Il giardino dei ciliegi, di Tonino Bussu

Anche quell’anno il babbo aveva rinnovato l’affitto per un pascolo, il più popolato di ciliegi del paese, e ci portava le pecore d’estate, per tutto l’autunno e qualche volta anche agli inizi dell’inverno.

Ero sceso con lui in un pomeriggio di gennaio, c’era un sole tiepido, un cielo limpidissimo che rendeva la giornata molto chiara e dolce; gli agnellini saltellavano a gruppi di quattro o cinque incrociandosi e giocando tra loro o con le loro ombre, segno di buona salute e abbondanza.

Il servo pastore, un giovane dal cuore d’oro, in un momento di pausa, recise con la roncola un ramo di sambuco, lo studiò ben bene, scelse la parte più dritta tra i due nodi, la ripulì con grande abilità della corteccia rendendola liscia e lucente, eliminò il midollo molliccio e ne ricavò un piccolo tubo che chiuse  con un tappo di sughero per parte.

“Che fai?”, gli chiesi. “Aspetta e vedrai”, mi rispose, “questa è un’arma giocattolo inoffensiva; se fosse stata di canna ne avremmo fatto un flauto, unu sonete“.

Tagliò poi una fronda di perastro, la intagliò creando un manico da una parte e assottigliandola dall’altra in modo che potesse entrare nel tubo del sambuco: era sa crai.

Il giocattolo era fatto. “Questo si chiama s’iscopette“, mi disse.

E infatti poggiò il manico sulla cintola, infilò sa crai nel tubo facendo scivolare ‘sa balla‘ di sughero e poi, avvicinando a sè con vigore e destrezza il sambuco cavo e con uno scatto improvviso, sentiì: “boom!“. La chiave era penetrata dentro completamente, il tappo anteriore si era piazzato al posto di quello posteriore che invece era schizzato fuori rumorosamente, ma senza produrre nessun danno.

” E’ quasi come sparare a salve! Ti è piaciuto?”, esclamò il giovane.

Riprese il tappo che era saltato, lo insalivò ben bene, lo rimise nella parte anteriore del cannello e mi disse: “Adesso provaci tu! S’iscopette è tuo!”

Per tutto il pomeriggio non feci che spaventare gli agnelli sparando e correndo da una parte all’altra.

Ma questa campagna mi piaceva moltissimo soprattutto per i suoi ciliegi: erano numerosi e rigogliosi, la chiamavamo “Il giardino dei ciliegi”.

Mentre d’inverno alcune piante mostravano le loro pecche, i rami secchi, gli acciacchi del tempo, che mio padre con delle apposite potature tentava di curare, in primavera, quasi per magia, si ricoprivano di bianco: sembravano accarezzati da una lieve e dolce nevicata, chiome candide, ridenti e delicate, quasi sospese per incanto tra il verde dei campi e l’azzuro intenso del cielo.

Si temeva che  una folle grandinata o il vento, sempre in agguato, potessero rompere l’incantesimo e cancellare improvvisamente questo quadro naturale di incommensurabile bellezza.

“Se tutti quei fiori si potessero tramutare in ciliegie!” Era il sogno di noi ragazzi.

Pian piano i fiori rimasti si trasformavano in ciliegie che prima si confondevano col verde delle foglie, poi spiccavano per il rosso scarlatto di cui le fronde mostravano i grappoli punteggiando fittamente le piante e ornandole come brillanti di madreperle.

Nelle lunghissime e assolate giornate di fine giugno e primi di luglio venne anche la mamma, abbandonando per un po’ le interminabili faccende domestiche, accompagnata da alcune vicine di casa, abilissime nel salire sui ciliegi, sembravano uccelli, raggiungere le fronde più alte e periferiche, avvicinandole in certi casi con degli appositi uncini, e allungandosi a dismisura per cogliere i frutti ad uno ad uno, con una  delicatezza e leggerezza tale che l’albero non si irritasse e fosse provvido e generoso anche per le annate successive.

Solo qualche volta spezzavano una fronda particolarmente carica di quel ben di Dio per regalarla ai loro bambini, cui magari l’avevano promessa, e che veniva usata a mo’ di bandiera: su ghione.

