LAVORARE DA CASA, processo irreversibile? Riflessioni da ‘Il corriere della sera’

Dossier: 1. Smart working, la rivoluzione d’ottobre. Niente sarà come prima di Rita Querzè; 2. Il sogno di una versione post industriale delle città-comunità, di Maurizio Ferrera; 3. Se il lavoro cambia forma noi chi diventeremo? di Barbara Stefanelli. Da 7, settimanale, 3 aprile 2021


1). Smart working, la rivoluzione d’ottobre. Niente sarà come prima di Rita Querzè

Prepariamoci: di nostro in azienda a segnare il territorio resterà ben poco. Niente scarabocchi dei figli appesi, foto sulla scrivania o libri sugli scaffali. L’ultimo irriducibile baluardo dell’identità del dipendente sarà… un armadietto. Un locker dove tenere l’indispensabile insieme con la propria, personale, coperta di Linus. Spazzolino, dentifricio, ombrello. E il disegno dei figli che abbiamo staccato dalla parete. Prospettiva lontana? Niente affatto, il futuro del lavoro è già qui. Aziende e dipendenti gli stanno correndo incontro, le prime per aumentare la produttività e ridurre i costi, i secondi per conciliare meglio privato e lavoro. Se tutto andrà bene (incrociamo le dita) da settembre/ottobre grazie ai vaccini si potrà tornare a una situazione simile alla normalità. Il momento in cui la smetteremo con il telelavoro forzato è vicino.

 

Il punto è: cosa faremo della recuperata libertà? Una cosa è certa: non si torna indietro. Secondo l’Osservatorio sullo smartworking del Politecnico di Milano, su 18 milioni di dipendenti in Italia, poco meno di un terzo (5,35 milioni) alterneranno lavoro fuori e dentro l’azienda. «In media prevediamo 2,7 giorni di operatività da casa alla settimana nel privato e 1,4 nel pubblico impiego», dice il direttore, Mariano Corso. Insomma, quasi un terzo dei dipendenti passerà il 50 per cento dell’orario standard fuori dall’azienda. Questa novità sarà uno straordinario motore di cambiamento dell’organizzazione del lavoro e dei territori. In particolare, delle aree urbane e dei loro dintorni. In primis Milano, dove si trovano i quartieri generali di multinazionali e grandi gruppi. Certo, Roma potenzialmente potrebbe non essere da meno. Ma i processi decisionali del privato sono più veloci di quelli di un ministero, quindi gli effetti sotto la Madonnina si vedranno prima.

BEN L’89% DELLE GRANDI AZIENDE RIVEDRANNO – PER EFFETTO DELLA RIORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DOVUTA ALLO SMARTWORKING – GLI SPAZI INTERNI: CON CAMBIAMENTI STRUTTURALI O MODIFICANDONE L’UTILIZZO. IN ARRIVO SPECIFICI ACCORDI AZIENDALI

Un indicatore interessante è l’accelerazione rispetto alle intese tra grandi imprese e sindacato. Appena finirà lo stato di emergenza, le aziende saranno obbligate a stipulare accordi individuali di smartworking con i dipendenti, come richiesto dalla legge 81 del 2017. La stessa norma dice anche che il dipendente può tornare a lavorare in presenza in qualunque momento, basta una semplice comunicazione con 30 giorni d’anticipo. Gli accordi aziendali aiutano le imprese ad avere certezze sul numero di persone che in media ogni giorno saranno in sede. E, di conseguenza, sul potenziale risparmio, a regime, sugli spazi. Il sindacato, dal canto suo, cerca di strappare qualche tutela in più per tutti.

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Dal martedì al giovedì

Le realtà che hanno già ripiegato su sedi più piccole sono ormai numerose. A Milano, Bnp Paribas, Unicredit, Siemens, Microsoft… Ma quanto più piccole? La filiale italiana del gruppo americano Cbre, specializzato in consulenza immobiliare, fa notare che molto dipenderà dal tipo di smartworking che la singola azienda intende adottare. «È vero, a fine pandemia solo il 50% del tempo di lavoro sarà trascorso in sede. Ma se i dipendenti saranno lasciati liberi di scegliere quando andare in ufficio, allora le presenze saranno concentrate nella parte centrale della settimana, mentre lunedì e venerdì saranno meno richiesti. Morale: ci saranno picchi di presenze e gli spazi necessari potrebbero ridursi non del 50 ma tra il 20 e il 40%, a seconda anche di quanto le aziende vorranno “investire” sugli spazi condivisi», guarda avanti Alberto Cominelli, responsabile del dipartimento project management di Cbre.

