Ricordando il carissimo Paolo Pireddu, di Luciano Carta

L’ 8 luglio 2019 ci lasciava il carissimo Paolo Pireddu (nella foto, da giovane medico), consumato da una malattia che lo ha fatto soffrire per quasi tre lustri.

Chi scrive e Paolo avevamo vissuto l’infanzia e la prima gioventù assieme, prima a Bolotana e poi ad Alghero, durante le Scuole Medie e nel Ginnasio. Eravamo coetanei, fedàles, essendo Paolo nato l’8 ed io il 14 dicembre 1947. Con il Liceo e l’Università le nostre strade si sono divise. Ci siamo reincontrati negli anni Settata e Ottanta, tra Nuoro e il nostro paese natale. Poi, esigenze professionali e familiari ci hanno separato per lunghi anni.

Nel giugno 2018 mi trovai per caso a Bolotana in occasione della festa di San Giovanni Battista, presso la chiesa e il quartiere omonimi, e qui fui informato della grave malattia che lo tormentava da tanti anni. Io ne ero del tutto ignaro. L’ho subito contattato e mi ha chiesto di entrare a far parte del Gruppo di amici che con Whats-App si davano quotidianamente il messaggio augurale del “Buon caffè”, con brevi considerazioni di giornata.

In una circostanza, un po’ per scherzo, gli scrissi nel nostro nitido e armonioso logudorese e lui ne fu subito entusiasta. Egli fu particolarmente incuriosito e soddisfatto di questa “sorpresa” e mi chiese, da quel momento, di usare la nostra lingua nella comunicazione e nella scrittura. Mi diceva che in questo modo riusciva a provare sensazioni nuove, profonde e genuine, che lo riportavano alla nostra infanzia e ai nostri studi.

Questa confessione dell’amico mi impegnò sul piano personale: se egli provava sollievo con la “lingua madre”, diventava per me quasi un imperativo morale dargli qualche momento di sollievo scrivendogli in

logudorese. Ogni mattina, secondo l’estro, iniziai a “confezionare” dei “contos de foghìle”, in genere riferiti alla nostra esperienza bolotanese. Così sono nati i contigheddhos”. Bachissereddha è solo il personaggio letterario che impersona l’universo bolotanese; né poteva essere diversamente, dal momento che “santu Bachis” è il santo più venerato di Bolotana, cui è intitolato il più noto santuario del paese. Le vicende narrate non sono tutte di mia invenzione; molte fanno parte della tradizione locale e mi sono state narrate o scritte da compaesani.

“Le avventure di Bacchisereddha – mi scriveva Paolo – mi danno un piacere ed una leggerezza incredibili”. E in altra circostanza: “Candho evito de iscriere in italianu, m’intendho menzus.  Non avevo mai pensato a questa funzione terapeutica della lingua materna!

In un’altra missiva mi diceva: “Sos contos tuos sunt sa droga mia”; e ancora, celiando sul suo dimagrimento: “Deo poto ingrassare solu cun sos contigheddhos tuos! Oe mi fatto torra unu brincu a Platamona!”. Era il suo commento ad uno dei miei racconti, “Bacchiserèddha a Platamona”, che aveva gradito moltissimo e il cui protagonista reale ero io stesso.

Desideroso di immedesimarmi in lui, lo stimolai perché mi desse alcune indicazioni di sue vicende personali, in modo che poi io potessi imbastire un racconto più vicino alle sue esperienze. Da alcuni appunti fattimi pervenire sono nati diversi racconti, tra cui, in particolare, quello relativo a Santu Antinu imperadòre, san Costantino imperatore, di cui fu sempre devoto ed è venerato nell’omonimo santuario di Sedilo, meta nel passato dei pellegrinaggi religiosi dei Bolotanesi, che vi si recavano col carro a buoi tutto ornato a festa.

