IN PRINCIPIO ERA IL VERBO. E …., commento al vangelo di Natale, di Alberto Maggi

E’ il vangelo del giorno di Natale. L’evangelista Giovanni introduce una fede che contrasta con i principi della religione. Il biblista ci offre un formidabile commento.

p. Alberto Maggi OSM

PROLOGO DEL VANGELO DI GIOVANNI

(Gv 1, 1-18)

Assisi, 17-19 Settembre 1993

trasposizione da audioregistrazione non rivista dall’autore a cura di Gallo Luisella e Tonon Marina e Roberto

IL GRUPPOSan Donà di Piave (VE) 2

 

PROLOGO

Gv 1, 1-18

1 In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

2 Egli era in principio presso Dio:

3 tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;

5 la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.

6 Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.

7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.

8 Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.

9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.

10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.

11 Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.

12 A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,

13 i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.

14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

15 Giovanni gli rende testimonianza e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me”.

16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.

17 Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 3

 

18 Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.

Questo non è il brano più difficile di Giovanni, ma di tutti i Vangeli. D’altra parte è un brano stupendo; Agostino e Giovanni Crisostomo, che sono stati grandi commentatori del Vangelo di Giovanni, dicevano che lo scrivere questo prologo andava al di là delle capacità umane. Ed è proprio per il contenuto di questo prologo che Giovanni è stato raffigurato come l’aquila. Vedremo che ogni parola è un concentrato teologico e di esperienza.

Dobbiamo però anche riconoscere che questo prologo non ha avuto una grande fortuna nella fede dei credenti.

Perché?

Già il prologo è difficile, ma alcune traduzioni l’hanno reso ancora più difficile, tanto che per molto tempo è stato appannaggio di certi mistici, che meno capivano il Vangelo più volavano in aria.

Allora il nostro compito, questa mattina, sarà quello di rimanere fedeli al testo del Vangelo: tradurre letteralmente, ma anche in maniera comprensibile.

Questo perché, se noi iniziamo subito con il primo versetto di questo prologo prendendo la traduzione della CEI – quella più comune – leggiamo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Ce n’è abbastanza per chiudere il Vangelo, oppure per passare avanti, perché chi ci capisce qualcosa è veramente bravo. Io, francamente, in una traduzione così proprio non saprei cosa comprendere, non mi dice niente; a meno che uno non abbia un paio di lauree in teologia e in filosofia, o magari una in linguistica e allora qualcosa forse comprende.

Diciamo innanzitutto che questo prologo è un inno all’ottimismo di Dio sull’umanità, un inno dell’amore che Dio ha per noi.

Il più antico commento che abbiamo a questo passo è della stessa scuola di Giovanni; la prima lettera incomincia con le stesse espressioni del teologo e prosegue dicendo: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,4).

Troviamo già qui un particolare: la trasmissione di questo prologo, la trasmissione del Vangelo, la trasmissione dell’esperienza di fede della comunità, non viene effettuata come ci saremmo aspettati. Giovanni non dice: “perché la vostra gioia sia perfetta“, ma dice: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta“; la gioia della comunità dei credenti consiste nel trasmettere questo messaggio, un messaggio che, a sua volta, per chi lo accoglie e chi lo vive, provocherà gioia. C’è già una gioia nella trasmissione di questo messaggio, perché, scrive Giovanni nella prima lettera, “ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi” (1 Gv 1,1-3). 4

Qui vi è una comunità che accresce la propria gioia trasmettendo la propria esperienza; questo in linea con l’insegnamento di Gesù dove “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).

Vediamo subito il primo versetto, che tradotto dalla CEI recita: “In principio era il Verbo“.

Giovanni si riallaccia – vedremo che è un testo molto forte e con venature polemiche – con l’espressione: “In principio” (‘En ¢rcÍ), che è esattamente la prima parola con la quale inizia il primo libro della Bibbia, dove si narra il fatto della creazione e comincia con queste parole: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1).

Ebbene, l’autore di questo Vangelo non è d’accordo con questa teologia e smonta tutto il bagaglio teologico della creazione che si era radicato nei secoli in Israele. Dice Giovanni che in principio, prima ancora che Dio pensasse e creasse il cielo e la terra, c’era qualcos’altro.

Giovanni si mette sulla linea della creazione, che sarà la chiave di lettura per comprendere tutto il suo Vangelo. Giovanni ci presenta qual è la vera creazione per l’uomo, che non è quella che gli autori sacri hanno raccontato nel libro della Genesi: quella è soltanto un’espressione imperfetta della volontà di Dio. La vera creazione che Gesù ci viene a comunicare inizierà e continuerà con queste parole del Vangelo di Giovanni.

Quindi, scrive Giovanni, “In principio” – che vuol dire prima dell’inizio della creazione – esisteva già… e qui usa un termine che veramente non è facile tradurre: in greco è “lógos” (lÒgoj), che ha un’incredibile varietà di significati. La CEI traduce con “verbo“, ed è una traduzione esatta; però, francamente non ci dice niente che “in principio ci fosse il verbo“. Rivolgendosi a persone di cultura normale, cosa si può comprendere con questo termine?

Altri traducono con: “in principio c’era la parola“, però anche in questa espressione manca la ricchezza del significato, perché Giovanni, scegliendo questo termine, ha un’idea molto chiara.

Logos” è un termine che da una parte significa “progetto” e da un’altra, in quanto progetto formulato, significa “parola“.

Vi faccio un esempio banale: se dico “casa“, è una parola che contiene in sé un’idea, un progetto; dicendo “casa” esprimo una parola che in sé possiede già un’immagine.

Giovanni, in questo prologo, dice che fin dall’inizio, prima ancora della creazione del mondo, Dio aveva un progetto. Potremmo tradurre, in maniera molto comprensibile: “Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva un’idea“. L’evangelista ci presenta, anche se così non si può dire perché Dio non ha la testa, un’idea che era fissa nella testa di Dio. Prima ancora della creazione del mondo, Dio aveva un’idea, un progetto.

Ma perché Giovanni ha usato proprio il termine “lógos” per esprimere questo concetto? Perché già con questo inizio demolisce tutta la teologia ebraica della creazione e del valore della creazione. Parleremo spesso del Talmud: che cos’è? Gli ebrei credevano e credono che quando Mosè è andato sul monte Sinai abbia ricevuto due leggi: una è quella che lui ha scritto nelle famose tavole che vanno nei primi libri della Bibbia e un’altra, orale, che consiste nella spiegazione di quella data prima. Questa legge orale si è trasmessa nei secoli e, all’epoca di Gesù o subito 5

 

dopo, viene messa per iscritto e chiamata Talmud. Lo citeremo spesso, perché ha lo stesso valore della Parola di Dio nella Bibbia.

Ebbene, il Talmud, parola di Dio, dice che il mondo fu creato per le dieci parole. Quando a Mosè furono dati i comandamenti (Es 31,18), Jahvè scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza: appunto, le dieci parole (“dieci” in greco si dice: “déca” (dška) e “parole” si dice “lógos” (lÒgoj), da cui deriva: “decalogo“, cioè i dieci comandamenti). La teologia ebraica diceva che tutta la creazione avvenne per i dieci comandamenti: quindi, nell’osservanza dei dieci comandamenti dati da Dio a Mosè si realizza la creazione.

Giovanni non è d’accordo; per questo dice: fin dall’inizio, prima di creare il mondo, prima della creazione, c’era una parola che annulla le altre dieci parole, perché di valore incommensurabile. Un’unica parola al posto delle dieci parole, una parola che si esprime in un unico comandamento.

Questo prologo lo commenteremo, poi, con lo stesso Vangelo di Giovanni e con altri scritti del Nuovo Testamento. Ma vedete già la forza, la potenza, la devastazione che porta in campo teologico, in campo spirituale, tale affermazione. Capite perché hanno assassinato Gesù; Giovanni non fa altro che esprimere quello che è stato il pensiero di Gesù.

I dieci comandamenti, dati da Dio, annullati in un attimo; il mondo non è stato creato in vista dei dieci comandamenti, ma in vista di una parola che si esprime in un unico comandamento!

Ecco allora che Giovanni, al capitolo 13 del suo Vangelo, dirà, mettendole nella bocca di Gesù, queste parole: “Vi do un comandamento nuovo” (Gv 13,34).

In greco ci sono due aggettivi per dire “nuovo“:

 

1. uno (nšoj) che significa: “sopraggiunto nel tempo” – quindi, esemplificando, io ho un abito nuovo, cioè un abito in più –

 

2. e l’altro (kainÒj) che significa: “una qualità che annulla tutto il resto“, un qualcosa di nuovo che è talmente bello che fa scomparire tutto il resto.

 

Ebbene, Giovanni non sceglie il termine greco nšoj “néos“, che usiamo anche noi in italiano con “neo“, per indicare un comandamento in più – ci sono i dieci dati da Mosè e Gesù dà un comandamento nuovo, cioè da aggiungere ai dieci comandamenti.

No! Giovanni – e vedremo in questi incontri come gli evangelisti scelgano attentamente le parole che usano – non usa il termine “aggiunto nel tempo“, ma usa un termine (kainÒj), che significa una qualità talmente eccellente da oscurare tutte le altre.

Gesù dice: “Vi do un comandamento nuovo per la qualità“, e come un’unica parola si oppone alle dieci parole, quest’unico comandamento annulla e cancella tutti e dieci i comandamenti.

Vedete che già la prima scossa che si dà Giovanni è molto forte. E il comandamento di Gesù è un comandamento che fa scandalo nella storia delle religioni, perché il comandamento è quello sul quale si fonda il rapporto religioso. 6

 

Ebbene nel comandamento – nell’unico comandamento, perché non ce ne sono altri nella comunità dei credenti -, nell’unico comandamento che Gesù lascia alla sua comunità, non nomina Dio, fatto assolutamente inspiegabile e raro. Nel comandamento che costituisce una religione, una fede, il posto principale deve essere per Dio. Pensiamo soltanto ai dieci comandamenti; il primo enuncia: “Io sono il Signore Dio tuo“, ecc.

Nell’unico comandamento che Gesù lascia alla sua comunità, Dio non viene nominato!

E questo comandamento lo esprime così: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amate gli uni: come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri“. Non chiede l’amore per Dio, ma chiede un amore da trasmettere e scambiare tra gli uomini, uguale a quello che Lui ci ha dimostrato. E l’amore di Gesù, l’amore che ci dimostra, è un amore che non si lascia condizionare dagli atteggiamenti e dalle risposte dell’uomo. È quello che poi Giovanni chiamerà l’«amore fedele». E in questo unico comandamento Dio non viene nominato.

Nel commento a questo prologo, che Giovanni farà nella prima lettera, lo dice chiaramente: l’amore a Dio può essere un’illusione. Si trovano persone tanto innamorate di Dio, quanto poi incapaci di vivere con i propri amici.

Ricordo sempre un episodio ad un corso di esercizi: si parlava di questo amore a Dio e dell’amore agli uomini. Ci fu una suora che si alzò dicendo: padre, quello che lei sta dicendo è proprio vero. Io amo tanto il Signore che non sopporto più di stare con le mie sorelle! Ecco, ci vuole una particolare propensione all’amore per Dio per non sopportare gli altri.

Allora Gesù esclude, dall’unico comandamento che lascia, l’amore per Dio – perché l’amore per Dio può essere frutto di illusione – e mette invece un amore pratico. “Trasmettete fra di voi un amore uguale a quello che io ho per voi“: questa è l’unica prova che amate Dio. Lo dirà poi Giovanni nella sua prima lettera.

Il primo versetto comincia così: “Fin dall’inizio, prima ancora di creare il mondo, Dio aveva un progetto“. Un progetto che si esprime con un’unica parola ed è il progetto della realizzazione di questo amore, di un amore di una qualità nuova che, venendo da Dio, annienterà tutto ciò che vi era prima. Quest’unico comandamento supererà completamente i vecchi comandamenti. Il comandamento che dice “non uccidere“… ma figuratevi, con questo nuovo comandamento viene superato: Gesù dice di dare la vita per gli altri. Quindi, limitarsi a non togliere la vita degli altri appartiene a un’epoca primitiva della fede. Gesù dice che con questo suo comandamento, non solo non si deve togliere la vita degli altri, ma bisogna dare la nostra vita per gli altri, cioè fare della nostra vita un dono perché gli altri abbiano pienezza di vita. Non più: “non rubare“, ma quello che tu hai, quello che tu sei, mettilo a disposizione degli altri… e così via. Potremo fare il raffronto tra i comandamenti di Mosè e quest’unico comandamento che li separa e quindi li annulla.

La comunità dei credenti, già da questo primo versetto, si vede libera, liberata da questa legge, da queste imposizioni, da queste minacce che poi c’erano: perché se osserviamo questi comandamenti, c’erano delle sanzioni tremende.

In contrapposizione la proposta di Gesù è: accogliete questo mio amore e trasmettetelo gli uni agli altri. E Giovanni sottolinea che questo pensiero era sempre fisso – permettete l’espressione – nella testa di Dio. 7

 

Continua Giovanni: in principio c’era questo progetto, questa parola e l’evangelista sottolinea che “questo progetto si dirigeva a Dio“. Con questa sottolineatura, Giovanni ci vuol far comprendere che questo progetto, che come vedremo sarà di un’ampiezza che ci farà ubriacare di contentezza, era sempre nella testa di Dio, cioè era qualcosa che stava molto a cuore a Dio.

Potremmo tradurre, in maniera colloquiale, che Dio aveva sempre in testa questo pensiero; questo progetto era qualcosa che gli stava a cuore, prima ancora di creare il mondo, il quale è stato creato proprio per la realizzazione di questo progetto.

Ed ecco la rivelazione fantastica che fa Giovanni: “e un Dio era questo progetto“. Viene tradotto normalmente: “e il verbo era Dio“. Potremmo tradurre anche con “la parola era un Dio“, ma è più facile da comprendere: “e un Dio era questo progetto“. Il progetto di Dio sull’umanità, sull’uomo, è qualcosa di incredibile e, purtroppo, credo che la nostra tragedia di credenti sia che non l’abbiamo conosciuto; o se lo abbiamo conosciuto, non lo abbiamo capito.

Giovanni ci presenta un Dio talmente innamorato dell’umanità, che non gli basta aver creato l’uomo in carne e ossa, ma lo vuole innalzare alla sua stessa condizione divina; “un Dio era questo progetto“!

