli operai e dei contadini” saranno impostati nella più umana misura della giustizia e della libertà.

da “Punti d’incontro: sul nostro programma”:

Il binomio piena occupazione e industrializzazione è di grande attualità per tutte le zone depresse. La Sardegna, in ispecie, ha sofferto sempre della condizione coloniale in cui lo Stato la ha costretta, per cui i fattori di debolezza politica hanno negativamente influito nel suo sviluppo economico.

Ma la pianificazione, come le antiche e recenti sanguinose esperienze dell’Europa orientale ci insegnano, conosce una logica democratica e una logica totalitaria. Per questo l’auspicato piano, pur dotato di nuovi e potenti strumenti tecnici e organizzativi, dovrà essere intimamente innestato sulla realtà e la struttura democratica delle comunità locali.

Un piano che produca una radicale modificazione del volto del Paese non può non tener conto delle strozzature economiche tra Nord e Sud. Deve avere anzi, come obiettivo principale, l’elevazione del livello sociale del Mezzogiorno.

 

In tal modo si risponde alla fondamentale esigenza di equilibrare il quadro della economia nazionale, di risolvere correttamente un problema di giustizia che da troppo tempo attende la sua soluzione e, nel caso della Sardegna, di non tradire il chiaro dettato costituzionale sancito nell’art. 13 dello Statuto speciale […].

I combattenti sardi sentirono, dice il programma del primo congresso del Partito Sardo, come primo imperioso dovere, la lotta «per l’emancipazione della Regione Sarda e del lavoratore Sardo. Da questa parziale emancipazione la loro aspirazione risalì alla piena emancipazione della nazione e del cittadino italiano, del lavoratore di ogni paese, dell’uomo».

Dimenticano [i socialisti] soprattutto che le ragioni della scissione lussiana del 1948 non sono da ricercarsi nei “collegamenti”, ma in quella politica ultrafrontista che ha portato molti socialsardisti all’avanguardia di un orientamento filosovietico ed alla retroguardia del movimento operaio italiano.

 

da “La libertà sindacale: sul nostro programma”:

 

… la lotta su scala aziendale per una politica economica di alti salari sollecita il datore di lavoro al progresso tecnologico ed umano dell’impresa, sia agricola che industriale. L’azione sindacale perché non sia rivolta alla continuazione della spirale inflazionistica salari-prezzi, prezzi-salari, deve poggiarsi saldamente sul regime produttivo dell’impresa.

 

Il completamento di una simile visione della azione sindacale non può ritrovarsi che in un nuovo modo di concepire il lavoratore: non più una merce, un elemento oggettivo, assieme al capitale ed alle materie prime, ma come soggetto, individuo dotato di personalità, cui va riconosciuto il diritto di inserirsi attivamente e con tutte le sue capacità nel processo produttivo.

 

Per concludere si può dire che solo la promozione di una autentica democrazia aziendale o industriale, che sia funzionale e non patriarcale, può modificare il rapporto di tensione sindacale che caratterizza da molti anni il nostro Paese. Su questa base l’azionariato operaio e la partecipazione agli utili delle aziende sono strumenti che, senza legare lo slancio dei lavoratori, possono contribuire alla instaurazione di una vera pace sociale nella società del nostro tempo.

 

da “Tempo di bilanci e di prospettive: per la scadenza del 25 maggio”:

 

Le elezioni del 7 giugno 1953 si erano concluse con una illuminante sconfitta del centro democratico. Il fallimento della legge maggioritaria dimostrò l’inutilità della formula centrista. Il Partito sardo, svincolato dall’alleanza con la DC, una settimana dopo le elezioni politiche, accresceva i suffragi popolari di circa il 70 per cento. Questa modesta ma sintomatica dimostrazione della difficoltà di allearsi col partito democristiano doveva trovare verifica due anni più tardi, sul piano di governo. La Giunta autonomistica dell’on. Alfredo Corrias, nella quale i sardisti erano riusciti ad imporre una linea di franca rivendicazione dei diritti dell’Isola veniva posta in crisi da quanti nella DC non accettavano un efficace condizionamento sardista.

 

Alla fine della formula centrista ed alla dimostrazione della sua introducibilità sul piano autonomistico […] doveva seguire un’altra valida esperienza. Otto sono stati i governi ed i tentativi di formare un governo al centro, le tre giunte regionali in Sardegna, negli scorsi cinque anni. A Roma ed a Cagliari la DC disponeva della maggiorana relativa.

 

In campo nazionale e in campo regionale il “monocolore” ha acuito il cannibalismo tra le correnti che si agitano nel pluripartito di maggioranza. Il Paese ha capito così che le difficoltà di essere governato non sono da imputarsi alle eccessive pretese dei “minori”, ma alla impossibilità per il partito (maggiore) di fare qualunque scelta senza rischiare di spezzarsi in più parti […].

 

Certo, negli scorsi cinque anni, sono aumentati il reddito nazionale, la produzione e i consumi. Ma l’incremento di reddito, finito nelle tasche degli imprenditori, l’aumento della produzione cui non è corrisposto il dovuto aumento salariale, e la diffusione di certi consumi, che hanno accresciuto la distanza tra Nord e Sud, non rappresentano un indice di sicurezza economica e sociale […]. E’ vero che si è realizzata l’estensione della assistenza a categorie finora escluse da ogni solidarietà sociale (sussidio di disoccupazione ai braccianti agricoli, assistenza sanitaria ai coltivatori diretti ed agli artigiani, assicurazione per l’invalidità e vecchiaia a coltivatori diretti, mezzadri e coloni). Non dobbiamo dimenticare, però, che l’aumento delle spese per la previdenza e l’assistenza non è stato realizzato ricorrendo ad un diretto prelievo sul reddito degli abbienti, ma ad un aumento degli oneri riflessi a danno della popolazione lavoratrice. E’ stata fornita ai datori di lavoro la possibilità di evadere dal loro dovere verso la comunità nazionale, ricorrendo all’incremento dei contributi assicurativi, vale a dire facendo gravare sui lavoratori le spese che vanno a vantaggio di altri lavoratori e diminuendo in pratica la possibilità di migliorare i salari…

 

da “Noi e i Socialisti”:

 

Ogni volta che intraprendiamo un dialogo con forze politiche democratiche sentiamo il bisogno di ricercare i punti di intesa piuttosto che gli elementi di contrasto.

 

Nonostante questo nostro impegno dobbiamo dire con estrema chiarezza che la versione data dai socialisti sardi, ed avallata dalla Direzione del PSI, per giustificare il collegamento nelle elezioni per il Senato col Partito Comunista non ci convince affatto.

 

I Sardisti avevano esplicitamente offerto un nuovo modo di intendere la lotta politica quando, nell’accordo con il Movimento Comunità e con il Partito dei Contadini, dichiaravano che un nuovo equilibrio politico non si sarebbe potuto raggiungere in Italia «se non facendo convergere su una concreta base programmatica di rinnovamento delle strutture e delle istituzioni, le forze repubblicane, cattoliche e socialiste autenticamente democratiche» […].

 

I socialisti hanno risposto a questa proposta apertura con un atteggiamento frontista, giustificando l’alleanza col PCI con la necessità di non perdere quel seggio senatoriale che, casualmente, è occupato dal più tenace avversario dell’autonomia socialista dentro il PSI.

 

Non è la prima volta che ci troviamo costretti ad indicare le carenze del PSI in Sardegna rispetto non solo alle esigenze della classe operaia dell’Isola (si veda il problema di Carbonia e, più in generale, l’assenza della rappresentanza parlamentare nelle battaglie di fondo per l’autonomia), ma persino nei confronti delle più avanzate posizioni che i socialisti italiani sono venuti assumendo dopo il XX Congresso del PCUS e soprattutto dopo i fatti di Ungheria […].

 

Ancora una volta i socialisti sardi hanno perso una buona occasione per dimostrare che non subiscono il condizionamento del PCI in ogni loro atto politico. Né può trascurarsi che l’alleanza frontista che denunciamo giunge a pochi mesi di distanza dal sabotaggio di una Giunta regionale di apertura autonomistica quale i sardisti proponevano nello scorso luglio. E’ trascorso troppo poco tempo perché i fatti che hanno portato alla formazione della attuale Giunta democristiana-monarchico-fascista ed al fallimento del governo regionale francamente autonomista che noi volevamo per dare un vigoroso impulso alla rinascita dell’Isola, abbiano bisogno di una estesa citazione. I sardisti, superato il centrismo, avevano proposto allora una alleanza che dai socialisti giungesse attraverso loro ed il consigliere socialdemocratico, sino ai democristiani, con la esclusione delle estreme dello schieramento politico consiliare.

 

La parte più progressista della Democrazia Cristiana era disposta, piuttosto che accettare il vergognoso e ben pagato ricatto della destra economica ed antiautonomistica, a muoversi in questa direzione. All’incontro, sul piano delle trattive, mancò, come è a tutti noto, una seria volontà della maggioranza dc, ma un solido aiuto al fallimento della Giunta di apertura autonomistica o di centro-sinistra, che dir si voglia, venne offerto proprio dai socialisti che negarono ogni possibilità di accordo non tanto con i democristiani quanto con i sardisti…

 

da “Autonomia e federalismo: sul nostro programma”:

 

Il federalismo per i sardi è un orientamento antico. Può dirsi che ha origine col sorgere dello stesso Partito Sardo, alla fine della prima guerra mondiale. Filtrato attraverso lo studio del pensiero risorgimentale, trovò nella amara esperienza di due conflitti che, in mezzo secolo, hanno portato l’Europa alla decadenza, la dimostrazione della sua attualità politica.

 

Era la stessa componente risorgimentale che, invero, indicava nell’autonomia regionale il primo passo verso la Federazione dei popoli europei. Lo Stato nazionale caratterizzato dall’uniformismo dispotico e accentratore, doveva, nel disegno ancora attuale dei primi sardisti, essere reciso alla base con il sorgere delle autonomie regionali […].

 

“Comunità della cultura, degli operai e dei contadini” ha riaffermato nel programma coerentemente alla tradizione dei sardisti e dei comunitari, la necessità di concepire «un piano di organizzazione istituzionale delle libertà, affidato al controllo popolare e svolto nella prospettiva di una libera Europa federale». Non si fa cosmopolitismo di maniera quando si lega l’ideale di una grande Patria europea al concreto avvenire della piccola Patria sarda. Si prende atto di una realtà: lo Stato nazionale è troppo piccolo per far fronte alle esigenze del momento internazionale, è troppo grande per corrispondere con la sua organizzazione accentrata, ai bisogni di entità regionali […].

 

Queste affermazioni, implicite in tanta parte dell’azione sardista, che alla base ed al vertice ha sempre perseguito ideali federalisti e pacifisti, giungono a matura formulazione mentre tutta la sinistra democratica europea intensifica i suoi sforzi per allontanare sempre più il pericolo di un conflitto.

 

Per questo, oggi, con senso di sano orgoglio si può affermare che il voto dato ai sardisti il 25 maggio significherà, oltre che progresso per la Sardegna e rafforzamento della democrazia progressista italiana, collocazione della propria aspirazione al fianco dei partiti della sinistra europea che combattono per la pace in Europa e nel mondo.

 

da “Democrazia elettorale”:

 

Con 49 punti, sei capitoli, un preambolo ed una perorazione, la Democrazia Cristiana è riuscita, colmando una intera pagina del suo quotidiano, a dare al Paese la conferma della sua timidezza sociale e del tipo di chiarificazione politica che può attendersi da un rafforzamento delle sue posizioni.

 

Presentato da Fanfani il programma elettorale dei democristiani assume, poi, il significato che è proprio di questa figura di corporativista che governa con l’apparato la volontà di una base non priva di tensioni politiche democratiche.

 

Generico ed astratto in talune parti, quale “la difesa della civiltà italiana” e della sua “efficace presenza nel mondo”, pignolescamente dettagliato in altre, come nella elencazione dei mezzi per integrare l’istruzione, il programma è il risultato dell’opera di una commissione di 102 notabili del partito di maggioranza […].

 

Non mancano in tutto il complesso e prolisso programma spunti felici in materia di previdenza e assistenza sanitaria e, come si è detto, in materia scolastica. Tutt’altro che convincenti appaiono, invece, gli accenni alla lotta contro le evasioni fiscali specie se si tengono le esenzioni illegittimamente concesse del ministro Andreotti a taluni rappresentanti della aristocrazia clericale.

 

Ma l’aspetto più grave del programma, e quello che ci fa apparire sempre più difficile la battaglia che taluni gruppi avanzati combattono nell’interno della DC, è dato da un altro fatto: Fanfani mantiene viva la pretesa di non chiarire con quali forze intende condurre in futuro l’attività di governo, ma richiede al popolo soltanto una maggioranza stabile […].

 

La conclusione che deve trarsi dalla presentazione al Paese di quel partito è evidente. La DC era con De Gasperi “un partito di centro che marciava verso sinistra”. La linea di Fanfani ci convince che è divenuto un partito di centro che marcia verso destra e verso sinistra, dunque dovunque la brama di mantenere il potere ad ogni costo che anima il suo leader che la conduce.

 

Firma Mistortu

Questi gli articoli usciti nella stessa nuova serie de Il Solco dell’annata 1958 a firma di Mistortu, lo pseudonimo che Marcello adotterà in diverse altre circostanze: “Bovarismo politico”, nel n. 1 del 1° settembre; “Partito “di” Cattolici e non “dei” Cattolici”, nel n. 3 del 16 febbraio; “Antologia del sardismo”, nel n. 11 del 13 aprile (qui una nata introduce a uno stralcio da Il Popolo sardo del marzo 1923 titolato “Il programma di Macomer”). Non firmati ma da intendersi curati dalla stessa mano e con l’occhiello “Antologia del sardismo” sono altre due uscite: quella titolata “L’autonomia” e quella titolata “La relazione Bellieni al II Congresso del Partito Sardo”, rispettivamente nel n. 12 del 20 aprile e nel n. 13 del 27 aprile.

 

Ecco di seguito alcuni stralci dei diversi contributi:

 

da “Bovarismo politico”:

 

Il primo nemico al quale dobbiamo far fronte noi del Partito Sardo è la capacità di molti nostri avversari nel frastornare e circuire l’elettore. Si lega ed impegna con la promessa di un posto il disoccupato, si assicura il contributo fondiario e giù giù sino al pacco laurino con fotografia di Umberto Savoia.

 

La corruzione degli elettori, specie in una zona depressa come la Sardegna, non ha l’aspetto spicciolo e contingente che ciascuno di noi può osservare dall’angolo visuale del suo paese o del suo quartiere. E’ un fenomeno di malcostume divenuto ormai fattore determinante delle nostre vicende passate e destinato ad esercitare ancora un notevole peso sull’avvenire dell’Isola che, non disponendo di una propria rilevante forza economica, subisce costantemente un orientamento di governo a sé sfavorevole. In una parola la facilità di acquisto di un grande numero di voti è una amara conferma degli effetti di dominazione che le altre regioni esercitano sulla Sardegna.

 

L’altro pericoloso avversario al quale dobbiamo tener testa è il bovarismo politico. «Siete troppo pochi, vi fate sentire poco, non avete mezzi per farvi ascoltare» sono tutte espressioni che, assieme al quasi immancabile plauso per la tenacia e serietà dei sardisti nel proseguire da soli la battaglia della Sardegna, ci costringono ad esaminare uno stato d’animo tipico di questa nostra povera provincia nella già provinciale Italia.

 

Si tratta di uno stato d’animo così abilmente diffuso e sostenuto dagli avversari dei partiti nazionali da divenire ad un certo punto un riflesso condizionato (Partito Sardo d’Azione = scarsa possibilità di successo = quindi voto sprecato).

 

La prima e più forte causa di questo orientamento non può, per amore di Partito, essere trascurata: certamente i sardisti hanno pochissimi mezzi per farsi ascoltare, poche tribune da cui parlare, nessun giornale che li affianchi etc. etc.

 

Oltre i limiti di tale condizionamento fisico vi sono però altri fattori non meno importanti di natura prettamente psicologica. Il più sorprendente elemento di valutazione, nei nostri contatti con l’uomo della strada, è certamente il malcelato fastidio con cui molti sardi, pur ammettendo la situazione umana mortificante del nostro popolo, accolgono il sardismo. Intendiamoci: non viene schifata la meccanica contrapposizione di dati statistici riguardanti la Sardegna e le altre regioni d’Italia, ma proprio la più importante sottolineatura del nostro programma: fare della Sardegna una regione italiana, partecipe della vita dell’occidente europeo.

 

Il muro di scetticismo che si crea tra il Partito Sardo e l’uomo della strada è un male, come si accennava, tipicamente provinciale: il bisogno di grandi cose, magari astratte ed inutili, irraggiungibili e mitiche, al confronto con le quali la battaglia di civiltà che noi combattiamo appare, a torto, una questione secondaria e localmente limitata.

 

Una molla analoga muoveva i ceti medi italiani durante il Fascismo: non ce la facevano con lo stipendio di fame, ma invece di lottare per procurarsi un aumento, ambiziosi e smaniosi di successo com’erano, speravano di diventare qualcosa inserendo la loro miserabile vita di ogni giorno nell’avventura imperialistica. Un fatto non dissimile ha reso breve la stagione neorealistica nell’arte e nei film del nostro Stato: il fastidio di dover ripresentare anche nell’opera artistica o rappresentativa la realtà, ha dirottato il gusto verso evasive ed edulcorate manifestazioni straniere.

 

I tempi sono cambiati e la Sardegna diviene sempre più la appendice misera di un paese squinternato; ma il sogno della eroina di Flaubert continua nel nostro prossimo, continua in noi, col desiderio di inesprimibili cose che ci portino lontano dalla realtà di ogni giorno, dalla fatica di una analisi concreta del nostro tempo politico […].

 

Il Partito Sardo subisce più di qualunque forza politica il peso di questo dispersivo bisogno di soddisfare bovaristicamente le proprie aspirazioni eludendo la realtà sociale. La condanna a tale mentalità che ha trovato nel qualunquismo (150.000 voti) e nel laurismo (60mila voti) manifestazioni così penose da far riflettere sulla presunta “serietà” dei sardi, non può venire, però, dal Partito Sardo…

 

da “Partito ‘di’ Cattolici e non ‘dei’ Cattolici”:

 

Il 29 dicembre Mons. Paolo Botto, Arcivescovo di Cagliari, nel ricevere i dirigenti dell’Azione Cattolica della Diocesi ha rivolto loro, rispondendo agli auguri per il nuovo anno, un discorso di cui vale la pena di far cenno.

 

Dopo aver ricordato le funzioni della A.C. come organizzazione dei laici al servizio della Gerarchia ecclesiastica, l’Arcivescovo ha ritenuto opportuno dichiarare che la Democrazia Cristiana non è “il” partito dei cattolici, ma “un” partito di cattolici.

 

Non può sfuggire a nessuno l’importanza della affermazione dell’Ordinario di Cagliari. Ci chiediamo, pertanto, se Mons. Botto ha inteso, con il discorso accennato, affermare la legittimità dell’Azione Cattolica ad operare direttamente sul piano politico, oltre che svolgere l’apostolato che tradizionalmente le compete, ovvero ha voluto salvaguardare la Chiesa e la Gerarchia che ne è a capo da una diretta commistione negli affari politici.

 

Nel primo caso corre l’obbligo per dei democratici di ricordare che, a norma del Concordato, l’Azione Cattolica Italiana e le organizzazioni dipendenti sono riconosciute dalla Stato, nel senso di lecite e permesse, «in quanto esse, siccome la S. Sede ha disposto, svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico» (Art. 43 del Concordato approvato con Legge 27 maggio 1929 n. 810).

 

Fuori di ogni tentativo di forzata e quindi irriguardosa interpretazione ci pare opportuno ritenere che Monsignor Arcivescovo abbia voluto, invece, precedendo sullo stesso piano l’articolo che qualche settimana dopo scriveva sui giornali dell’A.C. il Cardinale Ottaviani, distinguere le due sfere dello spirituale e del temporale, in un momento in cui lo zelo di certi cattolici politici sembra volerle confondere a tutto danno della religione…

 

da “Antologia del sardismo”:

 

Abbiamo sempre affermato, un po’ orgogliosamente, di non seguire testi sacri su cui sofisticare. La nostra testimonianza si è svolta in un paese che spesso si lascia dilaniare da dogmatismi ideologici e trascura i dati della esperienza.

 

Pure il Partito Sardo d’Azione, nel quale militiamo, è venuto elaborando una sua ideologia che, nata dai fatti e forte di costanti verifiche storiche, si è andata svolgendo ed elaborando entro linee di indubbio interesse generale. Riteniamo perciò di fare cosa utile riportando su queste colonne alcuni brani delle più importanti posizioni politiche assunte dal Partito. La stretta connessione dell’azione col pensiero che, con corretto procedimento culturale, si volle mantenere vivo ed aderente alla realtà dei tempi, un certo eclettismo, che polemicamente si contrapponeva al manicheismo delle diverse confessioni, non hanno consentito agli uomini del Partito Sardo d’Azione di formulare teoriche complete e saggi imponenti. Tuttavia le loro posizioni hanno raggiunto un risultato ben più importante: hanno dato ad un popolo la coscienza della propria soggettività e hanno dato un istituto autonomistico sul quale il popolo sardo, se lo vorrà, potrà far correre il proprio avvenire civile. Dovunque volgiamo la nostra attenzione troveremo uomini politici che si sono formati a questa strana scuola senza maestri e senza discepoli […].

 

Ai brani della nostra antologia sardista, che pubblichiamo da questo numero, non aggiungeremo commenti. Nella nostra umile fatica sentiamo di non poter ripetere l’errore dello storico delle dottrine politiche che, invece di raccogliere posizioni dottrinarie, inventa il pensiero altrui…

 

S’affaccia la politica di piano

 

Negli anni di passaggio fra ’50 e ’60 la Sardegna registra una graduale avanzata verso la sua modernizzazione grazie anche alle aperture che, sul piano politico, essa riesce ad imbastire e che, non senza contraddizioni, hanno un pendant in campo nazionale, con il progressivo avvio delle alleanze di centro-sinistra. Sicché la politica di programmazione – introdotta dalla famosa “Nota aggiuntiva” al bilancio dello Stato del 1962, depositata in Parlamento dal ministro del Bilancio Ugo La Malfa – e quella della Rinascita, esito di lunghe elaborazioni avviate negli anni ’50 tanto più nell’Isola stessa, in qualche modo si incroceranno. E se limiti vi saranno nella pratica attuazione degli indirizzi programmatori – e ve ne saranno anche di importanti – è pur vero che la società sarda conoscerà una nuova storia di sviluppo.

 

In tale quadro Marcello Tuveri dirigente del Partito Sardo d’Azione e “testa d’uovo” del sardismo donato al Centro di programmazione regionale sarà testimone e anche, con i suoi studi e le sue pubblicazioni, coprotagonista.

 

Ma è da ricordare che dal novembre 1958 il bicolore DC-PSd’A a presidenza Efisio Corrias chiude la terza legislativa ed apre la quarta, così per cinque anni pieni. Restano in posizioni eminenti, all’Industria e commercio Pietro Melis, e ai Trasporti, viabilità e turismo, e successivamente all’Igiene e sanità, Anselmo Contu.

 

Sarà dalla fine del 1963 un ancor maggiore coinvolgimento della sinistra: partecipa alla giunta inizialmente anche il PSDI, attraverso l’on. Cottoni. Dall’estate 1965, dopo il nuovo turno elettorale (che ha “liberato” il PSI dalla componente carrista lussiana ostile al centro-sinistra), finalmente anche i socialisti assumono, con gli onn. Peralda e Tocco, responsabilità dirette di governo.

 

Intanto con una legge del luglio 1962, nel contesto dell’indirizzo programmatorio avviato a livello nazionale e del coevo esordio della politica di Rinascita (e perciò della dotazione straordinaria di fondi statali per 400 miliardi di lire da spendere nell’arco di un dodicennio), la Regione si dota di un “polo elaborativo” denominato Centro Regionale di Programmazione: organo di supporto all’assessorato della Rinascita (denominato poi della Programmazione).

 

Nato virtuoso, riunendo competenze multidisciplinari, al Centro è chiamato fra i primi anche Marcello Tuveri, al tempo proveniente dagli uffici dell’università. D’altra parte già da tempo, a livello di partito, egli ha indirizzato molte delle sue energie a studiare le potenzialità che una politica di piano può manifestare per un riequilibrio socio-territoriale in uno allo sviluppo economico e civile. Così sullo scenario nazionale (ed ora, dopo i trattati di Roma, anche europeo) come su quello prettamente regionale.

 

Collaborando al mensile Il Bogino (che non a caso reca come sottotestata “cronache e prospettive della rinascita”) ha pubblicato diversi articoli e brevi saggi: nel 1960 “Aspetti organizzativi e istituzionali del Piano di Rinascita” (cf. 30 novembre), nel 1961 “Il sindacato” (cf. 31 marzo), “Piani di sviluppo in Italia” (cf. 30 aprile), “L’ente regione: libri e attualità” (cf. 30 giugno). Presto aggiungerà, di taglio piuttosto politico ma sempre riferito alla svolta programmatoria della politica nazionale e regionale, “I socialisti lombardi e l’autonomia regionale” (cf. gennaio 1962).

 

Di un qualche rilievo è la lunga (lunghissima) lettera al periodico romano Il Paradosso (nella sottotestata “rivista giovanile di cultura”) che Sardegna oggi, il bel quindicinale socialista condiretto a Cagliari da Sebastiano Dessanay e Antonello Satta, ospita nel suo numero del 15-31 dicembre 1962. Titolo “L’Autonomia come mezzo”.

