Sei anni più venti dopo l’esordio. Quando le minoranze accendono le maggioranze… E’ stato a Cagliari, per Monumenti Aperti: la città alla città e palazzo Sanjust oggi con Mazzini e Bovio, di Gianfranco Murtas

Sei anni fa, al cosiddetto Ghetto degli ebrei, i meravigliosi cinque – Vito Biolchini, Giuseppe Crobu, Massimiliano Messina, Massimiliano Rais ed Armando Serri – presentarono al pubblico riunito in un vasto salone un gustoso copione dialogato riepilogante i passaggi che avevano portato la loro santissima missione da una cura parziale ad una regia generale. Di fianco al Comune (e per esso all’assessore alla Cultura Gianni Filippini, con il quale assistei alla pièce) cui avevano donato, con esemplare gratuità, il modello, da loro partì l’esperimento divenuto esperienza ed ormai tradizione di Monumenti Aperti. Come già avvenuto in qualche città del continente, con Napoli credo capofila, si doveva anche da noi restituire la città alla città, riconsegnare il bello più o meno antico e comunque sempre patrimoniale e suggestivo (tanto spesso chiuso da lucchetti arrugginiti e quasi dimenticato) a chi ne era il titolare per merito di cittadinanza ed a chiunque altro, della provincia e d’oltre, sapesse empaticamente, godendo con i residenti, giocare di fraternità.

Operazione civica, operazione patriottica, operazione umanistica? Sì, tutto questo: e operazione di larga pedagogia popolare innovatrice, di virtuosa ricarburazione degli spiriti, di rilancio del sentimento d’una orgogliosa appartenenza con il di più della condivisione, che è sempre la nostra sublimazione religiosamente sociale.

Sono stati loro i pescatori della nostra Tiberiade cagliaritana, convocati dall’amore personalissimo alla città materiale perché, come Alziator, nelle pietre sapevano vedere il tempo di cui esse erano state le testimoni lungo, tante volte, i secoli, e sapevano cogliere nei censimenti il genio di quell’artista, la perizia di quell’artigiano, l’intima maestria di quell’artiere seminatore. L’archeologia e l’architettura, l’arte ed il mestiere, la scrittura e la virtù, sì anche la virtù d’un inginocchiatoio consumato… quanti percorsi, quanti traguardi, quanta nostra volontà di ricongiungerci con chi ha lasciato il suo segno ancora da esplorare, e ammirare, e tesaurizzare dentro…

Pescatori della nostra Tiberiade cagliaritana, Vito e i due Massimiliano, Armando e Giuseppe, e quegli altri – quanti, quanti! – ciascuno con un talento personale, il talento della ricerca che sa scoprire, il talento della condivisione che sa creare comunione, il talento della custodia che sa preservare per i futuri ancora. Fotografati in gruppo, i ventuno generosi più i cinque iniziatori, regalano a chi li osserva la fierezza di una partecipazione gentile e disciplinata, attenta al tutto e scrupolosa del dettaglio, nella costanza dell’impegno e nella radiale espansione del fervore. Impossibile non applaudire questo resistente volontariato intelligente e colto, umile e sorridente, giovane, sempre giovane, oltre l’anagrafe.

Palazzi e chiese, torri e biblioteche, studi e caserme, teatri e scuole, giardini, pinacoteche e siti archeologici aprirono portoni e cancelli mentre centinaia di bambini e ragazzi in forza alle nostre scuole di vario ordine e grado furono coinvolti nell’operazione di guide parlanti: esperienza che per loro fu d’originalissima impronta educativa e per noi fu di soddisfazione di ancora inappagati e pressanti bisogni conoscitivi. Avrebbero meritato, i cinque eroi – almeno loro in rappresentanza di tutti –, lo stallo ad honorem in Consiglio comunale almeno per un anno, un anno intero, ma il sindaco non ebbe allora fantasia.

