La vergogna e l’orgoglio, di Mario Missiroli

Che cosa unisce Gustave Flaubert, la madre di Philip Roth e Norman Mailer? Questo: la vergogna venuta dagli altri, trovarsi di fronte a un dito puntato che conferma una fragilità; peggio: un insuccesso. E che cosa allontana Gustave Flaubert, la madre di Philip Roth e Norman Mailer? Questo: la reazione a quella vergogna. Flaubert consegna a un paio di amici un manoscritto e aspetta il verdetto. Doloroso. La madre di Philip Roth, convocata dal figlio, aspetta con ansia, poi stupore, poi sgomento, la trama del «Lamento». Fuggirà in lacrime. Diversa la reazione di Norman Mailer: Gore Vidal mi attacca? Michiko Kakutani mi attacca? E io rilancio. Il piccolo pugile tignoso farà della lettera scarlatta il suo orgoglio.

Dio mio: eccole qui le due parole che annodano Gustave Flaubert, Marguerite Duras e la madre di Philip Roth. Le pronunciano nel momento in cui si trovano, credenti o non credenti, nello spazio di sé stessi che nessuno di loro oserà chiamare vergogna. Flaubert, primo fra tutti, dopo decenni di lavoro per La tentazione di San t’Antonio riunisce un paio di amici fidati e consegna loro il manoscritto. L’opera è breve e lui attende il verdetto con curiosità, un filo di supponenza, infine trepidazione e silenzio, finché si sente dire che non va, che sembra il lavoro di uno scribacchino alle seconde armi, che pubblicarlo sarebbe avventato. Anni dopo l’autore dell’Educazione sentimentale annoterà con nonchalance «madornale» in una lettera che commentava quel fatto, in verità gli intimi stroncatori lo riportano angosciato mentre ascolta le critiche suggellandole con un sussurro, mon dieu. Chissà se il buon Gustave tentò di rimuovere, aiutato poi dall’avvenire fastoso o dall’indole che a tratti fluì in Charles Bovary, quasi un’arte di accantonare le seccature di difficile manutenzione.

È questa, la vergogna venuta dagli altri: trovarsi di fronte a un dito puntato che conferma una fragilità. Di colpo lo spauracchio si materializza e risuona in soliloqui nefasti, ho davvero fallito, mi sono macchiato, riuscirò a essere ancora amato? Così le accuse esterne ( che libro vacillante, Gustave) potrebbero coincidere con una nostra vocina interna ( e se io, Gustave, avessi scritto un libro vacillante?): un punto interrogativo fa la differenza, e trasforma un mondo accogliente in un tribunale. Per Flaubert seguirono settimane di bilico come se «tutti sapessero» di quei giudizi, la gente per strada e gli intellettuali, a cui l’autore oppone l’orgoglio della propria letteratura e infine una resa condizionata: accettare il parere avverso, meglio ancora, accettare la prima persona singolare. L’ho scritto io, sono comunque io.

Rimarginato o infetto, il graffio c’è. E può dare vita al calvario attraverso cui J. M. Coetzee sgretola David Lurie, il protagonista di Vergogna, romanzo che gli spianò la strada al Nobel: Lurie è additato di avere pasticciato con una studentessa, viene messo alle strette dall’apparato scolastico, è costretto a dimettersi e a fare i conti con una nuova estensione di sé. Dichiara, sì, di essere un professore con propositi lascivi verso le sue allieve? Dichiara, sì, di essere un uomo che non merita il suo mestiere? Soprattutto: dichiara, sì, di essere un uomo che muta secondo lo sguardo altrui? Non risponde: dopo essere stato relegato inizia il corpo a corpo tra la realtà fuori e la realtà dentro, tutto è liquido e il confine che rimane è quello dell’erosione.

Cosa rischia Lurie, cos’ha rischiato Flaubert. La risposta è l’impassibilità che Coetzee lascia al suo eroe quando tutti si accaniscono contro di lui. Lurie finge un cuore impermeabile, sotto sotto la posta in gioco è lo spavento cronico. Insicurezza, tremori, un’autoimmunità spirituale: essere cacciati dall’eden per una possibile falla nata sotto la cattedra, sentirsi sputtanati per una recensione malevola, e non ritrovarsi più.

