Alziator: «Ma io preferisco ripensare ad Odessa come alla città delle balalaike, del carillon municipale e della luminarie a colori. Così posso anche credere che il mondo non impazzirà», di Gianfranco Murtas

L’aria verdiana Va pensiero, pezzo forte del Nabucco che s’alza dalla piazza centrale di Odessa per le voci del coro dell’Opera lirica cittadina, mentre la bandiera ucraina sventola certa di una identità unificante. L’Italia morale e universale che si dona, ancora e sempre, dal suo Ottocento universale, giusto dopo centoottant’anni dacché i milanesi udirono per la prima volta quella melodia, nel marzo di un anno che era ancora prigioniero della restaurazione postnapoleonica… l’Italia morale e universale che si dona ad un popolo fratello che l’accoglie e, mazzinianamente, chiama Europa.

I nessi ideali e sentimentali fra i nostri sogni nazionali spinti nella metafora ebraica che guarda a una dolorosa cattività e al bisogno di riscatto e quelli degli ucraini devastati oggi dalla follia cinica di un nemico possono essere molti, a volerli cercare. Io posso trovare, immediati, i ponti anche sardi nelle registrazioni di tante lapidi del nostro cimitero monumentale che alludono ai combattenti nostri in Crimea, centosettant’anni fa. Li avevo elencati in un libro (La Massoneria cagliaritana fra i reduci dalle patrie battaglie ed il monumento ai caduti per l’Italia, Cagliari 2011), avendoli incontrandoli nel recinto della società mutualistica: Luigi Chiantello, Carlo Giattino, Fedele Loddo, Antioco Murenu, Gaetano Lay, Gaetano Corte, Giovanni Bttista Meloni, Luigi Castelli… quanti erano! Salvatore De Andrei sottotenente, Antonio Pirisino e Antonio Sacceddu caporali, e Sechi, e Pasquale Corona, Giuseppe Manca, Antonio Mei, Francesco Melis, Annibale Peretti, Gio.Battista Piras, Giovanni Posulu… il generale d’artiglieria Francesco Cugia… Altri nomi sono entrati nelle bellissime pagine di A 150 anni dalla breccia di Porta Pia, uscito a cura di Mauro Dadea e Nicola Castangia nello scorso 2020, ad iniziativa del Comune di Cagliari. Quante vite, quanti caduti, quanti reduci, quante storie personali dalle provenienze di paese…

In Sardegna digitalibrary (Fondo Pirari) è consegnata anche una fotografia di reduci barbaricini tutti pastori e contadini tornati al mestiere ed invecchiati ormai con i loro costumi e le loro barbe… Tante storie minori, storie minime anzi, mischiate a storie che hanno goduto della ribalta per il protagonismo ora di questo ora di quello, magari del colonnello (poi generale) medico Gaetano Lay, supermedagliato e fatto cavaliere e anche commendatore e perfino mauriziano, direttore dell’ospedale da campo chiamato a fronteggiare da chirurgo ogni evenienza e da internista l’ondata colerica che investì allora in pieno i nostri… né da meno fu Gaetano Corte, finito anche lui come maggiore generale, e mostratosi mitico esempio dei suoi in ogni campo, in ogni battaglia…

Allora il regno Sardo (o chiamalo sardo-piemontese) aveva mandato quindicimila uomini in Crimea, e alcune centinaia erano sardi di nascita e di famiglia e di lavoro, alleato il governo Cavour con i governi francese e inglese e turco contro quello russo zarista… Nessun confronto con l’oggi, da questo punto di vista, resta il dato umano dei sardi in Ucraina.