NÉ CARTELLINO NÉ BADGE, FINE DELLA SCRIVANIA, ARRIVA L’APP PER PRENOTARE PARCHEGGIO E AREA DI LAVORO. L’ADDIO ALLE CITTÀ PER I PICCOLI CENTRI

La scrivania diventerà un lusso per amministratori delegati e pochi altri. La “truppa” dovrà prenotarsi gli spazi, a partire dal parcheggio, con una app. Scegliendo, a seconda delle necessità, tra l’ufficio classico, la sala riunioni, l’area coworking aperta agli esterni. Ovvio che i sistemi di sanificazione dovranno essere efficienti visto l’alternarsi di più persone alla stessa postazione.
Nelle sale riunioni sarà indispensabile avere sistemi per collegare con facilità anche chi è in remoto. «La parola chiave è hotelification », aggiunge Stefania Campagna, alla guida del settore Advisory and Transaction Services Italy di Cbre. «Gli spazi dell’azienda cominceranno a somigliare a quelli diversificati delle hall di un albergo». Se è vero che da una parte il datore di lavoro può risparmiare sugli spazi, dall’altra si tratta di investire sulla loro ristrutturazione. O sul trasloco in aree più centrali e attrattive: si andrà al lavoro soltanto se ne vale davvero la pena. Magari approfittandone per frequentare anche la palestra dell’ufficio.

Costi e benefici

Il combinato disposto di queste tendenze porta a stimare un calo dei prezzi sul mercato degli affitti degli uffici contenuto al 10%. Ristrutturare e riqualificare ha comunque un costo. È per questo che molte aziende per ora si limitano a stipulare accordi sperimentali di smartworking nell’intento di verificare nella pratica i bisogni reali prima di prendere decisioni definitive. «In realtà i grandi gruppi hanno anche un’altra possibilità: attrezzare sedi distaccate che saranno frequentate da chi abita nelle aree limitrofe, oppure dare l’opportunità ai dipendenti di appoggiarsi a spazi di coworking», dice Massimo Roj di Progetto Cmr, società di progettazione con sedi da Milano a Praga e Pechino che negli ultimi 25 anni ha progettato 7 milioni di metri quadrati di uffici (tra gli altri gli interni della Torre Generali nell’area City Life di Milano e gli edifici Spark a Santa Giulia).

Il no di giovani e over 50

Fin qui le valutazioni delle imprese. E i dipendenti? I giovani preferiscono non rinunciare all’ufficio. Per tre motivi: amano la socialità, hanno bisogno di imparare (e imparare stando a distanza è difficile) e poi abitano di solito in case condivise con genitori o coetanei. Un comportamento simile possono avere (anche se in modo meno marcato) altre categorie, in particolare gli over 50 con figli ormai grandi e l’esigenza di trasferire conoscenze ai colleghi più giovani. Il discorso vale, in generale, per single e persone che abitano in case troppo piccole. I più interessati allo smartworking, invece, sono i genitori con figli piccoli o nonni a carico, i dipendenti con hobby e passioni extralavorative o semplicemente, quelli con la residenza distante dall’ufficio.

Pendolari in movimento

Continuando con il caso di Milano, un’indagine di Cisl Lombardia mostra come la gran parte dei pendolari che ogni mattina entrano nel capoluogo lombardo venga da Lodi, Pavia, Bergamo, Como. Lo smartworking è ovviamente un’opportunità per questi lavoratori, ma potrebbe anche convincere altri a traslocare. Come l’Alta Velocità ha aperto la strada al pendolarismo di lusso dei professionisti della conoscenza da Bologna e Torino verso Milano, così ora lo smartworking potrebbe rafforzare la tendenza consentendo anche a chi abita in altre città di orbitare sul capoluogo lombardo. «È il caso di Verona, per esempio, con un’ottima qualità della vita a poco più di un’ora da Milano», fa notare l’amministratore delegato di Coima, Manfredi Catella, regista dello sviluppo dell’area milanese di Porta Nuova. «Sono molto più scettico invece rispetto all’idea che lo smartworking possa cambiare completamente il destino di piccoli borghi abbandonati». Perché? «Possono ottenere impulso dallo smartworking i centri ben collegati ad aree produttive importanti e nello stesso tempo abbastanza vivaci e vitali», risponde Catella.