 

Appartiene alla stessa stagione un rilevante articolo uscito su Il Mondo di Pannunzio, autorevole testata cui collaborano diversi sardi (da Giuseppe Fiori a Maria Giacobbe, da Salvatore Cambosu a Michelangelo Pira, ecc.): “400 miliardi per la Sardegna: il piano e la politica” (cf. 11 settembre 1962). Ad Ichnusa – il noto periodico diretto da Antonio Pigliaru – ha invece consegnato nel 1959 un intervento dal titolo “Un’indagine sul Montiferru” (cf. ottobre 1959).

 

L’impegno elaborativo in questi anni che, di Marcello, sono forse i più fertili è continuo come continuo è lo sforzo di collegare, in via biunivoca, le problematiche sarde a quelle nazionali, anche per la svolta politica che si prospetta e si fa sempre più vicina, a Roma, a favore del centro-sinistra. (Di tutto questo riferirò compiutamente nella seconda parte di questo mio contributo).

 

Potrebbe anche dirsi, e aggiungerlo alla bibliografia e repertorio pubblicistico, che il contributo alla materia – e in mix fra motivi giuridico-istituzionali sul regionalismo e motivi economici sullo sviluppo programmato –, a parte quanto anche rifluito nei quaderni La programmazione in Sardegna (usciti in numero di oltre 150), egli continuerà a fornire, talvolta anche rielaborando studi meritevoli di aggiornamento. Accennerò a qualcuno soltanto: “Una Regione da riformare” in Riforma della Regione e revisione dello Statuto, 1989; “Aspetti organizzativi e istituzionali del Piano di Rinascita” in La cultura della rinascita: politica e istituzioni in Sardegna (1950-1970), 1994; “I servizi tra pubblicizzazione e privatizzazione” in I Tempi, rivista di politica, cultura ed economia, 1999 (cf. marzo 1999); “La programmazione come utopia” in I limoni sono verdi di speranze: scritti in memoria di Antonio Cossu, 2005; “Metamorfosi del Piano di Rinascita” in La ricerca come passione: studi in onore di Lorenzo Del Piano, 2012 (si tratta di un corposo saggio d’una quarantina di documentatissime pagine).

 

Altri articoli e/o saggi brevi sono rifluiti sia in Ichnusa (nuova serie edita dalla Edes) che in Esse come Sardegna, il trimestrale fondato e diretto da Piercarlo Carta anch’esso alla fine del secolo scorso. (Ne darò diffusa e particolareggiata relazione nella terza parte di questo mio contributo).

 

Non tanto alla specifica tematica della programmazione ma all’impianto regionale e cioè ai propositi autonomistici (legislativi e amministrativi) del dopoguerra fa riferimento l’articolo “Autonomia, una esperienza tra luci ed ombre: il primo consiglio regionale della Sardegna fu eletto l’8 maggio 1949…” uscito in Almanacco di Cagliari 2000.

 

Accompagnando il Partito Sardo nella svolta

Rieletto nel consiglio regionale del PSd’A al congresso del 1957, il Nostro lo è anche al termine dei lavori dell’autunno del 1960, che vede la conferma di Giovanni Battista Melis alla segreteria politica. Incarichi direttivi egli conserva anche nei livelli cittadino e provinciale.

 

Certamente d’un qualche interesse, proprio anche con diretto riferimento alla sua militanza, è quanto testimonia l’indimenticato Virgilio Lai a proposito del gruppo detto “Azione sardista” che ha lasciato a Salvatore Cubeddu una ricostruzione fattuale e meditata.

 

L’approccio critico del gruppo (che coinvolge uomini – al tempo giovani uomini – di speciale ingegno, e anche cultura, come anche Sergio Bellisai, Paolo Pischedda, Enrico Montaldo, ecc.) è volto ad un partito laico e non autoreferenziale, di cultura radicale e moderna e portatore di una autorevolezza capace di tradursi, al di là dei numeri, in autentica leadership regionale. E’ per questo che viene presentato, al congresso del 1957, un documento destinato poi a divenire (ma mai diverrà) una rivista di dibattito: un testo, nella dimensione della “lettera aperta”, frutto di molte successive elaborazioni per i complessi richiami o le necessarie armonizzazioni fra la parola dei “padri fondatori” – fra essi inclusi i… continentali Salvemini e Dorso, accanto ai Bellieni e Fancello – e le urgenze del momento: «Le firme sono indicative di un clima di incertezza e confusione dovute, probabilmente, all’assillo di prendere decisioni su due piedi. Per dare un’idea sia pure vaga di alcune differenze esistenti tra le nostre posizioni, si pensi che Brusco, Mele e Ruju consideravano prioritario il problema dell’organizzazione e del cambio generazionale del partito, mentre noi di “Azione” e Marcello Tuveri ritenevamo indispensabile prioritariamente risolvere l’aspetto politico della vita del partito. I sottoscrittori di questo nuovo documento […] furono Bastianino Brusco, Mario Cannas, Marco Diliberto, Viriglio Lai, Nino Mele, Michelangelo Pira, Paolo Pischedda, Nino Ruju e Marcello Tuveri».

 

Il XIII congresso regionale, le elezioni amministrative di fine 1960 (46.130 i voti alle provinciali e percentuale del 6,9), quelle regionali del giugno 1961 (con la sigla anche del PRI nella scheda dei Quattro Mori) che marcano una certa ripresa di consenso e assicurano la conferma numerica dei consiglieri eletti. Questi gli appuntamenti di maggior impatto del PSd’A nel passaggio di decennio.

 

L’operazione politica che va prendendo corpo nel quinquennio che separa il turno elettorale-parlamentare del 1958 (alleanza con Olivetti) da quello successivo del 1963 (alleanza con il PRI di Oronzo Reale e Ugo La Malfa), combinandosi con la svolta storica nella politica isolana per l’avvenuta approvazione della legge 588/1962 del piano di Rinascita e nel maggior quadro delle aperture di centro-sinistra e dell’avvio della programmazione nazionale, è complessa e graduale, ideale e sentimentale, non soltanto d’algida contabilità elettorale.

 

Vedendola dalla parte del PRI, pendant Tuveri-Puddu

Fra le numerose iniziative assunte dai repubblicani o cui il PRI sardo partecipa a sostegno di un Piano di Rinascita “regionalizzato” è da ricordare quella che il 15 maggio 1960 si svolge presso la sede cagliaritana degli Amici del libro. Riferendone sulla prima pagina del 21 maggio, La Voce Repubblicana rileva la stretta collaborazione della segreteria regionale dell’Edera con il gruppo parlamentare di Montecitorio, auspicando un più collaborativo impegno da parte democristiana (e cislina) onde ottenere l’atteso risultato (cf. “Necessità di approvare senza indugio il piano di rinascita della Sardegna”, e già il 16.17 maggio 1960 “Chiesta la presentazione in Parlamento della legge sul piano di rinascita sarda”).

 

Di questi temi il PRI è stato investito già al suo XXVII congresso nazionale (marzo, Bologna). Schierato decisamente con la maggioranza di Reale e La Malfa, il giovane segretario sardo Lello Puddu richiama i voti tradizionali del repubblicanesimo sardo per la riforma autonomistica dello Stato (oltreché per quella scolastica e la pubblicizzazione delle fonti energetiche).

 

Forse non è casuale, ma diretta conseguenza degli orientamenti ufficiali del PRI, l’iniziativa assunta da Giovanni Battista Melis di «contatti politici e forse di una linea comune», di cui Ugo La Malfa, destinatario del messaggio del leader sardista, rende edotto Puddu, invitato a seguire gli eventi ed a ragguagliarlo (così come sui movimenti di Francesco Cocco Ortu, che rappresenta l’anima progressista del liberalismo sardo e nazionale).

 

Sarà ancora Puddu, sulla prima pagina de La Voce Repubblicana del 13.14 dicembre – titolo dell’articolo “Che cosa accade in Sardegna?” –, a riportare gli interessi isolani, e segnatamente quelli che s’identificano con il Piano di Rinascita ancora in elaborazione nelle aule parlamentari, al centro della riflessione nazionale repubblicana. Particolarmente significativo è un passaggio dell’articolo che rileva l’insensatezza di una crisi regionale di cui si va parlando in quei giorni: «Fare una crisi regionale in Sardegna dove opera una Giunta di centro-sinistra basata sulla collaborazione tra la DC e il Partito Sardo d’Azione (che vuol dire tra la DC e il Partito Repubblicano)…».

 

Netta anche la scelta di campo programmatica, in difesa dell’esecutivo Corrias e, ovviamente, della politica sardista. Scrive fra l’altro Puddu: «questa giunta è la formazione che ha rifiutato il piccolo cabotaggio delle elemosine governative per porre con serietà e con decisione il problema del rinnovamento delle strutture economiche e sociali in un organico schema di intervento quale è quello contenuto nelle linee del Piano di rinascita. La stessa ferma presa di posizione di fronte ad alcuni gruppi minerari stranieri si inquadra nella politica di sviluppo del Sulcis e non trova riscontro nella storia mineraria italiana; la sottrazione alla Giunta Provinciale Amministrativa del controllo sul merito e sulla legittimità degli atti dei Comuni e delle Province per affidarlo alla Regione (ma solo quello sulla legittimità), rappresenta un passo avanti, sconosciuto ad altre regioni, nell’applicazione del dettato costituzionale e nella realizzazione di una democrazia effettiva».

 

A fine settembre i rapporti fra PRI e PSd’A sembrano rafforzarsi ancor più. Il XV congresso regionale del Partito Sardo, al quale interviene il vice segretario nazionale repubblicano Emanuele Terrana, conferma la fedeltà dei Quattro Mori alla formula del centro-sinistra e l’adesione a una equilibrata compartecipazione di Stato e Regione (ma con preminenza di quest’ultima) nella gestione operativa del Piano di Rinascita.

 

A questo punto, considerate mature, come mai prima, le condizioni di base per stipulare un patto d’unità azione con il Partito Sardo, Puddu chiede ad Oronzo Reale una pubblica dichiarazione di amicizia verso quest’ultimo. Si conviene anche di ufficializzare tale apertura in occasione di una conferenza stampa televisiva.

 

In vista del turno amministrativo fissato per fine novembre e con la rinnovata partecipazione di militanti repubblicani nelle liste Quattro Mori, scende in Sardegna, inviato da La Voce Repubblicana, Adolfo Battaglia. Esito della sua inchiesta sul quadro politico isolano e sulle maggiori questioni sociali ed economiche che si impongono nel presente della Regione è un lunghissimo articolo su sei colonne, dal titolo “In Sardegna la destra d.c. tenta una prova di forza contro il centro-sinistra e il Partito d’Azione” (cf. La Voce Repubblicana, 3.4 novembre 1960. Così il sommario: “I sardisti, cui si sono uniti i repubblicani, in forte ripresa per la concreta azione che hanno impostato e svolto nella giunta regionale. Il piano di rinascita e i colpi al monopolio elettrico. La sinistra dc a Cagliari fuori della lista dominata da Brotzu e dall’ex sindaco Palomba”).

 

Di speciale interesse, sotto l’aspetto dell’intesa politica fra i due partiti, è il seguente passaggio: «Il PSd’A, guidato da Giovan Battista Melis, ha ritrovato se stesso, la sua forza, lo slancio di un tempo. Gli si è affiancato con la naturalezza di un incontro che è nei fatti prima ancora che nelle volontà, il Partito Repubblicano, che presenta suoi candidati (sotto il tradizionale simbolo dei “quattro mori” contornato dalla scritta PRI-PSd’A) nelle liste per i consigli comunali e provinciali di Cagliari, Sassari, Nuoro, e in numerosi altri importanti centri tra cui in primo luogo Olbia, Carbonia, Iglesias, Alghero, Guspini, Villacidro. Raffaello Puddu, segretario regionale e del PRI, è tra i sostenitori più fermi di questa alleanza che pone fine a un periodo di inutili incertezze tra repubblicani e sardisti, e spera di poter portare candidati repubblicani ad essere eletti tanto a Cagliari quanto a Nuoro, tanto a Olbia quanto ad Alghero.

 

«Accanto allo schieramento di centro-sinistra nei Comuni superiori a 10.000 abitanti, inoltre, il Partito sardo d’Azione ha tratto con molto realismo le conseguenze della divisione interna della DC: e dove il partito cattolico dava e dà garanzia di sano orientamento non ha rifuggito dal bloccare con esso per rafforzare la linea di centro-sinistra; ma dove la DC era dominata da cricche e consorterie destrorse, legate alla Curia e ad ambienti reazionari, ha rotto decisamente con essa e ha promosso la formazione di schieramenti popolari con i partiti di sinistra. In 33 Comuni su 70 della provincia di Cagliari, in particolare, si è verificato questo blocco delle sinistre, in cui il Partito sardo ha quasi sempre funzione di propulsione e di guida. Una perdita obbiettiva per il partito e per l’isola è costituita piuttosto dal ritiro di Pietro Mastino, che dopo la Costituente e la prima Legislatura repubblicana, ha degnamente ricoperto per anni la carica di Sindaco di Nuoro…».

 

Il 6 novembre si tengono quindi le elezioni amministrative. Alle comunali dei capoluoghi – e segnatamente di Cagliari e Nuoro – partecipano diversi repubblicani: quattro a Cagliari (Cabras, Marrazzi, Puddu e Sanna, reduce da una assemblea di giovani della FGR a Firenze), uno a Nuoro (Burrai), altri ad Olbia (a cominciare da Bardanzellu, candidato anche per il collegio provinciale), a Sorso (Murineddu), a Carbonia (Galardi) ecc.

 

E’ di queste stesse settimane il convegno che i giovani sardisti chiamano a Castelsardo e per un intero fine settimana: organizzato dalla dirigenza sassarese con la partecipazione di diversi esponenti di spicco – dal direttore regionale al sen. Mastino, ai vari consiglieri regionali – ne è parte attiva, insieme con Nino Ruju e Bastianino Brusco, anche Marcello Tuveri.

 

1961, le convergenze crescenti fra PSd’A e repubblicani

Segue, nel gennaio 1961, un altro convegno: quello degli amministratori locali con più di cento partecipanti. Anche questo nuovo anno segue gli indirizzi ormai impostati in termini di solidarietà integrale fra repubblicani e sardisti. E’ intanto da sottolineare che il 16 aprile la direzione nazionale del PRI esamina il disegno di legge sulla Rinascita nella stesura governativa ed in quella esitata dal Consiglio regionale, ritenendo – come è detto nel comunicato ufficiale – «che l’originaria programmazione e l’attuazione del Piano spettino all’organismo regionale salvaguardando il principio della organicità e della aggiuntività degli stanziamenti». Il PRI sollecita dunque il governo «perché si accelerino gli studi e le deliberazioni relativi al piano nazionale di sviluppo, in cui i piani regionali vanno inquadrati e nell’ambito del quale deve continuare a avere piena utilizzazione l’esperienza e la competenza specifica della Cassa del Mezzogiorno» (cf. La Voce Repubblicana, 17.18 aprile 1961).

 

Lo stesso Puddu svolgerà una funzione di autentica sentinella del processo legislativo volto alla approvazione di uno stanziamento complessivo di 400 miliardi di lire in dodici annualità. Ne scriverà ancora su La Voce Repubblicana quando il Senato inizia l’esame del disegno di legge, firmando l’editoriale nel quale ancora una volta non manca di valorizzare le prese di posizione del PSd’A. (cf. La Voce Repubblicana, 14,15 novembre 1961, “Il piano per la Sardegna”).

 

Sotto il profilo puramente interno al partito dell’Edera e delle relazioni che con il PSd’A si svilupperanno sulla rete delle organizzazioni collegate – dalla corrente UIL e ITAL all’ENDAS – sarebbe da collocare qui il primo tentativo (purtroppo fallito) di affermare, attraverso un consorzio di cooperative edilizie, una presenza della AGCI nell’Isola, appunto coinvolgendo insieme la UIL e il Partito Sardo di Nuoro.

 

Sotto il profilo invece organizzativo-logistico sembra importante rilevare che la fraternità dei rapporti fra PRI e PSd’A porta quest’ultimo ad offrire ai repubblicani ospitalità nelle proprie sedi, tanto più a Cagliari ed a Nuoro, né soltanto qui…

 

Alleanza anche alle regionali che la stampa inquadra nella condivisa visione della questione della Rinascita. Sassari Sera scrive della collocazione ideale o ideologica del PSd’A, riportandola «al pensiero di uomini come Mazzini, Cattaneo e Spaventa», e ancora di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini, quindi del miglior meridionalismo continentale.

 

In quanto alla partecipazione repubblicana alle liste sardiste, sono da segnalare le candidature dell’algherese Dario Angius e dell’olbiese Achille Bardanzellu.

 

Mentre Lello Puddu continua ad accompagnare, con costanza, l’informativa nazionale sulle questioni d’interesse isolano scrivendone sul quotidiano del partito (cf. La Voce Repubblicana: “Sardegna e politica di sviluppo” e “Un piano con le gobbe”, rispettivamente il 23.24 gennaio ed il 13.14 febbraio 1962), ma anche su La Nuova Sardegna (cf. 2 e 3 marzo 1962) offrendosi anche come ponte di comunicazione fra La Malfa e Melis, a marzo – vigilia del congresso nazionale convocato a Livorno – giunge in Sardegna, per contatti con la militanza e la sponda sardista, Claudio Salmoni, prossimo cosegretario nazionale e sindaco di Ancona.

 

A febbraio è stato intanto varato il IV governo Fanfani detto delle “convergenze parallele” (il primo di centro-sinistra con l’astensione socialista), composto da ministri democristiani e socialdemocratici oltre che dai repubblicani La Malfa al Bilancio e Programmazione economica, Macrelli alla Marina Mercantile e Camangi (sottosegretario) all’Agricoltura e foreste. Per il PRI si realizzano dunque le condizioni politiche perché il Piano di Rinascita possa prendere quelle linee auspicate dagli stessi repubblicani sardi e dagli alleati del PSd’A.

 

Rammaricandosi di non poter partecipare al congresso provinciale sardista di Nuoro, il 6 aprile l’on. La Malfa invia un espresso al direttore regionale sardista confermando la fiducia sull’azione del PSd’A nella giunta regionale. Seguono tre alinee che paiono politicamente sostanziali:

 

«Il Piano di Rinascita di cui avete sempre rivendicato, anche nelle recenti riunioni romane, ai sardi ed al Governo della regione la responsabilità storica preminente, costituirà lo strumento e la conquista più impegnativa e democraticamente risolutiva per il cui risultato siamo insieme impegnati.

 

«Io vi auguro un buon lavoro come Repubblicano e come Ministro che crede nella “svolta”. So che i sardisti hanno sempre combattuto per gli ideali e le cose che il Governo, di cui faccio parte, rappresenta.

 

«Perciò la solidarietà che vi esprimo è anche l’auspicio sentito e fraterno delle lotte che dovranno trovarci alleati per le realizzazioni comuni, nell’interesse della Sardegna, che ne è così degna, del Paese e delle conquiste di libertà e di giustizia».

 

L’assise nuorese, anche per la presenza dell’intero vertice del partito, rivela da subito l’importanza di un vero e proprio congresso politico regionale.

 

Da parte di tutti gli oratori è un insistito “peana” alla unità d’azione con i repubblicani, per i quali interviene lo stesso segretario Puddu (che a Nuoro ha la residenza professionale ed è in assidua consuetudine con la militanza sardista). Nella mozione conclusiva il congresso esprime «la più viva e fraterna solidarietà al PRI» che, sul piano nazionale, è stato protagonista della svolta di centro-sinistra ed è stato anche «assertore convinto e fattore determinante» della politica di programmazione, sostenendo «vittoriosamente le modifiche in senso autonomistico del disegno di legge sul piano di rinascita, interpretando esattamente le istanze sardiste e le aspirazioni generali del popolo sardo».

 

Il congresso – è detto infine – auspica che il PSd’A «rinnovato nelle sue strutture organizzative anche nelle altre province e rafforzato da più organiche collaborazioni con altre forze democratiche autonomiste e particolarmente sul piano nazionale col PRI, consolidi ed espanda la sua capacità di intervento, di stimolo e di guida in ordine all’attuazione del Piano di rinascita e degli indirizzi della politica nazionale e regionale, concepiti in funzione del progresso economico e della elevazione sociale del paese e in primo luogo delle popolazioni sarde» (cf. La Voce Repubblicana, 14.15 aprile 1962, La Nuova Sardegna, 11 aprile 1962. Cf altresì Bastianino Brusco, “Il Congresso di Nuoro del Partito Sardo d’Azione” in Ichnusa n. 45, maggio 1962).

 

Di particolare importanza, del medesimo periodo, è una nuova e lunga lettera di Ugo La Malfa al direttore regionale sardista, datata 12 maggio 1962, il cui spunto è fornito da un articolo a firma di Giovanni Chironi uscito nel numero di aprile-maggio 1962 di Sardegna oggi, titolato “I sardisti alla ricerca di un Ugo La Malfa”, contenente una analisi critica circa la capacità del PSd’A di assolvere sullo scenario isolano al ruolo svolto dal PRI su quello nazionale.

 

Nel suo messaggio La Malfa insiste nel considerare ingiustificate, alla prova dei fatti, le riserve o perplessità espresse dall’articolista, avendo il Partito Sardo degnamente condotto la battaglia autonomistica e, segnatamente, l’azione legislativa e amministrativa nella Regione volta alla modernizzazione isolana ed a configurare il Piano di Rinascita non come «un mezzo di interferenza, quindi di paternalismo del governo centrale nelle vita regionale», ma «un nuovo impulso alla crescita e all’amministrazione autonoma dei sardi». Evoca «le conversazioni, sempre appassionate, che si sono succedute, prima della formazione del governo di centro sinistra e dopo, qui nel mio studio al Ministero del Bilancio» con i rappresentanti del PSd’A «e innanzitutto – così scrive – con te, caro Melis, in queste ultime settimane, quando la costituzione di quel governo ha permesso di portare alla migliore conclusione pratica le impostazioni autonomistiche che vi sono caratteristiche». Aggiungendo, sul punto, il riconoscimento «che il vostro contributo di idee di elaborazione è stato prezioso per giungere all’attuale redazione emendata del piano per la Sardegna, che soddisfa largamente, credo, le esigenze della autonomia, mentre rappresenta la prima concreta definizione dei rapporti tra pianificazione nazionale e pianificazione regionale».

 

Così la conclusione: «Quando sento parlare di crisi nel governo regionale, per il raggiungimento di una formula teoricamente migliore dell’attuale, a me sembra che il richiamo primo non sia da fare alle intenzioni, senza dubbio ottime, ma appunto alla concretezza politica, la quale impone di tenere tutto presente, in ogni campo e settore. Una crisi che, in vista delle elezioni regionali e politiche del ’63, e dell’inizio dell’attuazione del piano, servisse concretamente ad escludere il PSd’A dal governo regionale riporterebbe indietro di molti anni la lotta politica in Sardegna e costituirebbe un’operazione che si muoverebbe non sotto il segno del centro-sinistra, ma sotto il segno dell’integralismo di destra, o al massimo di un dialogo esclusivo cattolico-socialista che non sarebbe comunque la via autentica dello sviluppo politico, né regionale né nazionale. Il PSd’A rappresenta concretamente in Sardegna il partito da cui passa la linea del centro-sinistra».

 

Stagione Rinascita

La lettera di La Malfa risale a giornate “di fuoco” per la politica repubblicana. E’ infatti dello stesso maggio la presentazione al Parlamento, da parte del ministro del Bilancio, della “Nota aggiuntiva”, con la prima proposta di programmazione nazionale tesa a riassorbire progressivamente gli squilibri di sviluppo sia territoriali che settoriali.

 

Il 20 dello stesso mese i repubblicani sardi vanno a congresso a Cagliari, ribadendo insieme l’opzione per il centro-sinistra e per l’intesa con i sardisti.

 

L’assemblea congressuale, presieduta da Francesco Burrai – vecchio combattente nella guerra di Spagna –, si svolge nella sede del partito (condivisa con il PSd’A,) presente anche il direttore regionale sardista Giovanni Battista Melis.

 

Questo il documento approvato all’unanimità a conclusione dell’ampio dibattito, nella parte riguardante la politica sarda: «Il XIV congresso regionale del Partito Repubblicano Italiano, […] impegna la Direzione Nazionale, i Parlamentari ed i Ministri repubblicani a procedere con fermezza all’attuazione pratica dei più salienti punti programmatici dell’attuale Governo, quali: l’ordinamento regionale dello Stato; la programmazione economica; la nazionalizzazione dei servizi pubblici di più spiccato interesse sociale, ed in particolare la produzione e l’erogazione dell’energia elettrica; la democratizzazione del sistema tributario; la riforma e la tutela della scuola di Stato; la lotta contro la disoccupazione e la depressione sociale; la moralizzazione della vita pubblica […]

 

«I Repubblicani, che facendo proprie anche le istanze poste dai Sardisti, hanno ottenuto – grazie al decisivo intervento dell’on. La Malfa – la nuova formulazione del Piano di Rinascita della Sardegna, sono conseguentemente impegnati a fondo nel vigilare sulla concreta attuazione di esso, e a denunciare all’opinione pubblica le eventuali deficienze degli organi preposti alla sua attuazione, e ciò col senso tradizionale – che li caratterizza – di aderenti ad un partito popolare riformista e moralizzatore della vita pubblica.

 

«In questa fondamentale azione i Repubblicani sardi saranno solidali soprattutto con il Partito Sardo d’Azione, per le sue riconosciute tradizioni repubblicane, democratiche ed autonomistiche; ad esso Partito i Repubblicani sardi riconoscono una peculiare funzione sempre viva e feconda di risultati. I Repubblicani sardi, inoltre, memori delle molte lotte politiche ed elettorali combattute insieme con gli amici sardisti, sono certi di consolidare sempre più i reciproci vincoli, per una più costante e proficua attività comune a tutto vantaggio del Popolo Sardo».

