Igort, l’Ucraina e il dovere di testimoniare, di Daniela Pinna

Igor Tuveri, nato a Cagliari 63 anni fa, artista poliedrico di fama internazionale, padre del graphic journalism italiano, direttore editoriale di Linus e di Oblomov Edizioni, osserva con indignazione e angoscia l’aggressione dell’Orso russo all’Ucraina.

A rileggere oggi i suoi “Quaderni Ucraini” e i “Quaderni Russi”, pubblicati a partire dal 2010, viene da dire che era tutto già scritto&disegnato: dall’Unione Sovietica alla Democratura di Putin, passando per l’Holodomor (l’olocausto per fame causato da Stalin in Ucraina), la guerra in Cecenia e l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja che ne rivelava gli orrori nascosti…

Dalla sua casa di Bologna Igort (nato Igor Tuveri a Cagliari 63 anni fa) artista poliedrico di fama internazionale, padre del graphic journalism italiano, direttore editoriale di Linus e di Oblomov Edizioni, osserva con indignazione e angoscia l’aggressione dell’Orso russo all’Ucraina. E la racconta sulla sua pagina Facebook (e ora anche su Robinson, il domenicale della Repubblica), dando voce agli amici e agli sconosciuti che, come possono, comunicano con lui dal paese occupato. E anche da quello occupante.

Nel 2014, lei ha documentato nelle sue tavole, con fonti ucraine e russe la guerra nascosta dei russi nell’Ucraina Orientale, da cui discende il conflitto odierno. «Ucraina e Russia: da sempre è una storia di vicinanza tra due Paesi e due culture distinte. Ma anche una storia di possesso, spesso soffocante, brutale e violentissimo da parte della Russia (e prima dell’Unione sovietica). “L’Ucraina non esiste”, diceva Stalin, dice Putin. Ai tempi del primo si impose di parlare solo in russo, sin dalla scuola. Ma quello ucraino è un popolo tenace. Il risultato è che oggi, in Ucraina il 70% della popolazione parla ucraino, il 26% russo e il resto lingue o dialetti minoritari».

Lei ha vissuto circa due anni in Ucraina, è andato a cercare la casa di Cechov, ha scoperto l’Holodomor, la carestia indotta dalle politiche economiche staliniane, che ha fatto milioni di morti.

«Ho abitato a est, sotto il Donbass. Era evidente la convivenza pacifica tra le persone, i cui nuclei familiari erano spesso misti. Il separatismo è stato alimentato ad arte infiltrando nell’area militanti russi di estrema destra con l’intento di scatenare la tensione. Un certo Pavel Gubarev nel 2014, si è proclamato nuovo governatore della regione di Donezk. Milita nel Russian National Unity, il movimento di estrema destra, fondato nel 1990 da Aleksander Barkashov. Una formazione paramilitare di stampo neo-nazista. Grande amico di Rostislav Zhuravlev, attivista nel partito ultra-nazionalista L’Altra Russia, il cui leader è Eduard Limonov (quello del romanzo di Emmanuel Carrère, avete capito bene). Ma nel Donbass il “denazificatore” Putin si è servito del famigerato battaglione Wagner, mercenari russi dichiaratamente neo nazisti».

Perché il mondo libero e liberal, da Walter Duranty (che negli anni Trenta vinse il Pulitzer scrivendo che la carestia non esisteva) a oggi non vuole vedere quello che succede in Ucraina?

«C’è una visione di comodo, in cui conta soprattutto la ragione dell’economia. La vita a quelle latitudini vale poco. Invece in questo Occidente opulento il pensiero vale due copechi. Spesso si finge di avere un’opinione, il che evita lo sforzo di un pensiero prospettico. Riflettere in prospettiva costa fatica, costringe a studiare. Attività che oggi pare scomoda. Si preferisce lo sproloquio querulo che i più scambiano per opinione».

Nel 2014 lei ha denunciato la crisi in Crimea con “La guerra di Eveny Myazin”. E ha detto a L’Unione Sarda: “Quel che succede oggi è la conseguenza di quel che accadde negli anni Trenta. E oggi come allora a farne le spese sono i deboli”. Conferma?

«Beh, avrei preferito sbagliarmi. Mi creda. Confermo».

Stravinsky, Dostoevskij, Majakovskii; i registi, da Eisenstein a Tarkovskij. La cultura russa, colta o popolare, ha avuto una parte cruciale nella sua formazione.

«Amo quel furore culturale, quell’espressione inquieta di genio».

Lei è stato anche parte, negli anni Ottanta, con le chine o con i campionatori, di una sorta di revival transeuropeo delle sperimentazioni iconografiche e musicali dell’era sovietica, da quelle rivoluzionarie fino a quelle staliniane, sebbene adeguatamente stravolte e “corrette”…

«Piano! Quelle staliniane sono state accuratamente prese per i fondelli. Chiamare un progetto teatrale musicale “Slava Trudu!!” (“Gloria al lavoro!!”) significava prendere le distanze, giocare con il gigantismo soviet, le Olimpiadi del lavoro. La conquista di un popolo operoso e tutto quel mare di retorica. Trattavo la cultura sovietica come Emir Kusturica quella slava. Come sarebbe potuto essere altrimenti? I miei amati Rodchenko, Malevich, El Lissitzky, i costruttivisti tutti, i futuristi, i suprematisti, le avanguardie russe al completo, furono bandite da Stalin e dai suoi rozzi addetti alla cultura. I cui seguaci condannarono, negli anni ‘70, l’insolente Paradjanov a 7 anni di gulag. Aveva trasgredito ai dettami del realismo socialista e poi aveva commesso un altro crimine altrettanto grave, era omosessuale».

