Il movimento comunitario di Amitai Etzioni, di Remo Sitza

Le comunità nascono e muiono, ma si possono anche ‘curare’.  In Sardegna abbiamo decine di comunità in sofferenza, che non possono venire curate con il solo intervento pubblico, che si tratti di pubblici servizi o di walfare. Si tratta di fa riemergere dall’interno nuova vitalità e operosità. Il movimento comunitario nasce in società ricche dove lo Stato e il mercato hanno costruito personalità individualiste e solitudini disperate. Ma la Sardegna ha tanto da imparare da quelle esperienze. Per costruire una propria via.

 

 

 

 

 

Amitai Etzioni (nella foto) è conosciuto tra i sociologi per i suoi studi di sociologia comparata, sulla produttività della teoria funzionalistica nell’analisi del mutamento sociale, sulle organizzazioni complesse, per la teoria della conformità e il mixed scanning come via intermedia tra modelli decisionali a razionalità assoluta e l’incrementalismo, per il concetto di semiprofessioni che per anni ha offuscato il percorso professionale dei sociologi.

Per molti di noi è difficile pensarlo come il più importante teorico del movimento comunitario, animato da un forte impegno civile a favore della comunità, del suo rinnovamento, volto a promuovere il senso di responsabilità sociale, il valore del rispetto reciproco, la necessità di bilanciare le esigenze individuali con le responsabilità sociali.

Un movimento che nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee, sulla crisi delle principali istituzioni, sull’individualismo che sembra delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili e trova – non sempre con la dovuta chiarezza e non senza semplificazioni – una via d’uscita nella rivitalizzazione delle comunità, nella costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale. Possiamo non condividere l’appello alla moral voice della comunità, per certi versi averne timore nei suoi effetti di controllo, ma i problemi che il movimento evidenzia sono ineludibili: l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa, che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali; che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone, sia responsive, capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità, con un appropriato equilibrio tra ordine e autonomia.

La nostra associazione impegnata a promuovere un utilizzo delle applicazioni sociali della sociologia e un’identità sociale del sociologo maggiormente rispondente alle esigenze della popolazione, non può che guardare con particolare attenzione ad un movimento i cui ispiratori sono in buona parte sociologi e che si fonda sulla capacità della disciplina, dei suoi strumenti e delle sue analisi, a contribuire al rinnovamento sociale.

The responsive communitarian plaiform: rights and responsibilities è il documento che sintetizza i principi fondamentali del movimento: un nuovo equilibrio tra diritti e doveri, una democrazia fondata sulla costruzione di valori e regole condivise, che promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività, una famiglia maggiormente impegnata a dare un’educazione morale ai propri figli, fondata sui rapporti leali e di parità fra i coniugi, una scuola che insegni la dignità della persona, la tolleranza, la pace, il rispetto delle regole democratiche; i cittadini che si impegnino in rapporti comunitari, cerchino di lavorare insieme, promuovano uno spirito di riconciliazione e, quando i conflitti emergono, cercano i modi meno distruttivi per risolverli.

Nel pensiero comunitario nessuna comunità può sopravvivere a lungo se i suoi membri non dedicano parte della loro attenzione, del loro tempo, delle loro risorse a progetti comuni. L’esclusivo perseguimento dell’interesse privato erode le basi stesse sulle quali ogni società si fonda. Per queste ragioni i diritti individuali non possono essere preservati a lungo senza una prospettiva comunitaria: la tutela della libertà individuale dipende da una consapevolezza dei propri diritti e dei diritti degli altri, dal rispetto degli altri come di se stessi.

Il silenzio della famiglia e della scuola su questi valori lascia che i giovani siano esposti ad altri valori ed ad altre voci. .

In tutte le comunità coesistono forze centrifughe che spingono gli individui a ricercare la loro autonomia, che li conducono al di fuori delle prescrizioni di ruolo; e forze centripete che indirizzano la maggioranza delle risorse psichiche e di tempo verso scopi collettivi. Comunità ed individui raggiungono una condizione più soddisfacente quando queste due forze sono in equilibrio.

