RICORDANDO GIORDANO BRUNO, di Orthelius

Il filosofo nolano e la sua vicenda storica.

 

Il 17 febbraio è data importante. Il processo, la condanna e il rogo di Giordano Bruno sono assurti, infatti, a simbolo imperituro della lotta agli integralismi, all’imposizione di dogmi e di “copyright divini”, al prevalere del pensiero unico ed ai tentativi di ridurre a soggezione individuale e sociale gli esseri umani.

Ma se il simbolo unisce, cosa si può dire del potere che volle Giordano Bruno arso vivo? La disarmonia delle intolleranze e delle divisioni può essere considerata una contingenza storica, oppure va preso atto di una tara connaturata ad ogni società umana?

Allora fu la Chiesa cattolica a perseguire il tentativo di separare verità e coscienze, ma polso meno duro non ebbero di certo luterani, anabattisti, ugonotti e calvinisti: valga per tutte la vicenda del teologo umanista Miguel Serveto, arso vivo nella soave e “riformata” Ginevra del 1553…

Oggi è con una cruenza senz’altro più sottile, quella della cultura mainstream, che viene proposta l’omologazione distorsiva dei comportamenti. Sul versante politico-sociale tramite la violenza demagogica della propaganda populista, incapace di accogliere le diversità culturali, mentre su quello economico attraverso la globalizzazione dei mercati finanziari, con il suo corollario rappresentato dalla cultura consumistica. Quella che toglie valore ad ogni valore.

Populismo e globalizzazione potrebbero sembrare in contrasto tra loro, il primo, infatti, si accompagna sovente al sovranismo, nemico giurato della seconda. Ma non è così: entrambi condividono i tratti dell’egoismo e dell’assolutismo ideologico nei confronti degli altrui valori. Sono infatti figli della stessa radicale svalutazione dell’uomo nei confronti della convenienza economica. Quella che continuamente blandisce gli individui con promesse di “felicità” (non certo di “verità”), rappresentando il “braccio armato” del pensiero dominante.

Mutatis mutandis, il ragionamento proposto non vuole affatto minimizzare le colpe e le storture dell’Inquisizione romana, anzi, fa riflettere sul perché questa fece di tutto per evitare il tragico epilogo in Piazza Campo de’ Fiori. È vero, infatti, che nel processo al Nolano i “canoni” del diritto della Sacra Romana Chiesa furono scrupolosamente rispettati, ed è vero anche che Bruno venne consegnato al Governatore di Roma con l’avvertimento che la sua persona non avesse «da soffrire alcuna mutilazione di carne o di membra», ma tutto ciò conferma, semmai, quanto la dignità possa spaventare il potere, ed una retta coscienza possa risultare ben più forte di qualsiasi forza voglia soggiogarla.

Almeno fintantoché si sia disposti a tener dritta la schiena. Purtroppo, invece, siamo per lo più abituati ad osservare baratti per due lenticchie, con riappacificazioni che sanno tanto di salvataggio delle rispettive convenienze. Meschinità che hanno ben poco di ideale.

Anche per questo il “caso Bruno” è diverso. Diverso, ad esempio, dal processo per eresia al quale fu sottoposto, a Toledo, il nostro Sigismondo Arquer. Bruciato vivo, quasi trent’anni prima di Bruno, non certo per aver vergato la prima carta topografica di Cagliari (“purtroppo” per lui – così è da dire – insieme a Sebastian Münster, cosmografo tedesco di fede luterana), ma per aver fatto fin troppo bene il suo lavoro di giureconsulto fiscalista al servizio della corona di Spagna, inimicandosi, in questo modo, alcune consorterie isolane…

Forse più simile alla vicenda di Bruno è quella che coinvolse un suo compaesano, rispondente al nome di Pomponio de Algerio. Giovane e zelante studente, Pomponio era universitario a Padova. Fu accusato di eresia perché, in accordo alle idee dei riformatori protestanti, sosteneva il principio di una Chiesa dalla parte dei credenti, anziché degli interessi gerarchici delle famiglie che si succedevano nel pontificato romano, pagando lautamente i propri elettori. Egli, come ricompensa per queste sue giuste ragioni, venne immerso in una caldaia di olio bollente, pece e trementina, il 19 agosto 1556 a Roma, in Piazza Navona. A riprova dell’adagio: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno giustiziati!».