Mi vien da pensare anche, ora che siamo ancora nel clima bacareddiano per l’intervenuto centenario della scomparsa del grande sindaco, alla patria natale – Taganrog – di Rosa Rossi, la moglie appunto di Bacaredda, e di altri suoi famigliari che dal ceppo genovese per un secolo intero avevano preso residenza e amministrato traffici commercialii, e assunto anche uffici consolari, in quella parte di Ucraina che affacciava sul Mar Nero. Odessa all’estremo ovest, verso la Moldavia, Taganrog, a chiudere verso est, e la penisola crimeana, con la sua Sebastopoli, allungata al centro. Undici ore di macchina per 738 chilometri, fra Odessa e Taganrog, due volte la Cagliari-Olbia. Tutta l’Ucraina è due volte l’Italia e conta una popolazione che è l’80 per cento di quella nazionale nostra. La Crimea, che ha le dimensioni della Sardegna, vanta una popolazione modesta, meno della metà di quella sarda, e di essa la parte prevalente è di origine russa.

Mi vien da pensare a storie lontane (che non sono lontane) da accostare a tante storie vicine che sono qui, immediate, dei tanti ucraini che vivono a Cagliari e in provincia e nella regione, qui lavorano, qui di guadagnano il pane che tanto spesso sostiene pezzi di famiglie rimasti in patria: mille nel capoluogo, altri seicento in provincia (tanto più a Quartu Sant’Elena), ulteriori mille fra le Barbagie, l’Oristanese, il Logudoro e la Gallura. E ripenso alla comunità religiosa ortodossa ed a quella greco-cattolica che officiano i loro riti bizantini, riportandoci un’altra volta ancora, nella suggestione della storia nostra sarda, alle scene religiose che precedettero la stagione giudicale e di cui tante tracce conserviamo nella memoria popolare. Oggi è tanta Caritas a giocare un ruolo nell’accoglienza dei profughi, e con la Caritas sono le istituzioni in recupero del loro “cuore di carne”.

Sempre la sofferenza conduce il pensiero a cercare riferimenti di condivisione nella storia per dire che mai l’uno è stato separato dall’altro, all’altro interamente estraneo…

La diplomazia di Cavour mosse le sue prime pedine unitarie, nel 1854-55, giusto in Crimea, allora associata al grande impero zarista. Cedettero agli occidentali, i russi, nel 1855, rovesciarono il segno nel 1944, combattendo eroicamente contro gli invasori nazisti… La storia presenta sempre le sue contraddizioni, più spesso apparenti che reali, a volerne seguire il percorso da vicino.

L’unità d’Italia, raggiunte le intese con la Francia, partì per via diplomatica e insieme militare, per via di ufficialità, dalla Crimea che i russi hanno staccato/vogliono staccare oggi dall’Ucraina (e già hanno forzato nel 2014). I moti mazziniani sì, a donare alla storia la prova delle più alte idealità dell’abbraccio fra l’idea di nazione e l’idea di democrazia, ma senza la tela diplomatica e l’intelligenza diplomatica di Cavour e del suo partito non avremmo avuto quel che abbiamo avuto, che è poi quel tanto che ci ha fatto quello che siamo: l’Italia, e la Sardegna con l’Italia.

Sono suggestioni, si dirà che sono elucubrazioni, io riporto tutto a un fatto di sentimento. Nel mezzo ripenso a Yalta per come l’abbiamo studiata a scuola e all’università, come teatro delle intese intergovernative mondiali, dopo il crollo definitivo (definitivo?) della pazzia nazifascista. Ripenso anche alla morte di Palmiro Togliatti, nell’estate 1964, e a certe innocenti (ma pretenziose) discussioni in cui io, chierichetto undicenne di Sant’Eulalia, m’imbarcai allora, sognando la pacificazione del mondo comunista con quello occidentale, dentro le nuove coordinate umanistiche che il Concilio aveva allora delineato guidato dal magistero giovanneo e da quello paolino…

Colloco nel sentimento anche il mio Francesco Alziator, che in Crimea compì un viaggio nell’estate 1967, lasciandone la vivida cronaca in una pagina speciale de L’Unione Sarda (31 agosto 1967). Una pagina qualche anno fa riprodotta da Luigi Spanu in Francesco Alziator in viaggio, Cagliari GIA editrice, 2015. Titolo: “L’unica stanza riscaldata di un grande palazzo freddo”. Eccone il testo.

