Un nuovo contributo di Salvatore Cubeddu alla storia del Partito Sardo d’Azione, di Federico Francioni

Sommario: 1. Un’altra decisiva tessera per la ricostruzione di un complesso mosaico – 2. Anni orribili – 3. La responsabilità del gruppo dirigente storico – 4. Alle origini del “vento sardista” – 5. Com’è strutturato il libro – 6. Il nuovo declino – 7. I vecchi uccidono i giovani – 8. Per concludere

1.Un’altra decisiva tessera per la ricostruzione di un complesso mosaico. “Sardisti. Viaggio nel Partito sardo d’azione fra cronaca e storia. Testimonianze, documenti, dati e commenti” (pubblicato nel 2021 dalla Editrice democratica sarda di Sassari), con prefazione di Carlo Pala, riguarda il ventennio 1976-1995 e si aggiunge ai due precedenti volumi sul tema, dallo stesso titolo, apparsi per i tipi della stessa casa editrice, rispettivamente nel 1993 e nel 1995.

Salvatore Cubeddu, l’autore, ci offre un vasto quadro d’insieme, sostenuto da una ricca messe di materiali editi e inediti e da testimonianze orali da lui stesso raccolte.

Cubeddu, laureato in Sociologia a Trento, dapprima coordinatore, quindi segretario regionale della Fim-Cisl dal 1981 – dopo l’impegno nei movimenti di base degli anni Sessanta-Settanta – è stato anche, sempre come segretario regionale, alla testa di un’intrapresa originale e innovativa come la Fsm (Federatzione sarda metalmecànicos), organizzatrice, fra l’altro, della storica “Marcia pro su trabagliu” del 1979; fra i promotori e gli animatori della Fondazione Sardinia (di cui è direttore, mentre Bachisio Bandinu è presidente), ha scritto, fra l’altro, “Il quinto moro” (con lo stesso Bandinu) e “L’ultima battaglia”, entrambi incentrati sull’esperienza di Renato Soru al vertice della Regione sarda. Segretario generale aggiunto del Psd’a, Cubeddu è stato anche sindaco di Seneghe, suo paese natale. Con passione e competenza, egli cura da tempo il blog della Fondazione Sardinia

 

2.Anni orribili. In questo suo “Viaggio”, egli prende l’avvio dal 1976 come “annus horribilis”. La disamina cronologica va necessariamente articolata e problematizzata: alle elezioni regionali del 17 giugno del 1974, infatti, il Partito aveva conseguito l’1,6 per cento dei voti, che rappresenta il minimo storico (si veda la p. 47 del libro di Cubeddu); nel 1975 muore Emilio Lussu (che peraltro aveva rotto con il Psd’a nel secondo dopoguerra, aveva fondato il Partito d’azione socialista, aveva poi aderito al Psi ed infine al Psiup); nello stesso anno scompare Camillo Bellieni, fondatore, organizzatore, teorico del Psd’a e del sardismo (sulle cui diverse fasi, nelle vicende dell’isola, ha indagato con acume il compianto Gianfranco Contu).

Bellieni è stato anche autore di importanti ed ancora valide pagine di storia (si pensi alle indagini sulla società isolana nell’Alto medioevo e al suo prezioso saggio su Eleonora d’Arborea).

A titolo che non è solo di semplice curiosità, qui si ricorda che Egidio Pilia e lo stesso Bellieni collocarono la mitica Atlantide all’interno del Mediterraneo – fra Sardegna e Baleari – decenni prima di Sergio Frau che peraltro, nel suo volume sull’ultimo, presunto lembo di terra emersa del continente platonico, ignora questi due autori, oppure non si degna di citarli (ma è più probabile che nulla ne sapesse).

Dobbiamo ancora moltissimo alle doti di Bellieni come intellettuale, teorico, fondatore ed organizzatore del Partito; allo stesso tempo va ricordato il suo ondivago atteggiamento verso Giovanni Maria Angioy, capo del triennio rivoluzionario sardo del 1793-96: l’atteggiamento di Bellieni comprende, fra l’altro, una presa di posizione apertamente denigratoria di Angioy, apparsa sul settimanale “Riscossa” nel 1946. Ben diverso, anzi, antitetico, il giudizio sul patrimonio storico delle lotte antifeudali, formulato da Antonio Simon Mossa, intellettuale poliedrico, originale architetto e dirigente sardista-indipendentista, prematuramente scomparso nel 1971.