Ma non è di roghi e di processi che vi voglio parlare, bensì della vita di un uomo, Giordano Bruno, fatta di rincorse, vittorie e sconfitte a tratti rocambolesche…

Filippo Bruno (questo il nome all’anagrafe di Giordano) nasce a Nola (Regno di Napoli) nel 1548 da Giovanni, soldato di ventura, e Fraulissa Savolino, di agiata famiglia di piccoli proprietari terrieri: «Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato et allevato in quella città».

Inizia studi privati con il sacerdote Gian Domenico de Jannello, poi passa alla scuola pubblica di Bartolo Alaia delle Caselle. Prosegue successivamente a Napoli (logica e dialettica), allievo dell’averroista Giovan Vincenzo de Colle, detto Sarnese perché nato a Sarno, e segue lezioni private dal padre agostiniano Teofilo da Vairano.

Può immaginarsi che in questo periodo si avvii in Bruno, pur giovanissimo, quella riflessione sulla facoltà aristotelica dell’Intelletto Agente, di origine divina, in relazione al “pensiero astratto”, legato all’immaginazione umana ed alla percezione del sensibile, che porterà ai frutti fecondi della maturità, per mezzo degli studi ed approfondimenti sull’arte della mnemotecnica.

Sotto l’influenza del Vairano nel 1562 entra in convento, vestendo l’abito di novizio in San Domenico Maggiore e prende il nome di Giordano. Fa l’anno di noviziato studiando retorica fino a diventare nel 1566 “professo” (prende cioè i voti).

A quell’epoca gli studi di retorica, dialettica, filosofia naturale, teologia, logica e metafisica ruotano tutti intorno ad Aristotele. Si fa finta che la teoria eliocentrica di Niccolò Copernico – già pubblicato da un ventennio – non esista.

La scelta di farsi domenicano, da parte di Bruno, è meditata non tanto per amore alla teologia, che egli non ha, o per difendere l’ortodossia cattolica, cosa alla quale non tiene, ma per poter studiare in santa pace tutte le cose che lo interessano in un ambiente colto e “protetto”. Protetto perlomeno fino ad un certo punto… non immaginiamo, infatti, aule e cortili universitari di allora come spazi simili a quelli odierni. I monasteri medioevali e le università annesse erano spesso luoghi di bieche violenze e scandali sessuali.

Bruno ne è – almeno in parte – condizionato. Il personaggio vero, cioè quello concreto e storico, sempre convisse con la sua doppia natura di mistico studioso, dalle profonde riflessioni filosofiche, e uomo amante a tutto tondo della vita.

C’è poi da dire che le lezioni non vertevano sempre su temi d’interesse o di cultura classica come Aristotele, Platone, Democrito… “difficili” però interessanti, ma sulle “noiose” dottrine dei Padri della Chiesa come Girolamo, Crisostomo, Crisologo, Ambrogio e Cipriano… insomma, per Bruno una barba che non finiva più! E purtroppo sappiamo che l’annoiarsi, unito ad un’intelligenza acuta, porta sempre ai guai: cosicché durante l’anno di noviziato, dopo aver gettato via le immagini di tutti i santi, restando legato al solo Cristo (che ancora ama), Bruno invita un collega novizio che legge la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via anche quel libro, perché secondo lui si tratta solo di un rituale scialbo e puerile. Questo consiglio dato all’amico di convento servirà più tardi ad affermare che vi era in lui l’intenzione di attentare al culto di Maria…

Ma non solo: unita alla dissolutezza conventuale vi era anche la pratica di punire molto severamente chi rivelasse cosa accadeva davvero all’interno di mura considerate “sante”, e perciò comprese le prepotenze perpetrate in San Domenico, dove frati come Teofilo Caracciolo e Marco Di Gennaro erano devoti più al pugnale che al crocifisso. E forse non erano neppure tra i più deprecabili se l’omicidio, la sodomia, il furto ed ogni nefandezza possibile erano pratiche comuni. Soltanto tra il 1567 ed il 1570 furono emesse a Napoli una cinquantina di sentenze, di cui ben diciotto contro conversi, chierici e sacerdoti di San Domenico Maggiore.

Bruno testimonia tutto questo in alcune sue opere come il Candelaio, affermando allo stesso tempo di essere riuscito (in qualche modo) a restarne fuori.

Oltre ai delitti ho già detto dei silenzi ipocriti. Altro assillo costante del potere (non solo di quello cattolico) abituato ad incensarsi in pubblico e privo di vergogne nel privato, a patto che quest’ultimo resti tale.