 

Questo, invece, è il testo dell’ordine del giorno presentato da Puddu e pure approvato dai delegati: «Il XIV congresso regionale del PRI riunito in Cagliari esprime il più vivo ed affettuoso ringraziamento ai Parlamentari, al Segretario del Partito Reale e soprattutto al Ministro del Bilancio La Malfa per il determinante apporto al nuovo disegno di legge sulla Rinascita, che rappresenta la vittoriosa conclusione della battaglia dei sardisti e dei repubblicani accomunati dalla fondamentale impostazione autonomistica.

 

«In ordine alla situazione politica regionale, respingendo una pura e semplice ricerca di formule, giudica elementi caratterizzatori di una politica di centro sinistra: a) il rilancio dell’istituto regionale attraverso nuove strutture adatte ai nuovi gravosi compiti; b) una programmazione regionale determinata da scelte rigorosamente prioritarie costantemente rivolte all’interesse collettivo; c) una politica economica di incentivi nettamente antimonopolistica; d) la più ampia democratica partecipazione popolare alle discussioni, alle scelte alle responsabilità che il Piano comporta affinché tutti i Sardi, senza discriminazioni di sorta, concorrano a realizzare un’autentica Rinascita economica e sociale della Sardegna». (Le carte congressuali sono state raccolte in appositi faldoni nel Repertorio del Movimento democratico sardo dell’Otto-Novecento repubblicani-azionisti-sardisti, da me impiantato in capo alla biblioteca familiare degli ormai 30mila libri).

 

Al XXVIII congresso nazionale in svolgimento a Livorno dal 31 maggio al 3 giugno interviene lo stesso on. Melis, accolto con molta cordialità dai delegati, ai quali propone del suo partito l’immagine storica di una formazione da sempre idealmente prossima al PRI perché derivata dallo stesso ceppo ideale. Convenendo con gli obiettivi dell’azione repubblicana in particolare in materia di programmazione economica in cui sia evidente il taglio meridionalistico, afferma: «Il Piano di rinascita della Sardegna, aspirazione quarantennale del Partito Sardo d’Azione, è lo strumento attraverso cui il popolo sardo troverà la via della civiltà democratica». Non mancando anch’egli di esprimere riconoscenza a La Malfa e Reale per la «fraterna solidarietà» nella lunga battaglia governativa e parlamentare, conclude esprimendo la certezza che «le nuove battaglie troveranno insieme il Partito Sardo e il Partito Repubblicano per l’avvenire più luminoso della democrazia nel nostro Paese» (cf. La Voce Repubblicana, 4.5 giugno 1962).

 

A novembre lo stesso Melis rilascia una lunga intervista all’organo di stampa repubblicano, pubblicata da La Voce con grande risalto grafico. Fra le battute politicamente più significative, tanto più se viste alla luce degli eventi che seguiranno negli anni, è la seguente: «Noi non siamo mai stati separatisti. Il separatismo è una soluzione disperata, come l’emigrazione e il banditismo, una soluzione antitetica all’autonomismo che secondo noi è lo strumento per risolvere il problema nazionale dei disequilibri regionali e territoriali. L’autonomismo è differente dal decentramento amministrativo, è qualcosa di più, è autogoverno. Noi abbiamo sempre avuto la certezza che i sardi matureranno la loro coscienza nazionale e la loro fede nello Stato democratico attraverso l’autogoverno» (cf. La Voce Repubblicana, 6.7 novembre 1962).

 

Intanto ai primi di agosto Michele Cifarelli, che nel PRI appartiene all’area meno propensa a “scommettere” sulla cultura di governo dei socialisti e quindi sulla bontà della svolta di centro-sinistra, viene in Sardegna per incontri, oltre con l’intera dirigenza sardista, da Melis a Mastino ed Oggiano, da Puligheddu e Maccioni, Sedda e Mario Melis ecc. per approfondire insieme questioni politiche ad altre di pertinenza della Cassa per il Mezzogiorno a lui segnalate (infrastrutture dei Comuni di Oliena e Laerru, Consorzio Marreri Isalle, approvvigionamento idrico di Burcei, area industriale di Olbia ecc.). Anche questa missione rafforza, con le conoscenze personali, i rapporti fiduciari fra i due partiti.

 

All’amicizia con il PRI per la comune derivazione ideale e politica guardano con speciale convinzione i giovani del PSd’A, attivi a Sassari e Nuoro soprattutto. Essi curano le pubblicazioni un bollettino interno di informazioni – Il corriere sardista – che nel suo numero di novembre dello stesso 1962 affronta diffusamente la materia tanto in apertura del numero (“Discorso al lettore”), quanto in una riflessione nella foliazione interna. Autore di entrambi gli scritti è Giovanni Merella, che negli anni avvenire sarà fra gli scissionisti e confluenti nel PRI, partito del quale diverrà anche consigliere regionale e segretario regionale. «Le prossime scadenze elettorali – osserva Merella – ci danno la misura esatta di quanto il discorso tra noi sia necessario ed utile… Che cosa faremo, ci saranno e chi saranno i nostri alleati?… La nostra posizione, per quanto non esplicita sinora, è chiara a tutti. Ma anche il partito si muove verso un accordo con il PRI… D’altro canto il congresso di Nuoro è stato, pur esso, categorico, indicando come il nostro naturale alleato il Partito Repubblicano. Né ci pare che futili questioni di contrassegno possano arenare intese che hanno radici ben profonde nella storia nostra e del PRI. E’ soprattutto su tale problema che chiediamo a tutti chiarezza, poiché in essa è il presupposto di una lotta politica di fondo che ci considera impegnati, perché coscienti di avere voluto e determinato certe scelte».

 

L’altro articolo di Merella, titolato “I precedenti di un’alleanza”, è estremamente interessante perché si pone direttamente nel solco della riflessione politica lamalfiana, collocando la rinascita sardista, dopo la seconda guerra mondiale, nel fervore dell’azionismo, attraverso cui pareva che alcuni fondamentali postulati dell’autonomismo isolano fossero entrati nella cultura politica nazionale. La disfatta però del Partito d’Azione, con la caduta delle sue riserve socialiste cioè, riportò il sardismo «nella sua tradizione di lotta meridionalista e nella sua maturità di programmi e di critica, incentivi possenti che lo sostennero nella lotta per molti anni.

 

«Ma – soggiunge Merella – dallo sfaldarsi del partito d’azione un altro partito rinacque con le tradizioni profondissime, e con un patrimonio culturale ed ideologico nobilissimo: il Partito Repubblicano. In esso militano tuttora gli uomini più responsabili e più preparati della nostra democrazia e ad esso l’Italia deve molto di quanto è stato fatto per il suo progresso. Mazzini, Cattaneo, Mario, e poi, in tempi più recenti, Salvemini, Fortunato, Gobetti, Salvatorelli, De Ruggiero sono nomi che nell’esaminare il patrimonio culturale antico e più recente del PRI noi troviamo rappresentati. Infine l’ultimo balzo in avanti nella strada del progresso democratico, l’ultimo grande mezzo di razionalizzazione delle nostre strutture sociali, la pianificazione, è stato difeso, propugnato, portato alle soglie della realizzazione da Ugo La Malfa, un repubblicano.

 

«Se ora, dopo aver ricordato la maturità del nostro partito, la sua storia, la sua funzione sociale passata e futura e i suoi programmi li accostiamo a quelli del PRI… dovremo riconoscere che mai come ora, nel momento in cui cioè le forze politiche democratiche si alleano più strettamente per condurre una lotta politica più serrata, è necessario rinsaldare i vincoli già forti che ci legano al PRI. E nel fondo del rinnovamento di questa alleanza c’è qualcosa di più che un semplice incontro tattico: c’è un vero e proprio ritrovare se stessi dopo aver raggiunto la maturità necessaria per farlo, c’è la premessa sicura per la ricostruzione di una sinistra democratica unitaria, quale da tempo si auspica. Molti sintomi ci dimostrano questo: il riavvicinarsi degli amici de Il Mondo al PRI, il consolidarsi della sia pure piccola base elettorale della sinistra democratica, il formarsi di una mentalità intellettuale di tipo liberal-socialista. Le nostre tradizioni, i nostri programmi per il futuro dell’Isola, le nostre ideologie ci inseriscono profondamente in questo processo di riaccostamento. Sapremo noi essere all’altezza di questo momento storico?» (cf. Il corriere sardista, stampato come numero unico, è redatto da Merella insieme con G.A. Tabasso e Giampiero Mureddu).

 

***

 

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE SECONDA

 

Cerco, nelle pagine che seguono, di dare sviluppo a quanto già riepilogato del percorso di vita di Marcello Tuveri, tanto più, ovviamente, sul versante del suo impegno pubblico. In particolare, in quanto esponente del Partito Sardo d’Azione verso il quale, intorno alla metà degli anni ’60, matura, con altri, una posizione critica variamente motivata, ma soprattutto volta a contestare l’indirizzo separatista che, introdotto da Antonio Simon Mossa, non parve trovare nella dirigenza apicale di Giovanni Battista Melis – deputato iscritto al gruppo parlamentare repubblicano – giusto o adeguato contrasto. Saranno lì le premesse – dopo una leale e feconda militanza di vent’anni – del distacco dal PSd’A e la prosecuzione dell’impegno politico nelle fila del Partito Repubblicano Italiano: il partito, s’intenda bene, che costituiva come il capofila dei sodalizi politici chiamati a dare evolutiva attualità ai postulati ideali della scuola democratica risorgimentale riconducibile, in quanto all’unitarismo/comunalismo a Giuseppe Mazzini e in quanto al federalismo a Carlo Cattaneo.

Fra “Il Bogino” ed “Ichnusa”

Fu un impegno, insieme elaborativo e di partecipazione – insomma e intellettuale e politico – quello espresso da Marcello all’alba degli anni ’60 come collaboratore di varie riviste: in particolare è da segnalare la presenza più volte replicata sulle pagine de Il Bogino bimestrale in uscita a Cagliari dall’ottobre 1960 a direzione di Ignazio De Magistris, giornalista, sindacalista, consigliere regionale democristiano, e nella cui redazione egli figurava insieme con amici d’area sardista (come Nino Ruju e Michelangelo Pira, ed anche Antonio Cossu) ed altri d’area dc-cislina, taluno dei quali, come Gerolamo Colavitti, presto impegnato, da collega, nelle funzioni del Centro di programmazione regionale. (Gli altri erano Diego Are, Francesco Accardo, Ernesto Dessì, Giuseppe Pisanu).

Ho già ricordato gli articoli (e talvolta veri e propri saggi brevi) pubblicati dal Nostro sulla rivista e da essi si potrebbero trarre alcuni stralci utili a penetrarne i termini essenziali della riflessione “tecnico-politica”. Eccone una rassegna:

da “Aspetti organizzativi e istituzionali del Piano di Rinascita” (cf. n. 1, ottobre-novembre 1960):

L’individuazione critica delle strutture che l’Amministrazione pubblica porrà in essere per realizzare il programma di intervento non può non partire, nella attuale fase conoscitiva, dalle considerazioni che all’argomento [lo sviluppo economico e sociale dell’Isola come previsto dall’art. 13 dello Statuto speciale] sono state dedicate nel rapporto conclusivo redatto dal “Gruppo di lavoro”.

Per la prima volta tra i compiti di una Commissione preposta al disegno di un piano operativo è stato previsto l’obiettivo di individuare gli strumenti e la loro traduzione in termini che ne consentano l’espressione legislativa e amministrativa.

Il “Gruppo di lavoro” ha assolto il compito rappresentando la configurazione di molteplici soggetti ed organi, esistenti o da istituire, in coerenza al principio del coordinamento di tutte le attività, ordinarie e straordinarie, esplicate dai pubblici poteri, direttamente o mediatamente nell’area regionale interessata. Il principio di impegnare col programma di intervento tutte le strutture sociali esistenti «mediante la contemporanea manovra delle leve disponibili» e di predisporre simultaneamente le strutture necessarie a mettere in moto i meccanismi di sviluppo si dispiega in ogni parte del rapporto conclusivo, dalle considerazioni introduttive, al capitolo dedicato ai problemi ed alle linee di intervento (sia per i settori di interesse generale sia per le attività economiche) per pervenire, attraverso la programmazione ed il coordinamento, sino alla indicazione delle somme necessarie a coprire il costo degli strumenti.

In termini descrittivi diremo che per le materie dei trasporti, habitat e fonti di energia non si hanno indicazioni di rilievo sull’argomento che ci occupa. I molteplici obblighi dello Stato (riduzione tariffe ferroviarie, autonomia funzionale delle zone industriali, riduzione imposte fabbricazione carburanti, etc.) e dell’Organismo di attuazione (navi traghetto, potenziamento aeroporti e rete stradale, assunzione di oneri in materia di edilizia scolastica, etc.) non implicano la creazione di particolari strutture.

Di carattere tipicamente novativo sono, invece, le indicazioni strumentali per la gestione ed il coordinamento degli interventi atti a stimolare il progresso dei fattori umani dello sviluppo. Potranno essere affidate ad istituzioni esistenti o di nuova costituzione i compiti di preparare i quadri degli specialisti e degli animatori locali, gli insegnanti e gli istruttori pratici, gli adulti. Il programma comporta l’inquadramento nella prospettiva dell’intervento di tutta l’attività scolastica per la preparazione professionale.

E’ prevista la istituzione dei centri di assistenza per lo sviluppo agricolo, finalizzati al miglioramento della economia di settore, gestiti dai centri zonali di sviluppo e soggetti alle direttive tecniche degli ispettorati provinciali per l’agricoltura, e dei centri di assistenza alla industrializzazione, gestiti dagli organismi zonali per lo sviluppo industriale e destinati ad operare in stretta correlazione con le altre istituzioni del settore.

L’unità di indirizzo mediante il coordinamento di questo complesso di istituti ed organi dovrebbe essere realizzata con la realizzazione di un apposito Ente regionale da costituirsi su iniziativa dell’Organismo di attuazione e per affiancarne l’opera con compiti di direzione tecnica generale e di assunzione di responsabilità dirette nelle diverse attività previste…

E in conclusione:

Appare ovvio sottolineare che – nel momento in cui si chiede agli interessati, cioè a tutti i cittadini che vivono ed operano nell’Isola – una partecipazione all’intervento, l’alta amministrazione dell’intervento stesso non può presentarsi divisa o frammentata in una costellazione di centri di potere tra loro indipendenti od addirittura in contrasto. Sul piano tecnico amministrativo e dal punto di vista della fiducia dei cittadini nelle istituzioni qualunque soluzione è preferibile piuttosto che ingenerare incertezze o contraddittorietà nell’esercizio dei poteri.

La prima qualità che si richiede alle strutture amministrative interessate all’intervento sarà la capacità di stabilire relazioni umane non solo all’interno della organizzazione, ma anche e soprattutto nei confronti dei cittadini. L’essenza della attività amministrativa è fondata, in democrazia, sul principio della sovranità popolare ed il fine ultimo della amministrazione sta nella soddisfazione massima possibile dei bisogni e dei desideri della collettività. Da questo discende che le relazioni umane e pubbliche costituiscono un dovere essenziale della amministrazione e l’obbligo morale di ciascun ufficio pubblico è quello di vivere tra pareti di vetro e con la porta sempre aperta al dialogo con la collettività.

Seconda qualità necessaria in considerazione della ampia discrezionalità di cui saranno dotati gli operatori è una moralità altissima, tale da evitare tutto ciò che, pur non trovando limiti obiettivi nelle norme giuridiche, possa indurre ad intendere le azioni come frutto di discriminazione. La responsabilità di chi amministra verso la collettività non sempre trova collocazione in una norma di diritto positivo.

Proprio per questo la convinzione di essere al servizio del popolo e di operare nell’interesse della collettività deve essere profondamente radicata in chi esercita una funzione pubblica.

Quando la pubblica amministrazione assume compiti generali come quelli previsti nel programma di intervento, deve mettere a punto la propria organizzazione in modo da poter bene amministrare e mantenere l’impegno di essere espressione dei cittadini.

L’operatore dell’intervento dovrà avere lo slancio e la carica di iniziativa dell’imprenditore privato e la coscienza esterofinalista, trascendente cioè i fini individuali, del funzionario pubblico.

(Il testo è riprodotto integralmente ed ampiamente commentato in La “cultura della Rinascita”. Politica e istituzioni in Sardegna (1950-1970) a cura di Francesco Soddu, Sassari, Soter editrice, 1994).

da “Il sindacato” (cf. nn. 2-3, dicembre 1960-febbraio 1961):

La partecipazione degli operatori economici e sociali al programma di intervento è indubbiamente una caratteristica nuova nella azione dei pubblici poteri per la espansione economica del Paese. Per questa sua caratteristica la partecipazione ha sostenuto interpretazioni e critiche che ne hanno irrobustito l’attualità. Soltanto il problema del rapporto industria e agricoltura ai fini dello sviluppo economico ha suscitato, forse, tanto interesse quanto ne ha destato la questione della organizzazione e della partecipazione delle forze economiche e sociali ai diversi momenti della programmazione, della direzione e della esecuzione. L’argomento è perciò capace di sopportare qualche considerazione preliminare all’esame del contributo delle associazioni sindacali operanti nell’Isola rispetto al Piano di rinascita.

Si può essere per la dinamica delle classi o per la sparizione di una di esse ovvero può ammettersi una mobilità sociale più o meno intensa, ma è indubbio che le classi sociali costituiscono una realtà del nostro tempo che si esprime per taluni fini mediante i partiti e, per altri, quale l’autotutela degli interessi professionali collettivi, mediante le associazioni sindacali.

E’ osservazione altrettanto ovvia che un programma di intervento non costituisce un fatto interno ed esclusivo delle rappresentanze politiche, dei pubblici poteri in genere e, tanto meno, della pubblica amministrazione. Ogni momento di una politica di sviluppo (ed il programma per la Sardegna non è altro che un esempio di tale politica) è un fatto che riguarda la società non solo nel suo complesso ma anche nei suoi gruppi costitutivi, nelle classi sociali organizzate sindacalmente. Se per quanto riguarda la società il problema è connesso all’atteggiamento del singolo verso la vita produttiva e di relazione, quando ci riferiamo all’interesse dei suoi gruppi costitutivi dobbiamo tener conto dei sindacati dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera. Non vale ad escludere tale riferimento il fatto che le tendenze associative delle aree depresse, come il Meridione d’Italia e la Sardegna «derivino più da motivazioni di carattere emotivo che di tipo funzionale e relazionale» (Relazione del Presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, pag. 292, Roma, 1960). Anche se nell’ambiente isolano è più diffuso come legame associativo il parentado e la clientela che non il sindacato e la cooperativa, la necessità di liberare certe energie e di metterle in moto esige che siano modificate talune arretratezze nelle forme e nei contenuti delle strutture mediante la esaltazione del carattere rappresentativo delle associazioni di tipo più moderno e razionale.

La vera ragione per cui è molto discussa la legittimità della partecipazione delle associazioni sindacali, specialmente di quelle dei lavoratori, sta proprio nella considerazione fatta poc’anzi e che denuncia implicitamente la situazione dei gruppi sociali organizzati ed il loro scarso peso nell’Isola.

E in conclusione:

Evidentemente il contributo delle associazioni sindacali sarà condizionato alla rispondenza del programma agli orientamenti espressi, e non potrà concepirsi in termini di subalternità o di rinuncia alla propria autonomia da parte delle associazioni stesse. In ogni caso sarà altamente proficuo, nel rispetto di tali limiti, perché, per la prima volta in Italia, la volontà riformatrice dei poteri pubblici non cadrà dall’alto e l’iniziativa non apparirà, come è accaduto nello scorso decennio per la riforma agraria, di tipo paternalistico.

La partecipazione, inoltre, dovrebbe contribuire a garantire la concreta operatività del principio affermato sia dalla Commissione di studi che dal Gruppo di lavoro, della priorità degli interventi per lo sviluppo dei fattori umani. Non si comprende, infatti, come una tale priorità potrebbe esplicarsi negando cittadinanza all’interno del programma alle associazioni naturali dei protagonisti dell’iniziativa economica e sociale.

Ma tutti i vantaggi, nonostante l’attitudine e la volontà delle organizzazioni sindacali, sono destinati a sparire se la partecipazione sarà considerata come una soluzione tecnica ricercata per realizzare finalità di efficienza e non in funzione della trasformazione sociale e culturale dell’ambiente.

da “Piani di sviluppo in Italia” (cf. n. 4, aprile 1961):

Il numero tre della rivista Economia e Storia diretta dal prof. Amintore Fanfani è dedicato allo orientamento della politica economica nazionale nell’ultimo quindicennio: il fascicolo suscita interessi vasti e profondi tanto da rendere difficile, in poche pagine, esprimere un motivato giudizio critico. Tale è la quantità dei fatti attuali che vengono passati in rassegna che al limite si sente più forte il bisogno di trascriverne l’indice, che non di assumere per sé e per gli altri le luci e le ombre […]. Circa duemila titoli di volumi, note ed articoli, ordinati in cinque voci e numerose sottovoci, bastano da soli a costituire un saggio di pregio e di valore tutt’altro che trascurabile. Basta pensare ad alcune indicazioni quali “La pianificazione territoriale” (con le sottovoci della “pianificazione regionale” e dei “piani regionali di sviluppo”) ed a quella dedicata ad «alcuni interventi programmatici dello Stato» (sotto cui sono elencati gli articoli sullo sviluppo economico del Mezzogiorno e delle Isole ivi compreso lo sviluppo economico della Sardegna), per renderci conto che la bibliografia, pur non possedendo, come ogni bibliografia, il carattere della completezza (ne è dimostrazione il numero delle voci riguardanti la Sardegna) è stata concepita con un vivo senso della attualità.

E più oltre:

Mentre Fiorentino Sullo mostra di intendere lo schema Vanoni come una formula politica che poteva dar luogo ad un programma, Siro Lombardini lo esamina da un punto di vista economico. Lombardini ritiene che la mancata attuazione del Piano Vanoni sia dovuta in parte ad una erronea diagnosi della economia italiana, in parte ad una insufficiente elaborazione del piano ed infine agli inadeguati mezzi politici per la sua realizzazione. Con esso, secondo la severa critica, sono state colte, nella disoccupazione e sottooccupazione e negli squilibri tra Nord e Sud, le principali manifestazioni di insufficienza del sistema economico italiano, ma è mancata un’analisi delle caratteristiche istituzionali e dinamiche che possono spiegare tali manifestazioni. L’idea, insita nello schema, che a promuovere un più rapido sviluppo delle regioni arretrate fosse sufficiente una generica politica di formazione del capitale sociale e di incentivi creditizi completa il quadro delle manchevolezze.

Una diagnosi più profonda, continua l’autore, avrebbe potuto suggerire alcuni problemi: la necessità della progressiva conversione tecnologica nei settori ove persiste un equilibrio istituzionale stazionario, il deflusso della mano d’opera da quei settori, l’equilibrio tra investimenti per riorganizzare la produzione e per creare nuovi posti di lavoro, l’insufficienza della politica di incremento delle infrastrutture, una valutazione del problema agrario coordinata agli altri settori. Al difetto di diagnosi devono aggiungersi una serie di fatti che non potevano essere previsti (quali il MEC, il rapido spostamento di mano d’opera, l’andamento della congiuntura mondiale) ed il mancato aggiornamento ad essi dello schema.

I difetti del Piano Vanoni, che non offre alcuna indicazione circa gli strumenti che dovrebbero effettuare il coordinamento della politica economica, ci riportano a considerare la necessità che si provveda, tra l’altro, «alla elaborazione ed attuazione di piani regionali di sviluppo in grado di promuovere quelle iniziative atte a favorire una più efficace valorizzazione delle risorse locali, ad assicurare una maggiore efficienza dello sviluppo economico nei suoi aspetti spaziali», alla armonizzazione di questi piani rispetto alle previsioni e interventi del piano generale di sviluppo e sulle possibilità di trasformazioni strutturali.

Le considerazioni di Sullo e di Lombardini mostrano un atteggiarsi, sia del politico che dell’economista, negativo rispetto ai primi quindici anni di politica economica italiana. C’è da chiedersi se si può dar loro torto. Di recente è stata osservata l’esistenza di un fenomeno di “decelerazione” nello sviluppo dell’industria che fa pensare che il “miracolo italiano”, pur non avendo perso la spinta, stia rallentando il suo ritmo di accrescimento e delineando una situazione di stazionarietà, sia pure ad alto livello. E’ in corso, d’altro canto, una revisione critica degli interventi dello Stato in materia di riforma agraria e di azione nel Mezzogiorno che rivela sempre più l’inadeguatezza di queste settoriali aggressioni riformatrici. Questi fatti sembrano permeabilizzare sempre più l’opinione pubblica alla tesi degli economisti che è necessario superare gli interventi parziali, valutare in maniera coordinata i diversi momenti della nostra economia, smettere con la politica economia alla giornata per misurare l’impegno dei pubblici poteri in una prospettiva più lunga e completa. Tutto ciò dimostra, nonostante il continuo proliferare di piani di intervento particolari, come questo nostro tempo, tormentato ma promettente, non possa e non voglia attendere più a lungo la soluzione dei più gravi problemi. Su questa strada, la rivista di Fanfani ha fornito indicazioni che meritano di essere apprezzate e conosciute da chiunque intenda che la pianificazione risponde alla esigenza di trovare la giusta proporzione tra individualismo e socialismo, usando ognuno di essi in maniera appropriata.

da “L’ente regione: libri e attualità” (cf. n. 5, maggio-giugno 1961):

Decentramento ed autonomia regionale stanno rivivendo una stagione politica di attualità. Dodici anni di esperienza delle Regioni a Statuto speciale, nonostante le vicende della Sicilia, hanno dimostrato la validità del decentramento per mezzo di istituzioni autonome intermedie tra lo Stato e i Comuni. Tale esperienza, non priva di contraddizioni, come è naturale in ogni processo di instaurazione di nuove strutture pubbliche e amministrative, conferma l’atteggiamento favorevole di formazioni tradizionalmente regionaliste come il PRI e di una parte notevole dei cattolici. Ma vi è dippiù. Ad assumere oggi la convinzione che sia utile attuare al più presto l’art. 5 e tutto il titolo V della Costituzione non sono soltanto studiosi di alta coscienza come Massimo Severo Giannini, ma gruppi avanzati della sinistra democratica come il Partito radicale e quello socialista, cui si va affiancando tutta una opinione che viene risospinta verso i problemi locali a livello regionale sia dal rifiuto della politica centralistica, sempre meno comprensibile, di partiti e governi, sia dalla dimostrata impossibilità di adeguare efficacemente alle esigenze locali la complessa e macchinosa congerie di strutture dello Stato mediante la deconcentrazione di funzioni marginali dei ministeri.