Conscio dell’inesorabilità del male, un giorno mi confessò che aveva deciso di andare a “riposare” a Bolotana, nella tomba di famiglia, però, proprio nel ricordo di san Costantino, mi disse che voleva stare “all’ultimo piano”, vicino a Babbo, a Mamma e all’amato fratello Bachisio, “in attico con vista” – celiava – perché da lì si può ammirare in lontananza Sedilo, il paese del santuario del Santo imperatore, e a fianco, San Bachisio, del cui Comitato per i festeggiamenti fu Presidente e di cui recentemente era stato insignito della presidenza onoraria.

Vi è però un altro motivo che lo spingeva a “coltivare” la lingua sarda: il suo profondissimo senso identitario. Tra gli anni Ottanta e Novanta Paolo, militante sardista, era stato Segretario provinciale di Nuoro del PSd’Az e ci teneva tantissimo a manifestare la sua dedizione alla causa della Sardegna.

Era sorretto da una fede religiosa e al tempo stesso da una vena inesauribile di arguzia e di forte umorismo. Non rinunciava quotidianamente ad accompagnare il saluto del “Buon caffè” con una vignetta di Snoopy. L’ultima che mi fece pervenire, quando mi comunicò che aveva dovuto accettare il ricovero presso l’Ospedale Civile di Sassari, recava questo commento: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto s’incasina”.

Ciao Paolo, anche a nome di tutti gli amici che ti hanno conosciuto e hanno ammirato le tue doti umane e professionali. Tutti viviamo nel tuo ricordo.

Che la terra ti sia lieve.

 

 

Condividi su:

    1 Comment to “Ricordando il carissimo Paolo Pireddu, di Luciano Carta”

    1. By Anonimo, 14 aprile 2022 @ 09:31

      Salude, Luciano!
      Mi ndhe allegro meda de su chi as fatu! Deus ti lu paghet menzus, fintzas si est zai unu paga, sa prima, su bene chi as fatu.
      E Paulu si ndhe at a allegrare menzus como chi podet pregare puru pro nois.
      Pàulu santu, prega pro nois!
      Deo mi ndhe so allegradu candho apo àpidu in libbreria e luego lézidu COLA DIE ’ONA tou cun sos contos chi as iscritu e in prus mi est istadu útile pro sos “contos” de sa limba nostra.
      E mi faghet piaghere chi tue apas iscobertu sa «funzione terapeutica della lingua materna»!
      Però no ischimus ancora cal’est sa maladia chi patimus!!!
      O no la cherimus cumprèndhere (si no nos ant ammachiadu pro no la cumprèndhere e fossis nos rendhimus pro ndhe buscare àtera puru!)
      Ma sa cura faghet efetu solu si zughimus «malattia grave»?
      O sa cura no est su èssere zente normale chi tenet limba e fintzas àteru e limba faedhat chentza si bi pònnere che in presone ma in campu abbertu de libbertade chentza trobeas e illusiones?
      O nos ant incantadu (comente faghent sos majarzos, is brúscius) cun sa “specialità”? Coment’e chi a èssere ispeciales no siat su èssere pessones normales, ca donzunu est unu mundhu e no una marioneta fotocópia (e cussideru a parte chi fintzas sos macos sunt ispeciales che a sos machines etotu).
      E a faedhare e iscríere sa normalidade nostra, tandho, est cosa de fàghere ispetendhe a tènnere totugantos maladia “incurabile”? Est sa “specialità” de sa maladia e no de sa normalidade su chi cherimus? Semus sempre impitzados a nos irmalaidare ispetendhe s’azudu de sos ‘sanos’?
      Sa “passione” nostra (si no própiu “calvàriu”) est cosa longa e nois no semus ispetendhe peruna Pasca?
      Nessi sos augúrios nos damos chirchendhe de fàghere de prus e menzus: A fàghere Pascamanna e totu sas Pascas sanos e contentos a tot’annu e totu sos annos!