Il progetto di Dio sull’umanità è che l’umanità, quindi l’uomo, raggiunga la pienezza della condizione divina.

Dicevo che Giovanni, con questo prologo, si riallaccia e ricalca il libro della Genesi, ma polemicamente ne prende le distanze.

Nel Genesi viene proclamato il grave castigo inflitto ai nostri progenitori, perché avevano avuto il desiderio di diventare uguali a Dio, ed erano stati colpiti in una maniera tremenda.

Ebbene, Giovanni dice che non è vero, perché questo desiderio di raggiungere la condizione divina è insito nell’uomo; Dio glielo ha messo, perché quando ha creato il mondo lo ha creato perché voleva che l’uomo raggiungesse la sua stessa condizione divina. Ogni ideale che sia al di sotto di questo progetto mutila il progetto di Dio sull’umanità.

E qui si può comprendere quanto sia lontano l’ottimismo di Dio sull’umanità, dal pessimismo che impernia quasi tutta la Sacra Scrittura.

Ci sono dei luoghi molto belli nella Sacra Scrittura dove specialmente i profeti si riallacciano al Dio creatore e sono pieni di ottimismo verso l’umanità, ma ci sono altri testi dovuti alle scuole religiose – e parleremo spesso delle persone religiose, delle persone pie – che esprimono un totale pessimismo di Dio sull’umanità.

Valga per tutti il Salmo 14, che dice così: “Jahvè dal cielo si china sugli uomini per vedere se esista un saggio:” – quindi, l’immagine di Dio che, dal cielo, guarda all’umanità e cerca un saggio – “se c’è uno che cerchi Dio. Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno” (Sal 14,2-3). Ecco il pessimismo della religione nei confronti dell’uomo. Una religione che proietta in Dio i suoi stessi perversi sentimenti. 8

 

Giovanni, invece, prende le distanze: macché pessimismo, Dio è ottimista dell’uomo. Non che Dio non veda è chiaro che Dio vede l’uomo com’è, con i suoi limiti e i suoi difetti -, ma Lui ha un progetto, e nonostante le infedeltà e i tradimenti dell’uomo, questo progetto riuscirà a portarlo a termine.

Qual è il progetto?

Innalzare l’uomo alla sua stessa condizione, concedere all’uomo la condizione divina, infondendogli una vita che essendo quella di Dio sarà indistruttibile e che nemmeno la morte sarà capace di superare.

Questo progetto di Dio, il progetto che Gesù annunziava al suo popolo, da parte dei rappresentanti di Dio, da parte della gerarchia e delle autorità religiose che ne detenevano il potere e che facevano da tramite fra Dio e il popolo per far conoscere allo stesso la volontà di Dio, verrà considerata una bestemmia talmente grave da essere punibile con la morte.

Lo troviamo, almeno in due brani, sempre nel Vangelo di Giovanni; al capitolo 5, dove l’evangelista scrive: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18), e ancora al capitolo 10: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio” (Gv 10,33).

Il progetto di Dio è innalzare l’uomo al suo livello e dargli condizioni divine; per le autorità religiose questo è un crimine che va punito con la morte. Perché? Se Dio vuole innalzare l’uomo al suo stesso livello, i suoi rappresentanti cosa ci stanno a fare? Tutti in cassa integrazione, perdono tutti quanti il posto! Io ti vengo a dire qual è la volontà di Dio, io ti… niente, tutta gente che per Dio non solo diventa inutile, ma addirittura nociva. Perché è Dio stesso che prende l’iniziativa, avvolge nel suo amore ogni uomo dicendogli: “lasciati amare” e grazie a questo amore – e non attraverso l’osservanza delle leggi – lo innalza al suo stesso livello e gli dà la condizione divina. Questo è panico per il potere religioso! Infatti, sempre nel Vangelo di Giovanni, quando si riunisce tutta la gerarchia religiosa dice: “Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e per noi è la fine!” (Gv 11,48). Quindi è bene che la gente rimanga nell’ignoranza: e se c’è qualcuno che annuncia questo messaggio, vada messo a morte! Quindi, quando Dio si manifesta e si presenta nella persona di Gesù, i suoi rappresentanti – la gerarchia religiosa – considera il progetto di Dio una bestemmia che va punita con la morte.

E Giovanni torna ancora sull’argomento per far comprendere quanto sia importante questo progetto: progetto che – ripeto – forse non abbiamo conosciuto. Infatti dice: “Questo fin dal principio era presso Dio“. Vedete che è una ripetizione: perché?

Come dicevamo ieri sera, l’uso dello scrivere era a lettere maiuscole e tutto attaccato – una lettera attaccata all’altra -, e non avevano quegli accorgimenti tipografici che noi abbiamo, come il neretto, la sottolineatura, ecc.

Pertanto, come facevano per sottolineare un concetto importante? Lo facevano ripetendo delle parole. Vedete che Giovanni questo concetto lo ha già detto, ma adesso lo ripete. Lo potremmo vedere stampato in grosso, o sottolineato, per far comprendere quanto sia importante. Questo 9

 

progetto fin dall’inizio si rivolgeva a Dio; quindi Dio fin dall’inizio aveva questo suo progetto. Potremmo chiamarlo “un pensiero fisso di Dio”.

Tutto, a causa di” – o attraverso “questo progetto” – o questa parola – “cominciò ad esistere, e” – notate la ripetizione, la sottolineatura – “senza di questo non cominciò ad esistere cosa alcuna di quel che esiste“. Vedete quanto sia ripetitivo, ma è proprio perché l’evangelista ci vuol far comprendere chiaramente quello che sta dicendo.

L’evangelista, che presenta il fatto della creazione, vuole sottolineare due aspetti.

 

1. Come prima cosa, tutto quello che è stato creato, è stato creato in funzione di questo progetto: Dio la creazione l’ha fatta affinché l’uomo, attraverso essa, raggiungesse la condizione divina. Tutto, sottolinea, tutto è stato fatto per questo.

 

2. E, d’altra parte, non esiste nulla nella creazione che non sia frutto di questa volontà divina. Giovanni riappacifica l’uomo con la creazione. La creazione non è una rivale con cui competere, ma è un’alleata con cui collaborare per realizzare questo progetto. Ci dirà, poi, Paolo che “la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8,19).

 

E soprattutto, Giovanni corregge la concezione del Genesi: non c’è un paradiso irrimediabilmente perduto a cui pensare con nostalgia, ma un paradiso da costruire. Il racconto del Genesi non è un racconto di una realtà – quella del paradiso – irrimediabilmente perduta, ma una profezia di quello che c’è da costruire. Questa è la volontà di Dio, perché tutto è stato creato per realizzare questo progetto.

E visto che la creazione, secondo Giovanni, non è completata, si comprende perché Gesù obietta a questa concezione, quando viene rimproverato per non aver osservato il sabato. Il libro del Genesi diceva: “Dio, nel settimo giorno, portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro” (Gn 2,2). Era fuori discussione che Dio avesse terminato la creazione, detto tutto quello che aveva da dire, fatto tutto quello che doveva fare: e per l’uomo c’era soltanto l’osservanza della legge.

Gesù non è d’accordo: la creazione non è terminata! Perché? Perché l’uomo non ha raggiunto la pienezza della condizione divina. Finché ogni uomo non avrà avuto la possibilità di raggiungere la pienezza della condizione divina – e per far questo ci vuole pienezza di libertà e di serenità -, la creazione non è terminata ed esige la collaborazione di tutti noi. Quindi la creazione non come un rivale, ma un alleato con cui realizzare questo progetto di Dio.

Nella teologia di Giovanni, che poi riprenderà Paolo, questa affermazione della creazione incompleta porta ad un’altra considerazione: fintanto che ogni uomo non avrà la possibilità di diventare figlio di Dio, di raggiungere la condizione divina, Dio stesso è incompleto. I Vangeli, il Nuovo Testamento ci presentano un Dio che non è ancora completo. Lo dirà Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “soltanto quando l’uomo avrà raggiunto la pienezza e ogni uomo avrà risposto a Dio, solo allora Dio sarà tutto in tutti” (cf. 1Cor 15,20-28). Ancora Dio non è tutto. Fintanto che ognuno di noi non risponde a questo invito di Dio, Dio non è completo. Questo perché Dio si chiama Padre, ma un padre, se non ha i figli, non può esercitare la paternità. 10

 

Quindi, vedete di quale responsabilità immensa ci carica l’evangelista: Dio non si è manifestato ancora completamente, non si manifesterà completamente, fintanto che ogni uomo non avrà la possibilità di rispondere al progetto che Egli ci propone. Per questo, nei Vangeli si parla dell’affanno di Dio per il singolo; ricordate la parabola delle cento pecore? Ne manca una e Gesù va in cerca, perché fintanto che tutti quanti non fanno parte di questo gregge d’amore, il pastore non è contento (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7).

Ma con questa affermazione che tutto è stato creato in vista di questo progetto, Giovanni si sbarazza di una categoria che era il pilastro della legge: la discriminazione tra quello che è puro e quello che è impuro.

Gli ebrei ritenevano Dio il puro per eccellenza, per cui soltanto chi stava nella categoria legale e religiosa di purezza poteva avere contatto con lui, mentre per un impuro il contatto con Dio era escluso. Cosa rendeva impuro l’uomo e quindi chiudeva il contatto con Dio? Per esempio, la nascita di una creatura – a seconda del sesso del nascituro, la madre era impura per 33 giorni se partoriva un maschietto e il doppio se partoriva una femminuccia (Lv 12,1-5) -, il cibarsi di alcuni animali – c’è un intero capitolo nel Levitico che descrive tutti gli animali considerati impuri (Lv 11) -, tutto quello che concerne la vita sessuale – ogni rapporto sessuale rendeva impuri -, alcune infermità e la morte. Quindi una creazione minata, una creazione dove bisognava muoversi con cautela, perché bastava toccare una lucertola per essere impuro, o bastava fare un determinato gesto e il rapporto con Dio era limitato.

Dicevo proprio qui ad Assisi, in un convegno, che questa creazione è schizofrenica. Avete mai letto il libro del Genesi? Questo libro non è l’opera di un solo autore che l’ha cominciato e scritto fino alla fine: è opera di diversi autori, in epoche diverse e con diverse concezioni di Dio.

 

 Da una parte troviamo il Dio della creazione, che è il Dio al quale si riallacciano i profeti e Gesù, che si entusiasma a tutto quello che crea dicendo che è bello e meraviglioso;

 

 poi dall’altra troviamo un Dio legislatore che, appena creato quello che è bello, ci pianta dei cartelli: è vietato, è proibito, non si può, è peccato. Un Dio che – lo dico come battuta – metterebbe le mutande anche ai cammelli; un Dio sessuofobico che ha paura di tutto quello che riguarda la vita e le sue espressioni. Quindi, una creazione nella quale muoversi con cautela, perché è terreno minato e tutto quello che riguarda la sfera del bello e del piacere è visto con sospetto, perché rischia di essere peccaminoso.

 

Gesù si sbarazza di tutto questo. Gesù arriva a dire nei Vangeli: tutto questo è falso! Vi rendete conto che Gesù sta dicendo che quello che veniva presentato nella Bibbia come parola di Dio, era falso! Capite perché lo hanno ammazzato?

Troviamo, nel Vangelo di Marco, al capitolo 7, Gesù che parla dei cibi (Mc 7,14-23) e dice: si può mangiare tutto. Ma come: lo dice la Bibbia, la parola di Dio, che non si può mangiare questo, che non si può mangiare quell’altro…

Gesù dice che non è quello che entra dentro, quello che mangiamo, che determina il rapporto con Dio, ma è quello che dal di dentro esce fuori. È il comportamento verso gli altri che ci può mantenere nella categoria del puro, in piena comunione con Dio, oppure interrompere tale comunione se è un cattivo comportamento. Gesù, poi, commenterà che è l’ingiustizia, cioè il togliere la vita agli altri, che impedisce il rapporto con Dio: certo non è quello che mangi o non 11

 

mangi. E scrive l’evangelista: “Dichiarava così mondi tutti gli alimenti“. Guardate che è una bomba! La parola di Dio, nel libro del Levitico, ha interi capitoli per indicare tutto quello che è puro o impuro. Gesù dice: è una falsità, per Dio non c’è nulla di puro od impuro che dall’esterno possa contaminare l’uomo, ma sono gli atteggiamenti che dall’interno, nei confronti degli altri, possono interrompere il rapporto con Dio

Allora la conseguenza, valida anche per noi oggi, è che Gesù non accetta che in nome di Dio si possano discriminare le persone. Abbiamo parlato prima dei vari aspetti della vita, della vita sessuale, dell’infermità, e di tutte le persone che venivano ritenute escluse da Dio: o perché avevano la lebbra – che veniva considerata una punizione di Dio – o per una vita che veniva considerata immorale. Gesù dice di no!

Non possiamo permetterci di discriminare nessuna persona. Dio è amore e il suo amore si rivolge a tutti quanti, indipendentemente dalle loro condizioni e dai loro atteggiamenti.

Sarà l’individuo a mantenere questo rapporto e questa comunione con Dio in base alla propria qualità d’amore nei confronti degli altri. Quindi la purezza non risiede all’esterno, non consiste nell’osservanza di una regola, di un precetto, ma viene dall’interno e dall’atteggiamento nei confronti con gli altri. Soprattutto, Gesù ci rappacifica con la creazione: tutto quello che è stato creato, è stato fatto in vista del fatto che ogni uomo raggiunga la pienezza della condizione divina.

E, continua Giovanni, “questo progetto conteneva la vita“. È la prima volta che nel Vangelo di Giovanni appare questo termine “vita“, un termine (zw») che, al confronto con gli altri evangelisti, Giovanni userà molte volte; pensate, lo troviamo 37 volte, contro le 7 di Matteo, le 5 di Luca e soltanto una volta in Marco.

Tutta la creazione è stata fatta in vista di un progetto che contiene vita; quello che viene da Dio produce vita. Chi ha vita e chi è nella vita è in comunione con Dio; chi non ha vita – attenzione, ci avvisa l’evangelista! – non è in comunione con Dio.