 

Triste Crimea

I monti Jaila, che sovrastano poderosi la Crimea, levandosi da una dolce cimosa verde e prendendo quota rapidi con pareti erte ed ampie per perdersi tra le nuvole, sono il mio primo incontro con la terra russa. Lo stesso che fecero, ormai più di un secolo fa, i Sardi che la saggezza o la follia di Cavour aveva strappato alle loro case per mandarli a morire in questa terra della quale i più non avevano mai sentito parlare, e per motivi ai quali essi erano assolutamente estranei. Poveri Sardi del Corpo di spedizione di Lamarmora! in queste mie giornate in Crimea non riesco a levarmeli dalla mente: ce ne sono a centinaia, morti in combattimento o uccisi di dissenteria, sepolti in questa terra. Ma chi si è mai più ricordato di loro? Avranno mai avuto un fiore o un lume nel giorno dei Morti? Credo proprio di no e, ora, non posso far nulla neanch’io che pure me li ritrovo ad ogni momento nel pensiero. Forse per questo, nonostante la bellezza della natura, la Crimea mi sembra straordinariamente triste.

D’altra parte, come può essere lieta una regione nella quale ci sono più di cinquanta sanatori?

Anche le spiagge, piccine, piccine come un fazzoletto, un fazzolettino da donna di quelli che non servono più dopo una sola soffiatina di naso, hanno qualcosa di triste zeppe come sono di creature che, viste a distanza, sembrano proprio formiche, sedute, strette una accanto all’altra, a fare, silenziose e composte, la cura del sole. Tuttavia bisogna riconoscere che la Crimea è una terra davvero bella, e a stento ci si persuade di essere lontani dal Mediterraneo e su un mare che, per larghi tratti, d’inverno, è tutto una lastra di ghiaccio.

La verità è che Yalta potrebbe essere benissimo una cittadina della Riviera Ligure o della Costa Azzurra, e che il suo clima è così dolce – 14 gradi cent. di media annua – che ci si spiega perfettamente come il sogno di ogni Russo sia una vacanza in Crimea.

In sostanza, la Crimea è per la Russia, come l’unica camera riscaldata di uno sterminato palazzo gelido, dove tutti vogliono andare sia pure per un poco. Se le insegne dei negozi e i cartelli stradali non fossero in caratteri cirillici, qui di essere in Russia non se ne ricorderebbe nessuno. Salvo il momento in cui, per sbarcare o per risalire a bordo, subisci dalla polizia il più meticoloso esame del passaporto e del visto, e per le sentinelle sparse un po’ dovunque. Per il resto, Crimea è solo vigneti, alberi esuberanti. Yalta con il suo verde, le sue case di cura, la sua baia tranquilla, assomiglia in modo impressionante a Madera. Ma su Yalta c’è in più il segno della grande storia, di quella che segna e incide le sorti dell’umanità.

Oggi il nome di Yalta lo apprendono nei libri gli studenti di tutto il mondo per l’incontro dei tre grandi nel febbraio del 1945. Per questo chi viene a Yalta, invece di andarsene a prendere il sole a Mikhor o scalare le montagne che sovrastano Gursuf, è condotto a vedere il palazzo di Livadia. Fu lì, a tre chilometri dalla città, nella residenza estiva degli zar – un casermone con pretese rinascimentali, ma piuttosto ingombrante più che monumentale – che Stalin ricevette Roosevelt e Churchill.

Il particolare architettonicamente più notevole del palazzo è in realtà la cappella oggi chiusa, che vale da sola la gita a Livadia. Per la verità, a Livadia c’è anche un’altra grande attrattiva: la Fontana della Giovinezza, perché chi ci si abbevera non invecchierà; la gente ci va per ridere, ma tuttavia beve.

Ben più bello del palazzo di Livadia è il castello di Alupka, costruito nella prima metà dell’Ottocento da uno dei conti Vorotzov che si diceva fossero più ricchi dello zar stesso. Nell’insieme, il castello di Alupka, con la sua falsa architettura Tudor, nata dalle nostalgie britanniche del costruttore, è forse un poco pesante: gli interni sono quelli di un qualunque palazzo patrizio, né i pavimenti meritano davvero le pantofole che si è costretti a calzare come se si entrasse in una moschea.