Le molteplici iniziative culturali di carattere locale (dibattiti, inchieste, studi, etc.), la facilità con cui il tema dello sviluppo economico regionale trova energie disposte a mettersi al servizio della collettività ed alcune riviste giovanili, che tentano di scavare nella realtà economico-sociale del loro ambiente, ne sono una dimostrazione concreta.

Al livello parlamentare e di governo la vicenda regionalista segna il passo […]. La questione della realizzazione dell’ordinamento regionale è al centro della polemica fra liberali e repubblicani sulla sorte del Governo Fanfani. I primi, per bocca dell’on. Bozzi, hanno chiesto l’accantonamento della questione. I repubblicani reputano che la mancata attuazione delle Regioni, che costituiva un impegno del governo Fanfani, sia una riprova dell’esaurimento della formula governativa.

Dalla stampa cosiddetta di informazione emergono, con i vecchi motivi di conservazione politica, il rifiuto dei risultati della Commissione Tupini e, magari, la falsificazione della realtà (la legge del ’53 riguarderebbe le regioni a Statuto speciale, le Regioni ordinarie sarebbero dotate di illimitata libertà di istituire tributi, etc.) Ma perfino riviste come Prospettive meridionali, che non può considerarsi espressione della destra politica, riprende il tema (giugno 1961, pagg. 6-7) con una esposizione cronologica della questione autonomistica e, aprendo un dibattito, si colloca in una equivoca situazione di equidistanza tra regionalisti ed antiregionalisti.

Le obbiezioni della destra, dunque, non solo riescono a bloccare l’iniziativa dei fautori delle Regioni ma invadono campi che sembravano essergli preclusi. Non ci facciamo nessuna illusione. Il timore che nel territorio dello Stato si possano ripetere situazioni in cui, come in Val d’Aosta, i comunisti partecipino al governo della cosa pubblica, o peggio, che si instaurino giunte regionali di centrosinistra, come in Sicilia, è soltanto la manifestazione esteriore della avversione profonda per l’unico fatto nuovo nella organizzazione delle nostre strutture politico-amministrative. […].

Fatta questa lunga premessa c’è da dire che il volume di Enzo Santarelli (L’Ente regione, Editori riuniti, Roma 1960, pagg. 184) non rappresenta un contributo molto positivo alla battaglia per l’ordinamento regionale […]. La lacuna più evidente del lavoro è la sua origine estemporanea (venne predisposto in occasione delle passate elezioni amministrative) e la conseguente confusione tra propaganda e cultura politica. Ne registriamo la presenza nella storia della letteratura regionalista come uno dei pochi contributi di una parte politica molto importante alla conoscenza del problema.

E in conclusione:

Sul piano della analisi storica la rievocazione del Risorgimento e delle vicende di fine secolo è rivolta a tentare una interpretazione nuova dell’idea regionalista. Cattaneo, Minghetti, lo stesso Salvemini sono rappresentati come dei modesti precursori dell’autonomismo dei socialisti e dei comunisti. Sfugge completamente all’Autore [Santarelli] che, nonostante qualche spunto interessante (es. il manifesto dei socialisti siciliani del 1896) il Partito socialista, sia per la sua natura di unica organizzazione centralistica del nostro Paese, sia per la concentrazione dei suoi gruppi più agguerriti nell’Alta Italia, rifiuta fino al secondo dopoguerra ogni forma di rottura delle strutture dello Stato unitario, o meglio non si pone affatto il problema in termini regionalistici […].

Dell’atteggiamento del PCI in materia di autonomie regionali, il che fa tutt’uno col volume che recensiamo, Marco Cesarini Sforza ha dato un giudizio (“Il regionalismo dei democratici”, Nord e Sud, marzo 1960 pag. 10 e segg.) molto severo ed in gran parte sottoscrivibile.

Il concepire la Regione, all’insegna di una posizione cosiddetta “realista”, soltanto «in virtù del rafforzamento della unità nazionale e statale» e non come strumento per uno sviluppo economico più omogeneo della società italiana; la diffidenza dei costituenti comunisti verso l’attuazione dell’ordinamento regionale in tutta Italia (facevano eccezione per la Sicilia e la Sardegna); il silenzio sul problema per oltre un decennio dalla Costituzione, sono dati che dimostrano il regionalismo come una posizione recentemente acquisita dal PCI. Le contraddizioni tra le attuali posizioni e la tesi di Grieco per cui «l’ente regione dovrebbe restare entro i limiti di una istituzione amministrativa» (I comunisti e la creazione dell’Ente regione, Roma s.d. ma 1946) non trova giustificazione se non nella esclusione dei comunisti dal governo centrale e nella importanza che le Regioni a Statuto speciale hanno assunto nella vita dello Stato. A questa stregua anche la politica di rinascita e l’azione di coloro che vogliono aprire la stessa fabbrica in dieci paesi diversi, si inquadra in una luce nuova, nella quale non basta che il secondo partito italiano sia all’opposizione per garantire la serietà della sua battaglia per le autonomie regionali.

Nella parte relativa alla attualità del problema, i limiti che abbiamo rilevato assumono una evidenza che non ha più bisogno di commento. Santarelli rimpiange, per esempio, che la Costituente non abbia scelto, nel configurare la Regione, la strada della «instaurazione di un “consiglio dei servizi”» ovvero «come una espressione organica di interessi economici, sociali e amministrativi». Altrove afferma che «le regioni non sono il socialismo, ma non contrastano nemmeno con il socialismo», etc.

Nel complesso l’opera dimostra che non è stata avvertita l’importanza dell’ordinamento regionale, sia come elemento di rinnovamento delle istituzioni pubbliche, sia come centro di organizzazione della pianificazione economica democratica. Il problema della ridistribuzione del potere di decisione nella istituzione sociale, nonostante gli atteggiamenti verbali del Santarelli, non è ancora attuale per chi opera tenendo lo sguardo fisso ad una rivoluzione fatta dal centro come quella sovietica.

Per concludere si può dire che il lavoro del Santarelli non è una ricostruzione ideologica dell’autonomia secondo i principi del comunismo. E’ un’opera da riscrivere per le lacune culturali che rivela (basti dire che ritiene insufficienti gli studi giuridici sull’ordinamento regionale, mentre nessuna parte della Costituzione può vantare una bibliografia scientifica così ricca!) ed il momento di riscriverlo dovrebbe essere successivo ad un serio approfondimento del problema da parte dei comunisti italiani.

da “I socialisti lombardi e l’autonomia regionale” (cf. n. 1, gennaio 1962).

Dodici anni di autonomia, nonostante le mende e le lacune della istituzione ci hanno dato una certa “scafatura” per apprezzare o meno la serietà di un contributo alla battaglia per le regioni. Superate le ingenue attese della vigilia, quando si pensava che la Regione potesse “fare tutto”, abbiamo guadagnato in termini di concreta conoscenza dei problemi e di più consapevole scelta dei mezzi per superarli. Forti di questa esperienza possiamo giudicare, senza presunzione ma anche ad occhi aperti, le posizioni che altrove vanno maturando sulla attuazione della Costituzione in materia di ordinamento regionale.

Il volume La Regione lombarda (Atti del Convegno regionale del PSI, Milano, 14 febbraio 1960, edizioni Avanti! 1960) non ha deluso le nostre aspettative autonomistiche, anzi ci dà la misura di come il PSI abbia portato avanti anche sul piano culturale l’esigenza regionalista. Persino i limiti tipici degli atti di un convegno (frammentarietà degli argomenti, dissonanze tra relatori e intervenuti) sembrano superati da un discorso a più voci che nella sua varietà democratica di conoscenze e di linguaggio dimostra come la questione sia sentita in Lombardia con un interesse che ci ricorda i migliori momenti della resistenza ed i tempi eroici del sardismo. (In un momento in cui il Corriere della Sera ha sostituito la penna del regionalista Einaudi con quella del filomissino Franco Bozzini non è poco),

La relazione generale tenuta da Achille Corona, responsabile socialista per gli Enti locali, introduce immediatamente un motivo nuovo rispetto alla tradizionale polemica contro l’accentramento statale: la Regione «non è più una esigenza che nasce dalla miseria, ma dalla stessa necessità di sviluppo», in quanto non v’è altro strumento capace di legare adeguatamente la pianificazione collettiva alla democrazia, intesa come dipendenza dalla volontà popolare. Su questa linea dirà più tardi l’ing. Parigini che «vi è innanzitutto da consolidare ed estendere la coscienza che senza l’attuazione dell’Ente Regione… non sarà possibile una programmazione rispondente e propulsiva della vita regionale nel quadro di una pianificazione nazionale».

Sul piano dei rapporti tra le forze politiche, Corona chiarisce acutamente, anticipando un tema che sarà ripreso da Nenni, come il rinvio nella attuazione delle regioni sia stato il prezzo o uno dei prezzi che le maggioranze governative hanno pagato alla loro destra interna ed esterna.

Le vicende legislative dell’Ente Regione sono trattate dal Segretario del gruppo parlamentare del PSI che fornisce una sintesi onesta dei più significativi avvenimenti che hanno interessato le Camere in materia.

Dispiace constatare, ed è un inciso che non riguarda solo il volumetto che abbiamo sottomano, come non sia stato avvertito lo stretto legame esistente tra la sorte e le vicende delle regioni a statuto speciale e quelle a regime ordinario. Interessato il Parlamento sulla vita della Sardegna, della Sicilia, del Trentino Alto Adige e della Val d’Aosta. Manca la capacità di evidenziare le restrizioni interpretative dei diversi organi dello Stato nei confronti delle regioni esistenti e l’accantonamento del problema di dar vita alle altre regioni come conseguenza di uno stesso fenomeno di conservazione politica. L’unicità del problema dell’ordinamento regionale pare sia sfuggito anche ai gruppi più avvertiti della democrazia italiana. Dopo aver accettato l’istituzione di quattro sulle cinque regioni “speciali” previste, i partiti democratici sembra abbiano voluto fare, per dirla col Calamandrei, un risparmio di autonomia nei confronti delle regioni “ordinarie” e, per converso nel sostenere la battaglia di queste ultime, hanno trascurato totalmente gli aspetti positivi delle regni esistenti.

E in conclusione:

“La Regione fa esplodere certe contraddizioni” è il titolo del discorso di Pietro Nenni alla conclusione del Convegno. L’istituzione deve servire a vincere «il punto debole della struttura del paese un secolo dopo la sua unificazione nazionale», giacché «sulla base degli squilibri attualmente esistenti, il Parlamento va perdendo il controllo della situazione e gira terribilmente a vuoto».

Il profilo storico di Tortoreto, in appendice agli atti del Convegno assieme ad altri documenti, si occupa del contributo socialista alla istituzione della Regione e dimostra in un saggio, che meritava uno sviluppo più ampio, come le più avvertite intelligenze del socialismo ufficiale e non ufficiale abbiano apprezzato il problema dell’ordinamento regionale italiano. Turati nel 1919: «con l’autogoverno locale per tutto ciò che non è necessariamente cosa di Stato, la Regione può ancora salvare lo Stato se lo Stato si vuole salvare». Caldara: «è mio assoluto concetto che si debba abolire la Provincia e arrivare alla Regione».

Meno convincente appare la giustificazione delle diffidenze che i partiti di sinistra avevano mentre si elaborava la Costituzione. Il ragionamento che le regioni si profilavano come strumenti di eversione qualunquistica e monarchica e come organizzazione di vandee cattoliche non regge. Che si trattasse di una posizione errata è dimostrato non solo dall’attuale fervore socialista per le regioni, ma soprattutto da come la destra italiana si sia impadronita dell’argomento rovesciandone la motivazione col paventare la “cintura rossa” che la situazione del Titolo V della Carta costituzione creerebbe nell’Italia centrale.

Per concludere si può dire che il volumetto, anche se non è, come si diceva, privo d’ombre, merita una maggior diffusione e conoscenza perché costituisce un onesto e serio contributo alla battaglia per le autonomie regionali.

Questi i contributi a Il Bogino. Un primo affaccio nel mondo della pubblicistica politica lo aveva già avuto, Tuveri, su Ichnusa (“bimestrale di letteratura, arte, tecnica, economia ed attualità”), la prestigiosa rivista fondata nel 1949 a Sassari da Antonio Pigliaru. Suo, in particolare, nella rubrica “Rassegne”, l’articolo “Un’indagine sul Montiferru” (cf. n. 32 dell’ottobre 1959) che rimanda ad un periodico lussurgese detto appunto Il Montiferru, ed alle sue attività convegnistiche, nonché al volume Autonomia e solidarietànel Montiferru, curato da Diego Are, Antonio Cossu ed Albert Meister tutto puntato sulle analisi sociologiche di quel territorio fra l’Oristanese e il Marghine-Planargia.

Eccone un breve stralcio come giudizio di sintesi dell’opera complessiva e dei tre saggi ivi ricompresi:

Dopo l’inchiesta comunitaria su Grassano non sono mancate indagini e ricerche sperimentali sulla vita di un Comune o di una zona del Mezzogiorno. Questi studi, ispirati alle teorie sulle aree depresse e alla politica di sviluppo economico, hanno provocato, affinando la letteratura critica degli scorsi decenni, una notevole quantità di monografie e di articoli riguardanti la vita delle comunità agricole del Sud. Ma mentre sono frequenti le pubblicazioni di provenienza settoriale (politica ed economica) e abbastanza comuni le elaborazioni di dati statistici fatte centralisticamente da studiosi ed appassionati, mancano o sono molto rari i contributi degli interessati alla chiarificazione del processo di sviluppo.

Veramente non è facile rilevare le opinioni e gli orientamenti dei ceti sociali di un paese, senza scadere nella narrativa fine a se stessa od in quella folkloristica. Né è più semplice osservare con metodo positivamente critico una realtà, senza dimenticare quale elevato contenuto umano deve essere costato il raggiungimento dell’equilibrio economico e sociale esistente. In altri termini, in tutte le indagini, espresse quantitativamente, esistono una somma di ragioni che le cifre non rivelano se l’opera di raccolta di dati non si è svolta in un clima di incontro tra lo studioso ed i soggetti della ricerca. L’ideale, ben s’intende, è rappresentato dalla possibilità che il lavoro, dallo studio degli schemi alla impostazione dei questionari, dalla elaborazione dei dati sino alla stesura dei risultati delle indagini, sia condotto da un gruppo di persone in cui gli intellettuali locali, con le loro conoscenze dell’ambiente, e studiosi di diversa provenienza, con il loro metodo, riescano a fondersi in una “equipe” omogenea.

Questo originale metodo che vede riunite le esigenze di base alla cultura ha dato risultati proficui nell’azione intrapresa da un certo numero di giovani di Santulussurgiu, organizzati intorno al periodico Il Montiferru e ad altre interessanti iniziative associazionistiche, con l’aiuto del Centre Europeeen de la Culture di Ginevra e la collaborazione del Prof. Albert Meister. Il volume Autonomia e solidarietà nel Montiferru (Cagliari, 1959, pagg. 176 e ss.) di Diego Are, Antonio Cossu e Albert Meister raccoglie alcuni saggi su questa esperienza con il sottotitolo “Sguardi e prospettive per un programma di sviluppo di una zona della Sardegna”.

E più oltre e in conclusione:

Il giudizio che può esprimersi sul lavoro è positivo per diversi ordini di considerazioni. Come si diceva, perché costituisce una importante tappa della attività del Gruppo Santulussurgese. Non è quindi esercitazione intellettualistica, ma il risultato in termini concreti di un’opera pluriennale rivolta ad accelerare il processo di crescita economica e sociale di una zona sollecitando dalla base, in modo democratico e funzionale, la tendenza allo sviluppo. Del fatto che a quest’opera, limitata – purtroppo – all’ambito di Santulussurgiu abbia contribuito non poco l’amor di patria nel senso corretto di amore per la terra dei padri – non si rileva altra condizione che il limite territoriale della base della inchiesta. Né si può negare al libro la dote della chiarezza e della accessibilità

Ed in un momento in cui la difficoltà del linguaggio (proprio in materia di sviluppo) supera talvolta la complessità concettuale delle questioni, questa chiarezza, anche nella espressione formale, conferma che l’opera è stata preparata e concepita in tutti i suoi aspetti a misura dell’uomo.

Fra “Il Mondo” e “Il Paradosso” (e “Sardegna oggi”)

Ma con Il BoginoIchnusa una segnalazione la fatica di scrittura di Marcello Tuveri, al tempo poco più che trentenne in grande spolvero sulla piazza più qualificata del dibattito pubblico riferito alla attesa “rinascita sarda”, la merita con riferimento anche al prestigioso Il Mondo di Mario Pannunzio, rivista d’area liberaldemocratica e riformatrice in uscita dal 1949 e cui negli anni ’50 e successivi collaborarono numerosi sardi di speciale valore come Salvatore Cambosu ed Emilio Lussu, Francesco Cocco Ortu e Raimondo Demuro, Giuseppe Fiori e Marcello Lostia, Maria Giacobbe e Gavino Musio, Emiliano Spada e Michelangelo Pira ed Antonia Iriu (cugina di Antonio Gramsci), nonché – impegnati su tematiche d’interesse isolano – intellettuali e giornalisti del livello di Vittorio Fiore e Giuseppe Neri, Gilberto Rossa e Giuseppe Tarozzi, Giulia Massari e Raul Leonardi, Enzo Tagliacozzo – al tempo docente nell’Isola – e Alfredo Todisco, Arnaldo Bocelli, Carlo Falconi e Leonetta Cecchi Pieraccini…

Marcello consegnò al giornale, che lo pubblicò a tutta pagina nel numero dell’11 settembre 1962, l’articolo “400 miliardi per la Sardegna: il piano e la politica”, giusto commento alla legge di Rinascita votata a giugno.

Eccone il testo:

Il piano di rinascita della Sardegna è entrato prima nei testi delle scuole elementari che nelle colonne della “Gazzetta Ufficiale della Repubblica”. Questa circostanza paradossale, che ben si spiega con la tecnica degli opportuni silenzi e dell’esaltazione del presente tipica dei compilatori di testi scolastici, è originata dal lunghissimo “iter” governativo e parlamentare del provvedimento. Ma ci dà anche ragione del come un problema di importanza notevole ai fini della conoscenza del modo di pianificare sia diventato frusto persino per la pubblicistica più avvertita.

Sempre presente nelle dichiarazioni programmatiche degli ultimi sei o sette presidenti del Consiglio, il Piano per la Sardegna si era trasformato, assieme alla attuazione della Costituzione, alla riforma della pubblica amministrazione ed al piano per la scuola, in un argomento d’obbligo. La lunga storia che si è conclusa, e per molti versi iniziata, le settimane scorse, reca nel titolo la data di origine della legge: “Piano straordinario… in attuazione dell’art. 13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3”.

Ogni altra considerazione sul prezioso tempo perduto per il progresso economico e sociale dell’Isola ruberebbe spazio all’attualità del provvedimento, che va apprezzato con attenzione critica perché è il primo Piano che lo Stato si appresta a compiere investendo tutti i settori economici e tutte le strutture sociali di una determinata area territoriale. La manovra contemporanea di tutte le leve disponibili è rivolta, almeno nelle intenzioni, non alla sistemazione di questo o quel settore (come sin’ora è accaduto per gli interventi dello Stato) ma allo sviluppo economico orientato secondo una precisa finalità: “determinare la massima occupazione stabile e più rapidi ed equilibrati incrementi del reddito”.

Nonostante la contraria opinione, diffusa specie in taluni gruppi, la pianificazione non è in se stessa democratica ma tale può divenire soltanto se inserita validamente in una struttura democratica. L’intervento per la Sardegna, previsto dalla legge promulgata l’11 giugno, ci pare risponda alla premessa di valore della democrazia per due caratteristiche del quadro istituzionale, delle quali vale la pena di sottolineare l’originalità: la effettiva partecipazione, finalmente non in funzione subalterna, dei poteri pubblici locali, assicurata mediante una imputazione di poteri al più importante e “politico” di essi, quale è la Regione; la consultazione sistematica degli operatori economici e sociali attraverso le organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori in ordine alla predisposizione del Piano e dei programmi.

La partecipazione dei sindacati a decisioni politico-sociali è una pratica assai diffusa in molti paesi di democrazia occidentale. Nuova per il nostro, ove l’ammissione di rappresentanze di interessi è gravata dal sospetto di corporativismo, la consultazione dei soggetti principalmente interessati allo sviluppo è conforme all’esigenza di razionalizzare entro canali di legittimità l’apporto dei gruppi di pressione. Fingere l’inesistenza di certi gruppi, salvo a subirne i condizionamenti sul piano politico-amministrativo, è una pratica da accantonare, se si vuole che dall’incontro dialettico di quelle forze il potere pubblico sia capace di mediarne correttamente le tendenze commisurandole agli interessi generali della collettività. La partecipazione dei sindacati al piano sardo non deve essere considerato soltanto come un mezzo tecnico per integrare le conoscenze delle rappresentanze politiche ma un modo per consentire il più compiuto passaggio della volontà popolare all’apparato dei pubblici poteri.

Il quadro istituzionale del Piano, per il resto, si articola nel Comitato dei ministri per il Mezzogiorno che approva il piano stesso e i programmi quinquennali e annuali formulati dalla Regione autonoma della Sardegna. L’attuazione del programma è affidata alla stessa Regione e il controllo tecnico della progettazione ed esecuzione agli uffici della Cassa per il Mezzogiorno.

La versione che il precedente governo aveva dato all’organismo di attuazione era un’altra pienamente coerente all’orientamento di cauta avversione dei governi centristi verso le regioni. In quel disegno di legge, già approvato dal Senato, il concorso del massimo ente territoriale veniva ridotto alla partecipazione di alcuni suoi membri al Consiglio d’Amministrazione di una sezione specializzata della Cassa per il Mezzogiorno. In quest’ultima si incentrava la massima responsabilità degli interventi.

Il salto qualitativo, la scelta tra la Cassa e la Regione a vantaggio di una collaborazione tra i due enti, è stato il primo atto di fiducia del governo di centro-sinistra verso le autonomie locali. Si deve alla decisione del ministro del bilancio ed all’apporto del Partito Sardo d’Azione se le incertezze, determinate dal timore di una parte della classe dirigente locale di veder rinviare ancora l’approvazione della legge, sono state superate con rapidità portando a definizione l’annoso progetto.

Il dato più importante, che testimonia della vitalità del Parlamento quando è animato da una seria volontà politica, è non solo la rapidità con cui si è raggiunta la conclusione, ma soprattutto che questo è accaduto nel pieno rispetto della autonomia della Sardegna che, in un intervento massiccio, governato da una istituzione centralizzata, avrebbe visto vanificata la propria funzione. Il significato politico della svolta è ancora più evidente se si bada alla complessità degli interventi ed alla entità della spesa (400 miliardi) da disporsi in quindici anni. Si può dire che il ventaglio in cui si dispiega il piano non lascia fuori nessuna delle suscettività dei diversi settori pur indicando la priorità dei fattori umani dello sviluppo. Quattrocento miliardi non sono molti, ma se ne viene garantito il carattere aggiuntivo e straordinario (e il supporto politico della Regione dovrebbe assicurare questo nuovo carattere rispetto a molti interventi finanziari dello Stato per il Mezzogiorno) possono imprimere all’ambiente un moto di autopropulsione capace di arrestare il processo di progressiva depauperazione dell’Isola.

Ora la Regione deve fissare lo schema operativo, cioè il vero e proprio piano, tenendo conto della cornice che lo Stato ha predisposto e principalmente, come dicevamo, della priorità attribuita ai “fattori umani dello sviluppo”. In questa espressione, diffusasi nella traduzione letterale dall’inglese, è ormai acquisito il complesso degli interventi rivolti alla formazione professionale, alla educazione degli adulti, al miglioramento del sistema scolastico tradizionale fino a comprendere la formazione dei quadri per lo sviluppo economico e l’assistenza tecnica e sociale.

L’intervento nel settore dei trasporti è orientato verso l’inserimento dell’Isola nel sistema tariffario nazionale e verso il miglioramento dei sistemi di comunicazione. Il primo scopo da perseguire si rivolge a colmare una grave strozzatura della economia sarda: il fatto che il trasferimento delle merci e delle persone è gravato, a causa del tratto marittimo, da un sovraccosto che, a parità di distanza tra un qualunque centro dell’Isola e l’Italia peninsulare e due centri della Penisola, raddoppia circa l’entità del prezzo che devono pagare i sardi.