Quando questo equilibrio si è perso è necessario che ci siano cittadini, leaders, policy makers che s’impegnano per ristabilirlo. Il movimento comunitario si assume il compito di sollecitare, mobilitare tale scelta di impegno civile.

Il pensiero comunitario intende rappresentare una terza via rispetto al mercato e allo stato assistenziale: il mercato sta invadendo la vita privata; e lo stato assistenziale non è certo rimedio a tali effetti negativi. Il movimento intende confrontarsi con i più importanti problemi che affliggono le società contemporanee: non può essere inteso, semplicisticamente come un correttivo agli eccessi del liberismo o un ritorno a vecchi collettivismi.

I liberals sono spesso preoccupati di proteggere le libertà individuali da uno Stato pervasivo. In realtà essi spesso ignorano che quando le comunità si indeboliscono si genera un vuoto sociale che invita lo Stato ad espandere il suo ruolo ed il suo potere.

Al di là della sinistra e della destra il pensiero comunitario intende promuovere una maggiore attenzione alla natura dei legami sociali, sulla loro fragilità, nella consapevolezza che se si lasciano i cittadini senza regole sarà difficile garantire loro un’accettabile vivere sociale.

È necessario spingere i cittadini a risolvere un numero sempre maggiore di problemi attraverso la collaborazione, far si che la vita privata prepari le persone a prendere parte al mondo pubblico piuttosto che incoraggiarle a ricercare il senso della loro vita esclusivamente nella sfera privata.

Nessun compito sociale può essere assegnato ad un’istituzione più ampia del necessario: ciò che deve fare la famiglia non può essere attribuiro alla scuola o al gruppo dei pari; i compiti delle istituzioni locali non possono essere assunti dallo Stato centrale.

Come gli ecologisti, con i quali i comunitari riscontrano ampie coincidenze di vedute, essi intendono proteggere un sistema sociale percepito come fragile e sono convinti che le persone necessitino di essere messe in guardia sulle tragiche conseguenze che possono determinare azioni inconsapevoli sul piano civico.

Ciò che ci lega l’un l’altro, che sostiene la nostra ricerca di relazioni, non può essere ridotto alla logica dei rapporti economici, alle spinte acquisitive o alla forza della legge. Le società non possono essere basate semplicemente su dei contratti che massimizzano le opportunità dell’individuo.

Abbiamo bisogno di bilanciare le nostre preoccupazioni sulle opportunità con l’esigenza di valorizzare quanto ci unisce, di creare comunità vitali, che temperino le tendenze del potere e della ricchezza a consumare tutte le nostre energie. Non soltanto perché la comunità è un bene in sé che ci rende pienamente umani: i termini comunità e opportunità devono essere declinati insieme per evitare un ritorno a comunità chiuse e, allo stesso tempo, che la ricerca esclusiva delle opportunità diventi come un lupo che alla fine mangia se stesso.

La regola d’oro di una buona società, come sottolinea Etzioni nel suo ultimo libro, consiste nell’individuazione di un equilibrio soddisfacente tra esigenze di ordine sociale e autonomia degli individui: alcune società risultano pesantemente segnate dagli eccessi di libertà individuale; altre, invece, come alcune società dell’Asia e del Medio Oriente, mostrano i pericoli che comporta un ordine sociale troppo pervasivo, hanno perso l’equilibrio in una direzione opposta.

Le società del mondo occidentale soffrono per un ordine sociale troppo debole, per un’eccessiva frammentazione e cercano i mezzi regolativi per ricostruire un adeguato vivere sociale; in altre, come la Cina, il problema diventa come espandere e accrescere l’autonomia degli individui e di alcuni gruppi sociali, come le donne, i gruppi etnici.

Pertanto, mentre negli Stati Uniti il movimento comunitario combatte gli eccessi dell’individualismo, nel Giappone un movimento simile dovrebbe invece premiare e promuovere l’individualismo.