Ecco perché nel Vangelo ci sono espressioni molto pesanti, specialmente riguardo alle persone molto pie, molto religiose, quelle che credono di arrivare all’armonia con Dio mortificando l’espressione della propria vita. Questo progetto di Dio sull’umanità contiene la vita e chi lo accoglie ha una vita che deve essere esuberante, che deve trasformarsi.

Per quelle persone che in nome di una sbagliata visione di Dio reprimono la propria vita, Gesù userà delle parole tremende: attenti che sono pericolosi da incontrare, perché apparentemente sembrano dei santoni, sembrano delle persone molto mistiche, ma sono invece come “quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo” (Lc 11,44), o come “sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Mt 23,27). Si vede se una persona è in comunione con Dio, se ha una vita talmente esuberante da poterla trasmettere agli altri. Le persone che credono di raggiungere la comunione con Dio mortificando la propria vita, la propria affettività – dice Gesù – sembrano belle da vedersi, sembrano dei santi, dei mistici, ma si deve stare attenti, ci si deve tenere lontani, perché il frequentarli significa infettarsi; perché, essendo dentro di loro pieni morte e non avendo vita, comunicano soltanto morte. Quindi, questo progetto di Dio contiene vita: tutto quello che ha vita viene da Dio, tutto quello che non ha vita e non è vita, non proviene da Dio. 12

 

E l’evangelista aggiunge: “e la vita” – o questa vita – “era la luce dell’uomo“.

Anche qui, Giovanni dà un colpo alla teologia ebraica; nella teologia ebraica si diceva tutto il contrario, si diceva che la luce era la vita dell’uomo e per luce (fîj) si intendeva, particolarmente, la legge. Conoscete tutti quei Salmi, ad esempio il 119 che dice: “Lampada per i miei passi è la tua parola…” (Sal 119,105). Cosa si pensava? C’è una legge e l’osservanza di questa legge illumina la vita.

Ebbene, Giovanni, che esprime il pensiero di Gesù nella comunità dei cristiani, sbarazza tutto questo. Non è una legge esterna all’uomo quella che ti guida nella vita, ma è la vita che è luce per i tuoi passi. Ripeto, la teologia ebraica diceva “la luce è la vita degli uomini“, Giovanni scrive “la vita è la luce dell’uomo“. È il rispondere a quel desiderio di pienezza che ogni uomo porta dentro di sé, è lo sviluppare e sprigionare quella pienezza di vita, che ti illumina e ti fa capire come camminare. Nessuna regola esterna all’uomo, se non questo desiderio di pienezza di vita, che poi si tradurrà in un dono d’amore, come vedremo più tardi.

Ma comprendiamo che Giovanni, e quindi Gesù, si allontanano anni luce da quel pessimismo che la cultura ebraica e – soprattutto – greca avevano inculcato nelle persone. Il pessimismo dell’uomo, l’uomo che veniva considerato come una prigione, nella quale l’anima veniva soffocata; e allora bisognava reprimere la propria vita, mortificare la propria vita, per poter sviluppare il proprio spirito. Questa era tutta la filosofia greca, che aveva infettato anche la religione ebraica. Quindi, dicevano che la vita dell’uomo era piena di male, che la vita nell’uomo andava repressa, che ogni forma di vitalità andava schiacciata, andava mortificata, perché lo spirito potesse liberarsi.

Qui Giovanni sta dicendo qualcosa che è veramente un terremoto: macché, è la vita dell’uomo quello che lo guida. Ma come, la vita non è negativa, l’uomo non deve mortificarsi? No, no! Il verbo “mortificare“, fare morte, non lo troverete mai nei Vangeli, né in tutto il Nuovo Testamento. Gesù ci inviterà più volte – Paolo lo dirà – a “vivificare” quello che abbiamo: siamo già talmente morti che non abbiamo bisogno di mortificarci di più. L’unica volta che troviamo il verbo “mortificare” (nekrÒw), è nella lettera di Paolo ai Colossesi, dove dice: “mortificate” – cioè fate morire, e non c’è nessuna espressione vitale – “dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria” (Col 3,5). Cioè dice di uccidere tutto quello che provoca ingiustizia nei confronti degli altri. Ma quelle che sono espressioni della vita, quelle non vanno mortificate, ma vanno vivificate; se non c’è questo, non c’è la luce.

Quindi è chiaro: non una legge esterna all’uomo che gli faccia da guida, ma è la sua stessa vita a guidarlo. E la vita di ogni uomo è differente, e per questo non ci può essere una legge valida per tutti: ma l’impulso che Dio, con la creazione, ha messo in ognuno di noi è quello di un’aspirazione ad una pienezza di vita. Perciò è rispondendo e sintonizzandosi con questo desiderio di pienezza di vita, che l’uomo vede qual è la sua strada, che sarà una strada differente per ognuno. È l’inno all’ottimismo di Dio sull’umanità: non un Dio pessimista, ma un Dio talmente ottimista e contento della sua creazione che non dice all’uomo: “adesso ti do una serie di leggi e se non cammini dentro a queste, attento a te!”, ma dice all’uomo: “rispondi al desiderio di pienezza che hai dentro di te e quello ti farà comprendere qual è il cammino verso la luce”.

Dicevamo prima che, quando Gesù proclamava queste cose, prima l’hanno giudicato pazzo, poi eretico e poi bestemmiatore, perché con Gesù non è più la legge a guidare i passi dell’uomo. 13

 

Questo, per loro, era un’assurdità. Il Talmud diceva che la legge è talmente importante che vi sta scritto: le tre prime ore del giorno Dio le consacra allo studio della legge. Quindi lo studio e l’osservanza. La legge data da Dio era talmente importante che gli ebrei pensavano che le prime tre ore del giorno venissero passate da Dio stesso ad osservare e studiare la legge. Si domandavano: se Dio stesso osserva la legge che ci ha dato, chi può essere quel pazzo, quel demonio che dice che questa legge non serve più?

Gesù diceva che non solo non serve più, ma che osservarla non ti dà la comunione con Dio, ma addirittura te la impedisce. Comprendiamo, quindi, perché c’è stato questo conflitto che nel Vangelo di Giovanni esploderà nella guarigione del cieco nato (Gv 9,1-41).

Nella guarigione del cieco nato, Giovanni ci presenta il conflitto tra queste due teologie:

 

1. una, quella dell’osservanza della legge,

 

2. e l’altra – quella proposta da Gesù – del bene dell’uomo.

 

Cosa è più importante: la teologia o l’esperienza dell’uomo? Perché non sempre i due aspetti coincidono. Può darsi che la mia esperienza vitale per me sia buona; vivo una situazione che mi ha dato e mi dà serenità, una situazione che mi permette di amare gli altri e che mi rende felice, ma può darsi che questa situazione, per la teologia o per la morale, non solo non sia buona, ma sia addirittura peccaminosa, e allora la devo reprimere, la devo soffocare.

Nel passo della guarigione del cieco nato c’è proprio il conflitto tra l’esperienza dell’uomo e il valore della teologia. Qual è stato questo conflitto? Gesù ha curato questo cieco nato, ma per curarlo ha trasgredito il sabato. Trasgredire il sabato non vuol dire soltanto trasgredire un comandamento. Gli ebrei, che amavano questa casistica, si chiedevano: quale comandamento è il più importante? Erano giunti a questa conclusione: il comandamento più importante è quello che Dio stesso osserva. Quale comandamento anche Dio osserva? Il riposo del sabato. Per cui, trasgredire il sabato equivaleva a trasgredire tutta la legge.

Gesù dona la vista all’uomo cieco, trasgredendo la legge. Allora, le autorità religiose vanno dal cieco e gli dicono: “Questo è male; per te era meglio rimanere cieco, piuttosto che essere guarito da un uomo che è in peccato“. Il cieco risponde: “delle questioni teologiche non ci capisco niente, io so che prima non ci vedevo e adesso ci vedo, e per me è bene“. E le autorità si arrabbiano, arrivano, addirittura, a scomunicarlo: “Tu ti permetti di contraddire noi? Noi ti diciamo in base alla nostra teologia che per te aver recuperato la vista è un male e tu dici che è un bene?” Lo cacciarono fuori, lo scomunicarono.

Ecco allora, il conflitto: cos’è più importante, l’esperienza dell’uomo, o la teologia, la morale che la religione ci insegna? Gesù non ci pensa due volte: prende parte al bene dell’uomo! La morale, nel mondo ebraico, era dominata dall’adesione o no alla legge. Cos’è il bene? Il bene è l’osservanza della legge. Cos’è il male, cos’è il peccato? La trasgressione della legge. Gesù elimina la legge e ci mette l’uomo. Cos’è bene e male? Tutto quello che concorre al bene dell’uomo è buono, tutto quello che gli fa del male, è male. Quindi fra il valore della teologia – una teologia che veniva insegnata in nome di Dio – e il valore del bene dell’uomo, Gesù prende una chiara posizione. E comprendiamo quindi perché lo hanno assassinato. 14

 

Sottolineavamo prima che per Giovanni, che esprime il pensiero di Gesù, non c’è nessuna legge esterna all’uomo che possa guidarne i passi, nemmeno se questa legge è data da Dio. È la vita stessa dell’uomo a condurne i passi, cioè la risposta dell’uomo a quel desiderio di pienezza che ha.

Come abbiamo visto, Dio, prima ancora di creare il mondo, aveva il progetto di far sì che l’uomo raggiungesse la condizione divina; condizione divina che si raggiunge esclusivamente mettendo nella nostra vita una qualità d’amore che, progressivamente, assomigli sempre più all’amore di Dio. E non solo non è la legge dell’Antico Testamento quella che guida i passi del credente – bensì è la vita che illumina -, ma, secondo il Vangelo, nemmeno l’insegnamento di Gesù deve guidare i passi del credente.

Cosa significa questo? Il credente deve sì conoscere Gesù e assimilare il suo messaggio, ma poi deve farlo proprio e comportarsi in una determinata maniera non perché lo ha detto Gesù, ma perché lo sente come un bisogno del proprio io. Il credente, se deve perdonare, non lo fa perché lo dice Gesù. Se si arriva a questi estremi, significa che il messaggio di Gesù non lo abbiamo fatto nostro e abbiamo ancora bisogno di un codice di comportamento esterno che determini le nostre azioni. Non si perdonano gli altri perché Gesù ha detto che bisogna perdonare, ma perché la capacità d’amore che si sente sarà sempre più grande della capacità degli altri di farci del male. Quindi, neanche l’insegnamento di Gesù guida i nostri passi, se non l’abbiamo assimilato e fatto nostro. Non si ama perché Gesù ci dice di fare così, perché altrimenti, se non lo avesse detto, come ci si comporterebbe? Non si condivide quello che si ha perché Gesù ci ha detto di comportarci in questo modo, ma lo si fa perché è un bisogno che si sente dal più intimo di noi stessi, che ci fa realizzare e che ci fa sviluppare amando così.

L’obiezione che veniva da alcuni, durante l’intervallo, riguarda quel benedetto passo di Matteo, dopo le beatitudini, dove si dice: “Non sono venuto ad abolire…” (Mt 5,17). Non c’entra con il nostro discorso, ma facciamo una parentesi per tranquillizzare le persone.

Al capitolo 5 di Matteo, Gesù proclama le beatitudini, cioè il “codice di appartenenza” al regno. Ed è una grande delusione per un popolo che era stato abituato da secoli all’idea di diventare dominatore di tutte le altre nazioni – il regno di Dio voleva dire questo -. Lo stesso Isaia diceva: “quando verrà il regno di Dio, i pagani saranno i nostri servi, i principi pagani ci coltiveranno la terra” (cfr. Is 60,1-22): era l’idea di Israele padrone del mondo. Figuratevi Gesù che inizia a dire: “Il regno di Dio? Beati i poveri, cioè quelli che volontariamente scelgono di non arricchire, per poter condividere con gli altri“. Gesù capovolge completamente il concetto.

E, alla delusione che porta questo messaggio, Gesù dice: “Non pensate che io sia venuto a demolire la Legge o i Profeti“. Il verbo che usa Gesù – katalÚw “demolire” – non significa annullare una legge, ma è un termine che si usa in greco per indicare la demolizione di una costruzione.

Quindi, Gesù non sta dicendo che non è venuto ad abolire la legge, perché infatti l’ha abolita, e più avanti lo dirà. Gesù vuole dire che non è venuto ad abolire quella costruzione rappresentata dalla promessa del regno di Dio, che si legge fin dalle prime pagine della Bibbia – Legge e Profeti 15

 

del mondo ebraico significano Bibbia, Antico Testamento -: anzi, è venuto a realizzarla alla perfezione.

Nemmeno una virgola sarà cancellata, ma di che cosa? Della promessa del regno di Dio, non dell’osservanza delle leggi.

Gesù non è venuto ad abolire la promessa del regno di Dio, anzi è venuto a portarla a compimento; però il regno di Dio non verrà dominando il mondo, ma mettendoci a servizio degli altri. Gesù, poi, comincerà a demolire la legge: “Vi hanno insegnato così, ma io vi dico…” (Mt 5,20-47).

Abbiamo visto prima che il giudizio che le autorità religiose formulano deve essere sempre motivo portante delle esperienze dell’uomo, mentre per Gesù è il contrario. È la vita dell’uomo, la sua esperienza con tutto quello che di bene riesce a fare per sé e per gli altri, che lo guida.

Continua Giovanni: “questa luce brilla nelle tenebre“. La luce è una metafora con la quale si indica il gruppo dei credenti che hanno accolto questo messaggio d’amore. L’attività della luce è di splendere, non di lottare.

E anche qui Giovanni prende la distanza da gruppi fanatici della sua epoca, che si chiamavano “figli della luce” e pensavano di dover essere continuamente in lotta contro i figli delle tenebre. Vediamo il desiderio, presente nel fanatismo religioso, di crociate contro gli altri e di imporre il proprio punto di vista.

Gesù ci libera da questa preoccupazione, che non deve essere della comunità dei cristiani. Il gruppo dei credenti non lotta, non impone il proprio messaggio. “La luce brilla nelle tenebre“; il compito della luce è di brillare. Allora, la comunità dei credenti che ha accolto questo messaggio di Gesù, nel viverlo emana la luce. Man mano che questa luce-vita si spande, ecco che le tenebre si allontanano. Quindi nessuna lotta, nessuna crociata, nessun antagonismo contro chi non la pensa come noi o non è della nostra idea. Io, quello che credo lo vivo! Nella misura in cui quello che vivo è autentico, brillerà questa luce dell’amore e farà sì che le tenebre si allontanino.