Sono previsti interventi di sistemazione ambientale ed edilizia, la cui importanza non è ragguagliabile a quelli per lo sviluppo agricolo. Per quest’ultimo settore è prevista l’attuazione di complessi organici di opere pubbliche e di bonifica e di opere private obbligatorie di trasformazione oltre la introduzione di moderne tecniche produttive e di pratiche per l’incoraggiamento alla cooperazione ed ai piccoli produttori specie nel settore della pastorizia.

La Commissione di studio, che per preparare il Piano lavorò sino al 1960, per ben sette anni, aveva posto l’accento sui problemi della agricoltura in quanto ravvisava in essa fattori propulsivi più determinanti che non nel settore industriale. Il rifiuto della identificazione sviluppo economico-industrializzazione, poteva considerarsi parzialmente valido in quanto fondato sulle condizioni attuali dell’Isola, ma nascondeva la carenza di una prospettiva di politica economica che era tipica degli scorsi anni. Una chiara e decisa inversione di tendenze si era già formata ad opera di un Gruppo di lavoro che il Ministro Pastore aveva insediato per vedere di riassumere operativamente i doveri della comunità nazionale verso la Sardegna. Il superamento dell’orientamento ad adagiarsi nel presente ha prodotto una modificazione radicale in ordine al problema della industrializzazione.

Lo sviluppo industriale è dunque affidato ad una serie di strumenti il principale dei quali è una società finanziaria, in cui alla Regione è garantita la maggioranza azionaria, che dovrà promuovere ed assistere le iniziative industriali coerenti al Piano, sia con compiti di finanziamento diretto con la partecipazione al capitale di altre imprese. Altri interventi di tipo tradizionale (aree industriali, incentivi) completano il quadro.

La ampiezza notevole delle direzioni che possono offrirsi ai pubblici poteri può risolvere il Piano in uno dei tanti strumenti della cosiddetta “pianificazione indicativa”. Sarà compito e responsabilità della Regione e del governo garantire il più stretto coordinamento degli interventi fra loro e la suturazione degli stessi con le altre molteplici azioni pubbliche (Cassa del Mezzogiorno, Piano verde, Piano per le strade, bilanci ordinari dello Stato e della Regione) in una previsione organica delle correlazioni reciproche.

Il Piano per la Sardegna è ancora da farsi nel concreto. Sono presenti una larga base di studi e una legge che ha rispettato l’autonomia della Regione. Ora è necessaria una ferma volontà politica, per conseguire obiettivi precisi, calcolati sulla resa prevedibile degli investimenti ed orientamenti tecnico-economici sufficientemente elastici per adeguare gli interventi al mutare della situazione economica.

Le premesse organizzative degli interventi ed il livello di conoscenze conseguito nelle ricerche degli scorsi anni faranno dell’azione pubblica in Sardegna il banco di prova della pianificazione regionale. Ma l’ideologia del Piano è ancora lontana da una sua precisa configurazione: indubbiamente è assai più chiara, come dimostra l’articolo di Paolo Gaudo sul “Mondo” del 12 giugno, nella sua prospettazione nazionale.

Un esempio basterà a chiarire i rischi che comporta l’azione per la rinascita della Sardegna per tutto l’arco della sinistra democratica. Non manca nella legge cornice l’indicazione che il Piano deve essere formulato per zone territorialmente omogenee, individuate in base alle strutture economiche prevalenti, alle possibilità di sviluppo ed alle condizioni sociali. Non manca neanche la prospettiva di partecipazione degli enti locali e degli enti pubblici operanti in Sardegna. Ma basterà questo fatto a stabilire che il dilemma tra pianificazione dal basso e pianificazione centralizzata, tra spirito comunitario e spirito burocratico è definitivamente risolto? La stessa esperienza dell’autonomia regionale, non tutta positiva, induce a ritenere necessario che il coordinamento dei diversi compiti non si riduca in una ulteriore mortificazione dei soggetti e degli organi in cui si articola la sovranità popolare al livello delle subregioni, delle zone e dei comuni.

Non minori perplessità determina il problema delle forze politiche capaci di sostenere la scelta per la pianificazione democratica. Per alcuni anni l’azione dei partiti politici, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si è svolta in termini unitari rispetto al problema della rinascita. Era una necessità tattica dettata dalla fase rivendicativa del Piano, un fronte di solidarietà regionale. Oggi la continuazione di una simile linea appare ingiustificata per il tipo delle scelte non indiscriminate ma di sistema che dovranno essere fatte dalla Regione. Il rischio che la Giunta sarda corre è quello di una unanimità condizionante che blocchi ad un livello tecnico-economico ogni soluzione. L’avversione della destra per qualunque intervento diretto dei pubblici poteri e dei comunisti per la grande industria privata sono alcuni dei limiti naturali di certe forze politiche.

E’ difficile che la Giunta regionale formata da democristiani, che dispongono in Consiglio della maggioranza assoluta, e sardisti, che coprono in Sardegna lo spazio che va dai repubblicani ai socialdemocratici, possa ragionevolmente attendersi l’unanimità in tutte le soluzioni che verranno svolgendosi programmaticamente.

In che misura la formazione a Roma del governo di centro-sinistra ha influito sulla situazione regionale? Una domanda di questo genere ha i suoi aspetti di equivoco che bisogna dissipare. Ogni autonomia politica deve implicare la possibilità di una linea di condotta differenziata tra centro e periferia. La pretesa di una uniformità di atteggiamenti tra il Piano nazionale e quello locale, è considerata dagli autonomisti una scimmiottatura, un conformismo astratto e deteriore rispetto alle necessità che maturano l’ambiente a certe convergenze. Il metro della articolazione tra politica nazionale e politica regionale si è andato perfezionando, tra pregi e difetti, durante le tre legislature delle regioni a statuto speciale. L’applicazione integrale del titolo V della Costituzione dovrà abituarsi ancora di più a questo metodo.

Fatta questa premessa bisogna dire che il centro-sinistra, oltre ad aver influito positivamente nella variazione del testo di legge sulla rinascita, ha reso più vivace l’azione del Consiglio regionale negli ultimi tempi. Ma sostanzialmente non ha fatto registrare altri effetti di rilievo all’interno della politica regionale. Le ragioni di questo fatto sono da ricercarsi nell’atteggiamento dei due gruppi di democrazia laica e socialista. Il Partito Sardo d’Azione e il Partito Socialista Italiano non sono riusciti ad avviare tra loro un dialogo proficuo. Il Partito Sardo non è privo di mende e di responsabilità; ma dispone di una attenuante formidabile perché ha da fare con un PSI diretto da una maggioranza di estrema sinistra. (L’on. Lussu dispone in Sardegna di una semiunanimità nelle diverse federazioni). Il frontismo, nonostante qualche cauto accento di alcuni esponenti regionali, è ancora la linea di fondo dell’azione socialista nell’Isola. La DC, peraltro, nelle sue sfumature di centro-destra, non supera nella prospettiva delle correnti le formule dei moro-dorotei. In questa situazione il voto favorevole dei missini e l’astensione del PCI e del PSI nella votazione della legge che mira ad adeguare le strutture amministrative della Regione al nuovo impegno, non chiarisce affatto i termini del problema che è quello di assicurare la partecipazione dei lavoratori, oltre che come gruppi sindacali, come forza politica alla azione per lo sviluppo economico. Diversamente, dato lo stretto legame tra l’azione sindacale e l’azione politica in un’area depressa come la Sardegna, anche la partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori sarebbe parzialmente compromessa.

Il problema per i democratici di sinistra in Sardegna è, dunque, da un lato il superamento del limite ideologico del PSI, che qui considera l’unità della classe operaia impromovibile senza l’unità politica col PCI, dall’altro la messa in disparte dell’idea che alla realizzazione di una svolta, per l’allargamento dei consensi politici ad una politica di piano, il Partito Sardo d’Azione sia autosufficiente.

Dalla soluzione di questo problema dipenderà in gran parte se il passo decisivo di avvicinamento della Sardegna alle condizioni di vita delle altre regioni potrà compiersi. Ma alla maturazione di esso non riteniamo che siano utili le posizioni di forza delle direzioni nazionali dei partiti.

Si è detto che il Piano sardo rappresenterà una sfida dei pubblici poteri agli operatori economici e sociali. La sfida non passa sopra la realtà politica, ma la comprende per garantire la corrispondenza della svolta economica e sociale alla più larga espressione di volontà dei cittadini.

Fra Roma e Cagliari

Dello stesso 1962 di un qualche rilievo è altresì la lunga (lunghissima) lettera al periodico romano Il Paradosso (nella sottotestata “rivista giovanile di cultura”) che Sardegna oggi, il bel quindicinale socialista condiretto a Cagliari da Sebastiano Dessanay e Antonello Satta, ospita nel suo numero del 15-31 dicembre 1962. Titolo “L’Autonomia come mezzo”.

Eccone il testo:

Egregio Sig Direttore,

può apparire inconsueto, se non addirittura strano, che un lettore Le scriva per esprimere riserve e formulare osservazioni non sul contenuto di un articolo ma sulla sua presentazione.

Ma si spiega. E’ abbastanza infrequente che una introduzione, sintetica come un sottotitolo, esprima un giudizio così netto e staccato dal contenuto che l’autore ha voluto dare all’articolo, come è accaduto nella premessa redazionale al saggio di Sandro Maxia “La battaglia democratica del Partito Sardo d’Azione” (Il Paradosso n. 31-32 pag. 55 e ss.).

Chiunque abbia conoscenza delle vicende della Sardegna in questi ultimi quindici anni non può accettare la sbrigativa decisività di una affermazione che riduce il Partito Sardo d’Azione tra i fenomeni interessanti un processo storicamente esaurito di crescita autonoma delle forze politiche di carattere regionale.

Dopo aver detto che «Il Partito Sardo d’Azione è uno dei piccoli movimenti della sinistra non marxista», la nota introduttiva su cui vorrei soffermarmi prosegue: «la sua battaglia autonomistica si è esaurita quando quindici anni or sono venne creata in Sardegna la Regione Autonoma a Statuto Speciale caratterizzata dalla presenza dei moderni movimenti di massa».

Senza pretendere di ricostruire ciò che è successo negli ultimi quindici anni, se limitassi la osservazione al fatto che il Partito Sardo d’Azione, nelle consultazioni elettorali di questo periodo, ha totalizzato tra i 25 ed i 30.000 voti nelle politiche e tra i 40 e i 50 mila in quelle regionali, contrapporrei un dato oggettivo ad un giudizio di valore. Anche il fatto che il Partito Sardo d’Azione è rappresentato da cinque consiglieri nella Assemblea regionale, due assessori nell’attuale Giunta non modificherebbe il significato della sua presenza politica se non confermando una rispondenza, quantitativamente modesta, della volontà popolare ai suoi programmi.

Premesso quindi che il Partito Sardo d’Azione esiste ancora (il che non è negato dalla affermazione che è «uno dei piccoli movimenti della sinistra non marxista») c’è da domandarsi se è vero che la sua battaglia autonomistica si sia esaurita con la creazione della Regione Autonoma «caratterizzata dalla presenza dei moderni movimenti di masse».

La risposta a tale domanda sarebbe facile ove si dimostrasse:

1) che il Partito Sardo è nato al solo scopo di dotare l’Isola di una certa struttura politico-amministrativa (la Regione) senza alcuna considerazione del contenuto economico e sociale di cui questa forma, genericamente democratica, di articolazione istituzionale poteva essere riempita;

2) che il Partito Sardo, oltre l’apprezzamento degli interessi regionali, non abbia acquistato alcuna convinzione circa le inter-connessioni esistenti tra i problemi della Sardegna e quelli generali del Paese.

Per quanto riguarda il primo punto non si trova alcuna difficoltà a rilevare che le dichiarazioni e l’attività del Partito Sardo sono state e sono oggi improntate alla considerazione che l’autonomia regionale non è mai stata un fine, ma un mezzo per realizzare nell’Isola condizioni di vita civile e di progresso sociale quali sono state acquistate da altre regioni del Paese. Ricordo uno slogan che i sardisti sono andati ripetendo, prima e dopo la conquista dell’autonomia regionale: «L’autonomia non è la panacea di tutti i mali, è uno strumento di lotta per l’eliminazione delle contraddizioni economico-sociali della nostra dissestata comunità regionale».

L’accusa di concepire l’autonomia come una liberazione automatica da tutti i guai dell’Isola veniva rivolta ai sardisti dalle destre antiregionaliste proprio per l’azione politica che quelli volevano condurre, ed hanno condotto, attraverso l’istituto regionale negli ultimi quindici anni. L’indagine sulle incongruenze dell’economia sarda non è mai stata fatta in termini politicamente elusivi. Rilevare che nell’isola mancano le industrie manifatturiere a causa degli effetti di dominazione che il grande capitale del Settentrione d’Italia consegue attraverso la disponibilità delle leve creditizie ed energetiche; criticare la ingiusta ripartizione della spesa pubblica a sfavore delle regioni meridionali; mettere a nudo i problemi della Sardegna, dallo spopolamento alla insicurezza dell’ordine pubblico, dalla iniquità delle norme tributarie alla esclusione dell’Isola dal sistema tariffario nazionale in materia di trasporti, tutto ciò non significa combattere per una riforma istituzionale ma per certe cose che attraverso la Regione potevano essere fatte.

Il sardismo è stato, nel secondo dopoguerra, uno dei movimenti attraverso i quali la critica meridionalista dei primi tre decenni del secolo si è riflessa in modo concreto superando la fase tradizionale della denuncia e della lamentazione attraverso una azione politica democratica e progressista. Il Partito Sardo d’Azione, dunque, ha incanalato in modo corretto un’esigenza popolare e antifascista di prolungamento della democrazia mediante una precisa consapevolezza dei problemi ed una costante proposizione di soluzioni anticentraliste e antiautoritarie.

Due dati possono qualificare ulteriormente la utilità della presenza politica del Partito Sardo nel decorso quindicennio: nessun movimento di carattere eversivo (tipo separatismo siciliano, laurismo nazional-meridionalista) ha preso stabile piede nell’Isola; tutti i partiti nazionali, almeno quelli della destra economica, sono stati costretti ad assumere, almeno localmente, come validi i temi di fondo proposti dalla battaglia sardista. Che la battaglia per la Regione non sia stata, né all’alba del nostro ritorno alla democrazia né durante il periodo trascorso, un fatto di chiusura fine a se stesso, lo dimostrano le azioni che il Partito Sardo ha condotto all’interno dell’Istituto perché assumesse come finalità della propria sussistenza alcuni temi come la lotta contro i monopoli (con la creazione – tra l’altro – di un ente regionale per la produzione e distribuzione dell’energia elettrica); la battaglia contro l’assenteismo degli agrari e l’insufficiente coltivazione dei fondi (attraverso la obbligatorietà – pena l’esproprio – di utilizzazione degli incolti); la legislazione di favore per le cooperative sociali specie nei settori vinicolo e caseario; l’applicazione dello Statuto speciale per determinare la rinascita della Sardegna mediante una pianificazione democratica; l’assunzione da parte della Regione del controllo sugli atti degli enti locali per evitare lo strapotere prefettizio.

Come vede, la maggior parte delle soluzioni politiche prospettate regionalmente dal Partito Sardo d’Azione, in modo originale ed adeguato alle esigenze dell’Isola, costituiscono patrimonio comune dei gruppi più avanzati del Paese ed hanno una direzione univoca di lotta contro la destra economica.

Può dirsi esaurita la battaglia del Partito Sardo? Se le cose che questo partito ha voluto e vuole sono quelle indicate poco fa mi pare veramente infondato un giudizio che cancelli questo raggruppamento politico dalla storia attuale e da quella degli ultimi quindici anni in Sardegna.

Ma la nota che andiamo commentando connette l’esaurimento della battaglia autonomistica, non ai motivi rozzamente propagandistici della destra isolana, ma alla presenza dei moderni movimenti di massa. Orbene, il Partito Sardo, che è il quarto partito politico della Sardegna (7,23 per cento dei voti alle ultime elezioni) indubbiamente non ha resistito nel secondo dopoguerra (nel primo l’esperienza venne stroncata dalla violenza fascista) all’attacco frontale delle forze politiche modernamente organizzate. Infatti non ha conservato la posizione maggioritaria o quasi che ne aveva distinto la presenza nel 1921-24.

Si può connettere questo fatto all’esaurimento, per usare una frase fatta, della sua funzione storica?

Ci pare che una risposta non possa darsi senza accennare al modo in cui si sono posti i partiti politici in Italia dall’epoca del suffragio universale. I partiti, a nostro modo di vedere, hanno mutuato dallo Stato centralistico e rigidamente unitario pregi e difetti. Il pregio di ispirarsi a linee politiche d’interesse generale, il difetto di sacrificare alle esigenze unitarie il necessario contemperamento dei bisogni locali. Orientati verso un forte accentramento di poteri decisori i partiti nazionali si sono affermati in Sardegna con un rapporto di forze assai simile al rapporto governo centrale-comunità locali. La scarsa fortuna del regionalismo nel nostro Paese, lo si voglia o no, è legata indubbiamente a questa visione centripeta di ogni problema ed alla convinzione non troppo remota che le istanze locali, siano esse amministrative o di gruppo organizzato, debbano considerarsi come irrilevanti manifestazioni di volontà minoritaria.

Ma vi è di più. I moderni movimenti di massa hanno assunto in Sardegna, per motivi tattici di adeguamento ad una impostazione ormai divenuta popolare, le tesi del Partito Sardo d’Azione come fondamentali problemi la cui soluzione poteva trovarsi soltanto nella solidarietà di gruppi importanti nazionalmente.

La massiccia disponibilità di mezzi delle moderne macchine di azione politica e la accurata mimetizzazione nell’ambiente hanno avuto un peso nel Partito Sardo, proporzionalmente uguale a quello che ha tutto il Paese nei confronti di una sola Regione, depauperata e depressa.

Un gruppo locale, di ispirazione liberal-socialista, progressista ma non marxista, democratico ma non conservatore, legato ad una prospettiva di sintesi di valori per lungo tempo ritenuti contrastanti, non ha trovato in molti dei lavoratori, attratti da una logica squisitamente classista, né tra i ceti borghesi, vincolati dalle prospettive nazionali ad un mantenimento dello statu quo, il rapporto necessario a conseguire il ruolo di partito maggioritario.

Non è l’avvento della Regione, con la conseguente presenza dei moderni movimenti di massa, che ha determinato la riduzione della rappresentatività del Partito Sardo ma la particolare strutturazione dell’associazionismo politico del nostro Paese e la sorte dei gruppi intermedi, che appena adesso si riaffacciano alla attenzione nazionale, dopo un lungo inverno di posizioni estreme rigidamente contrapposte.

In altre parole il processo di conseguimento di consensi popolari non ha subito per il Partito Sardo d’Azione un regresso ad autonomia realizzata, ma un consolidamento, con prospettive di accrescimento simile a quello che contraddistingue in campo nazionale altri gruppi della sinistra laica come il Partito Repubblicano e quello Socialdemocratico.

Altre cause concorrono a questo tipo di evoluzione di forze, tra le quali non possiamo nascondere un certo romanticismo volontaristico che ha sin’ora escluso la formazione di un solido apparato organizzativo; una vocazione a sacrificare le esigenze tattiche del momento alla solidità dell’istituto autonomistico ecc. Ma non posso rubare allo sviluppo del secondo punto di questa nota ed alla Sua rivista molto spazio.

Sul secondo elemento che fisserebbe la conclusione dell’esperimento sardista a quindici anni orsono (vale a dire la mancanza di una politica «nazionale» del Partito Sardo) il discorso è più difficile come è stato difficile il cammino della sinistra democratica nello stesso periodo di tempo; come non è facile intendere la storia di piccoli raggruppamenti in un Paese in cui le associazioni mettono l’accento sulle proposizioni programmatiche meno che su quelle ideologiche.

Tuttavia vi è una precisa, anche se non sempre indovinata, partecipazione del Partito Sardo alla vita del Paese. Già la scissione dei ’48, con l’uscita dal Partito dell’on. Lussu e dell’ala sinistra, non è che un piccolo ma significativo episodio della guerra fredda (il dibattito in quel Congresso non era legato alle necessità di rottura dell’isolamento del piccolo partito regionale, ma piuttosto alla interpretazione che si andava formulando in modo frontista degli avvenimenti che lo stalinismo determinava nell’Europa orientale).

Un altro dato di questa connessione tra i problemi sardi e quelli generali del Paese può ritrovarsi nell’errore elettorale di prendere parte alla operazione della legge-truffa nel 1953. Nel quadro delle interdipendenze tra P.S.d’A. e politica nazionale è da comprendere l’alleanza con Comunità nel 1958 ed infine nella probabile alleanza col Partito Repubblicano alle prossime elezioni politiche del 1963.

In queste diverse tappe della sua partecipazione il P.S.d’A. è stato, come è nella logica di un raggruppamento locale che non trova il suo corrispondente diretto in alcuna forza nazionale, ma avverte i problemi del momento, volta a volta terzaforzista, centrista, favorevole al centro-sinistra.

Tali indicazioni sintetiche hanno avuto alcune costanti: l’antifascismo più intransigente, originato dal carattere resistenziale del partito durante il fascismo, l’ardore repubblicano, al quale è stata sacrificata dai sardisti ogni posizione di comoda evasività in una regione ove i piccolo borghesi di estrazione contadina sono legati ad una tradizione filomonarchica; la vocazione al federalismo europeo nella sua concezione più aperta alle soluzioni innovatrici; l’attuazione della Costituzione come mezzo per attribuire rilevanza giuridica alle istanze di ordine sociale derivate da un antifascismo tipo Giustizia e Libertà (cui moltissimi dirigenti sardisti aderirono) e dalla lotta partigiana. Tanto senza considerare la visione meridionalista delle soluzioni nazionali ed il regionalismo.

Mi rendo conto, Sig. Direttore, di aver portato un contributo prevalentemente orientato verso il passato. L’attualità del sardismo porta a nuovi problemi, ed a nuove prospettive di cui potremo discorrere ancora se lo riterrà di interesse per la Sua rivista.

Mi preme ora di aggiungere un’ultima osservazione. Nessuna forza politica in Sardegna, se si esclude la destra neofascista e monarchica, nega che il Partito Sardo d’Azione possa svolgere, come svolge, un ruolo determinante per la sua capacità di anticipare programmaticamente e con spregiudicatezza soluzioni essenziali al progresso dell’Isola.

Se «Il Paradosso» continuerà a scrutare le esperienze che vanno maturando nella provincia sarda, come ha fatto nell’ultimo numero, avrà modo di verificare compiutamente il perché di questa unanime considerazione di vitalità del Partito Sardo e di riconsiderare, alla stregua delle realtà regionali, alcuni giudizi «nazionalmente» ritenuti inoppugnabili.

In un esame di tal genere, che potrebbe partire dalla premessa che in Sardegna non vi è stata guerra guerreggiata né lotta partigiana tra il ’43 ed il ’45, il Partito Sardo, che ha supplito a questa carenza, troverebbe una collocazione meno sbrigativa di quella che si può leggere nei nn. 31 e 32. La sua testimonianza politica, non meno ricca nel secondo che nel primo dopoguerra, in una epoca in cui il problema delle aree depresse sembra divenuto una questione meramente tecnica, acquisirebbe il carattere che gli compete: quello di un gruppo che ha saputo cogliere le esigenze popolari collocandole in un contesto democratico e progressista adeguato ai tempi.

La ringrazio per la cortese ospitalità, che spero vorrà accordare a questa lettera, non per l’occasione polemica che involontariamente può fornire, ma come contributo alla conoscenza di una parte politica che opera in Sardegna.

Con i migliori saluti.

Protagonista anche nel sindacato…

Di un certo rilievo è, in questo stesso periodo ma con molte prove precedenti e anche successive, l’impegno sindacale del Nostro.

Concentrati nella CGIL, i lavoratori sindacalizzati militanti del Partito Sardo d’Azione lasciarono la confederazione a predominio social-comunista dopo che la scissione lussiana spaccò il partito, il che avvenne quasi in coincidenza con la frattura che, a livello nazionale, divise nel sindacato l’ala socialdemocratica e repubblicana (e quella cattolica) da quella marxista. Uscirono fra il 1948 ed il 1949 i riformisti dando vita alla Federazione Italiana del Lavoro, che presto avrebbe avuto, per complesse vie dirette e indirette, una sua evoluzione generando le ali della CISL e della UIL.

Con altri sardisti, Tuveri aderì, per certa maggiore tempestività organizzativa e per consuetudine di uomini, alla CISL e insieme con personalità come Giannetto Lay, Giuseppe Sechi, Ugo Pirarba, Damiano Giordo, Ignazio De Magistris ecc. ebbe anche, quasi da subito (allorché, da impiegato dell’università, ne prese la tessera), ruoli di dirigenza provinciale.

Era allora segretario nazionale Giulio Pastore, destinato ad assumere, una decina d’anni dopo, le funzioni di ministro per il Mezzogiorno in diversi governi (Fanfani, Segni e Tambroni, poi nuovamente Fanfani), ricoprendo quindi un ruolo-chiave nelle vicende della elaborazione e approvazione del piano di Rinascita entrato all’ordine del giorno del dibattito politico regionale. Egli, di chiara fede cattolica, assicurò al sindacato una apprezzabile terzietà politico-ideologica, favorendo così, almeno per qualche tempo, la compresenza di quadri di matrice cattolica e di matrice laica, ed una linea piuttosto eterodossa rispetto a certe attese del tradizionale bacino bianco di rimando sturziano e popolare.

