(Non) ne siamo usciti migliori, di Pierluigi Serra

Venite, spettatrici e spettatori nel grande teatro della vita, arrivate come invitati nel palcoscenico della pandemia tenuti per mano dal grande dio Pan, il grande capro dalle fattezze semi umane, custode delle leggi e della natura, la divinità che tutto regge e controlla, spettatore eppure artefice delle vicende quotidiane. Lasciatevi condurre in un microcosmo che, nel comprendere la radice greca del nome divino Pan, rappresenta il tutto e la molteplicità. Milano, al tempo del grande contagio, è il teatro nel quale attrici e attori si muovono con i loro pochi pregi e moltissimi difetti nella narrazione di ciò che ha sconvolto le nostre vite, riconducendo ogni cosa al silenzio della prima grande segregazione chiamata, per addolcire il termine, con l’eufemismo britannico, lockdown ovvero confinamento.  Intrappolati per via della pandemia i personaggi del racconto di Federico Audisio di Somma, “Pan”, sono specchio di una società che vive il grande dramma del contagio ed è costretta a mettere a nudo i propri sentimenti. Il viaggio dell’autore torinese, già vincitore della 50° edizione del premio Bancarella con “L’uomo che curava con i fiori”, incarna in pieno i dubbi e le ansie che ci hanno assalito nel corso della prima pandemia, con i silenzi surreali e i timori, tra mascherine e disinfettanti, timorosi e distanziati nel fare acquisti per i beni necessari. Ma il palazzo milanese, di quella via Venti Settembre nella quale si incentra il romanzo di Federico Audisio di Somma, è il palazzo di tutte le nostre città, il nostro mondo, nel quale ogni inquilino mette a nudo il proprio animo e le aberrazioni del vivere. Ombre cinesi L’ambiente liberty del palazzo ben di adatta alla scenografia, dove gli attori sembrano ombre cinesi, grotteschi attori di un vivere convulso che è stato ricondotto, per via del virus, alla normalità e alla semplicità. Medici, vincolati dal giuramento di Ippocrate, sono il Piero Boroni sul quale pesa il fardello di un figlio la cui vocazione artistica, come cantante, deve fare i conti con mediocrità e frustrazioni: dall’altra parte, come un Giano Bifronte, il medico omeopata Ruben Crespi promotore di una medicina non convenzionale e in armonia con la natura. Il grande attico milanese, una sorta di vertice del mondo condominiale, è l’Eden nel quale volteggiano figure emblematiche. Così le due sorelle Costa, con una Emma ex professoressa di lettere e l’arteriosclerotica Gianna capace di sovvertire ogni schema definito. Nell’affascinante narrazione di “Pan”, con un lessico curato e godibilissimo, si sorride delle nascoste vergogne messe a nudo dalla pandemia, si penetra nell’animo di chi è costretto a fare i conti con il proprio passato e le vicende del presente. Confine della selva Pan, il dio, racconta dal confine della selva, lui il guardiano tenebroso, narra di una scienza che non è stata in grado di fare i conti con l’imboscata, con la magra consapevolezza di essere immuni dai morbi collettivi. L’invisibile Pan, incarnato nel virus offre un monologo emblematico: sceso dai boschi scompiglia i giochi frenetici dei frequentatori compulsivi dei centri commerciali, riconduce ogni cosa alla semplicità, riportando la visione dell’uomo verso l’essenzialità delle cose. Sembra di risentire il silenzio delle nostre città nei primi giorni del confinamento come pare avvertire il rumore roboante e assordante del silenzio nel quale si era piombati inaspettatamente. Tutti i personaggi del racconto, di questo viaggio nella pandemia, possono essere riadattati nel nostro vivere quotidiano: tra bellezza e miseria, sensibilità e malefatte di ogni essere umano. Il narrare dell’autore ha un ritmo avvincente che, con regia, porta il lettore tra le mura domestiche di una nuda società, ormai priva – grazie al divino intervento del dio Pan- degli abiti artefatti della mediocrità. Pierluigi Serra

 

L’UNIONE SARDA, 12 FEBBRAIO 2022

 

Condividi su:

    Comments are closed.