Nel Vangelo di Giovanni, l’autore identificherà queste tenebre con i dirigenti religiosi. E anche questo è tragico: quelli che dovevano essere il tramite per vivere questa luce in realtà, avendo assolutizzato una legge che Dio aveva dato come mezzo per poi arrivare alla pienezza, erano diventati agenti delle tenebre.

E scrive ancora Giovanni: “ma queste tenebre non l’hanno estinta“. Giovanni scrive in un momento in cui erano già cominciate le persecuzioni per la comunità dei credenti, e già si legge questa espressione di Gesù: “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33). Giovanni rassicura la comunità dei credenti: le tenebre non l’hanno estinta. C’è una potenza nelle tenebre e purtroppo nel Vangelo di Giovanni è rappresentata proprio dall’istituzione religiosa, che tenterà di soffocare questa luce ma – ci assicura Giovanni – non ci riuscirà.

La luce, lo splendore della luce sarà sempre più forte delle tenebre. Perché? Perché la luce è andare incontro a quello che è l’anelito normale dell’individuo e ogni individuo, anche se è stato represso, anche se è stato soffocato, ha sempre all’interno di sé questo desiderio di pienezza di vita, che neanche la religione è riuscita a soffocare. 16

 

Nella mia attività di portare questo messaggio, girando un po’ dovunque, la cosa bella che viene fuori, specialmente dalle persone anziane, è questa: dicono “Ma sa che quello che lei sta dicendo io l’avevo sempre pensato, l’avevo sempre tenuto dentro di me, represso, perché avevo paura che il prete pensasse che ero matto, che ero eretico?“. Il desiderio di autenticità e di pienezza di vita c’è in ogni uomo, anche se le tenebre hanno tentato di soffocarlo e di frustrarlo. Ora lo vedremo, è Giovanni che ce lo propone: appena c’è questa nota positiva che viene dall’amore di Dio, c’è subito la risposta dell’uomo. Questo è il dato positivo. La luce è più forte delle tenebre, perché aderire alle tenebre significa andare contro il proprio progetto creatore e frustrare la propria esistenza.

Continua il Vangelo: “Apparve un uomo inviato da Dio e il suo nome era Giovanni“. Caliamoci nell’ambiente culturale dell’epoca: appare un inviato da Dio. Chi? Un inviato da Dio deve essere senz’altro un sommo sacerdote, un santo: niente di tutto questo! La laicità è la caratteristica dei Vangeli.

Non esiste nei Vangeli un profeta, un inviato da Dio, che appartenga alla gerarchia religiosa. Dio, quando deve intervenire nell’umanità, evita accuratamente luoghi sacri e persone religiose. L’unica volta che ci prova è un fiasco completo: ci ha provato con il sacerdote Zaccaria e questi non gli ha creduto. Dio evita accuratamente queste categorie di persone e sceglie gente qualunque.

C’è a questo proposito nel Vangelo di Luca, al capitolo 3 – Luca è tremendo, è l’evangelista caustico – un passo che dice: “Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa…” (il sommo sacerdote era Caifa: Luca mette anche Anna perché gli interessa raggiungere il numero sette, che nel mondo e nella mentalità ebraica, significa la totalità).

Luca intende presentare, con questo elenco, la totalità del potere e crea suspence. Incomincia dall’imperatore, arriva al sacerdote e la parola del Signore si diresse… e qui c’è l’aspettativa da parte della gente. Si pensava che, essendo Dio potente, parlasse soltanto attraverso i potenti: l’imperatore – che veniva considerato il figlio di Dio – o il sommo sacerdote, il suo diretto rappresentante, quindi uno tra questi. Luca crea questa aspettativa: a chi si rivolgerà la parola di Dio?

La parola di Dio” – scrive Luca – “scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,1-2). Dopo aver presentato i grandi della terra, con una virata fenomenale, Luca dice che la parola di Dio, quando si rivolge, sceglie una persona normale, perché più si è integrati a strutture religiose, più la nostra vita è impastata di religione e più questo, anziché facilitare, diventa ostacolo che impedisce l’ascolto della parola di Dio.

Quindi, la parola di Dio è stata inviata a un uomo di nome Giovanni (Giovanni in ebraico significa “misericordia di Dio“) e “costui venne per essere testimone, per testimoniare riguardo alla luce“. Il compito di Giovanni era di risvegliare questo anelito di vita, che in ogni uomo è presente e che nemmeno la religione è riuscita a reprimere. Questo è il compito di Giovanni; non è quello di essere la luce, ma di risvegliare questo desiderio di pienezza di vita. 17

 

Affinché tutti, per mezzo suo, giungessero a credere“. Questo risveglio della vita è rivolto a tutti quanti, non più a un popolo, non più a una religione, non più a determinate categorie di persone religiose o no. Questo invito è rivolto a tutti, perché la tenebra – che nel mondo giudaico è rappresentata dall’istituzione religiosa e nel mondo pagano è rappresentata dai poteri che impediscono all’uomo la libertà – ha coperto tutta l’umanità. Perciò: “affinché tutti, attraverso questo desiderio di pienezza di vita, giungessero a credere“.

Ma, sottolinea Giovanni – lo farà tante volte -, “non era lui la luce, ma egli venne per essere della luce“. Perché l’evangelista sottolinea che Giovanni il Battista non era la luce? Perché Giovanni, al suo apparire, venne accolto come il Messia, ed ancora due secoli dopo la morte di Gesù esistevano discepoli di Giovanni. Gesù era stato una grande delusione come Messia; il popolo ebraico aveva tutta un’aspettativa del Messia che veniva meglio incarnata da Giovanni, quest’uomo del deserto, che dava quel messaggio così forte, rude. Quando Gesù si è presentato, era talmente normale, talmente anonimo, che è stata una grande delusione per parecchi. Due secoli dopo la morte di Gesù c’erano ancora discepoli di Giovanni che credevano che fosse lui il Messia e non Gesù.

Questo perché Gesù era una persona comune, vestiva come una persona comune, mangiava, beveva, si comportava normalmente; non aveva nessuno di quegli aspetti che contraddistinguevano, secondo la loro mentalità, un uomo di Dio. Un uomo di Dio si doveva riconoscere dalla sua vita ascetica; Gesù vita ascetica non ne ha fatta, anzi andava pure a pranzo nei giorni di digiuno. Un uomo di Dio si doveva vedere dalla profonda vita di preghiera; stando ai Vangeli, i momenti in cui Gesù ha pregato sono appena tre. Quindi, Gesù rivoluziona il concetto di “uomo di Dio“.

Lui, che era l’«uomo di Dio» per eccellenza, lo manifesta non attraverso atteggiamenti esteriori di ascetismo o di spiritualismo, ma trasmettendo una qualità d’amore che assomiglia a quella di Dio.

Purtroppo questo amore non è stato accolto da tutti. Sottolinea ancora Giovanni che “era questa luce, quella vera. E assicurando che questa luce, questo anelito di pienezza di vita che permette la comunione di Dio, è proprio quella vera, Giovanni ci sta mettendo in guardia contro le false luci che pretendono di assicurarci la comunione con Dio.

Giovanni nel suo Vangelo – e poi nelle sue lettere – assicura che la piena comunione con Dio avviene soltanto attraverso la somiglianza del suo amore. Giovanni, come gli altri evangelisti, toglierà la vecchia categoria del credente, visto come l’obbediente a Dio, per inaugurare quello della somiglianza a Dio.

Nel mondo ebraico, chi era credente? Colui che obbediva a Dio, osservandone la legge; quindi il perfetto credente era il perfetto osservante della legge.

Con Gesù, chi è l’immagine del perfetto credente? Non colui che obbedisce a Dio osservandone le leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al Suo.

Ecco perché Gesù, in un esempio scandaloso, contrappone queste due qualità di credente: al sacerdote e al levita, perfetti osservanti della legge, nell’episodio del Samaritano contrappone l’eretico samaritano (Lc 10,29-37). Chi è che assomiglia a Dio? Non l’osservante della legge, il sacerdote, ma l’eretico perché gli assomiglia nella qualità d’amore. Chi è il credente? Il credente 18

 

non si vede dalla frequenza ai riti, dalla maniera di frequentare luoghi e persone sacre, dall’osservanza di regole e di precetti, ma l’unico criterio per giudicarlo è vedere se ha una qualità d’amore simile a Dio. Il paradosso dei Vangeli è che come esempio di credente viene messo un eretico. E questo è valido tutt’oggi! Può darsi che qualche persona che noi giudichiamo miscredente, immorale, eretica, sia invece, per la qualità d’amore che possiede, il vero credente.

Allora scrive l’evangelista che questa luce è quella vera. Ma quali sono le false? Le false luci sono quelle che pretendono, inutilmente, di assicurare la piena comunione con Dio. Piena comunione con Dio che, nella religione ebraica, veniva assicurata con i riti.

Abbiamo detto prima che nell’Antico Testamento ci sono due linee che si contrappongono:

 

1. quella del Dio creatore, alla quale si riallacciano i profeti e Gesù,

 

2. e quella del Dio legislatore.

 

Il Dio creatore così parla per bocca del profeta Isaia, al capitolo 1 (questo è il brano più anticlericale che possa esistere, e essendo l’autore Dio stesso, sembra che il primo grosso anticlericale sia il Padreterno): “«Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?» dice il Signore. «Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco»“. È ancora presente, nel nostro sistema, l’idea di offrire a Dio qualcosa; Dio dice: Che mi offri? Io non so cosa farmene, sono io che ti do“. Ascoltate il Padreterno: “Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli”. Che bello, il Padreterno che non sopporta le celebrazioni religiose: ma è bellissimo questo testo! È il Padreterno che parla e dice: le vostre celebrazioni io non le reggo proprio! “Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,11-17). È questa la religione che Dio chiede!

E diamo la parola ad un pentito, ad un fanatico religioso, Saulo di Tarso, Paolo, che afferma che nessuno lo batteva nell’osservanza della legge; diceva lui stesso che un religioso perfetto come lui non esisteva.

Eppure, lo stesso Paolo nella lettera ai Filippesi: Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come merda” (Fil 3,8). Potete controllare le varie traduzioni e vedrete che c’è sempre un po’ di pudore, da parte dei traduttori, per talune espressioni forti usate dagli autori; traducono, infatti, con “sterco“, “spazzatura“, mentre l’immagine di Paolo è molto più concreta (skÚbala). Paolo, il pentito di questi atteggiamenti, scrive ancora: “Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno v’impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli, seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio“. Questo è Paolo! E termina così: “Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel 19

 

mondo, dei precetti quali «Non prendere, non gustare, non toccare»? Tutte cose destinate a scomparire con l’uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne” (Col 2,16-23).

Lo dice Paolo, che queste cose le ha vissute: tutta l’osservanza religiosa, l’idea di raggiungere Dio attraverso preghiere, sacrifici, riti e offerte, non solo è inutile, ma è dannosa, perché serve soltanto a nutrire la vostra superbia. Questo perché ci fa sentire a posto con Dio, quando invece non lo siamo per niente.

Giovanni ci sprona a vedere la “luce vera“; attenzione alle false luci, a quelli che pretendono di assicurarsi la comunione con Dio. L’unico atteggiamento che ci assicura la comunione con Dio è un amore che assomigli al suo. Un amore, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, che non si lascia condizionare dalle risposte dell’uomo.

Continua Giovanni: “quella che giungendo al mondo, illumina ogni uomo“. Questa luce continuamente si effonde nel mondo – Dio non ha mai smesso – e raggiunge ogni uomo. E qui ci fa capire quanto sia stato vasto il potere dell’ideologia religiosa o dell’ideologia del potere che ha inquinato tutto quanto. Ma Dio non si stanca: la luce, quella vera, continuamente scende e illumina ogni uomo.

Stava nel mondo, e nonostante il mondo esistesse grazie ad essa, il mondo non lo riconobbe. È una denuncia tragica!

Quando Giovanni usa il termine “mondo” (kÒsmoj), non intende il creato, ma intende sempre il sistema religioso, o politico, o civile, sul quale si regge la società. Potremmo tradurre in maniera più comprensibile: questa luce si è proposta, è venuta, ma il sistema non l’ha riconosciuta. Quanti aderiscono al potere, quanti aderiscono all’ideologia religiosa, sono incapaci di accogliere questa luce quando viene.

Gesù, in altri Vangeli, lo dirà con immagini diverse; per esempio con i semi gettati nella strada, cioè una cosa inutile (Lc 8,4-15). Il tema della mancata conoscenza di Gesù da parte delle autorità religiose, sarà una costante nel Vangelo di Giovanni. Scriverà più volte Giovanni in vari brani: “in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete” (Gv 1,26), “chi mi ha mandato voi non lo conoscete” (Gv 7,28), “voi non sapete da dove vengo o dove vado” (Gv 8,14), “voi non conoscete né me né il Padre” (Gv 8,19), “non conoscono colui che mi ha mandato” (Gv 15,21). Questa mancata di conoscenza di Dio determinerà la tragedia del popolo: la gerarchia religiosa pretendeva di far conoscere la volontà di Dio al popolo, ma in realtà non lo conosceva. Che cosa poteva proporre alla gente? Ancora un monito: attenzione, perché, se siamo immersi in strutture religiose molto forti, queste ci possono impedire di accogliere il messaggio, la luce di Dio, che continuamente viene.

Continua ancora Giovanni: “Venne tra i suoi, ma i suoi non lo accolsero“. È tragico questo fatto! Dio si era preparato il suo popolo; quando finalmente si manifesta, proprio in nome di Dio e in nome della legge, i suoi non lo accolgono. 20

 

Il Vangelo di Giovanni è radicale; il verbo “accogliere“, “prendere” (paralamb£nw), in questa determinata forma grammaticale (3° pl., aoristo 2 attivo: paršlabon), lo usa soltanto due volte nel Vangelo:

 

1. qui (Gv, 1 11)

 

2. e al momento della crocifissione (“essi allora presero Gesù“, Gv 19,16).

