L’enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” tradotta in sardo da Mario Puddu, di Mauro Maxia

Custas dies mi at mandhadu un’anàlisi de sa tradutzione de s’encíclica Fratelli tutti / Totu frade su Prof. Mauro Maxia, docente in s’Universidade de Tàtari.  Il libretto – Fratelli tutti / Totu frades, ed. Condaghes – è disponibile nelle librerie.

L’enciclica “Fratelli tutti” che papa Francesco ha pubblicato ad Assisi il 3 ottobre 2020 contiene numerosi spunti di riflessione che, su diversi piani, toccano non solo i Cristiani ma i credenti di tutte le religioni. Perfino gli atei, più volte citati dal pontefice, vi possono trovare concetti condivisibili. L’enciclica, infatti, sviluppa un argomento di interesse generale dedicato alla fraternità e all’amicizia sociale sia tra individui sia nella società sia tra i popoli.

In questa sede, non meno dei contenuti, interessano gli aspetti formali di un testo che, da qualunque visuale lo si voglia osservare, costituisce pur sempre un testo letterario.

Ebbene, tra innumerevoli testi scritti in altre lingue che potrebbero essere tradotti in sardo, Mario Puddu – scrittore e lessicografo – ha scelto proprio questa enciclica per proporla ai corregionali nel sardo della Mesania, varietà di cui egli ha predisposto una grammatica oltre a un decalogo di norme ortografiche.

Puddu è uno dei più profondi conoscitori del lessico sardo declinato nelle sue diverse varietà. Anche se il tradurre implica sempre uno sforzo non da poco e non alla portata di tutti, Puddu va certamente incluso tra i non molti capaci di voltare egregiamente in sardo testi da altre lingue e non soltanto letterari ma anche tecnici e settoriali.

Mi ero già soffermato sui contributi di Puddu alla valorizzazione del sardo, in particolare sul Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda, definito “opera corposa che si distingue nettamente dalle altre non solo per l’impiego esclusivo del sardo ma per l’alternanza di campidanese e logudorese nelle definizioni…Questo lessico si segnala per la ricchezza delle entrate e varianti reperite, oltre che nello spoglio di precedenti lessici, grazie alla conoscenza della lingua che Puddu può sfoggiare essendo nativo del Logudoro (Illorai) ma residente da decenni nel Sulcis…”. (M. Maxia, “Lessicografia sarda” in Manuale di Linguistica Sarda, a cura di E. Blasco Ferrer, P. Koch, D. Maggio, “Manuals of Romance Linguistics” 15, De Gruyter Mouton, Berlino/Boston 2017).

Come anticipa lo stesso Puddu, la traduzione di Fratelli tutti è stata affrontata come una prova sia per l’arricchimento del suo dizionario sia come crescita e miglioramento personale, dunque con spirito di servizio e disponibilità interiore.

Fin dalla nota introduttiva egli chiarisce che per questa operazione si è voluto servire del sardo intermedio ossia della parlata più comune o, meglio, quella che tra tutte racchiude più punti in comune riguardo alla lingua sarda nella sua interezza con le due grandi varietà logudorese e campidanese con le rispettive parlate locali. In altri termini, con la sua traduzione in sardu de mesu Puddu ha anche voluto tradurre il sentimento di fraternità e amicizia dell’enciclica non soltanto sul piano universale ma soprattutto su un piano, anche linguistico, che accomuni i Sardi e la Sardegna. Nello svolgere questo compito Puddu intende offrire ai corregionali un testo di respiro elevato ed ecumenico. “Ispero de èssere resessidu” ‘spero di esserci riuscito’ dice Puddu, conscio delle difficoltà richieste dalla traduzione di un testo in prosa lungo e ricco di parole che talvolta non trovano un preciso corrispondente in sardo.

Sul superamento della prova da parte di Puddu nessuno poteva nutrire dubbi. Questo anche perché nessuno impedisce di tradurre determinate parole o anche metafore attraverso l’impiego di perifrasi o adattando termini specifici che l’italiano condivide col sardo attraverso la comune base latina come pure quella greca.

D’altra parte, il sardo, tutto il sardo, offre una larga possibilità, con appropriati suffissi, di coniare neologismi di immediata comprensione anche a chi non li avesse mai sentiti. Per esempio, una parola come “semplicità” usata da papa Francesco è tradotta da Puddu con “simplesa” unendo alla comune base latina simpl- il suffisso -èsa che, essendo in sardo molto produttivo, consente di formare varie parole senza dover ricorrere a suffissi più ricercati che a qualcuno magari potrebbe far apparire la parola coniata troppo vicina a quella della lingua tradotta, per esempio con la forma simplicidade oppure tramite l’impiego dell’avverbio simplicemente tratto dalla medesima base, che sono ugualmente sardi a tutti gli effetti.