Arriva intanto il 1575, anno che vede Bruno sacerdote e teologo. Un teologo però… molto poco vicino all’establishment del suo tempo, visto che legge di nascosto autori proibiti come il “pagano” Origene e l’anticlericale Erasmo da Rotterdam ed opere non solo non comprese nel corso degli studi, ma addirittura messe all’indice! Opere che lo influenzano nella predilezione della dottrina eretica di Ario, che non negava la divinità di Cristo ma la subordinava a quella del Padre, nel rigetto della “consustanzialità”.

Così, quando arrivano in visita a San Domenico alcuni frati domenicani fiorentini, tra cui Agostino da Montalcino (che Bruno asserisce essere lombardo), scoppia il patatrac: nella discussione Montalcino dice che gli eretici sono ignoranti perché non conoscono le Scritture, oltre a non sapere disquisire come gli scolastici. Bruno, dall’alto delle sue conoscenze teologiche, richiamando i Padri della Chiesa e sant’Agostino, obietta con decisione. Ma alle obiezioni del Nolano, tra cui la messa in dubbio della Trinità (argomento tipico di Ario), questi saltano su indignati, sostenendo che le affermazioni di Bruno sono prove da difensore degli eretici! Allora Montalcino, da buon domenicano, corre a riferire tutto al Superiore, Domenico Vita, facendosi forte della testimonianza degli altri presenti (in questa occasione è riesumato anche il “caso” del consiglio fornito al collega di studio di gettar via quel libro che parlava in modo infantile della Madonna). Sicché viene perquisita la sua cella, dove vengono scoperti i famigerati libri di Erasmo posti all’indice!

Non serve altro per processare frate Giordano, ed il procedimento inizia con l’invio delle carte a Roma. Bruno a questo punto decide di scappare, abbandonando l’abito e – come egli dice – la religione stessa, per recarsi nella Città santa. È il febbraio del 1576.

A Roma chiede ospitalità ai domenicani di Santa Maria sopra Minerva, con la speranza di vivere tranquillo senza che nessuno venga a sapere dei sospetti che si sono addensati su di lui. Ma Roma non è da meno di Napoli, come racconta un cronista dell’epoca, il marchigiano Guido Gualtieri: in città scoppiano frequenti e tremendi tumulti, con risse, furti ed ammazzamenti, con molte persone derubate e poi gettate nel Tevere. Circolare per la città pronunciando una parola fuori posto o dare uno sguardo interpretato come strano può essere fatale. Ed in mezzo alle bande di delinquenti non vi è solo gente sbandata di varia provenienza, ma spesso preti e frati che lasciano chiese e monasteri per arrotondare le entrate.

In mezzo a questo marasma Bruno non passa inosservato; finisce, invece, per essere accusato dell’omicidio di un frate. Pur innocente deve quindi rendersi di nuovo fuggiasco, in abiti civili (marzo 1576).

Il problema è però capire dove andare. In teoria il Sud sarebbe per lui il luogo più sicuro, ma quindici anni prima vi è stata la strage di migliaia di Valdesi a Montalto Uffugo, in Calabria… inoltre non è semplice muoversi, perché c’è la peste ed occorre cercare luoghi risparmiati, come la Liguria, fino a quel momento immune dal flagello. Povero e senza un soldo, Bruno allora si convince a far rotta verso Genova.

Da Genova passa quasi subito a Novi, una specie di piccola Repubblica che gode di grande autonomia, cercando una qualche occupazione. Però le leggi ferree esistenti a Novi contro chi reca offesa alla religione lo fanno andar via anche da lì, sembra perché danno fastidio le sue lezioni di cosmologia imperniate su Copernico, messo in opposizione al sistema aristotelico-tolemaico.

Seguendo rapidamente i suoi spostamenti tra il 1577 ed il 1578, lo troviamo a Savona, poi a Torino. Quindi, navigando sul Po, a Venezia (un mese e mezzo) dove dà alle stampe De’ segni dei tempi (opera oggi perduta) per guadagnare qualche soldo, come egli stesso scrive. Poi Padova, Bergamo (dove riveste l’abito talare perché gli è utile per trovare un giaciglio e mangiare), Brescia, Milano (estate 1578), infine Torino.

Da qui, a piedi, passa il Moncenisio e si reca al convento domenicano di Chambéry (1579). In primavera si sposta a Ginevra, dove si converte al calvinismo ed è ammesso all’Accademia; qua osserva rigidamente l’aristotelismo (intanto ha dovuto deporre un’altra volta l’abito talare e per mantenersi corregge bozze).