Superati i vincoli imposti dalla pandemia nell’ultimo biennio, ora si riparte e, prima di dire del mio Giovanni Bovio e del mio Giuseppe Mazzini – padri miei e dei miei fratelli – mi sento di rilanciare quanto, in termini di gratitudine, mi sentii di indirizzare ai cinque promotori che, pressoché tutti e in gruppo (e con altri, con Elio e con Maurizio) avevano impreziosito, con contributi d’eccezione, molte mie giornate al tavolo di lavoro e nello studio televisivo, nei primi anni ’90… Di tutto colse il fiore segreto, allora, l’indimenticato professor Francesco Floris preside del Siotto e presidente della Provincia, fissandolo nelle pagine della sua enciclopedia sarda. Furono prove fra l’editoria e la programmazione via etere che noi cogliemmo come occasione per misurare la capacità di lavorare insieme, combinare l’assortimento dei talenti e delle vocazioni, tradurre in cosa tangibile la fatica gratuita.

 

Quella mia testimonianza del 2016

Io li conosco gli inventori delle edizioni cagliaritane di Monumenti Aperti, e ne conosco il talento nativo, molti dei loro passaggi formativi ora negli studi ora già nei precoci esordi civili, sulla scena pubblica, nel giornalismo di presentazione, di racconto efficace, e rivissuto, della storia nostra, con il linguaggio corrente di approccio semplice ma mai banale, misurato e centrato anzi, non soltanto nella carta stampata quotidiana e periodica, ma anche nella televisione, o anzi nella radio-televisione. Un giornalismo che conosce i tesori delle biblioteche ma è combinato al divenire del tempo presente e futuro, alle vitalità culturali della comunità – teatro e storia, dibattito e inchiesta – ed è servito con i guanti talvolta della ironia talaltra della denuncia, più spesso della partecipazione coinvolgente, nel nome dell’interesse generale e del raccordo conoscitivo fra le generazioni.

Sono belle persone singolarmente, e facendo gruppo si sono regalati alla storia moderna della loro città, che avrebbe di che ringraziarli – e non poco –, direi quasi come i campioni dello scudetto 1970, cui hanno giustamente intitolato anche una strada.

Vito Biolchini e Massimiliano Messina, Massimiliano Rais ed Armando Serri – li cito in stretto ordine alfabetico (ma nessuno di loro sarebbe propenso a sgomitare per le precedenze), ed a loro si è associato Giuseppe Crobu (che però non conosco ma so stimatissimo da loro) – hanno scritto, vent’anni fa, una pagina della nostra storia civica, e sono stati, nel cumulo degli ideali, esattamente come una leva: unendo le loro forze, la forza della intelligenza e della passione cagliaritana, e negoziando la credibilità della testimonianza personale consolidatasi in una infinità di mattine domenicali gratuitamente offerte, non senza sacrificio, ai loro concittadini amanti anch’essi questo capolavoro di Domineddio che si chiama Cagliari, hanno attivato un meccanismo che vede, da due decenni pieni, il protagonismo di decine di migliaia – decine di migliaia! – di santi curiosi all’assalto garbato di ogni nostra preziosità ambientale o monumentale.

Docenti di laboratorio, allegri e simpatici, laicamente missionari, quei ragazzi di vent’anni fa – oggi distinti signori fra i quaranta e i cinquanta, ma ancora ragazzi nel loro intimo – hanno insegnato l’evidenza agli amministratori, ed il municipio di Cagliari con la mobilitazione di gruppi e istituzioni ha, a sua volta, trasferito la buona esperienza al territorio provinciale e da qui ormai è la Regione e il sistema degli enti locali fino al Sassarese che paiono coinvolti in un’opera che ovunque rende assai più di quanto costi.

 

Rende in termini di impegno e studio e donazione degli/ agli studenti che si fanno guida parlante nei plessi in elenco, rende in termini di partecipazione corale, comunitaria, della cittadinanza mirante al recupero di familiarità – anzi, competente familiarità – con il tanto che la circonda perfino nella quotidianità eppure è rimasta, ed ha rischiato di rimanere, per una ragione o per l’altra, estranea alla relazione possibile.

