Si è spento a 88 anni lo scrittore di “Zio Mundeddu” e “La colpa di vivere”, tra i narratori più popolari del Novecento sardo: Antonio Puddu, di Giacomo Mameli

Addio a Puddu, cantore dell’isola contadina.


Antonio Puddu, tra i narratori più popolari del Novecento sardo, vincitore del premio Deledda 1968 con “Ziu Mundeddu”, è morto all’alba di mercoledì 27 gennaio  nella sua casa tra i colli di Cagliari e Selargius. Aveva compiuto 88 anni lo scorso 2 novembre.

Scherzava spesso sul «2 novembre, giorno della mia vita diventato per gli altri giorno di lutti». In uno degli ultimi momenti di lucidità ha chiesto alla moglie Maria Congiu di leggergli i primi versi da “Poesie scelte” di Gabriele D’Annunzio. “Rimani! Riposati accanto a me./ Non te ne andare./ Io ti veglierò. Io ti proteggerò». Nessuno in casa (c’era anche il figlio Giovanni) sapeva che un’ora prima di Antonio, era morto il fratello maggiore, Pietro, 95 anni, primo di dodici fratelli, sposato con Maria Crespellani, figlia di Luigi, primo presidente della giunta dell’Autonomia.

Domenica aveva chiesto al figlio: «Dov’è il mio cavallo Ducino, bianco e fortissimo?». È uno dei nomi che compaiono in libri che, dal microcosmo di Siddi raccontano il mondo, la Sardegna primitiva e moderna del Campidano, pathos e piacere con le Bucoliche della Marmilla, villaggi, pianure e colline protagoniste sacrali di romanzi da leggere conoscendo «zappa e rastrello», ma anche «callaia e cavicchio, fastelli di stipa e staggi, onagri e trecconi».

Sì, a portata di mano bisognava avere un buon vocabolario della lingua italiana. Tematiche diventate capolavori in “Fontamara” (1933) di Ignazio Silone, ne “Il Mulino del Po” (1938-1940) di Riccardo Bacchelli. ««Amava Giuseppe Dessì («il migliore scrittore sardo»). Suo faro era il siciliano Fortunato Pasqualino, autore di “Mio padre Adamo”.

Sul solco di questi scrittori, Puddu ha innovato, dando alla letteratura estasi e strazi della vita campestre. Dialogava con Michele Prisco, Carlo Bo (presidente della giuria del Deledda), Arnaldo Bocelli, Vasco Pratolini, Geno Pampaloni, scriveva su giornali e riviste nazionali, in Sardegna su “La grotta della vipera” di Antonio Cossu e su “Ichnusa” di Antonio Pigliaru.

La figura di “zio Mundeddu” si staglia tra quelle più riuscite nel descrivere i travagli tra le guerre. Pubblicato nel 1968 da Cappelli, ristampato da Bastogi con una nota critica di Nicola Tanda, analizzava miti e realtà, sottomessi e ribelli.

Negli altri libri, fra tutti “La colpa di vivere”, svettano Ettore e Bonaventura errabondi nella Cagliari devastata dalle bombe, la ricostruzione, «gli echi del boom economico, anni duri di lotta per il governo, con gli scontri a tratti violenti, giocati in punta di retorica nei comizi-battibecco Dc-Pci». È «un Novecento segnato dalla colpa di vivere, sigillo che marchia la condizione umana».

Figlio di una coesa famiglia di proprietari terrieri diventati imprenditori agricoli innovativi, il padre – zio Ciccitu – ha creato l’agroalimentare creando la Pasta Puddu fatta di grano sardo senza chicchi canadesi o russi.

Nel 2012 – con più collaudata opera di lima – Puddu proponeva 130 pagine di psicologia contadina con la copertina delle «Spigolatrici» di Jean Francis Millet che dal Musée d’Orsay approdava ai piedi della reggia di Barumini dove è ambientato «L’orto degli alveari» . Qui si legge un’isola da terzo millennio.

L’altopiano di Siddi è sacro a Puddu come il monte Tabor. Giovani che sognano di varcare il Tirreno, tatuaggi, radioline auricolari, macchine con i fari accesi anche sotto il sole che acceca. Si torna alle parole soppesate – dicevano i latini – «col bilancino dell’orafo» in compagnia di Salvatore Satta, Peppino Fiori, Salvatore Mannuzzu. Tra indignados e occupanti di Wall Street, tra gli alveari ci si ritrova nell’umiltà, nei personaggi di Pearl S. Buck, la grande scrittrice americana, Pulitzer con «La buona terra» e poi premio Nobel per la letteratura 1938, che descriveva la miseria estrema della società agricola di Ching Kiang sul fiume Yangtze. A Siddi, come in Cina, Marcello si rende conto che «lo studio cambia la gente». Pagine di fluidità narrativa oggi rara. «C’erano una mulacchia e un astore, in alto, presi da un volo febbrile di sbalzi, discese salite e svoltate con stridi acuti».

La Nuova Sardegna, 28 gennaio 2022

 

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