A Ginevra Bruno scopre che i calvinisti sono intransigenti, duri, fanatici e sanguinari esattamente come i cattolici (se non peggio, vista l’aggravante del professarsi “riformati”). Scopre anche che da quelle parti vi è un Venerabile Concistoro che funziona proprio come il Sant’Uffizio. A dimostrazione del fatto che il potere è potere in tutti i luoghi, e sovente ai nomi differenti non si accompagnano logiche migliori.

In agosto Bruno non sa trattenersi dall’attaccare, a mezzo stampa, l’anziano teologo e professore di filosofia Antoine De la Faye (individuando in una sua lezione – a seconda delle fonti – dai 20 ai 100 errori filosofici). Viene pertanto arrestato insieme al tipografo Jean Bergeon.

Processato è costretto a riconoscersi colpevole e a sottomettersi alla pena. Appena in grado di farlo però fugge (da questo momento in poi affermerà più volte che è preferibile la Chiesa di Roma – pur con tutte le sue storture – alle varie sette riformate). Prima si reca a Lione (ivi trattenendosi un mese) poi a Tolosa (fine 1579), dove consegue un dottorato (Magister artium) e vince il concorso a lettore di filosofia. In Francia insegna pubblicamente il De Anima e impartisce lezioni private.

Nell’insegnamento pubblico, però, tocca testi di fisica e matematica che lo rendono ancora una volta sospetto. Così anche a seguito delle guerre civili continentali (l’epoca è quella della violenta lotta tra cattolici e calvinisti ugonotti) ripara a Parigi nel 1581 (pur nel ricordo della tragica notte di san Bartolomeo del 1572, con la strage dei protestanti francesi), dove si impegna in una serie di lezioni sui trenta attributi divini (con argomentazioni tratte da san Tommaso) e sulla mnemotecnica (arte antichissima sviluppata maggiormente dal maiorchino Raimondo Lullo).

Le sue lezioni riscuotono un successo enorme, come testimonieranno alcuni suoi ex allievi anni dopo e come dimostra il fatto che il cattolico Enrico III, figlio di Caterina de’ Medici, vuole conoscerlo di persona (Bruno dirà di lui: «magnanimo ed a buon diritto degnissimo dell’ossequio di tutti i dotti»).

Il re vuole proteggerlo, pertanto gli viene offerto di diventare professore ordinario, ma egli rifiuta perché ciò, diversamente da Tolosa, gli comporterebbe di doversi assoggettare a pratiche religiose. Accetta invece un semplice incarico remunerato, che gli viene assegnato sempre allo scopo di metterlo al sicuro dai pedanti aristotelici e dagli scolastici che abbondano Parigi. Ciò gli permette di lavorare serenamente alla pubblicazione delle sue prime opere importanti, quelle che lo faranno conoscere in tutta Europa: il De umbris idearum, il Cantus Circaeus, il De Compendiosa Architectura et complemento artis Lulli, il Candelaio ed altre.

Enrico III, come si suol dire, gli apre le porte della corte. Qua Bruno può conoscere molte persone dotte, alcune delle quali veramente interessanti, come l’ambasciatore di Francia a Londra Michel de Castelnau, che lo riceve ospite nella sua casa parigina.

Con i buoni uffici di quest’ultimo nel 1583 Bruno passa in Inghilterra, lasciando Parigi per l’evolversi negativo della situazione (sempre più forti sono le spinte per introdurre nel Paese i decreti tridentini contro la Riforma).

Sembra che questo viaggio avesse il fine diplomatico di tentare una pacificazione tra Enrico III ed Elisabetta, convincendo quest’ultima dell’assenza di mire espansionistiche della Francia. A questo proposito, però, non ci si può sottrarre dal ricordare che nel 1991 lo storico britannico John Bossy, attraverso il saggio intitolato Giordano Bruno and the Embassy Affair, mette in relazione la permanenza londinese del Nolano con la figura di un certo Henry Fagot, nome in codice di un non meglio precisato sacerdote presso l’Ambasciata francese, al servizio del controspionaggio britannico, capitanato dal primo segretario di Stato Francis Walsingham. In questo caso bisognerebbe immaginare Bruno come uno “007” ante litteram, impegnato a far fallire ogni intervento papista (portato soprattutto da Filippo II re di Spagna) in favore della cattolica Maria Stuarda, cugina di Elisabetta e pretendente al trono inglese.