Rende al gran circuito di questi beni naturalistici, architettonici e museali lato sensu, che nessuna amministrazione o direzione generale o custodia religiosa può più tenere in naftalina (al meglio) o nella dimenticanza e nell’abbandono come è stato. Perché per molti fortunatamente un recupero c’è stato – ispirato anche dalla sfida della domanda ormai fattasi esigente –, per altri no, date le dimensioni del degrado stratificato, degno di una rovina bellica, come ben può dirsi del camposanto due volte secolare di Bonaria.

Era il marzo 1996 e gli eroi che da due anni, ogni santa domenica mattina – cento volte, anzi 126 volte! – avevano tenuto aperto, per puro spirito municipale, l’ipogeo di Santa Restituta, nel cuore di Stampace alto – indicono una conferenza cittadina: è il grido di guerra coram populo, la guerra ai lucchetti. Come a Napoli, capitale meravigliosa del meridione d’Italia. Ricordo anch’io un certo servizio al TG1 delle 13,30, una certa domenica, dedicato alla prima edizione di Monumenti Aperti, fra il teatro San Carlo e la cappella del Principe di San Severo, e il tesoro di San Gennaro… Anche lì, lì soprattutto, santi e santi e santi…

Questa è, d’altra parte, la nostra storia. E lo spirito laico e laicissimo, quand’è intelligente e laico veramente, si bea d’ogni tradizioni ed arte di matrice spirituale e religiosa presente nel gran mosaico civile dei nostri territori.

Due anni e passa prima di quel fatidico marzo hanno cominciato lavorando da facchini e manovali, ripulendo da detriti e cumuli di relitti vari gli spazi caldi che hanno accolto, nel 1943, i cagliaritani che non volevano morire sotto le bombe sganciate dagli aerei degli alleati. Dal febbraio 1994, dopo aver costituito (ottobre 1993) la loro associazione non a caso chiamata Ipogeo, Vito e Giuseppe, Massimiliano uno, Massimiliano due ed Armando, e con loro gli altri 21 che da subito essi hanno coinvolto (o da loro si sono lasciati coinvolgere) nell’impresa, sono lì, alle 9 della domenica – in contemporanea con la messa dei bambini in parrocchia – a raccontare della cripta nel quartiere-groviera come la riferisce il canonico Spano e l’altra letteratura magari alziatoriana, ma con tutti gli aggiornamenti della storia vissuta nel secolo recente.

Merito indubbio degli eroi, merito – per la fiducia concessa e le chiavi loro affidate – da riconoscersi anche al parroco di Sant’Anna, don Eugenio Zucca, piccolo di statura ma gigante come pochi per generosità… Visite guidate, qualche conferenza, come quella per celebrare il cinquantesimo della morte di Giaime Pintor, presente il fratello Luigi… Qualche concerto, le musiche di Alessandro Olla, l’organetto di Paoletto Zicca, i contos di Gianluca Medas…

C’è il passaparola, l’evento di calendimaggio – il trionfo di Sant’Efisio, vicino di cripta – amplifica il credito degli iniziatori, volontari puri. Le monete che qualcuno lascia lì, a visita conclusa, serviranno per le fotocopie, e ritornano alla città in termini di conoscenze riofferte nero su bianco. Come soldati civili inquadrati in turni, tutto è letizia – si può dire? – a coprire la fatica: cagliaritani di qualità! Massimo e Daniela, Monica ed Eugenio, Alessandra ed Antonio, Vittorio e Giuseppe, Maria Antonietta e Daniela, Riccardo e Nicola, Danilo e Manuela, Domiziana e Laura, Angela e Simona, Patrizia e Roberto e Alessandra bis…

Nella primavera 1995 mi sono avvalso anch’io degli spazi presidiati dai canonici di Ipogeo: per una serata di letture delle opere di Paolo De Magistris, al microfono i ragazzi delle comunità di padre Morittu di San Mauro e Campu’e Luas. Altra performance pedagogica, altro servizio di cultura.