Opportunità locali, con le seconde case in testa

Diverse piccole realtà stanno cercando di cogliere l’opportunità. Courmayeur, la Courma dei milanesi, ha appena attivato una serie di agevolazioni allo smartworking. «Il nostro territorio è pieno di seconde case, ci aspettiamo che vengano vissute di più d’ora in avanti grazie al diffondersi del lavoro agile», dice Guido Malinverno, sindaco di Desenzano sul Garda, a poco più di un’ora da Milano. «Ma l’opportunità potrebbe essere anche un’altra», riflette Malinverno. «Attirare famiglie giovani, desiderose di godere di una migliore qualità della vita per i loro figli. I centri più piccoli sono abitati ormai in gran parte da anziani. Certo, questi processi andrebbero agevolati. Per il nostro territorio lo smartworking può offrire un’opportunità di arricchimento sia culturale che economico».

Questione busta paga

Tirando le somme, il vincolo chiave è quello dell’ora di distanza tra residenza e ufficio. Quando il tempo per raggiungere l’azienda è maggiore, più che di smartworking si parla di vero e proprio telelavoro. Per i dipendenti i vantaggi sul piano della gestione del tempo non mancano. Ma in busta paga? La legge dice che lo smartworking non deve penalizzare la retribuzione. Le aziende che riconoscono gli straordinari con il lavoro agile, però, sono rare, inoltre solo circa il 50% concede i buoni pasto. «Un parametro con cui i lavoratori guardano agli accordi è la reale libertà di fissare senza vincoli i giorni di lavoro da casa quando fa più comodo. Molto importante è il riconoscimento di mezzi di lavoro adeguati, dallo schermo grande alla seduta ergonomica», spiega Riccardo Saccone, della segreteria Slc Cgil, la categoria delle telecomunicazioni. Un settore in cui gli accordi sono già numerosissimi: da Wind a Vodafone, da Tim a Fastweb. Tra le intese “evolute” da segnalare, quella raggiunta di recente in Bayer, nel settore chimico: niente timbratura del cartellino, valutazione per obiettivi, fornitura di portatile, cuffie, tastiera, schermo, seduta ergonomica e conferma dei buoni pasto.

 

Rimborsi o riduzione di orario

In Germania si sta valutando la possibilità di sancire l’obbligo di garantire un corrispettivo al dipendente che mette a disposizione una parte della propria casa per l’attività lavorativa. In Italia pensare a qualcosa del genere può essere realistico per il telelavoro al 100% ma più difficile finora per lo smartworking, in cui il lavoro da casa è volontario e con schemi temporali variabili. «Con lo smartworking, però, si può tendere a usare i recuperi di produttività garantiti da questa modalità di lavoro per ridurre l’orario a parità di stipendio», dice Saccone. Un’ambizione non da poco per il sindacato. Molto difficile da realizzare senza il vento a favore della ripresa.

Settimanale 7, il corriere della sera, 3 aprile 2021

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Il sogno di una versione post industriale delle città-comunità, di Maurizio Ferrera

Sono molte le opportunità, e rischi, che si devono valutare per combinare la produttività con una nuova organizzazione dello tempo e dello spazio

 

Negli anni Sessanta il lavoro si svolgeva principalmente nelle fabbriche, timbrando il cartellino. Gli operai stavano alla catena di montaggio: ore e ore a ripetere gli stessi gesti. In mezzo secolo tutto è cambiato. La parola d’ordine è oggi «lavoro smart». Che non vuol dire solo «da casa», ma qualcosa di più ambizioso: la combinazione di più produttività e insieme più opportunità di intrecciare fra loro i diversi tempi della vita. Trasformando non solo regole e pratiche aziendali, ma anche il welfare.

L’economia dei servizi e le nuove tecnologie hanno creato le condizioni adatte per sperimentare nuove combinazioni. Google e Facebook hanno ad esempio costruito dei tech campuses intorno alle sedi di lavoro: quartieri in cui ci si sposta rapidamente fra casa e ufficio, si fruisce di un’ampia gamma di servizi e si fa vita di comunità. Gli architetti lo chiamano il modello della «dot.com city»:una specie di versione post-industriale della città-comunità di olivettiana memoria. L’innovazione più diffusa è stata però la flessibilità dei tempi e dei luoghi di lavoro. La pandemia ha favorito e a volte imposto soprattutto il lavoro da casa.