 

Cosa vuol indicare? Chi non accoglie Gesù come fonte di vita, poi lo accoglierà per dargli la morte! I Vangeli sono estremamente radicali: o con Gesù, o contro Gesù. Cioè, o con l’uomo e a favore dell’uomo, o contro l’uomo. La via di mezzo, nei Vangeli, non è conosciuta.

Sempre la scuola giovannea, nel libro dell’Apocalisse, parlando alla comunità scrive: conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). La via di mezzo, quella che per molti cristiani sembra la migliore, non fa parte della proposta di Gesù. Tante volte, ci sono persone che si presentano dicendo: non sono né un santo né un peccatore, una via di mezzo. Ecco la risposta di Giovanni nell’Apocalisse, da parte di Gesù: “e io ti vomito“. Meglio peccatore che tiepido; perché un peccatore, una volta che viene raggiunto da questo amore di Dio, è capace di tirare fuori qualche cosa di straordinario, di buono, ma da quelli che sono nati tiepidi, che non hanno fatto mai qualche grosso peccato, quelli che si sono sempre tenuti nel mezzo, per Gesù sono inutili. O santi o peccatori! Dice Gesù: “la via di mezzo la vomito“.

Ma il monito che l’evangelista ci dà è che continuamente nel mondo esiste il rischio che, quando Gesù si presenta, non venga riconosciuto. Questa è la nostra tragedia, come Chiesa! Perché Dio è colui che continuamente viene a viene sempre in una forma nuova. La tragedia di noi cristiani è di non riconoscerlo mai. È chiaro che non viene come un’apparizione: Dio si manifesta attraverso delle persone, le persone che ci parlano di Lui, le persone che si comportano in piena sintonia con Lui.

Ebbene – e questo è il monito tremendo che l’evangelista ci fa – noi non riusciamo mai a capirlo, ad accoglierlo; anzi facciamo il contrario. Diciamo che come Chiesa, il santo, il profeta, l’inviato da Dio, abbiamo un fiuto infallibile per riconoscerlo in mezzo a tanti! Appena fanno un santo, lo individuiamo subito per massacrarlo! Non ce n’è sfuggito uno; è tremendo questo. Non ce n’è sfuggito uno! Non c’è un santo, un inviato da Dio, un profeta, che non sia stato massacrato. E per massacrare ci sono diversi modi! Poi, passato del tempo, diciamo: veramente era un santo. Come dirà Gesù: “prima li ammazzate e poi fate loro dei monumenti” (cfr. Mt 23,29-32). Ecco il lamento di Gesù, nel Vangelo di Matteo: “Io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città” (Mt 23,34). E termina: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati (…)” (Mt 23,37).

Cos’è questa accusa di Gesù, che non è rivolta tanto al mondo ebraico dell’epoca, ma viene riportata dall’evangelista come un monito sempre presente per la comunità dei credenti?

Qui dobbiamo spiegare un po’ la terminologia. Abbiamo parlato, finora, di persone religiose, di istituzione religiosa in senso negativo; cosa si intende? Il progetto di Gesù è di creare una comunità di credenti dinamica e animata dallo spirito, e quindi aperta sempre verso il nuovo. Il rischio, sempre presente, è che da dinamica comunità si degradi a rigida istituzione, non più 21

 

animata dallo spirito, ma regolata dalle leggi. Quindi non più aperta all’uomo, ma timorosa e diffidente di tutto quello che è nuovo. Ecco, allora, il senso esatto delle parole: l’istituzione religiosa è una rigida istituzione regolata dalle leggi.

Gesù non è venuto a proporci questo; Gesù è venuto a proporci di essere una comunità dinamica, animata dallo spirito. Una comunità così riconoscerà sempre i profeti. Chi è il profeta, il credente, l’inviato da Dio? È colui che, in sintonia con un Dio sempre nuovo, troverà sempre carenti e insufficienti i mezzi che la cultura religiosa gli offre per esprimere la propria comunione con Dio e avrà bisogno di crearne di nuovi. Un simile comportamento crea allarme nell’istituzione religiosa e quindi bisogna emarginare e, se possibile, eliminare chiunque lo assume come modello di vita. E purtroppo, dice Gesù, non ne sfugge nemmeno uno. Il profeta, “vino nuovo in otri nuovi” (Mt 9,17; Mc 2,22; Lc 5,38), non può essere contenuto dentro le rigide strutture della religione, ma ha bisogno di aprirsi. Compito della comunità dei credenti è appoggiare queste persone nel loro cammino e non ostacolarle.

L’evangelista ha detto: “venne nel mondo, ma i suoi non l’hanno accolto“. Ma ecco finalmente, il positivo: “ma a quanti lo hanno accolto, li rese capaci di diventare figli di Dio“.

Chi è che lo ha accolto? Questo è il paradosso terribile dei Vangeli. Gli unici e i primi ad accogliere e comprendere Gesù furono i pagani, i senza Dio, i miscredenti e le categorie che, la religione dell’epoca, giudicava al di fuori dell’azione di Dio. È tremendo! Nemmeno i discepoli hanno capito chi era Gesù! Quando Gesù muore, non sono i discepoli (che scapperanno tutti) ma i pagani – nella figura del centurione – che, vedendo il modo di morire di Gesù, riconosceranno in lui il figlio di Dio. Mai nessun discepolo di Gesù è riuscito a capire che Gesù era il figlio di Dio: sarà un pagano. Ecco il monito tremendo che Gesù dà nei Vangeli, dove afferma che “i pubblicani” – cioè questa categoria immorale di miscredenti – “e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Quelli che per primi comprenderanno la presenza di Dio in mezzo alla società e l’accoglieranno, saranno quelle categorie al di fuori della religione – erano considerati tali i pubblicani – e fuori della morale – le prostitute -. Allora, paradossalmente, più si è dentro alla religione e più difficile è accogliere e riconoscere Dio che si presenta; mentre più si è al di fuori e più si viene facilitati. Quindi, eretici e pagani comprenderanno Gesù; i farisei, i sacerdoti dell’epoca, lo condanneranno a morte.

Abbiamo ancora qualche istante soltanto per introdurre il tema che poi è il culmine di questo prologo: “a quanti lo hanno accolto, li rese capaci di diventare figli di Dio“. Ecco il progetto di Dio sull’umanità.

Giovanni, con questa espressione, cancella ancora una volta il concetto dell’uomo nei confronti di Dio. La dottrina religiosa ebraica – e purtroppo a volte in passato anche quella cristiana – ha presentato Dio come un signore e l’uomo come un suo servo. L’atteggiamento del credente, nei confronti di Dio, era quello di un servo nei confronti del suo signore; l’uomo è stato creato per servire Dio.

Niente di tutto questo nei Vangeli! Giovanni ci presenta non un Dio che si fa servire dall’uomo, ma un Dio che si mette al servizio dell’uomo. Qualcosa di assolutamente inconcepibile nel panorama religioso dell’epoca. Un Dio che non chiede di essere servito, ma che è Lui stesso che si mette al servizio nostro, per innalzarci al suo stesso livello. 22

 

Quindi, quella concezione pessimista che abbiamo visto nel Salmo, di un Dio scontento dell’uomo, viene cancellata; è un Dio talmente innamorato dell’uomo che non si presenta come colui che dall’alto concede le sue grazie o i suoi privilegi, ma come un Dio che si mette al servizio dell’uomo per innalzarlo al suo stesso livello.

Questo tema verrà spiegato dal Vangelo di Giovanni con l’episodio della lavanda dei piedi (Gv 13,1-20), che era un compito degli schiavi. Ebbene Gesù, che è Dio, si mette al servizio degli altri per dar loro la categoria di “signori”. Noi non dobbiamo servire Dio, perché Dio non chiede nessun servizio. Gesù lo dirà in maniera molto chiara, nel Vangelo di Matteo: “non sono venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). Noi dobbiamo accogliere questo servizio che Dio fa nei nostri confronti; è un servizio d’amore, è Dio che ci innalza al suo stesso livello, e con Lui e come Lui dobbiamo dirigerci verso gli altri.

Quindi offrire cose a Dio è inutile, perché non le vuole; mettere la nostra vita a servizio di Dio è la cosa più stupida che ci possa essere, perché Dio non chiede a noi di stare al suo servizio, ma chiede: accoglimi, e con me e come me metti la tua vita a servizio degli altri. Ecco il progetto di Dio sull’umanità! Un Dio il cui progetto è che l’uomo raggiunga la pienezza della condizione divina; non più l’immagine del servo nei confronti del sovrano, ma l’immagine del figlio nei confronti del padre.

Ma attenzione: chi continua a comportarsi nei confronti di Dio come un servo nei confronti del sovrano, non arriverà mai a capire Dio. C’è nella parabola del figliol prodigo, nel Vangelo di Luca, l’episodio in cui il figlio maggiore si rivolge al padre e gli dice: “io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando” (Lc 15,29). Servire Dio e osservare i suoi comandamenti significa non comprendere quanto sia grande l’amore di Dio. E il padre risponde: “ma non hai capito quanto grande è il mio amore e che tutto quello che è mio è anche tuo?” (cfr. Lc 15,31). No, perché lo serviva e osservava i suoi comandi. Quindi questo figlio, rappresentante della categoria degli osservanti, proprio in virtù del suo servizio a Dio e dell’osservanza dei comandamenti non può comprendere quanto sia grande l’amore che Dio ha per noi. Servire Dio impedisce di percepirne l’amore. Allora non si tratta di servire Dio, ma di accogliere il suo servizio, il servizio che Lui fa nei nostri confronti; essere con Lui innalzati, attraverso la pratica dell’amore, al suo stesso livello, e con Lui e come Lui dare la propria vita, mettere la propria vita al servizio degli altri.

Figli di Dio” – notate il verbo che ha usato l’evangelista (g…gnomai) – non si nasce, ma si diventa. Non si è “figli di Dio” per nascita, ma lo si diventa mediante la pratica di un amore che assomiglia a quello di Dio. Quindi essere “figli di Dio”, è un avvenimento dinamico; non è nemmeno il Battesimo che ci trasforma in figli di Dio, ma il vivere il Battesimo ogni giorno rinunciando ai falsi valori della società.

C’è l’altro rovescio della medaglia, che scriverà Giovanni: si può essere anche “figli del diavolo“. Cosa significa? Se i figli di Dio sono quelli che, praticando l’amore, mettono la propria vita a disposizione degli altri, per “figlio del diavolo” si intende colui che mette gli altri a proprio servizio, a propria disposizione.

L’immagine dei Vangeli, che evidenzierà queste due figliolanze, è quella di Gesù e di Giuda.

 

 Gesù, figlio di Dio, quello che è e quello che ha lo mette a disposizione degli altri e quindi provoca vita negli altri;

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 Giuda, lo dice l’evangelista Giovanni, “era ladro” (Gv 12,6), cioè quello che era degli altri lo sottraeva e lo prendeva per sé. Quindi succhia la vita agli altri, provoca morte e, provocando morte negli altri, la provoca anche in se stesso.

 

Ecco l’alternativa che ci presenta il Vangelo: “figlio di Dio” non si nasce, ma si diventa assomigliando a Dio.

Se possiamo analizzare questi aspetti, quando siamo figli di Dio, quando gli assomigliamo?

Vediamo tre aspetti.

 

1. Il primo, se siamo capaci, come Lui, di voler bene anche a chi non se lo merita. La caratteristica di Dio è questa: Dio non ci ama perché noi siamo buoni, ma ci ama perché Lui è buono.

 

2. Il secondo aspetto è se siamo capaci di fare del bene senza aspettare nulla in cambio, perché così ha fatto Dio con noi.

 

3. E il terzo, l’aspetto più difficile, è se siamo capaci, come Lui, di perdonare gli altri prima ancora che ci vengano a chiedere il perdono, perché così fa Dio nei nostri confronti. È vero che nel passato, quando ci siamo allontanati dall’insegnamento di Gesù, abbiamo costruito tante procedure complicate per chiedere perdono a Dio, ma Dio non ha bisogno che noi gli chiediamo perdono. Dio ci dona amore nell’istante stesso in cui noi stiamo peccando nei suoi confronti. San Paolo dice: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). Dio non aspetta che noi andiamo a chiedergli perdono, non aspetta cerimoniali complicati per concederci il suo perdono; Dio ci concede il suo perdono prima ancora che glielo andiamo a chiedere. Se ci sono in noi questi tre aspetti, anche noi siamo i “figli di Dio”. “Figlio“, nella cultura dell’epoca, significa colui che assomiglia al Padre.

 

Questa mattina stavamo esaminando il versetto 12: “li rese capaci di diventare figli di Dio“. Questo è il progetto di Dio sull’uomo, sull’umanità: un Dio talmente innamorato della sua creatura, che non gli basta avergli dato la condizione umana, fatta di corpo e di carne, ma dice: “lo voglio innalzare al mio stesso livello“. Il raggiungimento della condizione divina, insegnerà Gesù, non avverrà mediante pratiche ascetiche, mediante spiritualità permesse soltanto a pochi, ma mediante un atteggiamento che tutti possono vivere. Si raggiunge la condizione divina mediante la pratica dell’amore e tutti possono amare. Ripeto, perché mi è stato chiesto di rispiegarlo.

Dicevamo che sono almeno tre gli aspetti che caratterizzano Dio e che quindi chi è figlio vive in sé. Nella cultura ebraica, “figlio di qualcuno” non si intende colui che è nato da quel tale, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Attenzione a quando si sentono dire questi aspetti, perché molti si sono un po’ scoraggiati. L’importante, almeno inizialmente, è il capirli; se poi non si hanno in maniera completa e piena, vedremo nel versetto dopo, non dobbiamo scoraggiarci, perché è un cammino progressivo. 24

 

 

1. Il primo di questi tre aspetti, attraverso i quali si nasce figli di Dio, si riassume nell’assomigliare a Dio nel comportamento, e non dovrebbe scoraggiarci la pochezza del nostro atteggiamento, quanto farci contenti la grandezza del suo amore. Purtroppo, ancora una volta lo si tocca con mano, quando ci si mette di fronte a Dio e al suo apparire, per quella disgraziata spiritualità di annichilimento dell’uomo, si pensa più alle proprie miserie, che alla grandezza dell’amore di Dio. Quando ci si trova davanti a Dio, non ci si deve abbassare schiacciati dal peso delle proprie miserie, ma innalzare il nostro sguardo alla grandezza dell’amore di Dio. Quindi, si dice che si è figli quando, come il Padre, si è capaci di voler bene a chi non se lo merita; più che pensare alle nostre miserie e alla nostra incapacità, rallegriamoci pensando che Dio fa così con noi. Dio ci ama quando noi non ce lo meritiamo.