Ma dove l’uniformità del granito cede il passo alla fantasia compiacente del marmo italiano, alla scenografia degli scaloni all’aperto, il castello esce decisamente dalla banalità e fa stile. Basterebbe l’umorismo delle sculture dei leoni bonari e sonnacchiosi della grande scalinata a dare da soli la misura della classe degli artisti che hanno decorato il castello.

Anche ad Alupka i Sardi di Crimea non si abbandonano: nel giardino che si apre dinanzi ad una camera dai mobili in betulla della Carelia, è conservato un cannone italiano del 1856, regalo – o gran bontà dei cavalieri antichi! per ricordo dall’ex-nemico Larmarmora all’ex-nemico Vorontzov. Come dovunque, in Crimea, anche a Miskhor, è il verde che trionfa con cedri, querce, ulivi, cipressi, pini e perfino cespi di alloro che sembra Italia e, nell’orto Botanico Nikiski, esteso per 300 ettari, ci sono rose e piante esotiche da stupire chiunque.

Tra questo verde assurdamente tropicale, che nessuno s’attenderebbe ai margini della terra ucraina, la vita s’apre alla speranza e perfino una gente complessa e affaticata come quella russa – ieri tutta contorta negli interrogativi e nelle introversioni, oggi tutta esaurita dall’impegno di vivere – riesce a distendersi e a riposare. Riposare, questa pare la grande parola d’ordine della Crimea; riposano i malati nei sanatori, riposano gli uomini e donne nei parchi, riposano bimbi al mare e perfino le code, le immancabili code dinanzi ai negozi hanno qualcosa di quieto e riposante.

A Yalta, come a Madera, le preoccupazioni sulla salute stanno avanti a tutto e smorzano, per quanto possibile, tanti punti d’attrito.

Fu nel 1899, per riposare – ma come può riposare il pensiero – che i medici indussero Antonio Cecov a costruirsi ad Yalta una casa, quella che ora è trasformata in Museo.

Non so quanto vi abbia riposato Cechov, perché qui furono scritte alcune delle sue opere più importanti, tra cui “Il giardino dei ciliegi”, ed a guardarti intorno ti pare, ad ogni passo, di ritrovarti con Liubov, Ania o Lopachin. Ho visto un vecchio dai grandi baffi, asciutto e svagato, che sedeva su un muretto: sembrava, in tutto e per tutto, il fedele Firs. Stava in silenzio e, forse, non gli è piaciuto che lo fotografassi, poiché ciò sembrava interrompere il filo del suo monologo interiore. Ma se si fosse alzato in piedi e avesse detto la battuta finale del capolavoro di Cechov: “La vita è passata, e io… come se non l’avessi vissuta”, a me la cosa sarebbe parsa del tutto naturale e gli avrei fatto un forte applauso. Quanto Yalta è silenziosa, malinconica ed un tantino deprimente, altrettanto Odessa è volitiva, desta, impegnata. Non si dimentichi, per altro, che l’una è sui cinquanta mila abitanti e l’altra ne ha più di settecentomila.

Nell’atmosfera di Odessa avverti subito quell’ignoto, ma reale fattore accelerante che è tipico delle grandi città; l’inserirti in un sistema più ampio di coordinamento, dato dalla dimensione degli edifici, dalla lunghezza delle vie, dal numero delle persone che ti circondano. Non dal traffico, perché nelle città sovietiche – all’infuori dei mezzi di trasporto pubblici – quello delle auto è ridotto al minimo e la cosa, per chi viene dall’Italia, in definitiva, è tutt’altro che spiacevole. Che Odessa sia una grande città si avverte non solo dal numero delle persone – nella sola stazione centrale, uno dei centri ferroviari più importanti di tutta l’Unione Sovietica, vanno e vengono qualcosa come centomila persone al giorno – ma anche dalla psicologia degli uomini. Una città grande si interessa di grandi cose, fa grandi cose e tollera e lascia perdere quelle che non sono essenziali.