Se si vuole, si può. Gli spiriti magni di Ipogeo capiscono che si può raddoppiare, anzi triplicare. Sarà il risultato della fiamma di pentecoste, accesasi nella casa che era stata nientemeno che di Hoder Claro Grassi, verso la piazza d’Armi, dove sogliono riunirsi in assemblea per recuperare energie rifocillando insieme il corpo e la mente, sta di fatto che essi si domandano: e perché no alla chiesetta della Speranza, l’antica dipendenza del duomo in appartenenza degli Aymerich nonché sede dello stamento militare, al tempo del governo spagnolo? E perché no alla chiesetta binavata di San Lorenzo, già di San Pancrazio già della Vergine di Buoncammino, con novecento anni di storia alle spalle? E perché no alla chiesetta di San Pietro, già custodita dal gremio dei pescatori ed inizio forse della città giudicale di Sant’Igia, mille anni fa?

Chi lavora, trottando e accontentando tutti, impara a pensare, anzi raddoppia la potenza visionaria e programmatrice, e procede con l’aureola della credibilità. E se parla, ad un certo punto, di Tuvixeddu, di quell’unicum mediterraneo che la storia ha donato a noi, bisogna che lo si ascolti, perché pur senza essere archeologo patentato gode della credibilità del cittadino Defensor karalis, ideale seguace e continautore – ma con autorevolezza tutta propria, doc e riconoscibile – di Francesco Alziator, di Giovanni Lilliu, di Antonio Romagnino.

Vito e Massimiliano due partono per il servizio alla patria – ma non valeva la patria anche il servizio nel distretto di Ipogeo? –, svolgono anche le funzioni di addetti stampa, e continuano a leggere e scrivere e immaginare l’immaginabile e di più ancora. Nella base di Perdas Vito incrocia, proprio come per illuminazione di replica pentecostale, gli assi cartesiani: quello della esperienza napoletana, di cui si sa molto ormai per gli echi avuti sulla stampa (tempi di rinascenza della città, dopo tanto sfasciume, e prima di altro sfasciume, forse), e quello della praticaccia cagliaritana che ha un potenziale ancora inespresso.

Sboccia il progetto. Dal progetto di uno ai contributi di tutti, tutti necessari, necessari! Il lavoro di ideazione si fa corale, ognuno dei partecipanti è coautore al pari degli altri. Un bis di meraviglie. Ecco, in quella certa conferenza stampa, la presentazione del sogno realizzabile, ecco – da parte dei cronisti de L’Unione Sarda – la diligente raccolta della santa provocazione, ecco l’assemblea delle associazioni nella cripta di San Lucifero. Coinvolgimento plenario.

A Cagliari l’amministrazione municipale è retta da una giunta che non onora i santi maggiori – né Cesare Pintus né Giovanni Lai, né Emilio Lussu, né Giovanni Battista Melis, quelli insomma immolatisi (nella galera e nella tubercolosi) per la causa della libertà nella loro giovinezza – ma ribattezza le strade e le piazze con i nomi dei gerarchi della dittatura che fu, e risana il Poetto con un savio ripascimento, e fissa per l’eterno con i chiodi le pietre dell’anfiteatro romano.

Fra tanta pochezza politica, fa eccezione l’assessore alla cultura Gianni Filippini, prestato alla amministrazione dalla città (mi augurerei per lui che non abbia mai votato quelle schifezze di liste presentatesi con le coperture romane dei similfascisti, dei leghisti irridenti al tricolore, dei forzisti increduli e deodorati per la vendita del prodotto). E l’assessore, che viene da una esperienza quarantennale nel giornalismo combattuto, raccoglie idea e progetto, promette collaborazione da dare e da prendere con le soprintendenze e gli altri enti, e soprattutto con questa meraviglia che è il volontariato culturale cresciuto in città e rappresentato dagli apostoli di Ipogeo e dagli altri a seguire, eccellenti tutti, a partire da quelli di Imago Mundi.