 

2. Se essere figli significa, come il Padre, essere capaci di fare del bene senza aspettare niente in cambio, pensiamo che è Lui che fa così con noi.

 

3. E ugualmente, l’ultima delle condizioni, se essere figli significa, come il Padre, essere capaci di perdonare mentre l’altro sta ancora peccando nei nostri confronti, non rattristiamoci se ancora non ci siamo riusciti o se siamo in pochi, ma rallegriamoci pensando che è Dio che fa così con noi.

 

Perché la definizione che i Vangeli danno di Dio, in particolare quello di Giovanni, è che Dio è amore: ogni sua manifestazione nei confronti degli uomini non può essere che d’amore. Allora dobbiamo sbarazzare via tutte le falsità che abbiamo appiccicato addosso a Dio: il Dio che si offende, il Dio che si arrabbia, il Dio, addirittura, che castiga. Dio non si offende, non si arrabbia e non castiga, perché non può. Essendo Lui soltanto amore, ogni sua manifestazione nei confronti dell’uomo sarà soltanto d’amore. Sarà poi responsabilità dell’uomo accogliere o no, e in che grado, questo amore. Se io, in questo momento, mi metto a bestemmiare, a imprecare contro Dio, egli non cessa di effondermi il suo amore. Se io prendo per il collo qualcuno di voi, Dio non smette di effondermi il suo amore; sarò io che con atteggiamenti sbagliati, mi chiudo, perché non amando gli altri, restringo la capacità di ricevere questo amore.

Pertanto, si diventa “figli di Dio” nella pratica di un amore simile a quello del Padre, un amore che, man mano che si esercita, sviluppa nuove capacità d’amare e fa sorgere ancora nuove possibilità di fare: è un amore che fa crescere l’uomo. Mentre nell’antica religione il rito toglieva qualcosa all’uomo, lo diminuiva, il nuovo punto, questo dell’amore, è un punto che potenzia l’uomo.

E Giovanni spiega questo dicendo, letteralmente, “a quanti credono nel suo nome“. Il verbo “credere” (pisteÚw) significa dare adesione a qualcuno, e il nome significa l’identità della persona: quindi “a coloro che mantengono l’adesione alla sua persona“. Si è sicuri di essere in comunione con Dio non perché si ha dato l’assenso a delle verità teologiche o peggio a dei dogmi incomprensibili – Gesù non chiede di aderire a delle verità di fede o a ideologie -, ma perché si è data adesione a Gesù, modello dell’uomo e modello d’amore.

Il mantenere questa adesione significa rinnovare continuamente, quotidianamente, quelle scelte che ci hanno fatto decidere per Gesù. Significa che, di fronte al desiderio di prestigio, alla sete di denaro, alla ricerca di potere – che sono gli atteggiamenti che causano la rivalità e l’odio nel mondo -, il credente sceglie la condivisione e il servizio. E questo va mantenuto quotidianamente. La scelta di essere “figli di Dio” non viene fatta una volta per sempre, ma, come dice Giovanni, l’adesione a Gesù va mantenuta. Quotidianamente c’è da dire no, rifiuto di arricchire perché voglio 25

 

condividere quello che ho e quello che sono con gli altri – è questa la vera ricchezza -, rifiuto situazioni di potere perché voglio vivere soltanto in situazioni di servizio.

E, spiega ancora Giovanni, che “figli di Dio” sono “coloro che non nacquero da sangui“: è letteralmente la traduzione dal greco ed è strana l’espressione di sangue al plurale. Come mai l’evangelista parla di “sangui” (aƒm£twn)?

Perché in ebraico il plurale di sangue significa “spargimento di sangue“, e Giovanni è l’unico evangelista a parlare espressamente di sangue nella crocifissione di Gesù, quando gli trafiggono il costato e scendono sangue ed acqua (Gv 19,34).

Ossia, “coloro che non sono nati da un sangue qualunque” – lo possiamo aggiungere, anche se non c’è nel testo, perché il senso è proprio questo -, “ma dal sangue di Gesù, che non sono nati per un disegno di una carne o di un uomo qualunque, ma dalla carne di Gesù“, diventano figli di Dio: non per generazione carnale, ma per l’adesione a colui che è il Figlio di Dio.

Questa divisione del sangue e della carne che troviamo nei Vangeli si rifà al capitolo sesto, quando Gesù dice: “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,52-53).

Queste non sono regole liturgiche per andare a fare la Comunione, ma sono indicazioni per un atteggiamento di vita. Mangiare il corpo di Gesù non è una indicazione liturgica per la Comunione, ma significa l’accettare questo dono che Gesù ci fa; ma nel momento in cui lo si accetta, si accetta pure di diventare noi stessi dono per gli altri, si accetta di diventare pane affinché venga mangiato dagli altri. Così per il sangue.

Andiamo ora al versetto con il quale terminiamo l’esposizione di questa sera: “E così la parola” – o il progetto – “si fece uomo“. Questo progetto che Dio aveva per l’umanità, questo progetto che aveva prima ancora di creare il mondo, questo progetto per il quale aveva creato tutto, finalmente si è realizzato; ma in cosa?

In una persona, nella persona di Gesù. Gesù è il modello perfetto della creazione! Quindi, non è Adamo, primo uomo, il modello della creazione! Qui Giovanni supererà, lo vedremo più tardi, la concezione teologica dell’ebraismo, dove l’uomo era creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26).

Questo tema per Giovanni non basta più. L’uomo non è creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma l’uomo è creato Dio, è creato per essere figlio di Dio e per avere la condizione divina. “Immagine e somiglianza” era qualcosa che manteneva le distanze, e Giovanni annulla tutto questo. L’uomo è stato creato non per essere immagine e somiglianza di Dio, ma per essere Dio, per avere la pienezza della condizione divina.

Scrive Giovanni, letteralmente: “e si attendò tra noi“. Giovanni usa il verbo “installare una tenda” (skhnÒw) perché nell’Antico Testamento, nel libro dell’Esodo, si diceva che quando il popolo ebraico camminava nel deserto, ad ogni tappa Dio lo accompagnava e vi abitava; la sua gloria e la sua presenza era in una tenda (cfr. Es 33,7-11; 40,34-38). 26

 

Giovanni fa comprendere che questo Dio riprende il suo posto. Il tempo del Dio imprigionato dentro un tempio dai preti che ne erano diventati i gelosi custodi, dando norme e condizioni per potervisi avvicinare e sempre attraverso la loro mediazione, è finito. Dio ha ripreso il suo posto, Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi.

È la fine dei luoghi sacri. Per luogo sacro si intende quel posto dove risiede la divinità, il santuario, un luogo particolare dove l’uomo deve recarsi per avere un contatto speciale con Dio.

Tutto questo è finito! Dio ha preso la sua tenda e l’ha posta in mezzo al popolo. Ovunque ci sono dei credenti che vivono in sintonia con questo amore – anche se, ripeto, in maniera non perfetta -, se solo c’è in loro un desiderio iniziale di sprigionare questa capacità d’amore, Dio è presente.

Quello di Giovanni è un testo ricco, ma tremendamente polemico con tutta quella che era la teologia ebraica, una teologia basata sulla ricerca di Dio. Ricordate i Salmi: O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia…” (Sal 63,2). Dio non è più da cercare; chi ancora, nonostante la venuta di Gesù, pensasse di dover cercare Dio, perde tempo.

Dio non è da cercare, Dio è da accogliere con il suo amore, perché Dio è venuto in mezzo a noi e qui ha messo la sua tenda. Quindi non ci sono altri posti o altri momenti dove si può trovare il contatto con Dio. Dovunque c’è amore, lì c’è Dio.

È terminata l’ora del tempio, lo dirà sempre Gesù nel Vangelo di Giovanni. Alla domanda della Samaritana, che gli chiedeva quale fosse il santuario più importante, quello che faceva più grazie, quello più sicuro, il loro o quello di Gerusalemme, Gesù risponde: “é giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. (…) È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Gv 4,21.23).

L’unico culto che Dio cerca e chiede sarà il prolungamento del suo dinamismo d’amore sull’umanità: non esiste altra forma di culto. Dio non sta in un tempio particolare: Dio è in mezzo al popolo dovunque c’è amore, e chi vuole dargli culto deve accogliere questo amore e prolungarlo attraverso la propria persona per trasmetterlo agli altri.

Continuiamo la lettura e il commento di questo prologo. Il versetto sul quale ci eravamo soffermati ieri sera, cioè il progetto con il quale Dio aveva creato il mondo, finalmente si è realizzato in una persona: Gesù. E questo progetto, che è la manifestazione di Dio tra di noi, ha messo la sua tenda. La tenda, nell’Antico Testamento, nel libro dell’Esodo, era il luogo dove risiedeva Dio. Con Gesù non c’è più un luogo sacro particolare dove andare per poter incontrare il Signore, come la tenda di Gerusalemme, ma dove c’è la comunità dei credenti lì c’è la presenza di Dio.

Questa mattina iniziamo, appunto, con la parte finale del versetto 14: “e abbiamo visto la sua gloria“. Fin dall’inizio abbiamo notato come Giovanni, in questo prologo, sia in polemica con tutta la teologia, la spiritualità e la religiosità del mondo ebraico; queste avrebbero dovuto essere soltanto una tappa per arrivare alla conoscenza perfetta di Dio e invece la assolutizzano. Infatti, uno dei capisaldi della teologia ebraica era che nessun uomo poteva vedere la gloria di Dio, il volto di Dio, e rimanere in vita. Quando nel libro dell’Esodo Mosè chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria“, il Signore gli risponde così: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). “Vedere la gloria di Dio“, nell’Antico Testamento, significava 27

 

incontrare la morte. Se il vedere la gloria di Dio nell’Antico Testamento causava la morte, nel Nuovo Testamento, nel messaggio di Gesù, vedere, toccare la gloria di Dio sarà condizione essenziale per avere la vita.

Quindi, non più un Dio inaccessibile, un Dio lontano, ma un Dio la cui presenza è la manifestazione visibile della sua gloria, la manifestazione di quello che lui è. “Gloria” (dÒxa) significa manifestazione visibile di quello che uno è; il paragone non è debito, ma lo usiamo anche noi per dire di una gloria del mondo del calcio o del mondo della canzone, cioè una persona che esprime molto bene quello che è in un determinato campo. Ed essendo amore il Dio che ci presenta Gesù, la gloria significa espressione visibile d’amore, che si deve, assolutamente, rendere manifesto e concreto in atti, in gesti, in manifestazioni vitali.

Con questo versetto, Giovanni prende pure la distanza da una certa presenza della gloria di Dio, che il Talmud così esprime: quando due persone stanno insieme per studiare legge, lì è presente Dio. Allora potete comprendere l’opposto che dirà Gesù: “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Non è più lo studio o l’osservanza della legge che rendono manifesto Dio, ma la presenza di persone che si riuniscono nel nome di Gesù. Questo non significa una formuletta da dire quando si sta assieme; secondo l’espressione ebraica, significa “assomiglianza“. Perciò, dove ci sono delle persone il cui amore cerca di assomigliare a quello di Gesù, a quello di Dio, lì c’è la presenza di Dio. La nostra tragedia è che interpretando male certi brani, abbiamo pensato a un Dio lontano, nei cieli, abbiamo pensato a un Gesù Cristo resuscitato ed andato in pensione per servizi resi, comunque sempre qualcosa di lontano. Mentre Gesù dice: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Una piccola parentesi: avete visto, in questi giorni, quante volte abbiamo citato il Talmud, che oggi è uno strumento indispensabile per conoscere il Vangelo. Per conoscere il messaggio di Gesù non basta conoscere il greco, la lingua nella quale questo messaggio è stato scritto; non basta, anche se è una cosa preziosa, conoscere la cultura ebraica da quello che ci viene detto dall’Antico Testamento. Lo strumento assolutamente indispensabile è il Talmud, perché dal Talmud ci è arrivato il concentrato di tutta l’esperienza religiosa, culturale e sociale di Israele.

Ricordate la prima sera, quando ho risposto al perché non abbiamo saputo prima tante cose, osservando tutti i problemi derivanti dalla traduzione. Per quanto tempo la Chiesa si è basata su una traduzione, non avendo il testo originale e il Talmud, questo strumento indispensabile del quale nessun biblista oggi può fare a meno: è stato considerato per secoli opera satanica, demoniaca, e periodicamente venivano rastrellati volumi e bruciati nella piazza della Chiesa, perché era considerata opera del demonio. Una volta era opera del demonio, oggi è uno strumento indispensabile per conoscere il messaggio di Gesù.

Questa gloria, che Giovanni assicura in noi tutti (“abbiamo visto la sua gloria“), Gesù la manifesta nel capitolo 2, con l’episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Noi non abbiamo il tempo per trattarlo, ma questo brano parla del cambio di Alleanza. Quella che veniva espressa con l’immagine del matrimonio tra Dio e il suo popolo era rimasta infruttuosa – “non hanno più vino” -, non ha prodotto amore; la nuova alleanza non sarà posta sulle tavole della legge, ma mediante una comunicazione di d’amore. 28

 

Ma quello di cui forse non ci rendiamo conto è che la stessa gloria di Dio, cioè la manifestazione visibile della gloria di Dio che il Padre ha riversato tutta su Gesù, Gesù la riversa in noi: “e la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola” (Gv 17,22). La gloria di Dio, che il Padre ha comunicato a Gesù, Gesù la comunica a noi. Quindi, la gloria di Dio non è un qualcosa di lontano, di inaccessibile, ma è la stessa comunità dei credenti che, se possiede questa qualità d’amore, si trasforma nell’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore divino.

Allora, qual è il luogo sacro per eccellenza? È quello in cui ci sono i credenti che si impegnano fedelmente a vivere questo impegno d’amore. Lì è presente la stessa gloria di Dio. Non c’è da andare con nostalgia a chissà quale paradiso lontano o a chissà quali esperienze straordinarie: Gesù dice: “la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro“. Ce l’abbiamo a disposizione, a portata di mano: basta mettersi in sintonia con questa gloria. Allora, diciamo che vedere la gloria non solo non produce morte, ma è condizione per avere la vita. Quindi, un Dio non geloso delle sue prerogative, ma un Dio che dà a noi tutto quello che è e tutto quello che ha.