Passato il sindacato alla segreteria di Bruno Storti, nel 1960 i cislini sardi si riunirono a convegno per discutere le complesse problematiche dell’atteso piano di Rinascita. Fra gli intervenuti nel dibattito fu proprio Marcello Tuveri quello che, insieme con Ignazio De Magistris, marcò più di altri la necessità che il sindacato avvertisse come proprio “diritto-dovere” quello di influire sui pubblici poteri in capo ai quali doveva porsi l’intervento-motore dello sviluppo delle aree depresse in logica programmatoria. Dunque una presenza dialettica, certamente, ma non conflittuale. (D’altra parte la stessa linea d’ispirazione repubblicana era, e ancor più sarebbe stata, quella della politica dei redditi, e dunque della “concertazione” fra soggetti variamente responsabili dell’interesse generale).

Tornò preziosa, nelle fasi approvative della legge n. 588 del 1962 l’intesa sostanziale che da parte del ministro Pastore (e indirettamente della CISL) si riuscì a stabilire con Ugo La Malfa ministro del Bilancio e della programmazione, per il buon esito parlamentare e l’equilibrato riparto delle competenze fra governo (e Casmez) e Regione sarda. Grande fu allora il contributo tecnico-giuridico di uomini vicini ai due ministri come il sardo-cabrarese Giovanni Marongiu (già compagno di studi di Marcello alla facoltà di Giurisprudenza) e l’irpino Antonio Maccanico (di origine azionista). Con entrambi, al tempo dell’approvazione legislativa, nella segreteria provinciale cislina (con Lay, Petricci, De Magistris, Cocco e Chiappella) Marcello Tuveri mantenne sempre rapporti di viva cordialità ed amicizia, mai mancando di sostenere – come in un processo senza fine – il confronto di analisi e giudizio sulla esperienza della Rinascita con le sue luci e le sue ombre.

Cruciale 1963, finalmente il deputato: è Titino Melis

Naturalmente non tutto è mai facile. Per quanto fratelli di lunga consuetudine – ora sono già quarant’anni di filato, dalla fondazione del PSd’A alle stagioni dell’antifascismo, quello eroico e quello testimoniale, e del cantiere della Repubblica e dell’Autonomia, così come del primo decennio del “regionalismo applicato”, repubblicani e sardisti sono due identità e realtà storiche e sociali distinte: soprattutto a renderle differenti è la pratica dell’orizzonte nel quale essi situano la propria lotta politica: quello nazionale i repubblicani, quello regionale i sardisti. Armonizzare i due livelli è la sfida che ogni forza deve compiere comprendendo le ragioni altrui. E’ una sfida insieme al sentimento ed alla ragione. E nonostante la complessità dei presupposti e la criticità di svariati momenti dell’intesa, forse un avanzamento nelle responsabilità nazionali – leggi ministeriali – degli uomini del Partito Sardo d’Azione sostenuti dai repubblicani, e di Giovanni Battista Melis deputato (instancabile e generoso) in predicato d’un sottosegretariato al Mezzogiorno (o all’Industria o all’Agricoltura), avrebbe potuto aprire e irrobustire una strada che invece troppo presto si farà chiusa…

E comunque. Non può certo dirsi che l’aver rinunciato ad impugnare la legge istitutiva dell’ENEL per la contestuale soppressione dell’Ente Sardo di Elettricità – secondo la richiesta di Ugo La Malfa ben consapevole di tutte le rischiose complessità aggrumatesi attorno all’iniziativa della pubblicizzazione della energia elettrica da cui molto ci si sarebbe atteso per la politica di programmazione – sia per i sardisti un sacrificio da poco. Eppure essi lo sopportano e si offrono, certamente dibattendo al loro interno circa le prospettive, all’incontro. Superando anche un’altra difficoltà che, a vederla con gli occhi del sentimento, pure sembrerebbe, o sarebbe sembrata in altri momenti, insuperabile: la rinuncia al simbolo e l’accettazione piena del pur nobile, nobilissimo simbolo dell’Edera repubblicana – rimbalzo della Giovane Europa mazziniana del 1834 – in accompagno alla lista per la Camera dei deputati, limitando i Quattro Mori ai sei collegi senatoriali della circoscrizione.

Dopo quasi un anno dal congresso provinciale di Nuoro, il consiglio regionale del Partito Sardo si riunisce a Cagliari per discutere i termini dell’intesa. Ne parla con accenti al solito intensamente partecipativi il direttore Giovanni Battista Melis, lo affianca da presso Anselmo Contu e con lui altri si pongono sulla stessa linea: fra i primi e più convinti è Armando Corona – leader marmillese (dopo sette anni a Senis è dal 1955 “sovrano” ad Ales), e così Pietro Mastino, padre fondatore e autorità morale indiscussa. E altri ancora: il sulcitano Mario Granella, il nuorese Mario Sedda, il sassarese Nino Ruju, l’oristanese Emanuele Cau. Contrario Angelo Corronca – esponente del Montiferru – mentre ancora favorevoli o favorevolissimi sono ancora il nuorese Sebastiano Maccioni, il ghilarzese Nicolò Mura, il sen. Luigi Oggiano anch’egli autorità morale indiscussa. Nel novero anche Marcello Tuveri, sensibile soprattutto all’argomento che occorra far di tutto per assorbire la tradizionale frammentazione delle forze laiche di cui è sempre e soprattutto la DC ad avvantaggiarsi.

Il compito che gli è assegnato in occasione della preparazione alle elezioni è di curare l’uscita straordinaria de Il Solco che presenti alla pubblica opinione chiamata al voto anche i nomi e le storie personali, professionali e politiche, dei candidati. Fra quelli ai quali egli si rivolge è anche Ovidio Addis, il prestigioso insegnante di Seneghe (di cui sarà presto anche il sindaco), promotore di mille iniziative culturali e titolare di una fra le più importanti biblioteche private dell’Isola.

Ecco di seguito la lettera inviatagli da Marcello Tuveri in data 24 marzo 1963, vigilia del rinnovo parlamentare e dunque della candidatura ancora una volta da Addis assicurata alla lista del Partito Sardo d’Azione (sotto il simbolo dell’Edera repubblicana):

Caro Ovidio, come probabilmente sai mi sto occupando del “nuovo Solco”. In questa mia funzione (meglio sarebbe usare un’espressione patologica, dati i risultati) ti scrivo per pregarti di farmi avere una serie di notizie su quel che ti riguarda. Come vedi evito di parlare di biografie, profili, cenni etc. Ci serve, assieme ad una tua fotografia (in atteggiamento spontaneo: non la solita “chi l’ha visto?”) per presentare i candidati nel prossimo numero del giornale.

Sì, lo so, tutti siete riluttanti a queste cose. Ma le necessità del nostro tempo sono queste. Perciò bisogna forzare la macchina e scrivere anche di se stessi.

E’ inutile che io aggiunga quanto (oltre alle due cose di cui sopra) sarebbe utile che tu scrivessi per il giornale. Te ne sarai accorto dalle immense lacune esistenti, taccio perciò a te di fare presto a mandarci qualcosa.

Perché possa regolarti aggiungo: vorremmo far uscire un numero ai primi di aprile e poi quello prima delle elezioni.

Arrivederci e scusami tuo Marcello

PS. Puoi mandarmelo all’Università.

La prima pagina de La Voce Repubblicana del 1°.2 marzo riporta i termini della intesa sottoscritta da Oronzo Reale e Giovanni Battista Melis «sulle conformi deliberazioni degli organi direttivi dei rispettivi partiti, confermata l’affinità ideologica che ha tradizionalmente legato e lega i due partiti nella convinzione repubblicana europeista e autonomista, nella sensibilità democratica e morale e nella solidarietà operante che deriva dalla comune visione dei problemi economici e sociali e della organizzazione dello Stato».

Il documento, in una serie di alinea, motiva le ragioni del patto unitario ricordando «che la battaglia per il raggiungimento di tali comuni obiettivi, condotta sul piano nazionale dal PRI, ha trovato in Sardegna espressione politica nella lotta popolare condotta da oltre 40 anni dal Partito Sardo d’Azione», «che alla lotta sardista per dare all’isola, con l’autonomia, lo strumento del suo progresso conforme ai postulati della più avanzata democrazia economica e politica, hanno validamente concorso i repubblicani sardi, partecipando alle elezioni per il Consiglio regionale della Sardegna nelle liste col simbolo del Partito Sardo d’Azione e che tale solidarietà si è concretata anche recentemente nella difesa delle impostazioni sardiste per il piano di rinascita attraverso gli uomini di governo del PRI». Esso conclude riferendo che il Partito Sardo d’Azione, «nella piena salvaguardia della sua autonomia», si presenterà in Sardegna alle elezioni per la Camera dei deputati «col simbolo dell’Edera del PRI, associando candidati iscritti al Partito Repubblicano e designando a sua volta propri candidati nelle liste repubblicane del Continente, così da consacrare la solidarietà attiva che deve mobilitare i militanti dei due partiti nella fraterna comunità degli ideali». La stessa stampa isolana dà spazio all’accordo e Reale rilascia un’intervista che esce sulla prima pagina de L’Unione Sarda (rubrica “La sedia che scotta”).

Per parte sua il PSd’A solidarizza con i repubblicani per quanto essi necessitino nelle circoscrizioni della penisola ove sia presente l’emigrazione sarda: è significativo che una tale richiesta giunga all’on. Melis attraverso una lettera dei repubblicani liguri, appellandosi alle ascendenze di Mazzini e Mameli. L’idea è di aggiungere il logo dei quattro mori ai manifesti di propaganda del PRI.

Alla tribuna elettorale del 26 marzo, sul primo canale televisivo, i repubblicani partecipano affiancando la propria dirigente Maria Teresa Bartoli Macrelli ai sardisti Giovanni Battista Melis e Anselmo Contu, che hanno quindi modo di presentare alla platea nazionale il proprio partito, rievocandone la storia ed esponendone il programma, tanto più nella presente contingenza del rinnovo parlamentare (ne darà diffuso conto La Voce Repubblicana del 27.28 marzo titolando “Sotto il simbolo dell’Edera una battaglia per la democrazia”, e nel sommario “Ricordate le comuni battaglie del PRI e del Partito Sardo d’Azione per la libertà e lo sviluppo economico e sociale”). Ove si volesse cercare un documento riassuntivo delle ragioni ideali e politiche dello storico sodalizio repubblicano-sardista ben si potrebbe trovarlo nella “rivelazione” del PSd’A all’opinione nazionale tramite la televisione in quel marzo 1963!

Il 15 aprile è Ugo La Malfa a raggiungere Cagliari per parlare in piazza. Il testo integrale del discorso del ministro del Bilancio è riportato ne Il nuovo Solco, organo del PSd’A, che esce con un numero speciale il 23 aprile. Oltre ai temi generali già tante volte trattati dal leader repubblicano, di quest’ultimo merita riprendere alcuni passaggi riguardanti la nazionalizzazione della energia elettrica, che – come detto – costituisce uno dei cardini dell’avvio della politica di centro-sinistra, ed incrocia un antico postulato programmatico del PSd’A. Dice La Malfa: «Voi sardi avete conosciuto il monopolio dell’elettricità perché possiate considerare che la nazionalizzazione dell’energia elettrica sia una distruzione del nostro sistema economico, ed io devo dare atto ai nostri amici sardisti di avere per primi in Italia iniziato la battaglia contro il monopolio locale dell’energia elettrica. Per primi essi hanno sentito l’importanza di questa riforma perché, cittadini sardi, la nazionalizzazione dell’energia elettrica non serve solo ai consumatori di luce, serve ai piccoli e medi industriali, serve agli agricoltori, serve ai commercianti, serve agli artigiani. La nazionalizzazione ha lo scopo di mettere questo servizio a disposizione di questi imprenditori piccoli e grandi perché ovunque possano sviluppare la economia locale e regionale… Noi non abbiamo fatto questa nazionalizzazione dell’energia elettrica perché siamo collettivisti o perché siamo comunisti, noi non ci vogliamo mangiare una foglia di carciofo alla volta, non vogliamo dopo l’energia elettrica nazionalizzare tutte le altre industrie; vogliamo fare quello che un liberale avanzato, l’on. Giolitti, ha fatto nel 1905, nazionalizzando le ferrovie. Sono passati cinquant’anni perché l’Italia nazionalizzasse un altro servizio pubblico…».

I resoconti giornalistici della campagna elettorale, pur con una generale sottovalutazione dei meriti della lista dell’Edera, non manca di riferire di comizi ed incontri elettorali in questa o quella città, da Macomer a Bosa e Sassari, da Ozieri ad Iglesias e Carbonia, da Tempio a La Maddalena e Villacidro, da Ittiri a Nuoro e Lanusei e Cagliari.

L’appello elettorale finale, rivolto in particolare al tradizionale elettorato dei Quattro Mori rivendica ancora una volta i meriti del PSd’A «che ha indicato per primo ai sardi la via del loro riscatto, che ha combattuto sempre con intelligente fedeltà la battaglia della Sardegna», e invita al voto «Perché il miracolo economico non rimanga privilegio di alcune regioni, di alcuni settori produttivi e di ristretti gruppi, ma investa la Sardegna, rinnovi la sua agricoltura, espanda la sua struttura industriale, promuova l’elevazione di tutte le genti del lavoro» (così il comunicato-stampa ripreso dai due quotidiani isolani il 26 aprile).

Il risultato delle urne è modesto e deludente. La percentuale nazionale delle liste repubblicane è dell’1,4, quello per il Senato dello 0,8, con solo eletto l’ex ministro Cino Macrelli. Nell’Isola si raccolgono complessivamente neppure trentamila voti, e Giovanni Battista Melis viene eletto con i resti del collegio nazionale – al pari di altri cinque colleghi (solo La Malfa raggiunge il quorum nel collegio della Romagna), ed entra nel gruppo parlamentare repubblicano insieme con La Malfa (capogruppo), Reale (che sarà ministro guardasigilli nel prossimo governo Moro), Camangi (prossimo sottosegretario), il siciliano Montanti e Randolfo Pacciardi (storico segretario nazionale che presto, però, espulso dal partito per il suo voto contrario al governo di centro-sinistra).

Il PRI considera il patto unitario con i sardisti un investimento sul proprio futuro.

Quasi la metà dei suffragi isolani (13.188) viene dalla provincia di Cagliari, poco meno d’un terzo dal Nuorese (11.531), più modesto è il risultato del collegio di Sassari (4.686). Il capolista Melis raccoglie oltre 24mila preferenze. Generalmente migliore, nell’Isola, il dato dello scrutinio per il Senato (complessivamente 34.954 voti ai candidati dei Quattro Mori).

Può dirsi iniziato in questi mesi un percorso, chissà se definirlo gemellare o invece dialettico, comunque strettamente associativo, fra PRI e PSd’A che, se a Roma vede in buona armonia, e impegnati in un intenso lavoro tanto nelle commissioni quanto in aula, Melis e i colleghi del gruppo parlamentare (e della stessa direzione, nella quale egli è cooptato), nell’Isola mostrerà sottotraccia, già dall’indomani del rinnovo consiliare del 1965, qualche precoce segno di stanca.

La Voce Repubblicana segue costantemente le attività del deputato sardista, ospitandone gli interventi più rilevanti pronunciati a Montecitorio (a cominciare da quello sulla fiducia al governo e riferisce, con sufficiente correntezza, delle prese di posizione del Partito Sardo nelle complessità della vita politica regionale. Pressoché in contemporanea con il passaggio dal governo balneare di Leone al governo di coalizione presieduto da Aldo Moro, anche in Sardegna avviene infatti un cambio di giunta, pur sempre a presidenza Corrias ed a composizione fondamentalmente democristiano-sardista con Pietro Melis e Anselmo Contu fermi nelle loro già citate responsabilità di assessori rispettivamente all’Industria e commercio e alla Igiene e sanità.

Particolare rilievo ha, in tale contesto, il lungo documento approvato dal Consiglio regionale del PSd’A il 9 novembre (e già dal suo esecutivo il 3 precedente) che, in coincidenza con la staffetta delle giunte, mette a fuoco le priorità programmatiche del partito e la apertura concreta, anche in Sardegna, alla collaborazione con il PSI (nell’Isola molto condizionato dalla presenza dei “carristi”, cioè della sinistra lussiana, che presto promuoverà una scissione per fondare il PSIUP).

In realtà i socialisti paiono propensi ad accordi diretti con la DC, scavalcando il PSd’A. E’ anzi per schivare tale rischio che Melis chiede ad Oronzo Reale un intervento sui leader nazionali democristiani. E il segretario repubblicano prontamente risponde riferendo dei passi, relativamente tranquillizzanti per il PSd’A, da lui compiuti sia su Cossiga che su Moro (cf. “Lo sviluppo dell’isola condizionato dalla presenza del Partito Sardo d’Azione”, in La Voce Repubblicana, 15.16 novembre 1963. Sommario: “Il Consiglio sardista approva il programma dell’Esecutivo e l’azione parlamentare dell’on. Melis – Auspicata una razionale impostazione del Piano di rinascita in rapporto ai nuovi obiettivi di centro-sinistra”. Sempre su La Voce Repubblicana è da segnalare, degli stessi giorni, un articolo di Lello Puddu dal titolo “Perché troppi sardi abbandonano l’isola”, che affronta la questione dell’emigrazione. Negli ultimi due anni e mezzo sarebbero partiti dalla Sardegna ben 180mila lavoratori, 48mila nei primi mesi del 1963. Il voto di primavera alla estrema sinistra avrebbe significato, per l’articolista, «il rancore verso la classe politica italiana incapace di dare contenuto e ordine alla sua politica economica». Cf. 19.20 novembre 1963).

Formandosi il nuovo governo, è legittima ambizione di Giovanni Battista Melis quello di essere indicato per un sottosegretariato o, più probabilmente, per un incarico in commissione e/o l’intervento in aula sulla fiducia, che peraltro il leader sardista svolgerà regolarmente. La Malfa, interessato alla cosa, confida di non aver potuto evitare la preferenza data dal partito a Montanti: «Comunque, Melis può contare sulla mia amicizia e qualche cosa riusciremo a fare insieme – egli scrive a Puddu il 5 dicembre 1963 –. In quanto al problema generale, esso è stato risolto nel migliore dei modi. Credo che adesso non dovremmo che pensare al Partito. Cercate di evitare, usando qualunque mezzo, che i sardisti rimangano fuori dal governo regionale». Cf. Carte Puddu, in Repertorio).

Anno 1964, l’organizzazione del movimento: nasce l’ENDAS

Tre sono i maggiori impegni dei repubblicani coinvolgenti in pieno i sardisti nel corso del 1964: la organizzazione, tanto più con il tentativo di dare strutture ad alcuni organismi collaterali (ENDAS, AGCI ed AMI) e quello di programmare il congresso regionale. C’è infine da disporsi alla partecipazione (con i sardisti) alle elezioni amministrative fissate per il 22 novembre.

Sarà dunque interessante vedere in tale contesto qualche passaggio delle vicende del PRI isolano che è insieme fratello maggiore (per anzianità e radici ideali) e fratello minore (per dimensioni e presenza sulla scena locale) del Partito Sardo d’Azione.

Permanendo, almeno per qualche mese, in capo a Luciano Marrazzi la segreteria regionale, ed a Alberto Mario Saba e Francesco Burrai quelle provinciali di Sassari e Nuoro, la direzione nazionale del partito, in persona del nuovo responsabile organizzativo Francesco Muscari Tomajoli sensibilizza anche i segretari delle sezioni più o meno efficienti presenti sul territorio delle tre province per una plenaria che abbia almeno la parvenza di un congresso regionale: l’appello arriva così ad Alghero e La Maddalena, Sorso e Olbia, Porto Torres e Carbonia, Guspini e Villacidro, Sant’Antioco e Maracalagonis e Monastir… oltreché nei capoluoghi.

In tale quadro, contando sulla maggior “forza” organizzativa del PSd’A, la sezione milanese lancia l’idea di un incontro con i sardi residenti nel capoluogo lombardo, imperniato su un comizio pubblico da affidare ad un esponente sardista e su uno spettacolo folcloristico, per concludersi con l’inaugurazione del circolo degli emigrati. In realtà si pensa inizialmente a un sodalizio caratterizzato politicamente, ma una iniziativa promossa dal sostituto procuratore generale di Milano Maniga, teso a promuovere, d’intesa con la Regione, una “Famiglia Sarda” dai tratti apolitici induce i repubblicani milanesi a ipotizzare la costituzione di una più ristretta sezione del PSd’A, da ospitare, se necessario, nei propri locali di partito.

Sotto il profilo della strutturazione del “movimento”, e sempre con il diretto coinvolgimento dei sardisti, è da segnalare, ai primi di maggio, un incontro a San Leonardo de Siete Fuentes dei dirigenti nazionali dell’ENDAS con alcuni esponenti dell’Associazione Libera Caccia ed i maggiori rappresentanti locali del PRI e del PSd’A (Marrazzi, Puddu, Burrai, Ruju, Maccioni, Puligheddu, Merella, Pau, Sanna, Corronca, ecc.), al fine di impostare una prima delegazione isolana da diffondere o meglio articolare nei territori provinciali.

Pressoché negli stessi mesi, ad iniziativa del presidente nazionale Armando Rossini, si cerca, proprio attivando le pur modeste risorse di partito, di rianimare una presenza anche dell’AGCI, che al momento è, a Cagliari, soltanto nominale (limitandosi ad una cooperativa di pesca). Naturalmente è ancora Lello Puddu che può meglio fungere da ponte fra Roma e l’Isola in tal genere di incombenze anche perché sa, meglio di altri, coinvolgere nelle iniziative i militanti dei Quattro Mori.

Anche da parte dell’Associazione Mazziniana Italiana si insiste, nel 1964, per una partenza, intanto limitata ad adesioni individuali e sottoscrizioni alla preziosa rivista associativa, Il Pensiero Mazziniano.

Il rinnovo amministrativo di province e comuni impegna duramente, in autunno, le deboli strutture dei due partiti. Gli accordi intercorsi fra di loro sono per la presentazione di liste con simbolo Quattro Mori e la partecipazione, ove opportuno, di candidati repubblicani.

Anche Marcello Tuveri è candidato alle provinciali ed al Consiglio comunale di Cagliari (con la qualifica di “Sindacalista”) nel 1964: prova di fedeltà, senz’altro con poche speranze di riuscita.

Il risultato è relativamente modesto, raccogliendo l’alleanza 44.168 voti (a fronte dei 46.130 del 1960, ma recuperando notevolmente rispetto alle politiche del 1963). Qualche miglioramento si registra nel Cagliaritano, mentre una certa flessione è data nel Nuorese. Comunque migliora il dato degli eletti – tutti espressione diretta del Partito Sardo d’Azione –, perché sono confermati i tre consiglieri provinciali a Nuoro (Mario Melis, Agostino Sulis e Pietro Murru) ed uno a Sassari (Nino Ruju), ma si raddoppia la rappresentanza – da uno a due – a Cagliari (Emanuele Cau ed Armando Corona). Molto soddisfacenti vengono giudicati i risultati delle comunali, a partire dai capoluoghi (Giovanni Battista Melis è rieletto a Cagliari insieme con Carlo Sanna, al tempo segretario dell’assessore Pietro Melis, che avvicenda Giuseppe Marongiu, mentre Nino Piretta entra in Consiglio a Sassari ed a Nuoro riescono in sette addirittura: Peppino Puligheddu, Antonio Verachi, Salvador Athos Marletta, Francesco Vacca, Elena Melis, Mario Sedda e G.Antonio Serra) e ad arrivare agli enti locali di più ridotta dimensione, con eccellenze ad Oliena e Tonara (rispettivamente dieci e sei eletti) nel Nuorese ed a Bauladu, Morgongiori, Nurachi e Seneghe (rispettivamente con 8, 6, 10 e 12 eletti) nell’Oristanese; significativi, nel Cagliaritano, i risultati di Burcei, Gonnosnò ed Ussaramanna (rispettivamente 12, 12 e 11 eletti). Il totale degli eletti sfiora i 270. (Le risultanze elettorali sono oggetto di varie trattazioni su La Voce Repubblicana: cf. 24.25, 25.26, 27.28 novembre 1964; un più articolato excursus sull’andamento elettorale isolano è sul numero del 25.26 novembre: “Il sì degli elettori sardi alla punta avanzata del centro-sinistra”, mentre a puntate dal 19.20 dicembre 1964 al 10.11 marzo 1965 sono dettagliati i nominativi degli eletti comune per comune. Un approfondito commento dal titolo “Quasi 15.000 voti in più dalla Sardegna confermano il rilancio” è a firma di Lello Puddu nel numero del 4.5 dicembre 1964. Colpisce, per quella che sarà la storia futura del partito, l’annotazione relativa all’elezione al Consiglio provinciale di Cagliari di Armando Corona. Scrive Puddu: «è stato conquistato un nuovo seggio che sarà coperto dal giovane medico di Ales, dottor Armando Corona. Corona ha realizzato nella Marmilla un notevole successo, battendo agguerriti parlamentari e fortissimi notabili: successo che si deve non solo alla sua serietà e al suo impegno nel sostenere con coerenza la politica di centro-sinistra, ma anche ad uno sforzo organizzativo che ha consentito di superare di gran lunga i risultati delle politiche. Questo secondo seggio alla provincia dovrebbe consentire alla DC di realizzare una formula di centro-sinistra respingendo la vecchia politica centrista»).