Sergej Iosifovič Paradjanov, grande regista surrealista di origine armena…

«Come chiunque segua la propria voce interiore, Paradjanov non fu mai rieducato. Il disegno, disse, gli aveva salvato la vita, era sfuggito alla follia rappresentando, a penna, sui sacchi che trasportava nei lavori forzati, le scene di vita nel campo. Non importava la tecnica, che lui peraltro non possedeva, importava il furore, quell’accanimento di trovare se stesso che per me è stato sempre un esempio, una stella polare».

Le capita di sentirsi lacerato fra l’anima russa (e/o sovietica) e quella ucraina o cecena?

«Ho amato e amo la cultura russa, quella ucraina, quella giapponese e quella europea. Sono cresciuto con quella americana e non ho mai pensato che per apprezzarne una si dovesse dimenticarne un’altra. Il linciaggio culturale nei confronti dei giganti del pensiero russo, oggi, mostra che siamo degli gnomi. “Non è necessario apprezzare Putin per amare Puskin”, mi dice da sempre Galia Ackerman, la mia amica, storica e scrittrice russa».

Amica (e traduttrice) anche di Anna Politkovskaja. Come ai tempi della guerra in Cecenia, o in quella del 2014, forti voci di dissenso si sono levate in Russia. Gente comune si fa arrestare per dire no alla guerra. È in contatto con i dissidenti?

«Ne conosco alcuni, hanno tutta la mia ammirazione. Mi commuove la loro forza d’animo».

E con i resistenti in Ucraina?

«Ho amici dappertutto in Ucraina. Raccolgo le loro voci, di persone qualunque, come me o lei, che subiscono la guerra, la cui quotidianità è violata. Il dolore, la sofferenza mi parlano, li racconto, se e come posso. Non penso sia più possibile voltarsi, far finta di niente. Noi siamo quelli fortunati. Abbiamo il dovere di testimoniare, di accogliere e aiutare».

Come tutti gli autocrati Putin esercita un controllo ossessivo sulla narrazione che lo riguarda, in parole o immagini: 15 anni è la condanna minacciata ai giornalisti che usano la parola guerra. Come ai tempi dell’Urss, anche oggi si cerca di decifrare chi sia nelle grazie del capo a seconda che compaia o meno nelle foto o nelle riprese ufficiali. Che cosa pensa del video del 6 marzo, dove Putin annuncia ritorsioni contro le sanzioni dell’Occidente circondato dalle belle assistenti di volo dell’Aeroflot?

«Ha notato che sta molto distante da chiunque incontri, 8 metri circa, che siano i capi di Stato esteri o i suoi, e invece stava molto vicino alle sue hostess? Mi ha fatto sorridere. C’è qualcosa di anacronistico in questa visione di propaganda. Sento odore di muffa. Il mondo secondo il signor P. è qualcosa da lontano dalla vita vera. È una bolla con la neve finta dentro. Ecco, ora la sta agitando».

E Zelensky, in mimetica o in maglietta militare, con la barba sfatta e le occhiaie, come colpisce, se lo colpisce, il suo occhio di narratore per immagini? Lo trova rassicurante/convincente? O è un Leonida alle Termopile?

«Zelensky era un attore di una serie comica, “Servitore del popolo”. Questo titolo è diventato il nome di un partito politico e lui come nella serie, presidente per caso. Non gli avrei dato un soldo, la sua elezione mi pareva l’effetto di un tempo sciocco e superficiale in cui la notorietà rende possibile qualunque cosa».

Ma poi… «Poi gli avvenimenti sono divenuti tragici, l’Ucraina è stata invasa e lui ha cominciato a mostrare qualità che non gli conoscevamo. Ha rifiutato diverse volte di essere “esfiltrato” verso Leopoli, più tranquilla di Kiev, o ancora, con i bombardamenti sempre più frequenti, di essere portato all’estero dai servizi segreti inglesi e dai Navy Seals americani. È consapevole che la sua vita è appesa a un filo, la sua e quella di sua moglie e delle sue figlie. Eppure ha un principio: somiglia al suo popolo, resiste. Mi tolgo il capello davanti a persone che hanno questo fegato. Ora è l’icona vivente di un popolo che resiste e soffre».

 

Lui ha detto: «Non sono io iconico, lo è l’Ucraina» «Non ne faccio un santino, sarebbe stucchevole. Ha commesso errori, anche gravi, per esempio non doveva regolarizzare nelle forze armate il battaglione Azov, che ha commesso crimini atroci. Sono cose serie queste».

 

Avremo un Linus monografico sulla guerra in Ucraina? «Lo stiamo preparando».

L’unione 12 marzo 2022

 

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