L’ordine di una società organizzata secondo principi comunitari si poggia fortemente su valori comuni, sull’educazione, sul consenso, sulla leadership e, sopra di tutto, sul senso morale della società e sulla capacità di determinarsi autonomamente: un alto numero di polizia, di ispettori, di controlli fiscali indicano che quella società ha un carente ordine morale, anche se le condotte antisociali sono poche. Affinché ciò sia possibile è però necessario che la maggioranza dei membri della comunità condivida un insieme di valori centrali.

L’infrastrutrura morale della società è costituita dalle famiglie, dalla scuola, dalla comunità e dalla “comunità delle comunità” (la società più in generale). Questi quattro elementi della infrastruttura morale sono disposti come scatole cinesi: nella famiglia inizia il processo di interiorizzazione dei valori e di formazione del senso morale e a tale processo, appena il bambino diventa più grande, si unisce la scuola. Queste due istituzioni non sono sufficienti a promuovere un senso morale, le buone virtù acquisite si perdono nella routine della vita: è necessario che intervengano le comunità – i vicini, i gruppi dei pari, le associazioni di volontariato, le reti di relazione che si sviluppano nelle piazze – a rinforzare tali valori e che intervenga la “comunità delle comunità” affinché fra le varie entità sociali, tra le varie comunità, si stabiliscano relazioni sinergiche, di collaborazione, di rispetto e non vengano esasperate le appartenenze e le reciproche chiusure, si producano valori a carattere generale.

Il movimento comunitario raccoglie forti consensi negli Stati Uniti a tutti i livelli – Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti aderisce al movimento e Bill Clinton ha più volte espresso piena condivisione dei suoi principi; in Inghilterra Tony Blair ha inserito molte indicazioni del movimento nel suo programma, e molte idee del pensiero comunitario sono riprese dal partito conservatore e liberale – si diffonde in Germania, fra i socialdemocratici e verdi in Francia.

Il comunitarismo offre al partito di Tony Blair un’alternativa al neoliberalismo conservatore e consente, allo stesso tempo, una presa di distanza dal passato democratico; comporta una critica all’ egoismo del mercato ma non al capitalismo in sé; sostiene un’azione collettiva ma rifuggendo da termini quali classe e Stato.

Non mancano profonde critiche. L’enfasi sul controllo comunitarlo, sul deficit di autorità genitoriale, rischia di produrre una regimentazione della pubblica opinione, la repressione del dissenso e l’istituzionalizzazione dell’intolleranza, tutto in nome della moralità; di risolvere la complessità e la differenziazione sociale attraverso una regressione a società del passato, che escludono i diversi, le famiglie monoparentali, i poveri dell’underclass. Trascurando ogni riferimento all’iniqua distribuzione del potere e della ricchezza, alla discriminazione di genere, di classe e di razza.

Il termine comunità è uno dei termini più vaghi delle scienze sociali, utilizzato per descrivere unità molto differenti, dal villaggio ad una organizzazione internazionale.

La critica allo stato assistenziale e l’esigenza di costruire comunità autosufficienti sono ben accolti dai critici conservatori del welfare che nel movimento comunitario trovano ulteriori sostegni per il loro progetto di ridurre le prestazioni ed eliminare le interferenze sulla vita privata, gli effetti perversi dei sussidi e degli interventi di sostegno. ·

Etzioni ci ricorda, invece, che su tanti aspetti morali c’è più consenso di quanto non sembri; si tratta di impegnarsi collettivamente affinché questi valori assumano maggiore capacità di orientare le persone.

Affermare attraverso l’azione educativa e i comportamenti quotidiani valori come l’onestà, la lealtà, la pace, il rispetto reciproco non significa irregimentare le comunità. La moral voice è la motivazione che incoraggia le· persone a rispettare i valori che approvano e si fonda su quanto essi hanno interiorizzato attraverso l’educazione; è costituita dall’incoraggiamento degli altri, della comunità, a comportarci coerentemente.

Etzioni in diverse circostanze ha chiarito cosa intenda per comunità – una rete di relazioni che si rinforzano reciprocamente, un insieme di valori condivisi, una comune identità e storia, una relativamente alta capacita di dare risposta alle esigenze reali di tutti i componenti.