Questo discorso vale anche per il termine umilesa che Puddu impiega seguendo Pietro Casu in luogo del più frequente umiltade che è un adattamento dell’italiano “umiltà” mentre il sardo esige umilidade, registrato ugualmente dal Casu che lo lemmatizza come forma più genuina.

In alcuni casi la parola da tradurre si presenta identica a quella tradotta, per esempio il verbo dedicare. Malgrado l’apparenza, nessuno potrebbe affermare che ci troviamo di fronte a un crudo italianismo ovvero a un prestito non adattato dal traduttore. Fin dalle origini il sardo mostra una intrinseca capacità di formare parole, anche di registro colto, che a prima vista potrebbero sembrare prese di peso dall’italiano. Prendiamo per esempio il verbo “delegare”, che continua il latino delegare, composto di dē- e legāre ‘dare un incarico per mezzo d’un patto o contratto’. Verbo dal cui participio passato delegātu(m) deriva delegatiōne(m) che in italiano continua con “delegazione” da cui soltanto nel 1800 insorse il sostantivo “delega” (DELI, 2, 320). Ebbene, tutte queste forme esistono anche in sardo senza che per questo si possa parlare di prestiti dall’italiano. Anzi, in sardo delegare è documentato già nella Carta cagliaritana in caratteri greci che risale al 1089, cioè a un periodo che non solo precede di secoli l’uso scritto dell’italiano ma precede anche l’influsso toscano introdotto da Pisa durante il 1200. Addirittura, l’antico documento sardo contiene il derivato deleganzia ‘decreto, delega’ (CCG, 93; DES I, 460) che invece non si è formato in toscano e in italiano, lingua nella quale si sarebbe avuta una forma come *deleganza e nella quale soltanto nel XVI secolo appare il cultismo delegantia (Manuale de’ Confessori, Tip. Manuel Giolito de’ Ferrari, Venezia 1569, p. 884).

Certo, i cultismi e i tecnicismi non possono mancare nella traduzione di un testo che, pur scritto in modo volutamente semplice per essere alla portata di tutti, abbonda di termini non propriamente popolari. È questo il caso di un aggettivo come “straordinario” che Puddu traduce col corrispondente sardo istraordináriu.

In certi casi egli evita di tradurre certi termini che potrebbero far apparire la versione in sardo nient’altro che un pedissequo adattamento del testo italiano. Questa scelta appare chiara nel periodo “Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine” che Puddu traduce ‘Issu no cuntierràt imponendho dotrinas…’ senza pregiudicare minimamente il senso del testo tradotto.

Nel passo “…eliminare o ignorare gli altri…” egli opta per la perifrasi ‘…pònnere abbandha e no bòllere bìere e carculare is àteros…’ nella quale impiega l’italianismo carculare ‘considerare’ che ormai si è radicato saldamente nell’uso tanto da essere percepito come una forma propriamente sarda.

Vi sono delle scelte nella resa di certe forme sulle quali si potrebbe aprire una discussione per valutare se sia preferibile scriverle in forma univerbata oppure scindendo la preposizione dall’elemento lessicale vero e proprio. Restando nell’esempio appena proposto, Puddu opta per la forma abbandha ‘da parte’, locuzione avverbiale composta da a e bandha ‘parte’. Altrove si trova la forma univerbata apare ‘a vicenda’ composta da a e pare così come impare ‘insieme’ che altri scrivono umpare e in pare. Anche l’italiano, del resto, presenta forme analoghe per le quali sono possibili entrambe le opzioni; per es. da presso vs dappresso; da per tutto vs dappertutto ecc. In casi come questi di solito è l’uso a decretare l’affermazione o il disuso di una o dell’altra forma oppure il mantenimento di entrambe.

Riguardo alla negazione “non” Puddu la traduce sempre con no senza tener conto se la lettera successiva sia costituita da una vocale o da una consonante. In questo caso, anche se nel parlato la negazione è sempre percepita come no, la consonante iniziale della parola successiva si allunga per effetto dell’assimilazione della seconda nasale di non; per es. non bòllere è pronunciato no bbollère con l’allungamento della successiva consonante iniziale anche se il raddoppiamento non appare per effetto di una consolidata convenzione ortografica. Ma la funzione della seconda nasale emerge chiaramente nel nuorese in cui è scandita nettamente in frasi come non cherjo, non benis e simili.

Si tratta, comunque, di opzioni e scelte che una lingua democratica, non irrigidita da norme che possono solo impoverirla, ciascuno deve sentirsi libero di usare secondo il livello più o meno avanzato di competenza. E su questo aspetto Mario Puddu non ha alcuna difficoltà nell’esibire la propria padronanza del sardo in qualunque varietà venga declinato.