Dicevamo ieri sera che Dio non è da cercare; chi cerca Dio perde tempo. Dio è qui, c’è soltanto da accoglierlo; e Dio si manifesta attraverso l’amore e l’amore, a sua volta, si traduce in atteggiamenti verso persone concrete. Ogni persona che incontriamo e che ci trasmette amore è una maniera che ha Dio per amarci, per comunicarci amore e questo amore è a portata di tutti. Sottolinea l’evangelista che questa gloria è “la gloria che un figlio unico riceve dal Padre“. Il “figlio unico“, in ebraico, è un termine (gr. monogen»j) per indicare l’erede, cioè colui che possiede tutta l’eredità del padre. Altri termini usati: il “figlio prediletto“, il “figlio prezioso“.

Quindi, in Gesù c’è tutto quello che è Dio; non si può dividere Gesù da una parte e poi avere un’altra strana idea di Dio! In Gesù si manifesta pienamente tutto quello che Dio è! La gloria che Gesù possiede è quella di un figlio unico, cioè dell’erede che eredita tutto.

Qui comprendiamo la perplessità di Gesù quando risponde alla domanda di Filippo. Filippo, sempre in questo Vangelo, al capitolo 14, chiede a Gesù: senti, adesso ci basta una sola prova e poi saremo contenti: “Mostraci il Padre e ci basta“. A Gesù cadono le braccia. Risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?” (Gv 14,9-10).

Questo è molto importante, perché qui dobbiamo cambiare la nostra mentalità nei riguardi di Dio. Significa che tutto quello che Gesù ha detto, ha fatto ed è stato, è quello che Dio è, fa e agisce con noi. Non possiamo avere un’idea diversa da quella che vediamo in Gesù. Non è Gesù come Dio, ma Dio è come Gesù.

Spero di non farvi confusione e chiarirmi. Se noi diciamo che Gesù è uguale a Dio, significherebbe che abbiamo già l’idea di un Dio, magari un po’ inquinata da filosofie, da superstizioni.

Ebbene, il Vangelo non dice che Gesù è uguale a Dio, ma che Dio è uguale a Gesù. Di Dio noi non sappiamo niente se non quello che vediamo in Gesù. Questo concetto butta all’aria tutto quel cumulo di incrostazioni dovute a paure, a frustrazioni, a superstizioni che l’uomo ha proiettato su Dio. Dio è uguale a Gesù! Paolo, specialmente nella lettera ai Romani, ne parlerà in maniera splendida. 29

 

Ma di cosa ci preoccupiamo? Troviamo un solo passo del Vangelo dove Gesù condanna, dove Gesù castiga, dove Gesù rimprovera un peccatore? Mai! Allora, da dove viene tutta questa idea di un Dio scontento, di un Dio che rimprovera? Il Dio che Gesù ci presenta è il Dio che lava i piedi ai suoi discepoli! Gesù, essendo Dio, manifestazione di Dio, si mette a fare il lavoro di un servo per innalzare gli altri alla sua stessa dignità.

Se leggete il capitolo 13 del Vangelo di Giovanni, notate questo particolare. Gesù, per lavare i piedi ai discepoli, si toglie il mantello e si mette il grembiule: il grembiule (lšntion) è segno di servizio (Gv 13,4). Quando ha lavato i piedi ai discepoli non si toglie più il grembiule: il grembiule diventa segno distintivo di Gesù, di Dio, perché Dio è colui che serve. Poi cosa fa? Riprende di nuovo il mantello (Gv 13,12).

Cosa ci vuol indicare l’evangelista con queste immagini? Che il servizio agli altri non solo non diminuisce, non toglie la dignità dell’uomo, ma è il fattore che gliela conferisce. Gesù, mettendosi in questo atteggiamento si servizio agli altri, non ha diminuito la sua dignità, ma l’ha portata alla pienezza. Chiunque di noi vuole essere in sintonia con questo Gesù, deve mettere la sua vita a servizio degli altri. Questo deve essere chiaro: Gesù non è come Dio, ma Dio è come Gesù. Ogni idea che abbiamo di Dio e che non troviamo corrisposta in quello che Gesù ha detto, ha fatto, va eliminata. Poi, alla fine di questo prologo, Giovanni dirà: “perché l’unico che ha conosciuto Dio è Gesù e in lui c’è stata la spiegazione“.

Questa gloria, dicevamo, si può toccare. Anche questo è inconcepibile per la mentalità ebraica, dove Dio era talmente inaccessibile all’uomo che si parlava, con un’espressione che a volte usiamo anche in italiano, del “settimo cielo“.

I rabbini, che amavano la casistica, avevano stabilito esattamente la distanza tra Dio e l’uomo. Dio sta al settimo cielo, e tra un cielo e l’altro ci sono ben 500 anni di cammino; per cui, per incontrare Dio bisogna fare un cammino equivalente a 3500 anni. Cosa significava questo dato? Che Dio era inaccessibile, che Dio era l’inconoscibile, che Dio era quello che nemmeno si poteva immaginare.

Gesù spazza via tutti questi concetti. “Filippo, chi vede me vede il Padre“. Solo che questo Dio, che si rispecchia in un uomo che si riconosce soltanto per la straordinaria capacità di amore fedele, non rientrava nei canoni religiosi dell’epoca, che prevedevano un Dio onnipotente e tremendo.

Invece, la caratteristica di Gesù, e quindi di Dio, è letteralmente pl»rhj c£ritoj kaˆ ¢lhqe…aj, “pieno di amore vero” o “pieno di amore e di verità“; è difficile da tradurre, ma significa che la caratteristica di Gesù – e quindi di Dio – è quella di essere colmo di “amore vero“, cioè di amore che è fedele.

Questa è la caratteristica di Dio già presente nell’Antico Testamento, alla quale Gesù si riallaccia.

La caratteristica di Dio è un amore che è fedele.

Lo vediamo nell’Antico Testamento, dove Dio ha fatto un’alleanza con il suo popolo e il popolo lo ha tradito e rinnegato facendo alleanze con altre divinità. Ebbene, Dio non è mai venuto meno alla sua fedeltà; anzi, più il popolo peccava e più lo tradiva e più lui aumentava il suo amore. 30

 

C’è, se avete tempo, una lettura consigliabile ed ideale per un esame di coscienza, il capitolo 2 del profeta Osea. È un brano stupendo. C’è Dio che è arrabbiato con il suo popolo e lo descrive con l’immagine di uno sposo che è stato tradito, in maniera veramente oscena, dalla propria sposa. Metà del capitolo è una requisitoria tremenda in cui Dio rimprovera il popolo per le sue malefatte, una requisitoria che fa veramente rabbrividire. Vi cito soltanto alcune espressioni: Accusate, vostra madre, accusatela (…) la loro madre si è prostituita, la loro genitrice si è coperta di vergogna. Essa ha detto: «Seguirò i miei amanti, che mi danno il mio pane e la mia acqua, la mia lana e il mio lino. il mio olio e le mie bevande…” (Os 2,4.7) È una requisitoria tremenda verso le malefatte di questa donna. E poi, a metà, arriva la sentenza: e la sentenza per una donna adultera, per una donna che aveva tradito, secondo l’uso giuridico ebraico consisteva nel portare la poverina davanti alla porta della città, dove il marito riversava verso di lei tutte le accuse, e poi lapidarla. Chi legge questo brano, mettiamoci nei panni di un ebreo, legge tutta questa requisitoria e si aspetta che la donna venga portata davanti alla porta della città per essere giudicata. Ebbene, succede qualcosa di incredibile. Scrive il profeta (è Dio che parla) creando un clima di suspense: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore (…) Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,16.22). Qualcosa di assurdo! Alla fine della requisitoria, in cui non ne risparmia nemmeno una, Dio dice: per questo ti dimostrerò un amore che tu prima non sei riuscita a comprendere, a conoscere. Questo è Dio! Quindi l’idea del Dio che si offende, l’idea del Dio che castiga, l’idea stessa del Dio che perdona… non sono idee evangeliche. Noi abbiamo bisogno, per il nostro linguaggio umano, di dire che Dio perdona, ma – spero di spiegarmi bene – Dio non perdona, perché mai si offende. Dio è soltanto amore; la sua maniera di manifestare quello che è nei confronti dell’uomo è soltanto una continua effusione d’amore, che più ostacoli incontra più cresce.

Un’immagine molto bella contenuta nell’Antico Testamento è quella di Dio paragonato ad un torrente nel deserto. Nel deserto, dove c’è un caldo tremendo, il letto del torrente è asciutto e l’alto calore lo rende completamente impermeabile per cui, quando si verifica un temporale, l’acqua viene giù in una maniera veramente violenta. A volte provoca anche dei danni e più ostacoli trova nel suo cammino, più rocce incontra e più aumenta di potenza. Così è l’amore di Dio. Più peccati il suo popolo commette e più la potenza dell’amore di Dio cresce. Quindi, Dio non perdona perché mai si sente offeso: Dio è soltanto amore e le sue manifestazioni saranno soltanto d’amore. Sarà l’uomo a decidere se accogliere, e in quale misura, questo amore con atteggiamenti nei confronti degli altri. È chiaro che se io non perdono l’altro, significa che mi chiudo all’amore e al perdono di Dio. Non che Dio non mi perdoni; Dio continua ad amarmi, ma se io rifiuto l’amore lo rendo inutile.

La caratteristica di Gesù, perciò, è quella dell’amore fedele, che va in cerca di tutti quelli che lo hanno tradito; lo vediamo nel Vangelo di Giovanni, cominciando con l’episodio della Samaritana (Gv 4,1-42). Questa donna adultera rappresenta il popolo di Samaria: quel popolo che, oltre al tempio di Jahvé, si era costruito, su altri cinque monti, altri cinque templi per altrettante divinità. Ebbene, Gesù riesce a riconquistare anche lei e le si rivolge dicendo: “Se tu conoscessi il dono che ti sto per fare!” Non la rimprovera, non la minaccia, ma la riconquista offrendole il suo amore in una forma nuova e insperata.

E così riconquisterà il traditore Pietro, l’incredulo Tommaso e, soprattutto, – la scena fantastica dell’amore fedele di Gesù nei confronti dei suoi durante la cena – Giuda, che sta già covando sentimenti omicidi. Gesù annunzia che ci sarà un tradimento e i discepoli incominciano a investigare; si guardano l’un l’altro, per cercare d’individuare il colpevole. 31

 

Cosa fa Gesù? Offre a Giuda il pane (Gv 13,21-30). Nella cultura ebraica, durante i pranzi si mangia tutti quanti nello stesso piatto e il padrone di casa inizia il pranzo intingendo il pezzo di pane nella salsa e lo offre all’ospite d’onore. Gesù, per evitare che i sospetti s’addensino su Giuda, il traditore che lo sta per rinnegare, gli fa un gesto d’amore preferenziale nei confronti degli altri. È l’amore fedele di Dio che fino all’ultimo si comunica. Poi, dipenderà dal discepolo scegliere che cosa fare di questo amore, rendendosi responsabile di sé stesso.

Poi continua l’evangelista: “Giovanni il Battista è il suo testimone e continua a gridare: «Costui è colui del quale io dissi: colui che viene dietro di me, mi passa davanti, perché era prima di me»“. Cosa significa questa espressione? Si rifà alla cultura ebraica e viene esplicitata dopo questo prologo, quando Giovanni, parlando di Gesù, dice: “uno che viene dopo di me, al quale non son degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (Gv 1,27). Abbiamo già visto che nella comunità primitiva, Giovanni era stato idealizzato da molti come modello di Messia e tutti costoro non accettavano Gesù: era troppo comune, troppo ordinario. Ebbene, Giovanni afferma di non essere lui il Messia e come lo esprime? Nel modo più consono alla cultura dell’epoca.

Vedete che torniamo sempre al problema della traduzione: non basta tradurre esattamente il testo, ma bisogna vedere, nella cultura dell’epoca, cosa significava quel testo. Perché, se io traduco esattamente il testo, ma lo interpreto con la mia mentalità occidentale, rischio di farne un’interpretazione sbagliata.

Giovanni vede apparire Gesù e dice: “ecco colui del quale io non son degno di sciogliere i legacci dei sandali“. Qui si potrebbe fare un “pistolotto” sull’umiltà di Giovanni, ma non è niente di tutto questo. Nella cultura matrimoniale dell’epoca esisteva una legge che troviamo nel libro del Deuteronomio (Dt 25,5-10) e che in italiano chiamiamo del “levirato“, da “levir” che in latino significa cognato.

Questa legge prevedeva che quando ad una donna moriva il marito senza che le avesse lasciato figli, il fratello del defunto aveva l’obbligo di metterla incinta e il bambino che sarebbe nato avrebbe portato il nome del defunto. Quando il cognato per qualche motivo rifiutava, prendeva il suo posto quello che nella scala giuridica veniva subito dopo, e affinché quest’ultimo acquisisse il diritto di fecondare la donna, avveniva pubblicamente la cerimonia dello “scalzamento”. Durante la cerimonia la persona prescelta prendeva il sandalo del cognato, lo alzava e ci sputava sopra; in questo modo – linguaggio figurato – acquisiva il diritto di mettere incinta la donna.

Giovanni, allora, cosa sta dicendo? Colui che deve fecondare questa vedova – la vedova rappresentava il popolo di Israele – non sono io, perché “egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,30); è lui lo sposo, e non io.

Siamo arrivati verso la fine di questo prologo; al versetto 16 si afferma che la prova di questa gloria, la prova di questo amore è che “dalla sua pienezza” – dalla pienezza di questo amore – “tutti noi abbiamo ricevuto un «amore per amore»“.

È difficile da tradurre: cosa vuole dire? Che lui ci ha amati per primi e la nostra risposta d’amore – non a Dio, non a Gesù, ma agli altri – provoca una maggiore risposta d’amore da parte di Dio. Potremmo dire che noi abbiamo ricevuto un “amore che cresce”; più noi amiamo e più noi scopriamo e sviluppiamo dentro di noi nuove capacità d’amare. In greco questa espressione (c£rin ¢ntˆ c£ritoj) serve ad esplicare momenti d’amore che si susseguono in un crescendo, 32

 

uno dopo l’altro, senza alcun limite se non quelli che vengono posti dall’uomo stesso. Ma è importante la sottolineatura che fa l’evangelista: l’esperienza e la partecipazione a questo amore-vita è lo specifico della comunità cristiana.