Perdere il tratto movimentista per istituzionalizzare l’iniziativa? Non è questione da poco, è questione di coscienza per chi ha fatto il primo e anche il secondo e terzo passo, dico proprio quelli di Ipogeo. Che sono realisti, tanto realisti nell’oggi quanto profetici nell’ieri. Hanno davanti ai loro occhi i plessi chiusi da anni e taluno da decenni – le torri e San Saturnino, Tuvixeddu e l’orto di Sant’Ignazio e il palazzo Viceregio – o realtà nuove e forse misteriose, com’è palazzo Sanjust in riconversione liberomuratoria…

La statistica riferisce che nella manifestazione d’esordio le scolaresche e i gruppi coinvolti sono una quarantina, i plessi visitabili pressoché altrettanti – 36 per la precisione – e 52mila le firme per una massa in movimento nell’ordine dei quindicimila visitatori.

Io ripenso adesso ai tremila studenti che nel corso degli ultimi vent’anni si sono proposti nella veste di gustosi professori, guide gentili ed entusiaste del servizio reso ai tanti sconosciuti. Certamente diversi di loro, fra i primi nel calendario, oggi han famiglia e portano i bambini a gustare la scena della città viva, magari promettendo che verrà un giorno che anch’essi, i bambini fattisi grandicelli…

E ripenso ancora agli eroici anticipatori, ai visionari, agli atleti civili della staffetta di partenza. Se si vuole, si può. Sono persone di valore – abbiamo lavorato insieme, all’inizio degli anni ’90, in alcune ricerche storiche sull’antifascismo democratico e azionista ed in televisione, pari fra pari, con un forum e i servizi filmati – oggi anche portatori di mille nuove esperienze di vita e professionali, di cultura e militanza associativa e politica.

Massimiliano uno non è soltanto poesia e critico teatrale, come Massimiliano due non è soltanto telegiornale e conferenziere scolastico, Vito non è soltanto “Buongiorno Cagliari” ed analista sardo-corso per la RAI, ed Armando non è soltanto umanesimo europeista, suggeritore del tempo lento e funzionario del Consiglio regionale: sono tutti quanti molto di più di quanto appaiono, e Cagliari ha da esserne orgogliosa. Io lo sono. Vivono tutti quanti una umanità che porta in sé il vivido senso comunitario – quello della città inclusiva –, la passione alla democrazia, il riferimento alla cultura laica che ha la consapevolezza della complessità sociale e dei mille diversi apporti ideali, quelli religiosi in testa.

Per questo ho pensato di scrivere queste poche righe: per un riconoscimento pubblico di cui nessuno di loro ha bisogno, ma che, nondimeno, costituisce un dovere per chi sa come sono andate le cose.

E via adesso agli assalti gaudiosi – così direbbe Alziator, che sapeva umanizzare le pietre, il sesto acuto e le statue di devozione – di chiese e ville, di palazzi e gallerie, di orti e musei, di parchi e caserme, di vestigia antiche e torri e scuole, di biblioteche e collezioni d’arte, ecc.

Ci attendono, in quest’anno Domini 2016 della ventesima edizione di Monumenti Aperti, la sala settecentesca dell’università – cuore originario dell’ateneo spagnolo-Savoia –, gli orti botanico (instaurato dal mitico professor Gennari nel 1866) e dei cappuccini, i templi e i passi perduti della casa massonica, gli scavi archeologici di Sant’Eulalia, le navate e le cappelle delle chiese dolci della Purissima e Santa Chiara, di San Michele e Sant’Alenixedda, di Sant’Antonio abate – dove predicò nel 1921 il futuro Giovanni XXIII – e San Simone a sa Illetta, di Santa Lucia a Castello e Santa Rosalia dei siciliani (con il santuario minorita di San Salvatore da Horta, giusto quest’anno celebrato nel 450° della venuta a Cagliari), di Sant’Agostino nuovo – forse il maggior gioiello architettonico della città – e San Domenico con chiostro e cripta duecentesca, di Sant’Efisio con il suo carcere sotterraneo e quant’altro, come il Santo Sepolcro con il suo cappellone e il suo ipogeo e la basilica mauriziana di Santa Croce, di San Vincenzo e Santa Maria del Monte…