Si tratta di una delle richieste storiche dei movimenti femministi. A conti fatti, la flessibilità si è però rivelata uno strumento bifronte. La produttività non ha sofferto, tanto è vero che molte imprese resteranno smart anche dopo la pandemia. Ma per le donne la sovrapposizione in un solo luogo di primo e secondo turno (lavori domestici e di cura) ha finito per assorbire più tempo e più energia di prima. L’isolamento imposto dal Covid ha peggiorato le cose. Le vere sfide restano però la bassa condivisione da parte degli uomini e la scarsità di servizi. Senza progressi rapidi e concreti su questi fronti, nessuna ri-organizzazione del lavoro potrà mai dirsi, veramente, smart.

3 aprile 2021 (modifica il 6 aprile 2021 | 08:14)

 

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Se il lavoro cambia forma noi chi diventeremo? di Barbara Stefanelli

La sovrapposizione di casa e ufficio, di interno ed esterno, tocca le nostre identità. Bisogna interpretare questo cambiamento di spazi e di tempi, prima che ci travolga

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Lo dice l’articolo 1 della Costituzione. E ancora. Agli articoli 3 e 4 il lavoro viene concepito non soltanto come un diritto che garantisce «il pieno sviluppo della persona umana», ma anche come un dovere che contribuisce «al progresso materiale o spirituale della società». Siamo dunque una Repubblica di cittadini lavoratori e cittadine-lavoratrici, riflette l’antropologo Francesco Remotti nel suo Sull’identità (Raffaello Cortina) di cui ha scritto Daniela Monti nel numero di 7 del 19 marzo. (Prima di procedere nel nostro ragionamento su lavoro e pandemia, apriamo una parentesi sulle donne: dal Dopoguerra a oggi l’Italia è arrivata ad avere meno di una cittadina su due con un contratto firmato, che preveda retribuzione e garanzie riconosciute.

Ma che ne è dell’infinita “forza lavoro” di quante hanno visto il loro tempo quotidiano assorbito dalla cura di figli/anziani/casa dentro le mura private? Il conto con la Storia, e con le nostre storie familiari, resta aperto).

Torniamo al lavoro inteso come categorie: è stato talmente importante per definire chi siamo che è planato tra le righe della carta d’identità. Nome, cognome, sesso, altezza, professione… Nel Novecento il fordismo ha reso le fabbriche il luogo-chiave, dove si timbrava il cartellino. Poi si sono aggiunti i badge all’ingresso degli uffici. Per un po’ abbiamo esitato ai tornelli, ma presto ci siamo arresi sforzandoci di non dimenticare il pass nella tasca sbagliata o nella borsa di ieri. Questo fino al 2020. Fino alla pandemia che ci ha improvvisamente chiusi nei nostri appartamenti.

«L’economia dei servizi e le nuove tecnologie» scrive in questo numero di 7 Maurizio Ferrera, docente di Scienze Sociali e Politiche all’Università Statale ed editorialista del Corriere, «hanno creato le condizioni adatte per sperimentare nuove combinazioni». Che sta succedendo? Anzi: che ci sta succedendo? Che luoghi pubblici e privati si sovrappongono. Tavolo di cucina e scrivania si confondono. In italia, e solo in Italia, lo chiamiamo smartworking.

Nella versione originale, anglosassone, è semplicemente home working. Lavoro da casa, non è detto che sia intelligente. La pandemia ha favorito – in realtà ha imposto – questo rivolgimento degli spazi e dei tempi che fonde le nostre identità. (Rientriamo nella parentesi di prima: la fusione da lockdown ha “bruciato” soprattutto le giornate delle madri e dei padri più disponibili alla condivisione). Per rispondere a questo interrogativo – che ne sarà del nostro rapporto con il lavoro e dunque delle nostre identità secondo Costituzione – abbiamo avviato un’inchiesta in cinque puntate affidata a Rita Querzè, giornalista esperta della redazione Economia, e al professor Ferrera. Il desiderio è quello di interpretare il cambiamento affinché non ci travolga.

La flessibilità di tempi e luoghi può rivelarsi una rivoluzione che ci libera da consuetudini dispersive, reinterpreta la mobilità, trasforma lo spazio urbano in città-comunità policentriche. Tuttavia questa stessa rivoluzione, se non compresa e regolata, finirà per incatenarci in una stanza. Che alla fine del giorno non sembrerà per nulla smart.

 

 

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