Vi sono pretesi esperti di lingua sarda che in realtà hanno introiettato il pacchetto di norme che sono alla base della cosiddetta “limba sarda comuna” e che tengono perfino lezioni in questa che altro non è che una nuova varietà addirittura più povera di quelle esistenti in natura. Chi l’ha concepita, infatti, l’ha ingessata in un complesso di regole che talvolta fanno a pugni con la lingua realmente parlata, ignorando perfino l’esistenza di certi tempi verbali oppure impiegando forme lessicali o avverbiali che la gran parte dei sardi non usa.

La lingua usata da Puddu rappresenta una varietà democratica per il semplice fatto che attinge equamente e in modo naturale sia dal campidanese che dal logudorese. Il suo uso non dovrebbe scontentare nessuno e questo fatto in Sardegna assume un grande rilievo considerando che il nostro storico particolarismo più che ad avere ragione ci porta a desiderare che non abbiano ragione quelli che, spesso sbagliando, riteniamo dei competitori. Le due grandi varietà storiche restano libere di produrre fronde e polloni specialmente sul piano letterario che, come è noto, ha espresso delle opere di livello non regionale ma assoluto.

Quanto all’ortografia impiegata da Puddu, le regole che propone si avvicinano sia a quelle della “lingua sarda comune” sia a quelle delle “arrégulas” proposte per il campidanese. Le norme ortografiche sono o dovrebbero essere il risultato di una lunga storia che porta alla stabilizzazione di determinate regole sulla base di usi convenzionali accolti dalla maggior parte degli scrittori. Regole che non sono statiche ma che presentano un certo numero di eccezioni spesso frutto di relazioni sociali e di confronti tra lingue regionali, terminologie settoriali e soprattutto l’uso nei mezzi di comunicazione di massa. L’italiano, che pure viene considerato una delle lingue scritte più vicine alla lingua parlata, abbonda di eccezioni che la gran parte degli utenti, anche acculturati, spesso non percepiscono per via dell’abitudine. Scrivere olivo o ulivo è corretto in entrambi i casi. Lo stesso vale per obiettivo e obbiettivo. Ma scrivere che, chi in modo diverso da ca, co, cu per pronunciare lo stesso fonema [k] rappresenta un’eccezione non da poco che disorienta chi non è pratico dell’italiano inducendo pronunce aberranti. Anche l’uso del digramma gl per scrivere sia biglia sia glicine appare quasi paradossale ed è fonte anch’esso di pronunce grottesche. E che dire della parola sabato che si scrive con una b mentre la sua pronuncia corrisponde a sàbbato. Regole ondivaghe, dunque, o quantomeno discutibili. Ma tutto questo rientra nella normale dialettica di chi si interessa di norme ortografiche che per loro natura sono arbitrarie.

In Sardegna da alcuni decenni ci si accapiglia su questioni di “lana sarda de babbu e mama” che, se si guardassero con maggior distacco, apparirebbero più chiaramente come questioni di “lana caprina”. Non che le norme ortografiche non siano importanti per la scrittura di qualunque lingua. Ma nel caso rappresentato dal sardo, e anche da altre lingue parlate nell’Isola, ciò che più conta in questo momento cruciale è come e quanto viene parlato dai suoi utenti naturali. Il tempo che si perde cercando di imporre regole – che spettano agli specialisti e non agli appassionati – è tutto tempo che si va perdendo rispetto all’urgenza di potenziare la trasmissione della lingua alle nuove generazioni.

E qui ritorna a proposito l’enciclica sull’amicizia sociale di papa Francesco. Egli, a proposito del grande impatto che ha la rete Internet nel campo delle relazioni interpersonali, osserva che “Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze”. Una situazione frequente anche in Sardegna che innesca un dialogo non tra sardi ma tra sordi che tendono a imporre le proprie convinzioni anziché aprirsi al dialogo, cioè all’unica via che consente di incontrarsi e trovare soluzioni senza le quali sarà sempre la logica dello scontro a prevalere.

Mario Puddu nella sua traduzione riesce a conservare intatto il messaggio di papa Francesco, dimostrando che qualunque lingua, anche quelle regionali e perfino le loro varietà, consentono di dire ed esprimere qualunque concetto anche nelle sfumature che taluni ritengono una prerogativa delle grandi lingue di cultura. Certo, piegare una lingua impoverita da una prolungata ghettizzazione e relegata ad ambiti sempre più ristretti non è un compito agevole né privo di fatica. Ma Mario Puddu è abituato da decenni di continuativo impegno ad affrontare fatiche perfino maggiori. E in questo suo impegno l’amore per la propria lingua rappresenta un costante incentivo a fare dono di sé stesso per favorire il progresso non solo culturale della nostra comunità.

Prof. Mauro Maxia

 

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