Aprono il castello di San Michele e la caserma Carlo Alberto sul Belvedere, l’auditorium del Conservatorio e l’Archivio di Stato, il forte diroccato di Sant’Ignazio e la Camera di commercio – opera del Beltrame e del Simonetti -, la cattedrale e lo sconfortante cimitero di Bonaria, il palazzo del Consiglio regionale e la Galleria comunale d’arte, il Ghetto castellano degli ebrei e il Lazzaretto di Sant’Elia, la Cittadella dei musei ed i musei scientifici e religiosi, le torri e la Pinacoteca, le aree archeologiche sparse fra i quartieri di periferia e centrali (la Fullonica e Tigellio, la grotta della Vipera e viale Trieste), il teatro delle saline e gli altri maggiori, la MEM e l’EXMA, le elementari di Santa Caterina sul bastioncino e la Vetreria di Pirri…

Cagliari, Cagliari. Onore agli anticipatori. Evviva sempre le minoranze che accendono le maggioranze.

 

Palazzo Sanjust

La personale amicizia con il professor Vincenzo Racugno e con il gran maestro Armando Corona mi fece conoscere da subito quando-e-come si concretò la donazione, fra il 1987 ed il 1988 e con la perfetta assistenza del notaio Locci, del palazzo che, in piazza Indipendenza (e fra le vie Lamarmora e Canelles), era stato della nobile famiglia Sanjust di Teulada. In un’ala di quegli stessi locali avevo trascorso – a ricontarle oggi scorrendo i diari del tempo – circa 600 ore nel 1981, lavorando (gratuitamente) a una certa programmazione televisiva allora quasi d’avanguardia…

Dal professor Racugno – amico fin dal 1971, amico che mi fu in mille occasioni, anche d’ospedale, padre-e-fratello insieme – ebbi pure, per i miei archivi, copia delle carte di quella donazione. E, per i tanti accessi effettuati nel tempo, vidi quindi come quell’edificio antico di tanta storia, tante volte trasformato – fra convento e università, caserma e teatro – ma restando sempre se stesso in cima a Castello, ebbe modo di trasformarsi ancora, meravigliosamente adattandosi, per merito di ingegneri e maestranze, alle intervenute esigenze, rituali e corporativo/fraternali, del Grande Oriente d’Italia. Nel 2008 poi mi attivai perché in una sua sala potesse tornare, dalla propria ultima sede periferica e impropria, l’erma di Giovanni Bovio: un busto d’arte prezioso datato 1904, perché era il prototipo di quello in marmo bianco che lo stesso Pippo Boero scolpì per lo square delle Reali e venne inaugurato dal sindaco Picinelli (in un intermezzo bacareddiano) il 28 maggio 1905. Il nuovo municipio, a soltanto cento metri da lì, era ancora cantiere. E divenne da allora e numerose volte, quel monumento della bella piazza recintata e già di suo monumentata dai ficus retusa e bellengeri e magnolioides, il luogo di incontro degli studenti del liceo (forse anche con Antonio Gramsci diciottenne) e dell’università, per celebrare il perduto massone Carducci nel 1907 o per piangere il suicida (suicidato) Francisco Ferrer – il pedagogista massone ed anarchico imprigionato nel 1909 dalla reazione poliziotta del governo spagnolo –, o ancora per riversare il malcontento giovanile nel 1911… così fino all’abbattimento, come ha scritto il professor Nicola Valle – il massone Nicola Valle –, negli anni della dittatura… (D’altra parte, secretato Giordano Bruno in una nicchia universitaria, ben poteva anche rovinarsi Giovanni Bovio che del filosofo abbrustolito dall’inquisizione aveva tessuto l’elogio quel certo giorno del 1889 a Campo de’ fiori).