Il 1975 è inoltre legato anche alla morte di un altro esponente di rilievo come Anselmo Contu, mentre nell’anno successivo scompare Giovanni Battista (Titino) Melis. Nel Consiglio regionale al suo posto subentra Bruno Fadda che fonda un suo movimento e lascia per la prima volta il Psd’a senza un suo rappresentante nell’assemblea legislativa sarda: una svolta in negativo, per una storica formazione politica che, fra l’altro, aveva attirato il vivo interesse di un Piero Gobetti e di un Antonio Gramsci.

 

3.La responsabilità del gruppo dirigente storico. Il venir meno anche di un singolo rappresentante sardista nel Consiglio comunale di Cagliari è la dimostrazione lampante di una crisi profonda, di cui il gruppo dirigente di allora porta pressoché tutta intera la responsabilità. Certo – come osserva giustamente Cubeddu – la Dc e il Pci, con la loro forza organizzativa, avevano in misura crescente eroso consensi che prima erano andati ai sardisti soprattutto nel mondo delle campagne.

Com’è stato allora possibile che dalla crisi verticale del 1975-76 si sia transitati verso i successi elettorali del “vento sardista” negli anni Ottanta?

 

4.Alle origini del “vento sardista”. In primo luogo, non va sottovalutata l’esigenza, assai sentita, di un rinnovamento profondo, all’interno del partito, da parte di alcuni dirigenti e della stessa base: si pensi alle “autoconvocazioni” che nel 1976 promuovevano dei “congressi” a Oristano, Bosa, Bitti e Santa Cristina di Paulilatino; l’iniziativa si doveva ai fratelli Batore e Angelino Corronca di Scano Montiferro, a Giovanni Battista Columbu di Bosa, a Giampiero (Zampa) Marras di Sassari, a Gigi Sanna di Oristano, a Michele Zedde di Ollolai (si vedano in particolare le pp. 44-45). Ma, come giustamente osserva Cubeddu, la storia del Partito sardo è costellata di abbandoni, numericamente anche di rilievo, nonché di espulsioni che contrassegnano passaggi politici cruciali di lotte intestine.

Inoltre, dalla fine degli anni Sessanta, l’intera Sardegna – percorsa dai movimenti (a partire dalla difesa delle terre di Pratobello, presso Orgosolo, contro l’insediamento militare) – diventa uno specifico laboratorio sociopolitico. Avevano preso corpo esperienze nuove, dal Circolo “Città e campagna” a “Nazione sarda” e ad altre.

I cambiamenti messi in atto dalle realtà di base non avevano però un referente sicuro – sul piano politico-partitico e soprattutto elettorale – attesa anche la scarsa consistenza numerico-organizzativa dei raggruppamenti “neosardisti” e indipendentisti come Su Populu sardu che, in ogni caso, ha rappresentato un’esperienza originale, ben presto dimenticata (purtroppo). Il giornale dall’omonima testata arrivò a vendere migliaia di copie ma tutto ciò non era in grado di attrarre ed incanalare voti.

Alle elezioni regionali del 1979, fu lanciata la proposta di una lista unitaria di Democrazia proletaria, della nuova sinistra e degli indipendentisti, con Joyce Salvadori Lussu che aveva accettato di essere prestigiosa capolista: non se ne fece nulla per divisioni ed immaturità dei soggetti in causa.

Di conseguenza, il Psd’a si vide piovere addosso non tanto nel 1979, ma soprattutto a partire dalle regionali del 1984, una crescente ondata di suffragi: l’apice è il 15,2 per cento alle amministrative del 12 maggio 1985. Il vertice del gruppo dirigente storico – in gran parte esterno, se non estraneo, ai sommovimenti radicali degli anni Settanta – non aveva merito alcuno: ciò contribuisce a spiegare la difficoltà, se non l’incapacità, dimostrata da questo nucleo, di gestire adeguatamente, alla lunga, tali successi. Sarebbe errato tuttavia sminuire il ruolo di alcune componenti – sia della base, sia di dirigenti sardisti intermedi e comunque non al vertice del Partito – nel promuovere o nel partecipare a istanze e lotte tipiche di quegli anni.  Si è già sottolineata l’importanza della figura di Simon Mossa, la cui battaglia indipendentista degli anni Sessanta, interna ed esterna al Partito sardo, fu incisiva.