Comunque, a parte questa ipotesi dirompente… a Londra Bruno pubblica l’Ars reminiscendi, il Sigillus sigillorum ed il Triginta sigillorum explicatio, ottiene inoltre l’insegnamento ad Oxford (dopo sua esplicita richiesta), università che aveva dismesso l’abito della grande tradizione scientifica per diventare la sede puritana di un aristotelismo dozzinale e di una pedagogia umanistica. Qua tiene lezioni sull’immortalità dell’anima, abbandonando san Tommaso ed introducendo idee proprie, affronta poi dispute pubbliche con i dottori di Oxford, nelle quali si segnala per la sua grande conoscenza dei classici e per l’utilizzo di una raffinata ars dialectica, ormai in declino in Inghilterra. Ma si fa notare troppo, tanto che diventa presto sgradito. Fino all’episodio che ne decreta il definitivo allontanamento dall’insegnamento, riferendoci peraltro di un carattere – quello del Nolano – orgoglioso ed istrionico (in parte anche aiutato dalla cadenza napoletana), e molto poco incline alla misura.

Ma scendiamo nel particolare:

Thomas Digges, astronomo e matematico britannico, nel novembre del 1572 si accorse, insieme a Tycho Brahe (che ne fu il primo osservatore l’11 di quel mese), che il forte bagliore causato dalla supernova SN 1572 (la cui esplosione illuminò per diverse settimane il cielo, fino al marzo del 1574, quando la luminosità scese al di sotto della soglia del visibile) era causato da una stella, allora intesa come “nova”. Peccato che tale classificazione fosse impossibile secondo l’astronomia aristotelico-tolemaica. Infatti, secondo Tolomeo, che riprendeva le descrizioni cosmologiche di Aristotele, solo gli elementi “sublunari” – cioè interni all’orbita lunare – erano passibili di mutamento, mentre le stelle dovevano essere immutabili. Chiaramente l’apparizione di una stella mai osservata prima (in quei giorni brillava nella Via Lattea alla temperatura di cento miliardi di Kelvin) dimostrava il contrario. Inoltre, l’osservazione della nova indicava come essa risultasse assolutamente immobile rispetto alle altre stelle, dimostrando che si trattava, appunto, di una stella fissa, e non di un fenomeno sub-lunare. Digges, che Bruno aveva conosciuto proprio a Londra, in seguito a questa osservazione aveva scritto un libro, A perfit description of the Coelestiall Orbs (1576), nel quale, per la prima volta, oltre al sostegno dato al sistema copernicano, compariva la Figura di un cielo pieno di stelle al di là di quella che, anche per Copernico, restava l’ultima sfera, immobile ed inoltrepassabile, delle stelle fisse.

Il successo della Perfit Description, unito alla familiarità che i temi dell’infinito e dell’eliocentrismo sembrava avessero acquisito nell’ambiente oxfordiano, convince Bruno a dire la sua sull’argomento, impostando il corso che gli è stato affidato dall’università in modo “avanguardistico”. Egli, tuttavia, non valuta con la dovuta prudenza di avere di fronte non un pubblico di “pratici” o di matematici intenditori di astronomia, o di cortigiani curiosi delle novità più recenti, ma di studenti e docenti di una università in crisi e per certi aspetti attardata su posizioni aristoteliche dozzinali, la quale coltiva pochissimo o per nulla le scienze naturali. L’ambiente, pertanto, è tutt’al più abituato a considerare la teoria copernicana nei termini di una bella ipotesi matematica, comparabile, non certo sostituibile, alla dottrina geocentrica.

D’altronde, lo stesso Digges aveva sì spalancato l’universo finito di Aristotele, ma non in senso teologico, ed il sistema copernicano all’interno di quelle ulteriori stelle poste dopo l’ultima corona era inteso come unico, non certo pensato da ripetersi per altri “mondi”, per giunta “infiniti”. Inoltre, era sempre mantenuta la distinzione tra materia sub-lunare, generata e corruttibile, e sfere sovra-celesti, eteree, eterne ed incorrotte.

Bruno, errando, invece di proporre una neutrale esposizione tecnica della teoria di Copernico (sulla quale bisogna pur dire che, in termini strettamente matematici, non aveva una competenza davvero profonda, vista anche la sua ingiustificata avversione per la trigonometria, come risulterà nel successivo “Opuscolo di Praga”), ne fornisce un’illustrazione fin troppo partecipata, e soprattutto già piegata al proprio pensiero, quello che di lì a qualche mese avrebbe esposto ne La cena de le ceneri.