Per i comunitari, alla base del malessere – come ci ricorda Mauro Calamandrei in una intervista ad Etzioni pubblicata dal quotidiano Il sole 24 ore – non ci sono tanto l’ingiustizia sociale o l’ineguaglianza economica, la mancanza di iniziative governative o lo sfruttamento, ma,c’è una crisi di valori. Nessuno dei problemi sociali contemporanei potra essere risolto senza rivalutare istituzioni sociali corne la famiglia, la scuola e il vicinato, senza un nuovo senso di solidarietà e di spirito comunitario.

Il movimento comunitario richiama l’esigenza che l’insieme dei servizi sociali garantiti al cittadino non determini effetti negativi sul senso di responsabilità sociale, non indeboliscano le reali relazioni da cui tutti dipendiamo. La terza via che propone, in realtà, si configura più come una critica al mercato che al welfare state: come afferma Wolfe, lo stato rncialdemocratico, pur con i suoi limiti, è comunque preferibile al mercqato e più di esso è in grado di rispondere alle esigenze delle generazioni future!”.

Al di là di queste critiche, in parte giustificate, il movimento comunitario risponde a un’esigenza reale, quella di costruire un senso comune civile, relazioni sociali soddisfacenti, luoghi e momenti collaborativi tra le famiglie e le persone, superando una frammentazione sociale non più compatibile con un adeguato vivere sociale.

Robert Bellah coglie bene quel senso di incertezza che si diffonde, non un desiderio di tornare al passato ma un’ansia a proposito della direzione verso cui sembra che ci siamo incamminati. Ci rendiamo conto che, sebbene i processi di separazione e di individuazione sono stati necessari per liberarci delle strutture tiranniche del passato, essi ora devono essere equilibrati da una ripresa dell’impegno nella vita sodale e nella vita comunitaria.

In Italia, la comunità sembra non esistere, tra la famiglia e lo Stato sembra stentare ad emergere uno spazio sodale adeguato a consentire un reale sviluppo di autonomie sociali.

Banfield, in una ricerca conclusasi nel 1995, sosteneva che l’arretratezza, l’assenza di senso civico e di vita associativa, di azioni finalizzate al senso comune, erano addebitabili ad una diffusa chiusura familistica, al familismo amorale che conduce a massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare e a supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo, a non perseguire l’interesse della comunità. L’assenza di società civile moltiplica l’esigenza che lo stato svolga la sua funzione regolativa: in una società di familisti amorali solo i fimzionari pubblici si occupano della cosa collettiva.

A parte le semplificazioni del sociologo americano, le necessarie contestualizzazioni (siamo negli anni cinquanta, a Chiaramonte, un piccolo centro della Basilicata) rimane l’evidenza di una società italiana segnata da un forte deficit di società civile e la persistenza di alcuni fenomeni allora rilevati insieme a nuovi fenomeni che concorrono a produrre una frammentazione sociale troppo elevata.

Ancora oggi, ciò che non appartiene al mondo del mercato è acquisibile in una relazione di forte dipendenza dall’apparato pubblico o attraverso la famiglia che talora trova sostegno in un debole associazionismo, in un vicinato che, insieme alle sue temute funzioni di controllo, ha perduto ogni capacità di sostegno, di reciprocità e di aiuto.

La vita sociale appare quasi soffocata da un’eccessiva presenza della famiglia in molti ambiti di vita e da una tendenza a regolare attraverso norme azioni sociali che dovrebbero essere lasciate all’autonoma deterrninazione degli individui e dei gruppi, e da una specializzazione della vita sociale – per reddito, per collocazione sociale, per interessi – che in questo modo contribuisce alla crescita della frammentazione della società, alla scomparsa delle piazze, delle strade, dei negozi di quartiere come luoghi di incontro.

INFORMAZIONI.  Questo articolo, con le note, è tratto dal volume  L’ORA DEI SARDI, a cura di S. Cubeddu, Edizioni della Fondazione Sardinia, presente e consultabile in questo sito alla voce PUBBLICAZIONI.

 

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