Oppure, d’emblée, rilanciare. Fare della lettera scarlatta l’unico alfabeto possibile, ribattere che il motivo di critica dagli altri è pulsione di orgoglio per noi: Norman Mailer. Il piccolo pugile tignoso, guascone, dalla prosa fluviale, l’ebreo combattente che in caso di stroncatura prendeva carta e penna e scriveva al recensore con fare estroverso. Letterina a Gore Vidal, reo di avergli scassato Il canto del boia, rivolgendosi a lui con fare lusinghiero per poi accusarlo di avere manipolato frasi del libro. Letterina a Michiko Kakutani, a cui confessa di avergli fatto venire il buonumore per averlo tagliuzzato assieme al Philip Roth del Teatro di Sabbath. Mailer non permette all’onta di raggiungerlo, sul ring anticipa i colpi e si muove per tempo. Amoreggia con i suoi carcerieri, sperando di poterne uscire intimamente indenne. Diciamolo in altro modo, ribalta la frittata: espone il proprio disagio per non vederlo, incoronandolo all’altare del narcisismo. Alla fine della storia l’epilogo è uno, scagliarsi contro l’infamia e farne il proprio manifesto: come osi, chiunque tu sia, sfidarmi?

E se invece, caro Norman, fosse: come oso, io scrittore, a non sfidarmi? Più volte Annie Ernaux e Marguerite Duras se lo chiesero, e per tempo si misero a risposta. Ernaux ribadendo quanto il pudore sia l’avversario della memoria, nei libri e nella vita, lei che altrimenti sulla pagina non avrebbe mai potuto smantellare una madre, l’ombra di una sorella morta, l’abuso in una colonia estiva. C’è un momento, secondo Ernaux, in cui decidiamo se essere la storia che scriviamo o noi che scriviamo. Se saremo la storia, avremo remore, ma le invalideremo. Se saremo noi stessi, avremo remore. La scelta appare solare, ma qualcosa potrebbe accadere, un’esitazione, la penna trema e non ci fa dire come Ernaux che un genitore sa ridurre un figlio a una sputacchiera per infelicità matrimoniale. Fregarsene è la letteratura: avere l’imbarazzo di dire la realtà, annaspare in questo imbarazzo, ma riuscire a valicarlo in nome del racconto. Ecco la vergogna per sé stessi, e in tal caso il suo superamento. Fu Marguerite Duras, durante la stesura de L’amante, a non chiamare questa iniziazione per nome, ma a telefonare a una cara amica d’infanzia al termine della prima bozza e confidarle: j’ai fini,

mon dieu. Ce l’ho fatta, ho vuotato il sacco, nonostante me.

La sfida è questa, ha detto Annie Ernaux: il pudore è l’avversario della memoria, nei libri come nella vita porta esposizioni, che comporta giudizi e via dicendo, tutto in conto, ma a pensarci bene c’è voluto un episodio per essere il sentimento che intaccò Flaubert e che si porta dietro Duras ed Ernaux, e non solo.

Ero a Roma per presentare il mio ultimo romanzo, uscito circa un anno fa, verso sera vengo avvertito che il giorno seguente sarebbe comparsa un’importante stroncatura su uno dei maggiori quotidiani. Chiedo delucidazioni, chi l’ha scritta, ne siete certi, è lunga, è corta, esiste una possibilità di avere l’anteprima, mi ascolto in questa litania e taccio, lascio che la conversazione si dissolva. Ho paura, nettamente paura, devo camminare e mentre esco in via Cola di Rienzo mi viene in mente mio padre che leggerà quel quotidiano perché è uno dei suoi quotidiani. È l’ora di cena e chiamo mia moglie per darle la notizia, poi chiamo un amico di Rimini, poi chiamo mio padre e lo avverto. Lui fa silenzio, dal niente mi domanda: «Sei sicuro?». Si raschia la gola. Poco dopo ci salutiamo e io proseguo verso l’hotel, non ricordo altro se non la fine della serata, quando prima di mettermi a letto faccio l’elenco a mente delle persone che si dispiaceranno, di quelle che godranno, di un misto delle une e delle altre finché sono esausto e getto la spugna.

La mattina vado in edicola e leggo, butto il quotidiano e cammino verso Piazza del Popolo, tento con il menefreghismo, tento con la collera, mi impantano in una specie di tristezza che sta per diventare angoscia, mi fermo e fisso la punta delle mie scarpe. Poi alzo la testa e sono certo che la fiumana di Piazza del Popolo sa. Sa tutto, sa che il mio ultimo romanzo è stato sfregiato, sa che d’ora in poi potrei zoppicare, sa che non riesco a fingermi impermeabile come Lurie, o a fidarmi del tutto della mia opera, o ad aggrapparmi del tutto alla mia letteratura. Sa che come Lurie mi viene da valutare quella parte di me che potrebbe aver scritto male quella parte di libro, aver commesso quella stonatura, addirittura essere un impostore.