Il copernicanesimo di Bruno – che faceva del mondo eliocentrico solo uno degli innumerevoli “sistemi” e “mondi” dispersi nell’infinità di un universo omogeneo di sostanza, e senza alcun vero centro – soffriva, per gli ascoltatori di Oxford, di una doppia aggravante: faceva saltare agli occhi la contraddittorietà dell’infinitismo copernicano di Digges, il quale conservava nel centro del sistema solare un “centro” non più possibile a darsi, ed evidenziava la conseguente impossibilità di un universo che si pretendeva infinito però, al tempo stesso, veniva immaginato come gerarchicamente (quindi teologicamente) determinato.

La maldestra, ed accidentale, accoppiata della ricostruzione bruniana finisce per dimostrare come priva di senso precisamente la versione del copernicanesimo apprezzata ad Oxford. E l’insensatezza di un infinitismo che si sforzava di conciliare la nuova immagine dei cieli con il vecchio firmamento della teologia e della Scrittura.

Anche la cultura protestante, infatti, a cominciare proprio da Lutero, Calvino e Melantone, aveva espresso la sua risoluta avversione per l’innovazione astronomica portata da Copernico – che contraddiceva il racconto scritturale in molti punti – fin dalla prima circolazione della sua ipotesi. Il mondo della Riforma non era sfavorevole o diffidente verso l’eliocentrismo meno di quanto non lo fosse il mondo cattolico. Questo non aveva impedito che la teoria di Copernico, in quanto mera ipotesi matematica, avesse libero (e per la verità ancora assai modesto) corso nella scienza dei paesi protestanti. Peccato però che Bruno non era un matematico, e dall’alto della sua pretesa filosofica, ad Oxford, non si immaginò per certo come il relatore di una mera ipotesi scientifica!

Insomma… com’è, come non è, il risultato fu che un uditore di prestigio, tornando a casa dopo aver ascoltato Bruno, si ricordò che le stesse cose ascoltate durante le sue Lectiones Magistrales erano state scritte cent’anni prima da Marsilio Ficino, nel suo De vita coelitus comparanda. È una grave accusa di plagio, oltreché una figuraccia, che inesorabilmente lo costringe a lasciare Oxford.

Chiuso l’incidente, comunque, si sa per certo che egli continuò ad avere rapporti con Elisabetta, la quale da una parte ne apprezzava le idee, dall’altra ne temeva la troppa modernità.

Del periodo inglese sono i cosiddetti “dialoghi italiani”: La cena de le ceneriDe la causa principio et uno, De l’infinito universo et mondiSpaccio de la bestia trionfante. Nel 1585 scrive e pubblica: Cabala del cavallo pegaseoL’asino cillenico (in un unico volume) e De gli eroici furori (che vede la luce quando Bruno ha già lasciato l’Inghilterra).

Tornato a Londra a fare da segretario all’ambasciatore di Francia, ad ottobre Bruno riparte per Parigi, riaccompagnando in patria l’ambasciatore de Castelnau. Durante il tragitto i due vengono rapinati, cosicché Bruno perde vari manoscritti. Giunge a Parigi nel mezzo di profondi rivolgimenti con assassinii, scomuniche e tentativi di colpi di Stato dietro cui vi è la Chiesa di Sisto V. Enrico III si oppone, infatti, alla politica papale di chiusura completa agli ugonotti, ed il pontefice inizia una serie di ritorsioni che arrivano alla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia, spingendo il Paese alla ottava guerra di religione (1585).

Questi cambiamenti fanno decadere il de Castelnau dal suo incarico, e Bruno si ritrova senza più riferimenti, in una situazione in cui Enrico III è diventato un ostaggio nelle mani dei suoi nemici.

In questo frangente, tramite l’ex ambasciatore spagnolo a Londra don Bernardin Mendoza, conosciuto in quella città, furono presi dei contatti con il nunzio papale in Francia, il vescovo di Bergamo Girolamo Ragazzoni. Bruno avrebbe desiderato che gli fosse tolta la scomunica per apostasia (era una condanna automatica per ragioni disciplinari) ma non voleva tornare ad essere domenicano. Era un’epoca in cui, soprattutto in Francia, venivano concessi dalla Chiesa moltissimi perdoni (vista la situazione caotica) e per casi molto meno gravi di quello del Nolano, ma, proprio per la notorietà ormai internazionale di Bruno, la sua vicenda era precipua e differente da qualsiasi altra. Perciò non vi fu nulla da fare: il suo caso poteva essere discusso solo se egli si fosse piegato a rientrare a pieno titolo nell’Ordine di san Domenico.

