Onorate l’altissimo poeta, di Mario Cubeddu

Dante, Inferno, canto IV. (VERSIONE CORRETTA DELL’ARTICOLO  precedentemente pubblicato)

Ho conosciuto Franco Loi il 1 settembre del 2005. “E’ arrivato”, ha detto Mattea Usai, e dal corridoio tra i tavoli dell’Osteria Al Bue Rosso l’abbiamo visto avvicinarsi. Ci siamo abbracciati come se ci fossimo sempre conosciuti. Franco entrava subito nella vita delle persone con il sorriso, con la parola, con un’attenzione che ti faceva sentire importante, per lui e quindi per tutti. Nei giorni di preparazione del programma del festival avevo proposto che venisse invitato perché volevo capire il mistero di un poeta di famiglia sarda, come diceva chiaramente il cognome, che era diventato il poeta “milanese” per eccellenza, dopo aver ripreso e continuato la tradizione di Carlo Porta e della grande poesia scritta nel dialetto della capitale del nord. La gentilezza e la prontezza con cui aveva accondisceso al nostro invito erano state la prima manifestazione della facilità miracolosa con cui eravamo riusciti a realizzare a Seneghe la prima edizione del Cabudanne de sos poetas.

La sera del 2 settembre in Partza de sos Ballos, prima di salire sul palco, Franco era venuto a chiedermi se  tra le sue poesie ce n’era qualcuna che preferivo che leggesse. Ero seduto sulla fila appoggiata al muro accanto alla porta del garage comunale, ai margini di una piazza strapiena, non ricordavo dei capoversi, le sue poesie non hanno titolo, gli ho detto: una di quelle in cui parli della morte di tuo padre. Va bene, mi aveva detto.

Fu per tutti la rivelazione di un grande poeta, subito capito e amato da chi era presente. Seneghe lo amò sino a concedergli la cittadinanza onoraria nel 2010. Franco Loi amava raccontare che il giorno dopo la sua lettura lo aveva fermato una signora vestita in nero che lo aveva ringraziato e gli aveva detto: lei deve continuare a venire a Seneghe. E negli anni successivi Franco Loi ha assicurato la sua presenza sinché la salute glielo ha consentito, coronando il suo rapporto col festival con la Direzione Artistica del 2013. Propose per l’occasione soprattutto giovani poetesse, poiché aveva individuato in esse l’espressione più forte e valida della nuova poesia italiana.  Durante le sue letture, per nessuno era un problema che il testo fosse in milanese, il senso si capiva attraverso la versione in italiano e tutti apprezzavano la musicalità del verso nella forma originaria.

A chi aveva interesse all’argomento Franco Loi spiegava  come mai uno con quel cognome sardo fosse diventato il poeta di Milano. Il racconto della sua vita si può leggere in un libro-intervista accompagnato da un video: l’autobiografia, intitolata “Da bambino il cielo”,  testimonia della sua straordinaria memoria ed è stata pubblicata da Garzanti in occasione del compimento degli 80 anni.