Non ho l’insolenza adorabile di Mailer, anche se poi incornicerò il sentimento in questo scritto, allora potrei reagire facendo tesoro dell’ostilità, misurandomi lealmente con le riserve esposte nella critica. Lo faccio. Potrei gestire le reazioni solidali di amici e conoscenti e finti alleati, ribadire con franchezza ai loro messaggi telefonici, sottomettendomi in ogni trillo del cellulare a un’amplificazione della pena. Lo faccio. Per fortuna non seguo molto i social network, ci pensa mia moglie ma io non le chiedo niente, così mi rimane quell’ultima cosa: chiamo mio padre e lo ascolto dire «Non è poi così tremenda, Marco». Lì ho il colpo.

Mio padre in protezione. Lo sconcerto che trattenevo dilaga e io avverto nitidamente che non è la stroncatura, è la stroncatura letta dall’altro, non è l’agguato all’opera, è l’agguato ai fiduciari dell’opera. Sento adesso una vergogna che non è venuta solo dagli altri o per me stesso, va oltre: eccede la lacerazione narcisistica e sosta per farmi provare le conseguenze del mondo su di me. È il sintomo della mia penetrabilità: se patisco a causa del mondo, certifico di saperlo ancora includere. Se provo tale dissesto, al di là dell’insicurezza, in me resiste un varco. Qui Flaubert si riunisce con Duras e Ernaux, come a dire: siamo in balia degli altri perché ne vogliamo fare parte, vogliamo fare parte della vita. Scomodo, e in parte utile a indorare la pillola, a dirla fino in fondo. Ma l’alternativa è di tutt’altra facezia: un colpo di spalle, tirare dritto per la propria strada, perfezionare David Lurie rafforzando il baricentro dell’indifferenza. Ma così, saremo ancora in grado di raccontare?

Venendo via da piazza del Popolo, prima di chiudere la conversazione con mio padre, ricordo di avergli chiesto di mia madre, come avesse preso l’articolo di giornale. Non ho memoria di cosa mi disse, forse qualcosa di rassicurante, ma dopo qualche settimana, ripensando all’accaduto, mi è venuto in mente quella storiella per cui Philip Roth telefonò a casa, a Newark, per convocare i genitori alla vigilia dell’uscita di Lamento di Portnoy. Parlò con il padre Herman e gli disse se si potevano trovare in un ristorantino dove nel fine settimana facevano un’ottima carne, avrebbero festeggiato insieme. I genitori arrivarono in taxi, la madre Bess aveva un’aria tesa, chiese subito al figlio cosa stesse accadendo. Roth li fece accomodare, ordinarono bistecche, e prima di iniziare a mangiare annunciò che il suo romanzo avrebbe costretto tutti loro a difendersi dai giornalisti e dai rabbini. Perché, figliolo, cosa racconta il libro? Diranno che racconta di un tizio che fa psicoanalisi e si masturba in protesta agli ebrei. È adesso che la madre rimane in silenzio, si stringe al marito e gli chiede di tornare a casa. I due si alzano, e prima di risalire su un taxi dove lei scoppierà a piangere, Bess va dal suo bambino e lo guarda: Dio mio, Philip.

Tempo dopo, ricordando quell’episodio, Roth ammise di avere visto negli occhi materni la portata di Lamento di Portnoy: la profanazione del pudore raggiunta, la profanazione del pudore causata. Disse che non si era mai sentito così lontano da sua madre, e da suo padre, e dalla sua comunità di origine, e che per un attimo aveva avvertito una lacerazione verso di loro che mancavano di capirlo, e verso di sé che mancava di capirli. Per un attimo era stato il sentimento del loro sentimento. La vergogna della vergogna. E aggiunse che dopo averla provata, con una naturalezza inconcepibile, lui fu prossimo a loro come mai gli era capitato in trentasei anni di vita.

Mi vergogno, dunque sento. Tutto è lì, nelle parole del suo Alex Portnoy, al bivio se scegliere tra il dolore o la rimozione, tra essere o non essere, accarezzando l’idea di impermeabilizzarsi dalle pulsioni del creato, quando con malcelato imbarazzo domanda al suo psicoanalista: «Dottore, di cosa dovrei sbarazzarmi per primo, mi dica, dell’odio… o dell’amore?».

LA LETTURA, 23 febbraio 2021

 

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