Alla fine degli anni Settanta, questa formazione risultava ancora sostanzialmente emarginata dal dibattito politico e istituzionale, soprattutto a causa dell’Intesa autonomistica, voluta in particolare dal leader della Dc Pietro Soddu e da Andrea Raggio del Pci: veniva riprodotta in Sardegna l’esperienza depretisiana e trasformistica dei governi andreottiani di “solidarietà nazionale”, sostenuti dal partito di Enrico Berlinguer.

 

5.Com’è strutturato il libro. La struttura del volumone (821 pagine complessive) di Cubeddu si articola attraverso: la ricostruzione storica dei singoli momenti di vita del partito; la disamina del succedersi dei congressi, dal XVIII di Oristano (11-12 dicembre 1976) al XXVI dell’hotel Chia Laguna (11-12 marzo 1995); la proposizione di materiali congressuali attraverso relazioni, discorsi ed interventi (tratti dall’archivio della Fondazione Sardinia, contenente un prezioso fondo con le carte del Partito); un apparato fotografico; la raccolta di interviste e testimonianze.

Citiamo quelle di: Mario Melis, primo presidente sardista della Giunta regionale (in carica dal 1984 al 1989), Luigi Amedeo Sanna, Mario Carboni, il già citato Contu, Giacomo Meloni, Michele Columbu, Oreste Pili, Arnaldo Vallascas, Antonio Buluggiu, Gigi Concas, Italo Ortu, Francesco Puligheddu, Nino Piretta.

 

6.Il nuovo declino. L’intervista a Buluggiu, ma non solo, è una conferma di tormenti e delusioni attraversati da coloro, più o meno giovani che, all’interno del Partito, si impegnarono attivamente per svecchiarlo, per liberarlo dai pesanti condizionamenti del clientelismo e del notabilato – per non parlare della Massoneria – col fine di farne una forza coerentemente indipendentista, secondo quanto era stato deciso, del resto, soprattutto a partire dal Congresso di Porto Torres del 1981.

Al declino del partito, fra gli anni Ottanta e Novanta, contribuirono notevolmente, con altri fattori, le vicende giudiziarie dell’on. Piretta: nato a Sedini nel 1925, prigioniero delle truppe tedesche, deportato politico, invalido di guerra, nel 1974 entra nel Consiglio comunale di Sassari; vicesindaco della stessa città, viene poi eletto consigliere regionale e vicepresidente della massima assemblea legislativa sarda.

Nel 1989, il mondo politico isolano viene scosso dalla notizia del suo arresto, dovuto alla pesante accusa di aver riscosso tangenti: in effetti, con un esponente di spicco della Democrazia cristiana e con un altro del Partito socialista, Piretta aveva formato una sorta di Sacra Trimurti che controllava in modo ferreo la vita politico-amministrativa sassarese, esclusa la sanità, rimasta sotto l’egida dell’on. Nino Giagu De Martini. Per certi versi, Sassari sembra diventare un laboratorio – in negativo, s’intende – della futura Tangentopoli, esplosa a partire dagli anni Novanta.

Alle accuse di tangenti si aggiunsero quelle di essere il mandante di attentati dinamitardi contro la villa di Mario Melis a San Teodoro e contro l’ex-socio Tino Poddighe: solo per quest’ultimo caso, Piretta ebbe una condanna definitiva a 6 anni. Nel suo itinerario esistenziale figurano anche tre anni di latitanza in Argentina; Piretta è morto nel 2001 (si vedano le pp. 533-542 del libro di Cubeddu).

La biografia di Piretta è ricca di elementi che si avvicinano al feuilleton: “La Nuova Sardegna”, fra l’altro, informava i lettori di una cassaforte ritrovata nelle acque di Balai, a Porto Torres, nonché di un “diamantino”, donato ai consiglieri comunali sassaresi dall’allora sindaco Raimondo Rizzu, che consentivano di risalire a Piretta ed alle sue complesse disavventure giudiziarie.

 

7.I vecchi uccidono i giovani. Nella su classica opera “Totem e tabù” (1913), Sigmund Freud ricostruisce la vicenda dell’orda totemica dei figli, dei giovani i quali – mossi da insoddisfazione ed ostilità verso il padre, depositario dell’autorità e del potere sulla “distribuzione” delle donne di una sorta di harem – decidono di ucciderlo; lo sbranano e ne divorano le ossa per assimilarne tutta la forza; salvo poi assidersi al banchetto totemico, mossi da nostalgia, rimpianto e rimorso, insomma, per celebrarlo. Orbene, nella società italiana e in quella sarda, nell’economia, nella società, nella cultura, risulta da tempo in atto un meccanismo antropologico semplicemente antitetico: sono i vecchi, tenacemente abbarbicati al potere, che uccidono i giovani per impedire l’avvicendamento generazionale. La gerontocrazia sardista ha fatto il possibile per bloccare il rinnovamento.