Falliscono anche i tentativi che Bruno fa per rientrare a corte. Poi si susseguono gli annunci di opere a noi mai pervenute: l’Arbor philosophorum (menzionata dal monaco Guillaume Cotin, della biblioteca di Saint-Victor, nella collina di Sainte-Geneviève), il sunto dell’opera completa di Aristotele e l’esposizione esaustiva della dottrina di Raimondo Lullo… In questo periodo sostiene anche accese discussioni al Collegio di Cambrai. Nel 1586, ancora a Parigi, pubblica: Figuratio Aristotelici physici auditus Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione ad perfectam cosmimetriae praxim in cui elogia Fabrizio Mordente, matematico di Salerno conosciuto l’anno prima proprio a Parigi grazie a Jacopo Corbinelli, esule fiorentino nelle grazie della Regina Madre, che proteggeva gli italiani a corte. Ma ne segnala anche alcuni errori. E poiché il Mordente si arrabbia scrive allora l’Idiota triumphans ed il De somnii interpretatione mordentius (nei quali prende in giro il connazionale).

Anche questa vicenda dimostra il temperamento di Bruno, impulsivo e poco incline alla condiscendenza. Seppure in questa particolare occasione le “colpe” starebbero soprattutto nel versante del Salernitano, il quale, inventore di un particolare tipo di compasso, da lui chiamato “compasso proporzionale a otto punte”, mal sopporta (o non comprende affatto) il tentativo di Bruno di utilizzare lo stesso “alla maniera dei teologi e dei cabalisti”, cioè ben oltre il suo utilizzo geometrico. Non dimentichiamo, infatti, l’assillo costante della “nolana filosofia” di pervenire alla dimostrazione di un limite fisico e matematico alla divisibilità, condizione necessaria per arrivare al Minimo, ovvero alla “Mente di Dio” (a ciò si riferiranno due Figure del successivo Articuli centum ex sexaginta adversus mathematicos, già riportato come “Opuscolo di Praga”, denominate “Plettro del Mordente” e “Quadrato del Mordente”).

Non basta: a fine di maggio frate Giordano punta deciso Aristotele, attaccandolo duramente nei Centum et viginti articuli de Mundo et Natura adversus Peripateticos. La polemica con i dottori della Sorbona cresce al calor bianco, ed egli deve ancora una volta far le valigie. Stavolta si dirige verso la Germania.

Lo troviamo prima a Magonza (12 giorni), poi a Wiesbaden, successivamente a Marburgo, nella cui università risulta immatricolato il 25 luglio 1586 come “Theologiae doctor romanensis”. Qua però gli negano la possibilità di insegnare filosofia, probabilmente per le sue posizioni antiaristoteliche. Così in agosto si trasferisce a Wittenberg, dove ottiene l’immatricolazione all’università come “Doctor Italicus”.

È tornato finalmente libero, e questo periodo risulta il migliore della sua vita.

Nella città tedesca, tra il 1586 ed il 1588, scrive: De lampade combinatoria lullianaDe progressu et lampada venatoria logicorumLampas triginta statuarumAnimadversiones circa Lampadem lullianam (queste ultime due soltanto manoscritte), Camoracensis AcrotismusLibri Physicorum Aristotelis explanatiArtificium perorandi (pubblicato postumo nel 1612 a nome Alstedt), poi quando il nuovo duca Cristiano (succeduto al padre) decide di rovesciare l’indirizzo degli insegnamenti universitari, che privilegiavano le dottrine del filosofo calvinista Pietro Ramo (antiaristotelico), a vantaggio delle classiche teorie peripatetiche, Bruno decide di tentare la fortuna a Praga. Compone quindi l’Oratio valedictoria, congedo dagli amati colleghi ed alunni di Wittenberg, che è anche un sorprendente elogio di Lutero, più volte disprezzato in altre occasioni.