Né a Yalta, né negli altri centri della Crimea, esistono chiese e se lì qualcuno volesse un pope o pregasse costituirebbe eresia e scandalo politico. A Odessa c’è, in pieno centro, una chiesa ortodossa e nessuno se ne preoccupa, a meno che non debba farlo per dovere di ufficio.

Né, d’altra parte, si può mettere in dubbio che Odessa non abbia le carte in regola con la Rivoluzione e la ideologia marxista: Odessa è la città che fece causa comune con la rivolta dell’incrociatore Potemkin, esaltata nel realismo di un grande monumento, la città di Muro dei Fucilati, sulla strada di Cernomorka e delle Catacombe partigiane.

Ma Odessa è soprattutto una metropoli ed una metropoli è luogo dove non soltanto uomini e fatti assumono più giuste dimensioni, ma dove tutto viene proiettato in un tempo relativo, che tende a valori eterni. Tutte le grandi città hanno lunghe storie nelle quali tutto è già avvenuto e tutto può accadere; dove la gente è tanta, nessuno è mai veramente importante: Tizio può sempre sostituire Caio e Sempronio può stare al posto di Caio; dove oggi c’è una scuola, ieri c’era un quartiere malfamato e dove oggi c’è una banca, domani potrà esserci un bagno pubblico. In questa dinamica di quel sistema di forze che è una gran città, resta pur sempre una costante di energia, che ha alla base l’uomo. Ed allora sulla metropoli livellatrice, l’uomo esercita la sua difesa per sopravvivere e salvarsi, quando non può in altri metodi, divertendosi.

Per questo ad Odessa si sono mantenuti intatti la giurisdizione zarista dell’opera lirica, del varietà, ed il gusto delle feste.

Il monumentale complesso del Teatro dell’Opera, costruito tra il 1884 ed il 1887 da architetti austriaci per rimpiazzare quello andato a fuoco nel 1873, oggi in via di totale ripristino e già per ottobre si annuncia la stagione, con la Traviata di Verdi in primo piano.

Ad Odessa ogni occasione è buona per accendere luminarie, per far quattro salti, per cantare e suonare la balalaika, qui siamo infatti nella vera patria della balalaika, che non è genericamente russa (russo in questo mondo di genti, di latitudini e di lingue diverse è un aggettivo come americano o asiatico) ma autenticamente e soltanto ucraina.

In realtà, la balalaika discende dalla donna ed è mongolica, ma dal secolo XIII fa parte del mondo ucraino, cosicché può considerarsi ormai indigena. Che gli Ucraini vadano pazzi per la balalaika non c’è da stupirsi, ma il bello è che ne vanno pazzi anche i forestieri ed allora si assiste, ogni giorno, nei negozi dell’Intourist, alla lotta del turista per la conquista di una balalaika.

Non c’è souvenir che possa sostituirla: né l’artigianato del legno, né il berretto di pelliccia, la bottiglia di vodka o il vasetto di caviale: tutti vogliono la balalaika.

E per le vie di Odessa si vedono girare professionisti francesi o italiani, che in patria porterebbero neppure un pacchetto, brandire balalaike, o addirittura accarezzarne le corde per strada; qualcuno ne porta due, qualcuno perfino tre, a spalla, l’una sull’altra, come prosciutti risonanti.

Ho visto signore sussiegose contendere una balalaika a teenagers in minigonna. Borghesi e impegnati di tutto il mondo si riuniscono per la balalaika.

In tutto questo c’è però anche una speranza per il mondo, perché fino a quando la gente saprà e vorrà ridere, l’umanità sarà salva.

Spasibo, Odessa, dovisdania Odessa! – Tutti ricorderemo Puskin sul suo piedistallo scheggiato dalle bombe, i 192 gradini della scalinata ottocentesca di Boffo, resa epica dalle inquadrature di Sergei M. Ejsenstein ne “L’incrociatore Potemkin”, il Liceo dove Mandelejev ideò la sua tavola degli elementi, il verde dei parchi ed il biondo delle ragazze.

Ma io preferisco ripensare ad Odessa come alla città delle balalaike, del carillon municipale e della luminarie a colori. Così posso anche credere che il mondo non impazzirà.

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Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).

 

 

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