Nel 1991, le dimissioni di Efisio Pilleri – la cui segreteria, in effetti, poteva rappresentare una svolta – e la sua sostituzione con Giorgio Ladu, incontrastato “ras” politico-clientelare dell’Ogliastra, costituiscono un netto regresso e danno un duro colpo alle speranze di cambiamento. Nel 1995, l’ascesa alla segreteria di Cecilia Contu rappresenta una nuova vittoria dei geronti e dei loro supporters. Essi hanno fatto di tutto per impedire che Cubeddu diventasse segretario. Va doverosamente ricordato anche l’ostracismo verso ogni apporto teorico di Bandinu, antropologo, scrittore, giornalista, che è stato anche editorialista e direttore de “L’Unione sarda”.

Dopo la Contu, anche la segreteria dell’avvocato nuorese Lorenzo Palermo, proveniente dal Su Populu Sardu, ha vita breve (dal 16 dicembre 1995 al 5 giugno 1997, data del XXVII Congresso, svoltosi ad Alghero) e non riesce a promuovere un effettivo svecchiamento, a imprimere una svolta, per la viva ostilità che da subito mostrano verso di lui i nuovi ras: i consiglieri regionali Efisio Serrenti e Giacomo Sanna, diventati poi rispettivamente assessori alla Cultura ed ai Trasporti (quest’ultimo è stato anche presidente della Provincia di Sassari, nonché candidato al Parlamento con la Lega Nord); essi sono avversi alla crescita del Partito – per non perderne il controllo – e ad ogni forma di democrazia interna. Cubeddu sottolinea giustamente di questa fase la dipendenza del Partito dal gruppo consiliare regionale. Sulla sua esperienza di segretario, Palermo ha pubblicato, nel 1999, Agenda, scontri, forze, polemiche, idee di un anno di azione nel Partito sardo.

 

8.Per concludere. Infine, il libro fornisce nuova conoscenza sulle origini della dapprima ondivaga, oscillante e contraddittoria politica del Partito sardo verso la Lega Nord, cui è stata, da più parti, attribuita una patente di federalismo che questa formazione, in realtà, non ha mai avuto (si vedano in proposito gli illuminanti scritti di Gianfranco e di Alberto Contu). L’approccio al leghismo – con cui infine è stata stretta l’alleanza organica del governo regionale, con la giunta guidata da Christian Solinas – contribuisce a dimostrare quanto il Partito sardo già negli anni Novanta fosse ormai lontano dall’ispirazione che aveva guidato, fra gli altri, Bellieni e Simon Mossa: mai e poi mai essi avrebbero promosso aperture verso una forza “nordista” che lungamente ha fatto dello spirito di esclusione e di discriminazione la propria bandiera.

Rimane l’originalità del patrimonio storico del sardismo e di un partito, fondato nel 1921, fra i più longevi del mondo occidentale, sulle cui vicende Cubeddu, con questo suo consistente terzo volume, ci ha fornito un nuovo, indispensabile contributo.

Da leggere con attenzione, in particolare, il testo dell’ultimo discorso ufficiale in un’assise sardista, tenuto dallo stesso autore del libro in sede di Consiglio nazionale del Partito ad Arborea, hotel Ala Birdi, il 16 dicembre 1995. Qui ci si limita a riportare le battute finali del testo (vedi le pp. 789-795), trascritto e riportato in italiano ma pronunciato in sardo: “Non ce ne facciamo niente di un altro segretario per un anno. A noi occorre un uomo di livello. Un dirigente di cui i sardisti vadano fieri. Un uomo dello stile di quelli che abbiamo ricordato: di Camillo Bellieni, di Anselmo Contu, di Emilio Lussu, di Antonio Simon Mossa. Con quello spirito, con quelle idee, con quelle attese. Un sardo, un sardista. Noi, col nostro federalismo, cerchiamo una nuova società. Ne ha bisogno il Partito sardo. Ne ha bisogno la Sardegna”.

 

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