Un articolo non firmato, ma attribuibile a Puddu, su La Voce Repubblicana del 21.22 dicembre, contesta alla DC la incapacità di liberarsi dai condizionamenti interni che frenano la svolta di centro-sinistra nelle amministrazioni locali isolane, ed a PSI e PSDI di favorire, specularmente alle insidie degli «integralisti», formule che escludono, paradossalmente, sardisti e repubblicani. Il che è fenomeno che pare avere il suo epicentro nel Nuorese: «Sardisti e repubblicani, il cui coerente sforzo è stato premiato da una grande vittoria elettorale nelle ultime amministrative, intendono proseguire la loro politica volta a dare una organica impostazione di centro-sinistra anche alle maggioranze dei Comuni e delle province sarde. Ciò è duramente avversato da una parte della DC locale […] e questa operazione politica trova aiuto proprio tra quei partiti che dovrebbero schierarsi con i sardisti e i repubblicani […] e si ha così che la DC propone, alla provincia e al comune di Nuoro, una giunta monocolore e questa viene sostenuta dai voti del PSI e del PSDI» (cf. “Integralisti e ascari”, in La Voce Repubblicana, 21.22 dicembre 1964).

L’esperienza di “Nuovo azionismo”, la prima ribalta di Corona

Peraltro un certo malessere cova all’interno dello stesso Partito Sardo d’Azione, nel quale è soprattutto l’ala giovanile particolarmente forte, come detto, a Sassari ed a Nuoro, a contestare la lentezza della propria dirigenza a pungolare la DC e la giunta Corrias circa l’attuazione del programma riformatore concordato all’atto della formazione della maggioranza. E’ prova di questa insoddisfazione un articolo che Salvator Angelo Razzu pubblica sul quotidiano sassarese il 6 dicembre. «A nostro avviso – scrive Razzu – non poca responsabilità della inattività della Giunta Corrias ricade sui sardisti. Presenti come minoranza nelle due Giunte della corrente legislatura regionale, essi avrebbero dovuto essere forza stimolante nei riguardi della DC, forza aperta ad un dialogo costruttivo, e quindi non nominalistico e fatto, come si suol dire, per salvare la faccia, anche e soprattutto con le forze di opposizione di sinistra. E’ mancata la forza per fare tutto questo e, forse, sono mancate anche le idee… E’ giunto il momento in cui i sardisti devono scoprire le loro carte e, senza mezzi termini fugare i dubbi di chi ad essi guarda con ancora qualche speranza» (cf. “La crisi della Regione”, in La Nuova Sardegna, 6 dicembre 1964).

Circa il movimento giovanile sardista attivo a Nuoro (ma in stretto collegamento con Sassari) è da segnalare l’uscita, a febbraio e marzo 1964, di due numeri unici della testata Nuovo azionismo, di cui ha la direzione Giannetto Massaiu, col quale collabora una redazione costituita da Andrea Cossu, Piero Murru, Salvator Angelo Razzu, Giampiero Mureddu e Giacomo Mameli. Presentando l’iniziativa, Massaiu scrive fra l’altro: «Nuovo azionismo è nato per la divulgazione dei principi fondamentali del sardismo e del federalismo; è nato da un gruppo di giovani di ogni ceto e categoria sociale, i quali trovando nel Partito Sardo d’Azione la più piena corrispondenza alle loro idee e ai loro programmi di democratici e di laici, vogliono contribuire ad una riaffermazione politica del Partito attraverso la critica costruttiva che ci auguriamo possa sorgere da queste colonne».

E poi: «A nostro avviso il partito oggi mostra di aver perso lo slancio generoso, che era una, se non la principale, delle sue caratteristiche. Accontentandoci delle cose che si potevano fare, concedendo troppo a questa concezione quietistica abbiamo finito per arenarci sulle secche dell’ordinaria amministrazione, finendo così automaticamente alla retroguardia, date le nostre forze, l’esigua rappresentanza, specie se paragonata a quella del partito di maggioranza. E’ tempo quindi che riscopriamo le vere strade del sardismo; abbiamo vissuto i nostri momenti più belli quando eravamo la pattuglia d’assalto della vita politica isolana, quando la conoscenza dei problemi della Sardegna era nei nostri uomini vasta e profonda, perché vissuta. Oggi tante cose sono cambiate, altre stanno cambiando a ritmo sempre più intenso ed il Partito stenta a tenere il passo, ad adeguarsi ai nuovi tempi, ad essere ancora la più genuina espressione delle ansie, delle speranze, delle esigenze della nostra gente. Dobbiamo convenire che in questo senso la crisi è generale… ma per noi, il mal comune non è neppure mezzo gaudio… Certo non si può continuare di questo passo con consigli provinciali che non si riuniscono da tempo immemorabile, con un consiglio regionale che non ha alcun effettivo controllo sulla vita del partito, con la base abbandonata a se stessa, ed il vertice lontano ed assente…».

Dello stesso Massaiu è un secondo articolo ancora titolato “Nuovo azionismo” che fa più diretto riferimento al Piano di Rinascita esposto al rischio quotidiano di essere “spolpato” dalle richieste o pretese particolari. «A nostro avviso, – egli scrive – ogni lira tolta agli investimenti produttivi è un atto criminoso, un attentato allo spirito ed alla lettera del “Piano”, che fu concepito e voluto proprio per permettere la realizzazione di quella somma di impianti che con le sole nostre risorse non avremmo mai potuto avere. Questa la posizione originaria del sardismo, questa la linea che oggi dobbiamo strenuamente difendere senza esitazioni di sorta, senza sacrificare una virgola a calcoli o opportunità di nessun genere.

«Se al Piano togliamo il carattere di intervento straordinario ed aggiuntivo non avremo altro che uno dei tanti interventi statali, forse un poco più grosso del solito, ma niente di più. E sappiamo per triste esperienza che somme forse più grosse sono state spese senza per questo apportare all’economia ed alle strutture dell’isola profondi, sostanziali mutamenti. E se fra dieci anni dovremo accorgerci che tutto si è risolto in qualche acquedotto in più, in qualche strada trafficabile che ora manca, in altre parole in una serie di opere più o meno necessarie ma continueranno a mancare quelle fonti di reddito che sole possono determinare il vero benessere, lotte e battaglie, per quanto belle e generose, saranno state inutili»).

Di rilievo è senz’altro, a fine anno, la doppia elezione di Armando Corona: entrato, come detto, in Consiglio provinciale (assumendo presto le funzioni assessoriali all’Assistenza psichiatrica nella giunta di centro-sinistra presieduta dal democristiano Giuseppe Meloni) e chiamato alla difficile segreteria provinciale del partito, qui subentrando a Carlo Sanna divenuto assessore comunale nel capoluogo. Con Corona costituiscono l’esecutivo Emanuele Cau, Angelo Corronca, Mario Granella, lo stesso Sanna e Marcello Tuveri, che rappresenta l’uomo di maggior fiducia del nuovo segretario politico.

Anno 1965: La Malfa segretario a Roma, Melis è suo sodale

Anno centrale della prima legislatura nazionale di centro-sinistra, il 1965 vede una evoluzione importante degli equilibri interni all’alleanza bipartitica perché, a fronte di una compattezza “di facciata”, salgono riserve di varia natura sia all’interno dello stesso PSd’A (palesi e clamorose al congresso provinciale di Sassari del novembre, che vedrà la vittoria della corrente separatista e la sconfitta della segreteria Ruju) sia nel patto unitario col PRI. Quello della famosa “marcia” da Cagliari a Ollolai, da Ollolai a Sassari di Michele Columbu è poi anche un anno elettorale – si rinnova il Consiglio regionale – ed in esso, a marzo, celebra a Macomer il suo XV (ma la serie ordinale è piuttosto confusa, ora includendo ora escludendo le conte prefasciste) congresso il PRI, commissariato da alcuni mesi: si tratta di proporsi un rilancio che è più facile a dirsi che a farsi.

Un certo risveglio forse lo dà il congresso nazionale (il XXIX) convocato a fine marzo a Roma, che si concluderà con l’elezione di Ugo La Malfa alla segreteria, succedendo a Reale. Ad esso interviene nuovamente anche Giovanni Battista Melis il quale, ringraziando dell’accoglienza ricevuta, dice di avvertirla come «ispirata dal collaudo comune delle lotte da tanto tempo combattute insieme dai due partiti». Ed aggiunge: «Il Partito Sardo d’Azione ha sostenuto nella vita isolana le battaglie democratiche che il PRI combatteva sul piano nazionale, sulla grande traccia mazziniana: contro il nazionalismo demagogico, per la pace, per la giustizia, per l’Europa unita, per la libertà di tutti i popoli. Il nostro Partito ha creduto negli sviluppi degli aspetti nuovi di cui voi siete gli interpreti più qualificati, condividendo il programma di centro-sinistra, che dovrà farsi ancora realtà operante.

«Fra poco – conclude – avremo le elezioni regionali in Sardegna: le affronteremo in questo spirito di fraternità e di leale collaborazione insieme con voi, perché la trincea dalla quale combatte il Partito Sardo d’Azione è la stessa trincea del Partito Repubblicano» (cf. Atti e risoluzioni, 1968).

Il 13 giugno i repubblicani sostengono le liste Quattro Mori anche formalmente, apponendo l’acronimo del partito alla base del simbolo sardista. La direzione nazionale del PRI, da parte sua, diffonde un invito fra iscritti e simpatizzanti per l’appoggio alle liste sardiste. Lo stesso La Malfa parla il 30 maggio a Cagliari, insieme con il consigliere regionale sardista Piero Soggiu, ribadendo le ragioni del patto unitario bipartitico. Egli sviluppa un discorso molto articolato nel quale pare centrale il riconoscimento al partito alleato di aver correttamente posto «il problema dei rapporti fra Stato e Regione, per quanto riguarda soprattutto le responsabilità di attuazione del Piano di rinascita. Se l’ordinamento regionale fosse stato esteso a tutto il mezzogiorno – prosegue – e se forze autonomistiche d’ispirazione democratica e repubblicana avessero preso esempio dal Partito Sardo d’Azione, la situazione del Mezzogiorno sarebbe oggi politicamente e socialmente più avanzata di quella che oggi non sia. Ma l’esempio della Sardegna è ammonitore anche per quanto riguarda l’omogeneità programmatica e politica cui deve arrivare il governo nazionale, se vuole dare impulso e forza nuovi alla sua azione nel Paese. Con forze di maggioranza contrastanti, l’azione del governo centrale è grandemente ostacolata, fino al punto che la soluzione sarda appare più avanzata della soluzione nazionale della convergenza, anche se pure in Sardegna bisogna fare ulteriori passi in avanti».

Il leader repubblicano tiene un comizio anche a Sassari l’antivigilia del voto, diffondendosi nell’esame della situazione politica nazionale e giudicando come estremamente positiva la «dissoluzione delle forze di destra e la liquefazione del fenomeno laurino», circostanze che però pongono ora alla DC, in qualche modo ereditiera di quelle consistenze elettorali, il problema di non cedere agli interessi più retrivi sacrificando gli impegni riformatori del centro-sinistra. Dice che «mentre il governo di convergenza deve negare alla Regione sarda il sacrosanto diritto di essere l’organo di attuazione del piano di rinascita, deve contemporaneamente constatare, attraverso la visita dell’on. Fanfani in Calabria, che gli organi tradizionali dello Stato non corrispondono alle esigenze locali e deve inventare incentivi al fine di attivare la funzione statale nel Mezzogiorno. Ma non si tratta – avverte – di premiare i funzionari dello Stato che si stabiliscono nelle regioni del Mezzogiorno, come se si stabilissero in colonia, ma si tratta di creare l’organo politico capace di interpretare solamente i bisogni locali e di rompere con le tradizioni accentratrici e paternalistiche. Ma finché il governo di convergenza dovrà vivere sul ritardo delle conclusioni della commissione di studio per le regioni e dovrà rimandare alle calende greche ogni tentativo serio di pianificazione nazionale e regionale per non dispiacere alla parte conservatrice della sua maggioranza, non solo non creerà nulla di risolutivo in Calabria o in Sicilia, ma soffocherà dal centro lo slancio che si nota in regioni educate al pensiero autonomistico, come la Sardegna» (cf. “La programmazione vuole autodisciplina e uno spiccato senso di responsabilità verso i problemi di una collettività nel suo complesso”, in La Voce Repubblicana, 31 maggio.1° giugno 1965).

La Voce Repubblicana offre alla campagna elettorale sardista il paginone centrale del numero del 9.10 giugno, riportando oltreché le liste delle tre circoscrizioni e la sintesi del programma del PSd’A, anche il testo integrale del discorso di Ugo La Malfa a Cagliari e le parole di benvenuto al segretario repubblicano pronunciate da Armando Corona, ed offrendo infine lo spazio d’una intervista ai cinque consiglieri regionali uscenti.

Ecco alcuni passaggi dell’intervento di Armando Corona: «Il Partito Sardo ha trovato nella linea politica del PRI rappresentata in maniera così concreta e geniale dall’on. La Malfa una piena rispondenza dei suoi ideali e delle esigenze del popolo sardo. E pertanto si impegna di portare avanti una politica che ponga anche in Sardegna le basi di un rinnovamento che dia dignità umana e civile a tutti i nostri lavoratori. E’ per questo che la battaglia di La Malfa per la piena occupazione, perché ogni cittadino ottenga un diritto così elementare come il lavoro, ci trova consenzienti e fortemente impegnati. Da queste elezioni dovrà scaturire una classe politica rinnovata che si avvii per un cammino operoso, che indichi chiaramente come spendere i miliardi della rinascita, entro la visione di un piano economico che dia un indirizzo radicalmente nuovo a tutta l’economia sarda. L’on. La Malfa rappresenta la migliore tradizione della scuola democratica italiana, di cui è stato tanta parte anche il nostro partito. Ciò ha dimostrato come ministro del Bilancio, nel governo Fanfani, impostando per primo l’amministrazione della cosa pubblica in termini programmatici e di pianificazione economica; ciò ha dimostrato nei vari dicasteri di cui è stato titolare, come parlamentare, come segretario del PRI e come pubblicista. Egli ha speso tutta una vita per concorrere a creare i fondamenti di una vita democratica e reale del Paese, attraverso il rafforzamento delle autonomie locali, la partecipazione dei lavoratori alla direzione del Paese. Laicista sul piano culturale e non di un laicismo gretto, ma di un laicismo che vuole combattere ed eliminare qualunque forma di discriminazione nel campo della libertà di coscienza religiosa…».

Il PSd’A conferma la sua rappresentanza di cinque consiglieri e, in termini assoluti, i voti delle provinciali dell’anno prima; perde invece circa cinquemila voti, indebolendosi leggermente in tutte e tre le province, nel confronto con le regionali del 1961. Questo è il commento dell’on. La Malfa: «Il Partito Repubblicano ha migliorato le sue posizione quasi in ogni comune in cui si è presentato. Questo successo fa seguito a quello conseguito nelle elezioni amministrative del novembre scorso ed è la conferma del nuovo slancio politico e ideale acquistato dal partito. Il Partito Sardo d’Azione, con cui i repubblicani facevano lista comune in Sardegna, ha tenuto molto brillantemente o guadagnato voti. Un’unica flessione le nostre liste hanno registrato in provincia di Nuoro dove alla lotta aspra delle estreme si è aggiunta quella condotta contro il Partito Sardo d’Azione dai democristiani e dai socialisti responsabili di soluzioni amministrative in netto contrasto con l’impostazione di centro-sinistra» (cf. La Voce Repubblicana, 16.17 giugno 1965).

Tale indebolimento, pur a fronte di una ancor più marcata flessione fatta registrare dalle liste socialiste, sblocca finalmente il quadro politico isolano favorendo la costituzione di un quadro di centro-sinistra organico, con l’esordio cioè di esponenti del PSI nell’esecutivo. Dopo il “passo falso” della nuova giunta Corrias tripartita (senza il PSd’A), a seguito della mancata approvazione delle sue dichiarazioni programmatiche si rinegozia il quadripartito, il quale avvia il suo corso in un contesto peraltro di scontento diffuso per il dimensionamento delle rappresentanze: così fra i democristiani che hanno dovuto cedere gran parte dei posti di comando agli alleati, benché vantino tre volte i seggi di questi ultimi, così fra i sardisti stessi accontentatisi obtorto collo di un solo assessorato – quello all’Agricoltura e foreste per Giuseppe Puligheddu – mentre ai socialisti, che pur contano uno stesso numero di consiglieri, ne sono riconosciuti due. Ancora una volta il giornale del PRI sostiene la linea sardista ospitando, fra l’altro, diversi discorsi dei consiglieri regionali Ruju e Puligheddu. Nel giro di un mese sono almeno dieci le cronache dall’Isola e i commenti politici pertinenti, né manca un affaccio perfino ne L’Espresso di Eugenio Scalfari.

La soluzione quadripartita determinerà a valanga altri aggiustamenti laddove – a cominciare da Nuoro – le intese dirette fra democristiani e socialisti hanno immotivatamente tagliato fuori il PSd’A.

Tutta questa fase politica, fino al suo epilogo (che pur rimane incerto o instabile), è attraversata da forti tensioni che vedono i repubblicani – sia da Roma che da Cagliari – fra i protagonisti, sempre nel leale sostegno delle ragioni sardiste e contro la volontà convergente di democristiani e socialisti di escludere il PSd’A dagli esecutivi.

Da sempre Ugo La Malfa, anche prima della assunzione della segreteria nazionale, ha difeso con i segretari dei partiti alleati la causa del PSd’A, così come ha fatto anche in precedenza relativamente sia all’incidenza dell’azione di governo alla Regione sia alla formazione delle amministrazioni locali, che vedono spesso penalizzato il Partito Sardo da accordi diretti fra democristiani e i due partiti socialisti (cf. La Voce Repubblicana, 9.10 gennaio 1965: si riferisce di un deliberato dell’esecutivo del PSd’A riunitosi a Nuoro l’8 gennaio. Indirizzandosi il 9 dello stesso mese a Puddu, La Malfa riferisce: «Su invito di Melis, ho scritto una lettera assai vivace ai segretari dei tre partiti, ma spero poco in una resipiscenza. Se le cose dovessero continuare ad andare male, io credo che una denuncia clamorosa ed il passaggio all’opposizione non sarebbe certo un passo falso. E metterebbe in rilievo i sardisti di fronte all’opinione pubblica. Ma bisogna che tu trovi l’accordo con Melis»).

Una ferma presa di posizione a favore della partecipazione del PSd’A alla nuova maggioranza di governo alla Regione è assunta anche dall’esecutivo del PRI sardo che diffonde un documento, ampiamente ripreso dalla stampa regionale, in cui sostiene essere «elementi caratteristici di una politica di centro-sinistra fortemente innovatrice e di rinascita dell’istituto autonomistico» i seguenti: «1) rigorosa tutela dell’interesse generale contro ogni visione particolaristica e settoriale; 2) difesa dell’aggiuntività degli stanziamenti del Piano e del loro coordinamento con tutti gli interventi pubblici; 3) ritorno alla responsabilità collettiva della Giunta contro la pratica degli assessorati divenuti veri e propri centri di potere individuale e di settore; 4) rigoroso controllo della spesa ordinaria e di quella straordinaria del Piano, che anche in carenza della legge deve ritornare all’esame della Corte dei Conti; 5) riforma della legge 588 sul Piano perché sia adeguata alle nuove esigenze di una società in trasformazione; 6) blocco delle assunzioni e riesame della situazione di privilegio di cui godono alcuni funzionari di enti regionali o aggregati».

Un ulteriore intervento pubblico, in rinforzo delle ragioni sardiste, lo porta pochi giorni dopo, in una dichiarazione all’agenzia Italia, il segretario Puddu. «I repubblicani ritengono – egli dice – che la soluzione più rispondente alla volontà del corpo elettorale regionale risiede nella formazione di una giunta regionale formata da tutti i partiti di centro-sinistra, compreso il partito sardista, che nelle battaglie repubblicane, compresa quella per la svolta politica del centro-sinistra è stato solidale e convinto partecipe. Ciò non significa che i repubblicani impongono al PSd’A di partecipare comunque alla nuova maggioranza. Una valutazione positiva o negativa sul problema spetta evidentemente agli organi direttivi del partito sardista. Quello che ci preme confermare è che, di fonte ai non espliciti intendimenti di altre forze politiche, i repubblicani valutano la formazione della nuova giunta regionale sarda come un fatto politico che investe problemi di equilibrio della politica generale del Paese».

E’ soprattutto la sinistra democristiana di Nuoro, organizzata nella corrente di Forze Nuove, vicina alla CISL, ad avversare la partecipazione sardista al governo regionale. E non manca essa, nei suoi documenti, di coinvolgere duramente anche La Malfa, reo di difendere il partito alleato (ritenuto dalla sinistra sociale della DC addirittura «anacronistica espressione delle condizioni di arretratezza di alcune zone dell’Isola»). Sul numero di giugno del suo organo mensile Orientamenti e segnalazioni (e ripreso da La Nuova Sardegna del 29 giugno 1965) è scritto: «La collaborazione al governo di centro-sinistra è subordinata per La Malfa all’inclusione del Partito Sardo d’Azione nella nuova giunta. Ora, a parte qualsiasi pur legittima considerazione sul modo di intendere i rapporti con le altre forze politiche, deve osservarsi che una siffatta impostazione lede proprio il principio stesso dell’autonomia. E ci sorprende che lo faccia l’on. La Malfa, cugino primo delle vestali sardiste, che custodiscono il sacro fuoco dell’autonomia. Ora se i partiti in Sardegna non sono in grado di affrontare un chiaro discorso sui problemi regionali e trarre da esso i motivi delle scelte, ma si limitano con zelo burocratico a copiare pedissequamente quello che avviene a Roma, a che cosa serve l’autonomia? […].

«Tutto deve avvenire all’insegna della chiarezza e non nella ricerca tenace di posizioni di potere, paludata con retorici discorsi. […]. O il Partito Sardo d’Azione è una forza democratica ed innovatrice, come desidererebbe, e non c’è ragione di preoccuparsi. Infatti la disponibilità di questo partito per una politica popolare può accertarsi sull’esame dei grandi problemi tuttora aperti dell’autonomia e della rinascita.

«Accettate le soluzioni proposte dai partiti di centro-sinistra, senza le consuete riserve mentali, il Partito Sardo si colloca nell’area della maggioranza, a Cagliari come a Nuoro, come nei diversi Comuni della provincia. Che poi faccia parte o meno della giunta, per un partito sinceramente democratico è un fatto del tutto marginale. Tutti i partiti del centro-sinistra, repubblicani compresi, hanno dimostrato in diverse ben più importanti occasioni che si può far parte della maggioranza stando fuori dai governi e delle giunte. In un secondo tempo, verificata la volontà politica del Partito Sardo, può valutarsi l’opportunità dell’ingresso in giunta.

«Il metodo di anteporre il discorso sulle poltrone al discorso politico, se conferma le tradizioni del Partito Sardo, non fa certo onore all’on. La Malfa. O il Partito Sardo, anacronistica espressione delle condizioni di arretratezza di alcune zone dell’Isola, si preoccupa della tutela di interessi conservatori, condizionando a destra qualsiasi politica regionale, come noi da anni andiamo sostenendo, ed allora la richiesta dell’on. La Malfa ha tutto il sapore di un ricatto».

La polemica, risoltasi – come detto – con la finale soluzione quadripartita, prende diverse settimane ritardando la formazione della prima giunta della nuova legislatura. Nel dibattito, particolarmente acceso sulla stampa – in particolare su La Nuova Sardegna (anche per la maggior diffusione del quotidiano nel Nuorese), è presente come mai prima Fidel, alias Antonio Simon Mossa – generoso «autonomista internazionale», come lo definirà Giovanni Battista Melis –, che comincia la sua scalata alle posizioni direttive del PSd’A, e sarà in conclusione la causa vera, per le sue idee separatiste, che porterà nel 1968 alla scissione del Partito Sardo.

I Quattro Mori fra il separatismo di Simon Mossa e l’assessorato di Puligheddu

In autunno, insieme con un turno elettorale amministrativo che interessa però, nell’Isola, soltanto alcuni piccoli comuni, l’evento importante è la celebrazione ad Ozieri del congresso provinciale sardista di Sassari (il primo dopo vent’anni!), aperto da un discorso dell’on. Giovanni Battista Melis e dalla relazione del segretario uscente Nino Ruiu (appena dimissionario dalla carica di consigliere provinciale di Sassari, data l’intervenuta sua elezione al Consiglio regionale). Fra gli interventi più seguiti è quello, di natura politico-organizzativa, di Salvator Angelo Razzu, giovanissimo delegato della sezione di Sorso.

La novità è la proposta, tematicamente originale in tale contesto, della opzione separatista che vince alla conta dei voti e conquista la maggioranza della direzione provinciale nella quale, con la minoranza, entrano alcuni quadri che pochi anni dopo lasceranno il PSd’A per il PRI: lo stesso Razzu e Nino Mele, oltreché Nino Ruju. (Gli atti del congresso sono in L’autonomia politica della Sardegna 1965, Sassari, Gallizzi, Sardegna Libera, 1965. La stampa regionale, soprattutto La Nuova Sardegna, dà largo risalto all’evento: cf. LNS, 19, 23 novembre, 1° dicembre 1965. Non si considerano qui gli interventi di Fidel sul quotidiano sassarese. La Voce Repubblicana ne riferisce sul numero del 7.8 gennaio 1966, curiosamente ospitando proprio una corrispondenza di Fidel. Sul crescente malumore interno alla Federazione sardista di Sassari cf. Salvatore Cubeddu, Sardisti, vol. II, cit., pp. 505-506. Rimonta allo stesso periodo il dibattito sul mantenimento o meno del sistema provinciale: cf. “L’abolizione della provincia”, a firma di Fidel, in La Nuova Sardegna, 9 dicembre 1965 e “Non è mai troppo tardi”, “Provincia: maiuscola o minuscola”, a firma di Manlio Brigaglia, in L’Unione Sarda, 12 dicembre 1965).