Quest’ultima circostanza può apparire giustamente incomprensibile, ma è invece il segno veritiero di tutta l’umanità di Bruno, che proprio a Wittenberg si era sentito finalmente a casa, accolto ed apprezzato. Dice, infatti, colmo di riconoscenza e scevro da considerazioni teologiche: «essendo io venuto per vedere i vostri lari, sebbene fossi di nazione forestiero, esule, fuggiasco, zimbello della fortuna, piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall’odio della folla … tuttavia voi, dottissimi, gravissimi e morigeratissimi senatori, non mi disprezzaste», e poi: «non mi vergogno d’aver sopportato la povertà, la malevolenza e l’odio dei miei, le esecrazioni, le ingratitudini di coloro ai quali volli giovare e giovai, gli effetti d’un’estrema barbarie e d’un’avarizia sordidissima; e i rimbrotti, le calunnie, i torti, anche le infamie di quelli che mi dovevano amore, servizio, onore. Né mi vergogno d’avere sperimentato derisioni e dispregi di ignobili e stolti, persone che, mentre son proprio bestie, sotto immagine e similitudine d’uomini, per il modo di vivere e la fortuna, insuperbiscono di temeraria arroganza. Per il che non mi duole d’esser incorso in fatiche, dolori, esilio: ché faticando profittai, soffrendo feci esperienza, vivendo esule imparai: ché trovai in breve fatica lunga quiete, in leggera sofferenza gaudio immenso, in un angusto esilio una patria grandissima».

Giunto a Praga, diventata capitale esoterica d’Europa, nel 1588 pubblica: De specierum scrutinio et lampade combinatoria Raymondi Lulli (con dedica all’ambasciatore di Spagna) e Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos (dedicato all’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, dal quale riceve trecento talleri a mo’ di buonuscita), che non suscita l’interesse sperato.

In questo stesso anno si mostra anche indignato per la prefazione che il teologo Andreas Osiander ha fatto all’opera di Copernico. Poi ad ottobre si reca presso l’Accademia di Helmstädt (Granducato di Brunswick) per declamare un’orazione funebre in onore del Granduca morto e ritenuto eretico: l’Oratio consolatoria (contenente un duro attacco al clero).

Ad Helmstädt resta circa un anno e mezzo (tra il 1588 ed il 1590) e scrive: De magia et theses de MagiaDe magia mathematicaDe principis rerum, elementis et causisMedicina lulliana (alcune di queste opere rimaste manoscritte). Anche qui, però, nascono i soliti problemi religiosi. L’autorità evangelica lo scomunica e Bruno deve andarsene di nuovo (condannato infine da tutte e tre la Chiese cristiane!). Siamo alle ultime mani…

Si reca allora a Francoforte (luglio 1590) per stampare i poemi latini con l’editore Johann Wechel. Nell’inverno passa a Zurigo dove redige, al culmine della sua maturità, la Summa terminorum metaphysicorum (pubblicata da un suo allievo, Raffaele Egli, nel 1595).

Nel 1591, tornato a Francoforte, pubblica: De monade numero et figuraDe triplici minimo et mensuraDe innumerabilibus, immenso et infigurabiliDe imaginum, signorum et idearum compositione e il De vinculis in genere. Opera importante perché, muovendo dal concetto di “vincolo” – e, in modo specifico, dall’analisi del vincolo d’amore – Bruno propone una vera e propria “teoria” scientifica, fondata su principi assai precisi – a cominciare da quello di “anima del mondo” – da cui discende la concezione della universale “simpatia” delle cose che rende possibile le operazioni magiche, compresa l’azione a distanza. È il concetto di “legame profuso nel Tutto”, cuore profondo della sua filosofia.

A Francoforte Bruno si trova bene. Quindi sui motivi che lo convincono a rientrare e restare in Italia possono essere avanzate solo delle congetture: il desiderio di occupare la Cattedra di matematica all’università di Padova (che sarà affidata invece a Galileo Galilei), la fiducia in papa Clemente VIII (che aveva concesso l’insegnamento a La sapienza ad un filosofo della natura, il neoplatonico Francesco Patrizi), la conseguente speranza (poi rivelatasi infondata) di poter incidere, quale riformatore, sulla Chiesa di Roma… Impossibile a tutt’oggi definire con precisione i contorni di tali ipotesi.

Ad agosto lo troviamo a Padova, dove in autunno scrive le opere con cui si conclude la sua vicenda filosofica: Praelectiones geometricaeArs reformationum, dando lezioni a dei tedeschi che in cambio lo aiutano nelle trascrizioni.

Poi a marzo del 1592 accetta l’invito del nobile veneziano Giovanni Francesco Mocenigo a recarsi a Venezia (Repubblica poco condizionata da Roma e molto aperta ad ogni influenza culturale, seppur meno in ambito religioso) per essere suo maestro nell’arte della memoria. Lì sappiamo che, tra molte distrazioni, anche femminili, elabora altri scritti. I quali però non vedranno mai la luce.

 

 

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