Patrocinai il ritorno del prezioso manufatto d’arte a palazzo Sanjust perché lo avevo trovato elencato fra le suppellettili d’arte di palazzo Fulgher sede massonica nel 1910… L’avevo tenuto in casa per lunghi anni, e protetto, durante i perigliosi trasferimenti di sede dei miei amici repubblicani, ché nella sezione cittadina dell’Edera l’avevo trovato – io allora militante della Federazione Giovanile – all’inizio del 1971. Doveva essere protetto, ancor più protetto, a palazzo Sanjust quel prototipo che i fascisti nel 1925, anticipando l’operazione selvaggia dello square e sbarrando la sede massonica, avevano prelevato dalla casa 29-31 di via Barcellona, ed aveva dormito per 45 anni nei sotterranei del municipio. Ma non fu protetto: per anni fu invece sbattuto con irrisioni idiote nelle pagine di facebook da qualcuno in sfrenatezza narcisistica che, con la sua cantina, non poteva e non potrebbe onorare neppure se stesso. E che allargò il sacrilegio umiliando (con scritte irripetibili) anche un’altra opera d’arte donata alla sede di piazza Indipendenza nel 2007 da Bruno Fadda, gran maestro onorario del GOI: il busto nientemeno che di Giuseppe Mazzini realizzato dallo scultore albanese Quezim Kertusha.

 

Ma perché oggi questa evocazione che anche altre volte mi capitato di proporre alla considerazione di chi ama insieme la città nostra e la democrazia, la repubblica con i suoi ordinamenti e la buona educazione, la civiltà delle relazioni umane e la tradizione che ci rimanda a una scuola di valori che hanno attraversato i filtri della storia? Perché chi – soggetto singolo o soggetto collettivo – ha combinato (con gratuita imbecillità) il peggio perfino inimmaginabile ai danni delle effigi dei maggiori del Risorgimento e del postRisorgimento nazionale sarebbe stato oggi promosso – mi han riferito direttamente dal circuito – a guida-referente di tanta meraviglia d’arte custodita negli ambienti riservati e meraviglia d’ideali nella partecipata corporazione morale: ma con quale autorevolezza e competenza potrà egli accompagnare i visitatori e illustrare loro il pregio storico prima ancora che artistico del patrimonio custodito fra i Templi ed i Passi perduti, il valore etico-civile di quelle rappresentazioni statuarie riunite nella sala della memoria secolare di una nobile istituzione attiva a Cagliari ormai dal 1861 e che ha una sua ribalta anche nel camposanto di Bonaria come nell’ingresso dell’ex Ricovero di mendicità, nell’Ospedale civile e in numerosi altri luoghi della città? Chi ha offeso bellamente, e reiteratamente, e volgarmente, e con rapsodiche complicità, e senza motivazione alcuna, la memoria di Giovanni Bovio (trasformato perfino in un generale golpista sodale di Pinochet) e la memoria di Giuseppe Mazzini (chiamato ad ascoltare le sconcezze d’un preteso “pruritoAnis” proprio nei drammatici giorni di Bergamo inchiodata dal covid), ha poi anche pifferato l’oltraggio ai vertici del nostro Stato costituzionale, ha diffuso il suo apostolato dell’insulto al presidente della Repubblica Mattarella ed al presidente emerito Napolitano, al presidente della Camera dei deputati on. Fico, alla tradizione democratica italiana identificata nel 25 aprile così come alla stessa tre volte centenaria ritualità liberomuratoria (ignobilmente portata al ridicolo!) ed a tanto altro… Sono almeno cento le sue pagine – le pagine del soggetto singolo o del soggetto collettivo – da cui svetta per vigore semantico un dito medio indirizzato al sentimento di chiunque sia turbato da tanta pazzia, pagine che si popolano di offese personali a tizio ed a caio per immaginate insufficienze fisiche (!) ed ammiccamenti sessisti e parafascisti di cui avrei inguaribile nausea a fare, un’altra volta, elenco, l’elenco, l’elenco.

 

Questo, ancora questo, pur malato, debbo dire, e dire un’altra volta. Attenzione. Siamo come a Mariupol e Kharkiv: la storia segnerà i nomi di chi con la volontà di non fare (il giusto) e con quella di fare (l’ingiusto) sta demolendo la casa ecumenica della migliore tradizione umanistica che ci sia dato di sognare. La bella passeggiata fra i Monumenti Aperti potrebbe fermarsi, a Castello, ad un Monumento Rovesciato, o Demolito, comunque Umiliato.

 

***

 

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

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