Se in apparenza l’abbinata PRI-PSd’A, o PSd’A-PRI procede ancora mostrando il maggior volto nell’attività senza posa dell’on. Melis all’interno del gruppo parlamentare repubblicano della Camera, non mancano invece, come accennato, le ragioni di tensione fra le due formazioni alleate, tanto più dopo alcune scelte che i sardisti compiono sulla scena politica isolana. Ciò, in particolare, causando la crisi della giunta Dettori – apprezzata invece dai repubblicani per la sua capacità di collocare su un corretto piano istituzionale la politica contestativa verso il governo – e ponendo in termini assoluti e quasi ultimativi la questione del raddoppio della propria rappresentanza in giunta, senza avvedersi, con puntuale analisi e proposta correttiva, del processo degenerativo in atto nello stesso istituto autonomistico (e forse anche con un proprio contributo di responsabilità).

La giunta presieduta da Dettori, che conserva la gran parte dell’assetto dell’esecutivo Corrias caduto nella primavera 1966 per il conflitto interno alla DC e soprattutto per il crescente radicalismo della corrente nuorese della sinistra di Forze Nuove (di cui sono vittime sia gli equilibri interni ormai consolidati sia gli alleati sardisti), avvierà una politica contestativa del governo nazionale in anni di grande difficoltà per l’Isola, che pur si modernizza vistosamente nei centri urbani. E’ soprattutto l’ordine pubblico nelle zone interne, e lo stesso incerto destino socio-economico di queste, dato il progressivo spopolamento e i ritardi nello sviluppo sia civile che produttivo, a rendere problematica la vita isolana, ad alimentare le tensioni interne ai partiti e fra i partiti. L’insediamento delle grandi industrie di base, nei due poli estremi del territorio isolano, non dà speranze concrete di verticalizzazioni manifatturiere che potrebbero costituire il futuro della vita economica di aree depresse, né il governo centrale sembra, con le partecipazioni statali, sensibile a sufficienza alle urgenze d’investimento nell’Isola e, soprattutto, sembra non rispettoso degli impegni assunti circa la aggiuntività delle risorse del Piano di Rinascita.

Il PSd’A, rappresentato in giunta (all’assessorato all’Agricoltura e foreste) ancora dall’on. Puligheddu, esponente della minoranza del partito e dunque non avvertito come rappresentativo da molti sardisti abbagliati dal nuovo carisma etnicista di Antonio Simon, è investito in pieno dalla criticità dell’ora e tende però a incrociare, non sempre lucidamente, i piani dei propri assetti interni con la più generale responsabilità politica. Fra gennaio e febbraio 1966 esso ha affrontato i suoi congressi provinciali a Nuoro ed a Cagliari, in entrambe le circostanze dividendosi verticalmente, forse anche oltre la legittima dialettica di un partito. Bruciante a Cagliari, in particolare, la sconfitta della mozione di “Democrazia Sardista”, luogo di coagulo di molti di coloro che matureranno, nel giro di poco più d’un anno, l’uscita dal partito. Ad entrambe le assise porta il saluto del PRI il segretario Puddu. (Sull’andamento e le conclusioni dei congressi cf. le cronache proposte da L’Unione Sarda, 25, 31 gennaio, 1° febbraio 1966. La Voce Repubblicana riferisce diffusamente del congresso provinciale cagliaritano – conclusosi con la sconfitta della segreteria Corona – nel numero dell’11.12 febbraio 1966).

Tuveri riformatore statutario

Naturalmente presentissimo nello svolgimento politico e professionalmente impegnato nel suo ufficio di esperto programmatore regionale, Marcello Tuveri dedica molte energie, lungo l’intero 1965 e anche nei mesi precedenti, a stendere – d’intesa con i segretari provinciali (al tempo Ruju, Marcello e Sanna) – una bozza di riforma statutaria del suo partito. Lo fa intanto muovendo dal censimento delle inefficienze e anche delle segnalazioni che da più parti, tanto più dai responsabili sezionali, vengono sui mali organizzativi sofferti dal PSd’A e causa sovente anche di debolezza dello stesso dibattito democratico interno.

Nel suo studio qui più volte citato, Salvatore Cubeddu ha riassunto il complesso lavoro per intanto individuando i motivi di scontento o i limiti dell’organizzazione in tre principali aree: «la discontinuità dei rapporti tra soci e soci e tra la dirigenza e la base a causa dell’inadeguatezza dei canali di comunicazione interni, affidati quasi esclusivamente all’informalità dei rapporti amicali», «la sfiducia e il disarmo organizzativo derivante dal non padroneggiare, e neanche inventariare, le proprie risorse, dall’aleatorietà con cui si affronta il giudizio popolare, dalla precarietà del rapporto con gli iscritti», «il volontarismo e l’entusiasmo in sostituzione di una moderna e democratica organizzazione. In sostanza si chiede il reale funzionamento degli organismi e dei loro dirigenti, invece dei soli capi-elettore, efficaci e generosi quanto si vuole, ma non in grado di reggere sul lungo periodo: in altri termini si propone il minimo indispensabile di organizzazione formale, che si ponga in grado di interpretare la volontà popolare come garanzia indispensabile della sua democraticità».

Circa le fasi del tesseramento e della vitalità dell’associazione sezionale, il documento Tuveri registra e critica in particolare atteggiamento sbrigativo e talvolta quasi di supponenza di esponenti che snobbano l’organizzazione e la disciplina, indifferenti a che «un partito di opinione come il nostro – così scrive – deve avere una base organizzativa certa, se non vuole diventar una setta esoterica» o una realtà inafferrabile perché disgiunta dalla corrente dialettica nella militanza.

La lettera di Tuveri esprime una dura rampogna al pur raro funzionarismo che è dato trovare nel partito ma soprattutto al volontarismo sostitutivo insieme della disciplina e della responsabilità di militanza e dirigenza tanto più quando la rete si compone di referenti territoriali non eletti da nessuno, per quanto capaci, al dunque, di procurare consensi alle liste; pari riserve esprime, di conseguenza, riguardo alla mancanza di autorità degli organi ufficiali come i direttivi provinciali che prescindono dai titolari degli incarichi e si contentano di riunire i capi-elettori, quasi piccoli feudatari autoreferenziali, o poggiano sulla quota di “potere” o d’influenza degli eletti nelle rappresentanze regionali o provinciali: comunque sempre e soltanto fuori da ogni regola di collegialità.

Si tratta di ripensare il finanziamento, anzi l’autofinanziamento dell’attività oltre che della gestione, di programmare una autonoma struttura organizzativa nell’Oristanese.

In stretta connessione con la parte organizzativa è quella statutaria, che pure esige una riforma. Riferendone in sintesi estrema, Cubeddu scrive: «dopo quindici anni di governo regionale la concezione autonomistica – che per l’autore di questo testo doveva chiaramente restare radicata al “principio dell’unità nazionale” italiana – andava ormai “articolata ai diversi livelli in cui si esprime l’organizzazione sociale (comune, zona, provincia, regione)” e si ricollegava alla natura popolare e progressista del partito».

Obiettivi e mezzi: una più consapevole disciplina «realizzata sulla base di convinzioni maturate col metodo del dialogo e del libero scambio delle opinioni a tutti i livelli», un’articolazione più precisa della rete organizzativa sul piano territoriale, una convergente disponibilità collaborativa, nel rispetto delle autonomie di ciascuna, delle componenti fiancheggiatrici (dal Movimento Giovanile alla corrente sindacale, all’associazionismo professionale).

Ancora riferendosi a Tuveri questo osserva Cubeddu: «pensava ad un impegno urgente, a una riforma statutaria che avrebbe dovuto anticipare lo stesso congresso regionale e, allo scopo, aveva previsto alcune norme transitorie che il consiglio del partito avrebbe potuto adottare in attesa della convocazione del congresso regionale. Invece egli stesso si vede costretto a rilevare, prima nei confronti della commissione e poi nella circolare che spedisce ai componenti del consiglio regionale del partito, che “tutti sono pronti a protestare perché lo statuto del partito è vecchio, ma pochi sono disposti a fare qualcosa per rinnovarlo, che non dia lustro e voti di preferenza”».

La bozza che infine presenta sulla scorta anche dei «consigli e le utili indicazioni di N. Ruju e L. Marcello» egli l’accompagna con una circolare che riespone i principi ai quali ha inteso ispirare il suo documento: si considera anacronistico il riferimento, presente nello statuto del 1921, circa l’ “attesa” o l’auspicio della autonomia, mentre ora si è interamente dentro la fase realizzativa della rinascita socio-economica dell’Isola, si fa riferimento all’esigenza di un «allargamento democratico» del sistema repubblicano «nel quadro di una federazione europea che prepari la federazione mondiale»; obiettivi parimenti importanti sono la cura permanente delle istanze di democrazia, la corretta interpretazione dell’autonomia come «autogestione massima del potere politico», la consapevolezza lucida delle caratteristiche popolari, laiche e progressiste del partito come dell’impegno per la giustizia sociale e la «piena espressione dell’individuo».

Ecco qui, testuale, l’art. 1 come proposto da Tuveri:

Il Partito Sardo d’Azione associa tutti coloro che si propongono di realizzare la rinascita economica e sociale della Sardegna, di tutelarne gli interessi col progresso delle istituzioni democratiche e autonomistiche della Repubblica Italiana, nel quadro di una federazione europea che prepari la federazione mondiale.

Il Partito Sardo d’Azione, sorto nel 1921 ad opera dei combattenti sardi reduci dalla prima guerra mondiale, ha guidato e guida i sardi nella lotta per la creazione di una società nazionale fondata sulla giustizia economica in un sistema di libertà politica.

Il Partito Sardo d’Azione difende la democrazia per convinzione dei suoi aderenti e per buon senso storico; considera l’autonomia delle comunità locali e della regione un mezzo insostituibile di partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica; reputa che le differenze economiche tra uomo ed uomo, generate da motivi di classe o da situazioni territoriali, debbano sparire gradualmente per fare posto ad una società giusta di uomini liberi; sostiene la causa della pace come direttiva della sua azione politica; reputa essenziale ad uno sviluppo civile della cultura la rimozione delle cause che ne ostacolano il libero svolgimento ed è quindi contrario ad ogni forma di confessionalismo filosofico o religioso e di censura di idee.

Questa invece è la nota circolare che accompagna il risultato della sua fatica (sia per la bozza dello statuto che per quella del regolamento), custodita nel Fondo PSd’A dello stesso Tuveri:

Caro amico,

nel presentarti la bozza di statuto elaborata per incarico del Consiglio regionale del Partito, mi pare giusto dire i principi ai quali si ispira il documento.

L’organizzazione del sardismo non è un fatto tecnico ma politico nella misura in cui dalla soluzione dei suoi problemi dipende la forza del partito nella regione, indispensabile per portare avanti qualunque battaglia. Garantire la pienezza democratica delle rappresentanze, la prevalenza dell’associazionismo democratico sulle clientela, la potestà degli organi nei confronti degli eletti non sono questioni risolvibili con una facile meccanica giuridicistica.

I partiti in quanto concorrono a determinare la linea politica nazionale e regionale, sono espressione della sovranità popolare. Pertanto, nella formulazione delle norme dello statuto, ci si è ispirati prima di tutto ai principi della democrazia, unico mezzo attraverso il quale i valori di libertà, uguaglianza, pace e sviluppo civile possono trovare affermazione. Gli organi direttivi provinciali e regionali sono costituiti nel rispetto della rappresentanza generale degli orientamenti politici, che emergono nelle rispettive occasioni congressuali, e del principio della federazione delle organizzazioni territoriali.

Infine, nel dubbio tra uno statuto breve ed una lunga casistica regolamentare, ho scelto la prima soluzione in quanto ritengo che le norme, per essere buone, debbano essere semplici e chiare.

Aggiungo solo l’augurio che questo contributo modesto sia utile per ridare al Partito un’organizzazione seria, efficiente e forte per il migliore avvenire della Sardegna.

Non se ne farà nulla. Lo statuto sarà modificato soltanto nel 1968, con un PSd’A già condizionato dai separatisti… internazionalisti.

Fra politica e massoneria, campi distinti non distanti

E’ ben conosciuto, ed ovunque stimato, Marcello Tuveri: all’università e nella pubblicistica, nel mondo politico – non soltanto nel suo partito – e in quello sindacale (ha in tasca, ormai da quasi tre lustri, la tessera della CISL) così come nell’associazionismo civico. Già da due-tre anni ha accompagnato, nel 1965-66, la tessera sardista a quella massonica: dapprima quella della loggia Nuova Cavour, dove è stato iniziato – 35enne – l’8 maggio 1964, poi quella della loggia Hiram, anch’essa all’Oriente di Cagliari, della quale – proprio fra l’autunno del 1965 e la primavera del 1966 – è, con il grado di Compagno d’arte, uno dei diciassette fondatori.

Egli sa bene che la massoneria è una società ecumenica, trasversale, ma sa anche che il Grande Oriente d’Italia è una comunione strettamente connessa alle migliori idealità che hanno ispirato ed alimentato la storia patria e il servizio delle istituzioni pubbliche: il liberalismo da una parte (e, ancora negli anni ’50 e primi ’60, con inclusioni perfino monarchiche, di nostalgia savoiarda), la democrazia radicale dall’altra. In quest’ultima egli si riconosce per formazione e militanza civile, ricomprendendosi in essa tanto il mazzinianesimo dei repubblicani quanto l’autonomismo federalista dei sardisti, come anche certo riformismo socialista che, giusto nelle stagioni mediane del decennio, va meglio materializzandosi con la unificazione fra il PSI e il PSDI.

La loggia alla quale ha presentato domanda di iniziazione è costituita in prevalenza da elementi moderati, di centro largo, non necessariamente vestito di politica partitica. Ne è pro tempore Maestro Venerabile Giovanni Gardu, che anzi è uomo di destra, si direbbe nazionalista cultore del libero pensiero, come anche della stessa area sono diversi dignitari, ma nel piedilista eccellono anche personalità che sono vanto della cultura progressista locale. Fra essi, certamente non marginali nelle attività, alcuni sodali sardisti – una decina circa – e fra essi ecco Emilio Fadda, notissimo commerciante (segretario della sezione PSd’A di Cagliari e già Maestro Venerabile della remota loggia Risorgimento) e Quintino Fernando (ammirato professore di storia e filosofia al liceo scientifico), l’ingegnere minerario Giuseppe Marongiu (omonimo di quell’altro professore e preside – Ercolino – anch’egli nome nobile della Libera Muratoria cagliaritana e militante dei Quattro Mori) e Gino Mereu …Trova anche Lello Puddu, suo amico fin dai tempi universitari e sodale repubblicano … Trova, ad accoglierlo, una platea piuttosto vasta e variegata, una sessantina di avvocati e medici, ingegneri e commercianti, operatori economici e giornalisti, docenti e impiegati di banca, funzionari e dirigenti di amministrazioni pubbliche e qualche militare, agenti marittimi e cancellieri di tribunale, impresari e – espressione delle generazioni passate che la vita di lavoro l’hanno ormai chiusa – alcuni pensionati … Incontra una pluralità sociale e anagrafica, una trasversalità professionale, culturale e religiosa, che rappresenta quel tanto di trasversalità che a Cagliari, nei primi anni ’60, costituisce il passaggio fra la stagione dell’immediato dopoguerra e della ricostruzione e quella dello sviluppo e della progressiva secolarizzazione del costume. Nella sua loggia d’approdo, a Palazzo Chapelle, stanno arrivando uomini come Franco d’Aspro, Vincenzo e Giuseppe Delitala, Giuseppe Loi Puddu e altri ancora che hanno maturato le loro esperienze nell’obbedienza ALAM di Piazza del Gesù e in quella già detta di Palazzo Brancaccio: obbedienze monorituali (sono scozzesi) che ormai hanno abbattuto le proprie Colonne in Sardegna ed mirano adesso a conglobarsi fra i giustinianei.

Promosso Compagno d’arte nella primavera 1965, Tuveri aderisce alla iniziativa che il Fratello Mario Giglio – funzionario di banca nella vita professionale e dignitario massone ora già con una decennale anzianità muratoria lancia nei termini di una gemmazione, la prima da molti anni a Cagliari. Insieme con Giglio – reduce da un’importante esperienza, e professionale e massonica, in quel d’Oristano –sono altri sedici i quotizzanti impegnati nella operazione, personalità tutte note in città e orgogliose della loro appartenenza massonica – da Josto Biggio a Francesco Pitzurra, da Bartolo Cincotta a Giovanni Ciusa, da Gino Ivaldi a Hoder Claro Grassi, da Nicola Valle a Quintino Fernando e Franco d’Aspro, ecc. – che si concluderà, come detto, con l’innalzamento delle Colonne della loggia Hiram.

Fin da subito, e tanto più quando e da quando, verso la fine del 1966, è chiamato alla maestria egli partecipa alle iniziative fraternali promosse dalla compagine simbolica, alle discussioni intorno ad argomenti i più vari, di natura rituale come di natura civile e letteraria posti all’ordine del giorno, e presto assume anche cariche di crescente rilievo in seno all’ensemble fino a divenire, nel 1973, egli stesso Maestro Venerabile e, in contemporanea, Oratore del Collegio circoscrizionale. Nel tempo assumerà anche delicati incarichi di responsabilità nazionale (Consigliere dell’Ordine e Ispettore, membro della Commissione Regolamento, ecc.) e terrà cara anche l’appartenenza Karto, vale a dire al gruppo esperantista detto della Universala Framasona Ligo…

In quegli anni ’60 il circuito giustinianeo isolano, che può contare forse su centoventi-centocinquanta Artieri, è articolato in meno di dieci logge: tre a Cagliari (con la Nuova Cavour le due gemmate, “gemelle” eppure così diverse, vale a dire la Giordano Bruno e la Hiram; fra breve si aggiungerà la Sigismondo Arquer come regolarizzazione di un contestato ma pur pregevole gruppo P), una a Carbonia (la Giovanni Mori che presto accoglierà il profano Armando Corona), una ad Oristano (la Libertà e Lavoro appena risvegliata ma già in crisi per la sopravvenuta morte del carismatico Ovidio Addis), una a Sassari (la decana e tormentata Gio.Maria Angioy). Si tratta di un circuito indubbiamente debole, ma che custodisce in sé molte potenzialità che infatti andranno a frutto nei primi anni del decennio successivo, quasi raddoppiando le forze, e nel numero delle logge (si aggiungeranno la Risorgimento a Carbonia, una seconda Risorgimento a Cagliari, la Ovidio Addis ad Oristano, la Caprera ad Arzachena, la Giuseppe Garibaldi a Nuoro) e in quello dei quotizzanti. E sarà proprio di questa più matura o evoluta composizione che Marcello Tuveri avrà parte non secondaria nel coordinamento regionale e nei collegamenti con la centrale romana di Palazzo Giustiniani. (Le sue carte massoniche egli volle spontaneamente conferirle, nel 2005, al mio Archivio Storico della Massoneria sarda ove sono custodite).

A combinare l’area politica a quella massonica c’è, nella personale esperienza di Marcello Tuveri … lo pseudonimo che si è scelto ora per firmare alcuni articoli per Il Solco (tanto più al tempo dell’alleanza sardista con gli olivettiani) ora – come Paolo Mistortu (nel cognome il gioco di “mister Tu[veri]) – per farlo sulla Rivista Massonica, organo ufficiale del Grande Oriente d’Italia negli anni ’60 e ’70 diretto da Giordano Gamberini: qui pubblicherà infatti, sul numero 3 del marzo 1975, l’articolo “La Massoneria in Sardegna alla fine del ’700”. Si tratta, in breve, della recensione del volume di Felice Cherchi Paba dal titolo Don Michele Obino e i moti antifeudali lussurgesi, 1796-1803, uscito per i tipi della cagliaritana Fossataro nel 1969. Ne ripropongo qui di seguito la primissima parte e la conclusione:

Anche in una regione periferica come la Sardegna, il contributo della Massoneria alla diffusione degli ideali di rinnovamento economico e sociale è stato considerevole e merita d’essere sottolineato.

Nella seconda metà del XVIII secolo i clubs Giacobini sono insieme centri di azione politica e logge massoniche. Le più illustri personalità della cultura avanzata dell’epoca sono reputate liberi muratori. I nomi? Giovanni Maria Angioy, che capeggiò il più importante movimento antifeudale del 1794; Domenico Alberto Azuni, padre del diritto internazionale marittimo; Pietro Leo, cultore di scienze mediche; Michele Obino, giurista ed ex sacerdote; Matteo Luigi Simon, studioso di economia, e tanti altri.

Dippiù, l’intero gruppo dirigente del movimento democratico sardo ispirava la sua azione alla cultura massonica. Di orientamento massonico erano le opere che circolavano e venivano sequestrate nell’Isola (Voltaire, Rajnal, Turgot, Molly, Target).

Le battaglie che scaturirono dalla presa di coscienza dei nuovi valori umani furono insieme rivolta contro i privilegi feudali del Piemonte e contro l’oscurantismo religioso del clero sardo giacché l’Isola «era stata ridotta ad un grande feudo ecclesiastico e secolare» (Siotto Pintor).

La borghesia più aperta, i nobili non feudatari e persino alcuni religiosi, con l’aiuto del popolo, tentavano di migliorare la situazione economica e sociale attraverso la riforma degli ordinamenti civili. Dalle petizioni e documenti «umiliati» a sovrani e Viceré si passò alle armi ed i tentativi furono soffocati dalla spietata repressione della corte più bigotta d’Europa.

Istanze di maggiore autonomia, rispetto degli ordinamenti regionali preesistenti, moderati momenti di partecipazione al governo furono, in linguaggio attuale, i punti qualificanti della rivoluzione sarda del 1794. Segni profondi di quelle vicende sono presenti nei documenti dell’epoca, come riflesso del grande incendio che divampò in Europa con la rivoluzione francese. Anzi gli avvenimenti nell’Isola e la loro ispirazione Massonico-Giacobina costituirono il punto di partenza perché dalla lotta per il rinnovamento della Sardegna si passasse all’impegno civile più vasto per l’affermazione universale dei principi di Uguaglianza, Fraternità e Libertà.

La Massoneria fu probabilmente un tramite tra le aspirazioni locali ed un più universale rivolgimento contro tutte le tirannie del tempo.

Di questo processo interno-esterno all’Isola difficilmente si trova giusta trattazione nelle opere degli storici dell’800. Il gruppo più compatto era di rigorosa fede monarchica e assolutista. Il più autorevole di essi, Giuseppe Mannu, barone del regno era funzionario legato ai settori più retrivi della corte di Torino. I ricercatori successivi conservano fondamentalmente l’ispirazione legittimista, anche quanto apprezzano di quei movimenti, che chiudevano un secolo e ne aprivano un altro, l’aspetto regional-nazionalistico.

E più oltre:

… la diffusione di «pubblicazioni sovversive, giacobine e di mano massone» che spesso ricorrono negli atti ufficiali rivolti a perseguire le inquietudini di quel periodo o come pure la penetrazione n Sardegna delle società segrete… Persino talune poesie dialettali (opere di nobili feudatari antiriformisti ovvero di gesuiti) fanno riferimento esplicito a «leze flamassone» (legge framassonica), secondo la quale non vi sarebbe discrezione. Si tratta di libelli ispirati ad esigenza di aggredire le idee nuove o di sottrarre al loro fascino i giovani. Ma l’epoca della stampa (1798) o la diffusione degli scritti mostrano chiaramente l’ampia risonanza che quegli orientamenti avevano raggiunto nell’Isola. Se i riferimenti letterali o di ubicazione sono chiari non meno evidenti sono quelli di carattere ideologico. Un patto di unione fra i comuni del Logudoro, nel settentrione dell’Isola, contiene, fin dal 1796, l’affermazione del principio dello «scambievole aiutarsi, soccorrersi e difendersi in qualunque evento». Dalla solidarietà fra comunità locali si passa a quella fra gli uomini, dalla riaffermazione dei principi di libertà ci si evolve verso una visione di progresso corrispondente alle esigenze della natura umana. Che queste idealità siano massoniche è di tutta evidenza. Il merito del Cherchi è l’averlo messo in luce.

La profonda onestà nella ricerca non consente di ricostruire i modi con cui la massoneria operò per assicurare agli sconfitti della rivoluzione sarda, rifugiatisi in Francia, quella a solidarietà che doveva far emergere il loro ingegno e la loro cultura, veramente ammirevoli. Ma è certo che nella terra ove stava costruendosi la prima società laica, anzi il primo stato (giacché esso nasce modernamente solo con l’affermarsi del laicismo) i sardi ebbero accoglienza e poterono operare chi per la fondazione del nuovo diritto (Azuni), chi per la sua applicazione (Obino), chi per la conoscenza migliore della sua terra e dei problemi economici (Angioy).

Il Cherchi, dopo aver rilevato che l’Azuni era un «eminentissimo massone», riprende a descrivere i tentativi degli esuli sardi per scuotere l’Isola dal dominio feudale e chiesastico. Le pagine del volume si chiudono nel constatare almeno nel personaggio su cui è focalizzata l’opera, la perdita di ogni speranza di rinnovare l’Isola. Anche se l’epilogo dell’opera non è ispirato all’ottimismo le vicende storiche successive mostreranno, però, quanto i sardi sanno riconoscere nella stagione dell’illuminismo massonico il punto fondamentale del loro avviarsi verso una visione moderna della società e delle istituzioni.

In questa direzione anche se spesso non se ne abbia la dovuta consapevolezza, il riferimento al passato, a quel passato, è un punto obbligato per tutti. Anche per coloro che per ideologia sono assai lontani dalla tolleranza e non siano stati conquistati dalla fecondità della convivenza delle differenti posizioni in seno alla vita associata.

Così Marcello Tuveri in un anno che fu per lui particolarmente impegnativo dentro e fuori della Massoneria.

***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

 

 

 

 

 

 

 

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