Noi intanto, dopo esserci saziati di questi gustosi e saporiti frutti, raccoglievamo le ciliegie gemmate e, dopo averle adagiate sulle orecchie come ornamentali pendenti, prendevamo delle achillee, le ripulivamo dei rametti laterali, intrecciavamo le ciliegie doppie lungo lo stelo appoggiandole all’infiorescenza concava capovolta formando un cordone ricamato di rosso porpora che portavamo in paese come un trofeo e un vanto: era sa corda.

Rimanevamo intere giornate dall’alba al tramonto, e con grossi barattoli vecchi facevamo un gran baccano per allontanare gli uccelli che erano lì in attesa di una nostra distrazione per avventarsi su quei frutti di cui andavano ghiotti e divorarseli.

Come pasto ci portavamo del pane e del formaggio, mentre l’insalata, pomodori, lattughe, fagiolini freschi, cipolle, ce le procuravamo in un orto della nonna che si trovava lì vicino.

Un giorno in quell’orto, mentre con mia sorella grande zappettavamo i pomodori e i fagiolini, l’altra sorella più piccola, che gironzolava nei paraggi, catturò un rettile e, nel rotearlo per gioco come una fionda, cominciò a gridare: “Una tzilicherta, una tzilicherta!” finchè non lasciò d’improvviso la presa e l’animaletto andò a sfracellarsi contro un muretto a secco.

Andammo a constatarne la morte e scoprimmo che si trattava di una biscia, ormai inoffensiva.

Nel giardino dei ciliegi si passavano le giornate in libertà, si saliva e si scendeva dagli alberi, si rincorrevano e spaventavano gli uccelli, si cercavano nidi. Seguivamo con particolare curiosità un gufo che aveva nidificato in un vecchio ciliegio cavo. Questo uccello notturno di giorno usciva raramente, anzi,  solo quando lo insidiavamo,  e si presentava appollaiandosi in cima alla cavità: aveva un aspetto maestoso, con un piumaggio grigio scuro molto folto, le sopracciglia gli cerchiavano gli occhi gialli, grossi come orologi, infastiditi dalla luce.

Molte volte abbiamo tentato di prenderlo, ma riusciva sempre a fuggire prima che arrivassimo spiccando voli bassi tra gli alberi: noi però lo abbiamo controllato a vista, contavamo le uova, che erano grosse, e dopo un po’ di tempo ci hanno meravigliato i piccoli che erano sgusciati perché erano di un bianco candido da sembrare batuffoli di cotone.

Del gufo ci piaceva il canto che sentivamo la mattina, mentre ci avvicinavamo al giardino.

Intanto le ceste di canne intrecciate, sas cofas, e le corbule di asfodelo erano piene; le aiutanti nel pomeriggio le disposero per strada ed i passanti compravano le ciliegie in cambio di altra merce, raramente ci davano soldi.

“Negli Anni Trenta, disse babbo, ne riempivamo molte ceste e con le bisacce, sas bertulas, a cavallo le portavamo con mia mamma a Orani e a Orotelli per venderle a cambi’a pare per formaggio e grano”

Nel frattempo si sentì un calpestio ritmato e cadenzato di cavalli, qualche risata, un cicaleccio brioso e allegro: erano alcune coppie di sposi che rientravano dalla festa di San Costantino di Sedilo, gli uomini ben sistemati sulle selle, abiti di velluto e gambali tirati a lucido, le donne sedute dietro su un cuscino con il costume che in parte adornava a semicerchio anche il cavallo: sembravano usciti da una stampa medievale!

Quando li vide arrivare il giovane aiutante pastore cominciò a cantilenare: “Sos de sa festa/ binu bos restat/ Bos restat binu/ Pro sos de camminu.”

Le coppie si fermarono, divertite anche se stanche, assaggiarono volentieri un po’ di ciliegie, ci offrirono in cambio del torrone, che a noi ragazzi piacque moltissimo, chiesere dell’acqua e chiacchierarono col babbo a cui portarono i saluti di alcuni amici pastori di Sedilo.

Venne la sera, eravamo stanchi e affamati, appena tramontato il sole ci incamminammo verso il paese, al chiar di luna, accompagnati da un dolce, prolungato e armonioso canto che un assiolo diffondeva in tutta la campagna.

 

 

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