Il padre di Franco, Mario Loi, nato nel 1897, aveva lasciato la Sardegna da ragazzo, dopo la morte dei genitori, per raggiungere il fratello Emilio a Genova e lavorare in una città che allora era uno dei centri maggiori di riferimento per l’emigrazione sarda. La sua era una famiglia cagliaritana di gente di mare che conosceva bene le rotte del Mediterraneo che portano a Palermo e a Napoli.  La madre di Mario Loi era di origine siciliana. Arruolato in marina durante la prima guerra mondiale, si era salvato dall’affondamento della nave al largo della Tunisia resistendo in acqua per un giorno e mezzo, prima di essere tratto in salvo.  Le migliaia di sardi emigrati a Genova vivevano negli stessi quartieri. Lo zio Emilio parlava il sardo di Cagliari, mentre il padre, grande appassionato di opera lirica, aveva adottato il dialetto genovese parlato dai compagni di lavoro.                                                                                                                                               Dopo la guerra Mario Loi aveva conosciuto e sposato Gina Zerbini, una ragazza di Colorno,  un paese dell’Emilia settentrionale, a pochi chilometri dal Po.  Il lavoro come spedizioniere lo aveva poi portato dalla città ligure a dirigere uno scalo merci a Milano.  Figlio unico, nato a Genova il 21 gennaio del 1930, Franco arrivò a sette anni a Milano dove lavorò alla stazione col padre, in Rinascente, e infine all’ufficio stampa della Mondadori. Crebbe negli anni della guerra, della Repubblica di Salò, della Resistenza, accanto a ragazzi che sarebbero rimasti gli amici di tutta la vita. Con uno di questi, il cui padre era stato fucilato dai fascisti, assistette all’esposizione dei corpi dei partigiani in Piazzale Loreto, esibizione macabra replicata mesi dopo con quella del cadavere di Mussolini.

Franco Loi comincia a scrivere sin da ragazzo, osservando e prendendo noto del mondo in fermento della Milano della ricostruzione. Si appassiona al teatro, scrive un romanzo ispirato alla vicenda biografica del padre, che non verrà pubblicato da Einaudi a causa della morte prematura di Elio Vittorini che aveva molto apprezzato l’opera. E’ in contatto, anche per lavoro, con il mondo della cultura della città a cui lo unisce anche la passione politica. Si iscrive al partito comunista, scrive per l’Unità. Per conto del giornale fa un viaggio in Sardegna negli anni Cinquanta, vede Cagliari per la prima volta, va a parlare con i minatori. Franco Loi raccontava che quello che scrisse, riportando le osservazioni critiche degli operai nei confronti della politica della sinistra nell’isola, non piacque a Lussu, che pur essendo socialista veniva consultato evidentemente sulle questioni sarde, e il reportage non vide mai la luce. Sono questi rapporti difficili con la burocrazia di partito a portare Franco Loi alle dimissioni  ancor prima dei fatti di Ungheria, anche se la madre continuò a pagargli la tessera ancora per qualche anno, non condividendo la scelta del figlio.  Ha passato i trenta anni, ha messo su famiglia con Silvana Corti, un’insegnante di inglese di grande sensibilità e intelligenza, quando scopre la poesia. Vi si dedica con passione frenetica, isolandosi dall’ambiente di lavoro e familiare. Usa all’inizio l’italiano, ma in seguito la lettura dei sonetti del Belli lo convince che il dialetto milanese sia lo strumento più efficace per esprimere il suo sentire e rappresentare il mondo intorno a sé. E’ Vittorio Sereni, uno dei maggiori poeti italiani del dopoguerra, dirigente editoriale della Mondadori, il primo ad apprezzarlo e incoraggiarlo. Franco Loi emerge presto come una delle voci più autentiche della poesia italiana. Della sua peculiarità, del suo distinguersi dalla maggior parte dei poeti della sua generazione, ha dato una bella definizione Umberto Fiori, insegnante, poeta, musicista milanese che lo ha conosciuto e frequentato sin dal 1981: “Loi sembrava uscito da un altro mondo; un mondo arcaico, in cui il poeta è una sorta di sciamano, ignaro delle convenzioni e dei rituali letterari. Nella mia testa, in quegli anni, la poesia era un esercizio estetico-letterario governato dall’intelligenza, dal gusto, dalla cultura, dall’ironia; l’intensità che la animava doveva restare entro i limiti di una certa sobrietà, di un certo distacco. In Loi, invece, l’entusiasmo non conosceva limiti. Loi era quietamente spiritato. “

Per Franco Loi, che pure si era formato una solida competenza filosofica e letteraria, la poesia era l’aria della vita, l’aria della memoria, per riprendere il titolo che Einaudi dedicò alla sua produzione poetica nel 2005, l’anno della sua prima partecipazione al festival di poesia di Seneghe. Franco Loi era solito spiegare il come intendeva la poesia usando alcuni versi dell’amatissimo Dante, tratti dal XXIV canto del Purgatorio:

I’ mi son un che quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

Ch’ei ditta dentro vo significando.