La trasmissione del messaggio di Gesù - lo abbiamo visto ieri sera – non va fatta attraverso insegnamenti dottrinali, ma attraverso la trasmissione d’amore, attraverso percezioni vitali che solo dopo, una volta che vengono ricevute, avranno bisogno della loro formulazione. Spesso noi, purtroppo, facciamo il contrario: prima proponiamo formule catechistiche, dogmi astrusi ed incomprensibili, teorie cervellotiche e poi diciamo: adesso hai il materiale, mettilo in pratica.

Ma non è così! La comunità cristiana dice: tutti noi abbiamo sperimentato questo amore. Il messaggio di Gesù si trasmette attraverso percezioni vitali, che solo dopo avranno bisogno di formulazioni. Quindi, non novità teologiche, ma un aumento d’amore. Questa è la caratteristica della comunità dei credenti, di tutti noi. Forse qui ci siamo dimenticati di fare un esame di coscienza; abbiamo trasmesso ideologie, contenuti dottrinali e non esperienze di vita.

La linea del Vangelo è chiara! Tutti noi abbiamo sperimentato questo, tutti noi abbiamo sperimentato un amore che nemmeno riuscivamo ad immaginare! Questa è la base della nostra fede: le formulazioni teologiche verranno dopo.

Questo aspetto del Vangelo di Giovanni, Gesù tornerà ad esplicitarlo quando parlerà di se stesso come di colui che “dà lo spirito senza misura” (Gv 3,34). Cosa vuole dire? Che chi produce amore attira l’attenzione del Padre che, a sua volta, gli comunica ancora più spirito. Spirito significa “capacità d’amore che Dio ha”. Più io amo e più permetto a Dio di comunicare il suo amore, senza alcuna misura se non con quei limiti che la persona stessa, volontariamente, mette. Tutta quella parte della mia esistenza che è occupata dal rancore, dall’egoismo, dall’avidità, sarà uno spazio che lo spirito non potrà occupare e vivificare. I limiti li mettiamo noi, non Dio! Dio è colui che dona lo spirito senza misura.

Sempre Giovanni, al capitolo 15, ha una bellissima espressione che conviene sottolineare, perché, anche questa volta, è stata tradotta in maniera un po’ limitata. Gesù, parlando della vite e dei tralci, dice: “ogni tralcio che porta frutto (il Padre) lo pulisce (kaqa…rei), perché porti più frutto” (Gv 15,2). È interesse del Padre che ognuno di noi porti ancora più frutto d’amore, ma la pulizia di quello che impedisce nella nostra esistenza di portare frutto non è compito nostro, è compito del Padre.

Dicevo che, purtroppo, certe traduzioni hanno dato adito ad interpretazioni errate e orribili, perché spesso questo verbo è stato tradotto con “pota“. E allora, in un certo spiritualismo masochista o sadico, Dio veniva presentato come un agricoltore pazzo che andava nella vigna e tranciava i grappoli migliori.

Spesso è stato detto, quando moriva una persona cara, che era potatura che il Signore faceva per renderti ancora più bravo. Dio non è un pazzo che va a potare la sua vigna!! Compito dell’agricoltore è tenere pulito il tralcio; sarà pertanto il Padre che pulisce il tralcio. Guai a chi pretende di pulirsi da solo, perché lui sa quello che impedisce di portare più frutto, non noi. Può darsi che io pensi che certi aspetti della mia esistenza, certi atteggiamenti, per la cultura in cui vivo, la religione, la morale, siano male e magari mi impegno ad eliminarli, andando a rovinare 33

 

quelle che possono essere radici vitali della mia esistenza. Non devo credere di essere io che devo eliminare quello che penso non sia buono dentro di me: ci pensa il Padre.

L’unica mia preoccupazione deve essere quella di portare frutto, di amare. Se c’è qualcosa nella mia esistenza che non va, ci pensa il Padre. Guardate che questo concetto dà una serenità incredibile! Basta, è finita l’epoca degli esami di coscienza! L’unica preoccupazione, l’unica tensione deve essere quella di come possiamo, ogni giorno, sentirci ancora più responsabili della felicità degli altri. E se c’è qualche limite che il Padre vede, che ci impedisce di portare frutto, lui ce lo elimina e se non lo fa, si vede che per lui non era un limite. Molte volte, tra quello che Dio fa e la teologia, c’è un po’ di differenza.

Sempre Giovanni, nella sua prima lettera – la cito perché è importante – dice: “Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 3,19-20). La nostra coscienza ci viene formata da circostanze culturali, sociali, morali, religiose nelle quali noi viviamo. Giovanni dice: se tu metti la tua vita a disposizione degli altri, stai tranquillo e se anche la tua coscienza dovesse rimproverarti qualcosa, fregatene, perché Dio è più grande della tua coscienza. Basta vedere, soltanto un secolo fa, quante cose venivano insegnate, quante erano peccato grave e oggi non lo sono più. Allora perché angustiarsi? Preoccupati soltanto di considerare la tua vita come dono d’amore affinché gli altri abbiano vita.

E anche se la tua coscienza ti rimprovera certi atteggiamenti, che senti magari non in linea con il nuovo catechismo o con altre cose, fregatene! Perché Dio è più grande della tua coscienza. Questo dà serenità, gioia, allegria! Ricordate, quando abbiamo incominciato questo incontro abbiamo letto: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1,4). Non la “vostra” gioia: questa sarà una conseguenza.

Il fatto che Dio non si lascia vincere in generosità, in altri Vangeli viene presentato con l’espressione della “misura” (mštron).

Nel Vangelo di Marco, al capitolo 4, Gesù dice: “Fate attenzione a quello che udite: Con la stessa misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi; anzi vi sarà dato di più” (Mc 4,24). Anche qui, bisogna calare questa espressione nel contesto culturale dell’epoca, perché altrimenti la si travisa completamente. Cosa vuol dire Gesù in questo brano? Gesù si rifà al lessico commerciale dell’epoca; quelli che hanno una certa età si ricordano che una volta, nelle botteghe alimentari, non c’erano prodotti confezionati come oggi, ma c’erano delle “misure” che servivano per pasta o per farina. Erano queste le misure a cui si rifà Gesù quando dice: la misura che voi riempite per un altro, quella vi sarà data. Cioè, quello che siete e quello che avete e che date ad un altro, tutto quello prontamente vi viene restituito. Nella misura con la quale misurate, sarete misurati; quindi, se io do una misura da cento, cento subito mi ritorna, ma Dio non si lascia vincere in generosità e regala ancora più amore a chi produce amore, un qualcosa in più. E nel Vangelo, sempre stando a queste percentuali del cento, è quantificata con il trenta.

Quindi, se io dono cento, cento mi viene restituito, ma con un’aggiunta di trenta. Cioè una nuova capacità d’amore che sviluppa, sprigiona, fa nascere in me nuove capacità d’amare gli altri e questo, ci assicura Gesù, per tutta l’eternità in un crescendo senza fine, e questo è meraviglioso. L’unica preoccupazione della comunità dei credenti è trasmettere amore. Trasmettendo amore, non diminuiamo quello che siamo, ma l’aumentiamo, perché il Padre non si lascia vincere in 34

 

generosità e dove vede una persona che produce amore, lui gli regala un amore ancora più grande.

Andiamo al versetto 17 che dice: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, ma l’amore, questo amore fedele, è esistito per mezzo di Gesù il Messia“. La legge è stata data attraverso Mosè e doveva essere una tappa, solo una tappa che già i profeti avevano annunziato sarebbe terminata. C’è il profeta Geremia che scrive così: “Ecco, verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò un’alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li ho presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato” (Ger 31,31-34). Ed è un vero peccato che noi non crediamo alle parole di questi profeti e alle parole di Gesù.

Molte volte, in questi incontri, viene posto il problema del peccato. Più Gesù dice che il nostro peccato non se lo ricorda e più noi gli domandiamo: sei sicuro? C’è Michea che usa un’espressione bellissima: “Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati” (Mi 7,19). Avete sentito il profeta Geremia che dice: concluderò un’alleanza nuova – è quella che Gesù fa – che non sarà incisa sulle tavole di pietra (un codice esterno all’uomo), ma all’interno dell’uomo, che è quel desiderio di pienezza di vita che si ottiene attraverso l’amore. Se c’è questo, non c’è più bisogno di istruzione, perché l’amore è un linguaggio che tutti quanti possono comprendere. Come dicevamo prima, non sono forme teologiche quelle che dobbiamo trasmettere, ma percezioni vitali. E questo lo possono capire tutti, chi è colto e chi non è colto. Continua Geremia: “non avranno più bisogno di istruirsi gli uni con gli altri“, perché l’amore è il linguaggio universale che tutti quanti possono comprendere. E la conseguenza? Il loro peccato annullato! Nella comunità dei credenti, il peccato non esiste più, perché Dio perdona il peccato mentre noi stiamo ancora peccando. C’è soltanto da accogliere questo amore per poi tradurlo agli altri e renderlo attuale.

Il versetto finale di questo prologo, che abbiamo definito all’inizio l’inno dell’amore di Dio sull’umanità, dice: “Dio nessuno l’ha mai visto“. Ma questo non sembra vero: c’è il libro dell’Esodo che parla di almeno un’ottantina di personaggi che hanno fatto esperienza di Dio. Lo dice espressamente il libro dell’Esodo: “essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,11). Hanno visto il Dio e sono vissuti con Mosè, Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani. Giovanni contrappone: “Dio nessuno l’ha mai visto“. L’esperienza di Mosè, e poi quella di Elia, sono state tutte esperienze di Dio parziali e limitate, perché “Dio nessuno l’ha mai visto”. Quindi, la legge che è stata data in nome di Dio era soltanto una pallida espressione di quello che Dio veramente è. Solo in Gesù si può cogliere il pieno significato di Dio.

Solo il Figlio unigenito“: il termine “unigenito Dio” (monogen¾j qeÒj) che viene usato nei Vangeli, che cosa significa? “Unigenito” non vuole dire: “unico generato“, ma significa: “il figlio prezioso“, “il figlio prediletto“. Nel libro del Genesi, quando Dio parla di Isacco ad Abramo, dice: “Prendi tuo figlio, il tuo figlio unigenito che ami, Isacco…” (Gen 22,2). Questo non significa che era l’unico figlio generato – perché Isacco ha un altro fratello – ma significa: il figlio prediletto, quello prezioso, l’erede. 35

 

Colui che è nell’intimità del Padre, costui ne è stato la spiegazione“. Che cosa vuole dire l’espressione: “intimità del Padre” (kÒlpoj toà patrÒj)? Avete tutti presente i quadri dell’Ultima Cena? C’è un personaggio che a me, personalmente, ha sempre dato abbastanza fastidio per il modo in cui viene rappresentato dai pittori: è il discepolo prediletto, tutto lì accoccolato a fare le fusa a Gesù. Mi ha sempre dato un po’ fastidio questa immagine leziosa. L’evangelista dice che Gesù è “nel seno del Padre“, che è un’espressione ebraica che significa “nella piena intimità del Padre“. “Solo chi è nella piena intimità del Padre, costui ne è la spiegazione“; in greco è ™xhg»sato, cioè il far comprendere il senso di qualcosa. L’unico che ci fa comprendere chi è Dio, chi è? Chi può accedere alla pienezza dell’intimità, cioè Gesù, e Gesù questa pienezza d’intimità non la ritiene una prerogativa gelosa, ma la offre a tutti noi.

Ecco perché, nel Vangelo di Giovanni, c’è un discepolo che non ha nome e non è lecito metterlo, anche se la tradizione poi gli ha dato il nome di Giovanni: ma per quel che ne sappiamo si poteva pure chiamare Beppe o un altro nome…

Perché c’è un discepolo, nel Vangelo di Giovanni, che non ha nome? Quando in un Vangelo non viene indicato il nome di un personaggio, lo si fa perché vuol essere un personaggio rappresentativo nel quale ognuno si può identificare. Allora, l’evangelista ci presenta un discepolo e non gli mette il nome, perché non è un personaggio del quale pensare con nostalgia a quanto sia stato fortunato ad essere il prediletto di Gesù, ma ci sta dicendo che è questo il discepolo ideale!

E qual è la caratteristica di questo discepolo? È il primo che accoglie l’invito di Gesù, lo segue sempre, gli è intimo nella cena. Quando l’evangelista dice che questo discepolo era nel seno di Gesù, vuol dire che, come Gesù è nell’intimità piena di Dio, nel Padre, così anche a noi è concesso di stare nella stessa intimità.

Quindi è un invito, non è una nostalgia per dire: guarda quello che era il coccolino di Gesù, beato perché si è preso le sue carezzine… Ognuno di noi può essere nella piena intimità di Gesù, e quindi di Dio, come il Vangelo ce lo presenta.

Però, attenzione, questo discepolo è quello che finirà nella croce con Gesù. Giovanni, nel suo Vangelo, è l’unico che non parla di malfattori crocefissi con Gesù e fa comprendere che i personaggi accanto alla croce sono in realtà crocefissi con Gesù. Questo discepolo poi sarà il primo che, una volta risorto Gesù, ne percepirà la presenza. Perciò l’evangelista ci vuol far intendere che questo è il modello di discepolo.

Con questo termina il prologo, e dopo questo prologo comincia il Vangelo. In pratica, il prologo termina con l’espressione: “Dio nessuno l’ha mai visto; l’unico che ne ha la spiegazione è Gesù”.

Adesso leggete il resto del Vangelo e vedrete chi è Gesù e quindi chi è Dio”.

Ecco, più o meno abbiamo concluso questo capolavoro di teologia, di spiritualità. Vi ringrazio per l’attenzione. Vi dicevo, prima di incominciare, che non pensavo che ci fossero tanti incoscienti, perché per venire ad un convegno sul prologo del Vangelo di Giovanni, che è la parte più complicata e difficile di tutti i Vangeli, ci vuole veramente un bel coraggio… 36

 

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