La poesia esprime l’uomo tutto intero, sin dagli strati più profondi del suo essere. L’uomo poeta è colui che non smette mai di cercare di conoscere, di capire se stesso per capire gli altri e il mondo. Nelle numerose raccolte di poesie pubblicate a partire dai primi anni Settanta Franco Loi ha parlato di vita, di amore, di arte, ma anche della storia bruciante di quegli anni: il fermento politico-culturale degli anni Sessanta, la stagione delle bombe e delle stragi, la lotta per non soccombere all’autoritarismo strisciante e alla resistenza al cambiamento politico e sociale. Soprattutto due composizioni di maggior respiro, Strolegh (1975) e L’angel (1981), dei veri poemi/romanzo in versi, rappresentano bene lo stretto intreccio tra privato e pubblico.

Questa concezione così profondamente spirituale, quasi mistica, dell’esperienza poetica, è molto lontana dalla pratica della poesia in Sardegna. Il Dio di Franco Loi non abita qui, ciò che da noi passa per spiritualità è l’etica non praticata dei predicatori dal pulpito.

Franco Loi aveva un amore profondo per i sardi, ma prendeva le distanze dal sentimento di appartenenza. La sua esperienza familiare era fatta di incontri e unioni con persone provenienti da ogni parte d’Italia. Sentiva di appartenere a quel popolo che non conosce né barriere né confini, che, oltre le differenze, è umano in ogni parte del mondo. Conosceva e apprezzava alcuni poeti sardi, in particolare Benvenuto Lobina. Ma la poesia sarda era, e forse continua ad essere ancora oggi, lontana dall’impegno totalizzante con cui la intendeva Franco Loi.  Per tanto tempo essa è servita a preservare e a dare dignità a una lingua cacciata dall’uso colto e ridotta alla sola comunicazione pratica quotidiana. Per questo l’hanno usata e continuano ad amarla e ad usarla migliaia di sardi dei ceti popolari che cercano di salvare un briciolo, non di identità, ma di anima e di dignità. Le classi dirigenti sarde hanno invece costantemente scelto la lingua dei dominatori e non quella del popolo sardo. E si può capire, se ci si pone dal punto di vista di chi deve gestire la dipendenza, da destra o da sinistra non c’è differenza. Franco Loi, come tanti grandi poeti neodialettali, da Raffaello Baldini a Andrea Zanzotto, per fare solo due nomi, scelgono lo strumento espressivo dialettale con semplicità e disinvoltura, esprimendo un’individualità poetica totalmente moderna con uno strumento diverso dall’italiano. Ma l’uso del sardo non ha questa neutralità. Sin dai tempi di Giovanni Spano si è dovuto prendere atto che in Sardegna popolare significa “nazionale”, che la lingua si porta dietro non solo la storia, ma anche il futuro di un popolo. C’è stato solo un momento in cui un testo poetico ha espresso la vita dei sardi all’altezza del momento storico che stavano vivendo. Questo testo è l’opera di Francesco Ignazio Mannu, Su patriotu sardu a sos feudatarios. E’ l’inno della rivoluzione sarda del triennio rivoluzionario 1793-96, l’inno di una rivoluzione nobilmente sconfitta. La lingua e la poesia in Sardegna implicano strettamente, come per ogni popolo/nazione, la politica, la società, la cultura. Se si rinuncia ad una prospettiva di “liberazione” la lingua e la poesia, che non possono diventare dialetto di se stesse, sembrano condannate all’estinzione. E con esse, sembra di capire, anche il popolo che le ha praticate per secoli.

 

 

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