Sa Cancione de is Frades Barraccas: moralità cristiana e diritto barbaricino, di Salvatore Liori

Sommario: Il mito di una poesia. La struttura e la storia. Il Settecento montanaro. Morale cristiana e diritto consuetudinario. Il messaggio pedagogico.

 

L’Autore (nella foto) è originario di Desulo, il paese dove ha fatto il Sindaco,e  abita a Nuoro.

Docente in pensione negli Istituti di Istruzione Superiore.

Appassionato di cultura sarda.


Sa Cancione de is Frades Barraccas: moralità cristiana e diritto barbaricino, di Salvatore Liori

Il mito di una poesia.

Nella tasca della giacca o nella memoria di tutti i desulesi di un tempo ormai passato si custodivano molti versi, diverse ottave o addirittura l’intero testo poetico de Sa Cancione de is Frades Barracas o Sa Cancione de sa Cufessione, come sempre l’hanno conosciuta o appellata gli abitanti del paese montanaro.

Custoditi gelosamente nella memoria o in diversi fogli consunti dal tempo, peraltro ben riposti nei voluminosi portafogli che fungevano da uffici portatili, quei versi, interamente scritti a mano, giravano in tutta la Sardegna, perché in tutta l’isola girovagavano i commercianti ambulanti della montagna e in tante altre parti della terra sarda si avventuravano i pastori del Gennargentu, con naturale preferenza nelle pianure del Campidano, dove in inverno conducevano il bestiame per la tradizionale transumanza.

Proprio i pastori, sicuramente più di tanti altri, riservavano a Sa Cufessione un’attenzione molto particolare, un pensiero quasi sacrale, perché individuavano in quei versi quasi un conforto dell’anima, sicuramente l’unica compagnia nei tempi morti, difficili da trascorrere nelle solitudini sconfinate delle pianure. A memoria comune, non si dimenticavano di quei versi neanche nelle ore più impegnative delle faticose mungiture o in quelle un po’ più rilassanti della lavorazione del formaggio.

Seduto sopra un’instabile panca, cosciente di vivere in un tempo eternamente sospeso, per il pastore dei tempi passati la lavorazione del formaggio richiedeva tempo, perizia e pazienza, tra la rottura e il deposito della cagliata negli stampi di legno di castagno che gli ambulanti della montagna vendevano di ovile in ovile. Un lavoro di esperienza e di abilità che durava a lungo e che finiva con le ultime energie fisiche e mentali riservate alla salatura del prodotto confezionato nelle giornate precedenti.

Quello era il tempo della vita, in cui la mente, impegnata nel compito più leggero di un lavoro ripetitivo al riparo dai tormenti fisici del clima esterno, il pastore desulese si abbandonava ai dolci ricordi di luoghi lontani che con ritmo costante si depositavano delicati negli ultimi recessi della memoria ricolma di pensieri tristi, di fastidiose ombre di vita vissuta, di qualche sogno rivolto al godimento di tempi migliori che puntualmente scompariva alla vista della difficile realtà quotidiana.

Ricordi e richiami, talvolta dolci e toccanti, spesso severi e pedagogici, di poesia conosciuta, si alimentavano quasi sempre con i versi de Sa Cufessione, quelli in cui si riconosceva l’intera cultura comunitaria del paese. Caldi segnali della memoria spesso alternati da poesie soavi che l’ispirazione permetteva ad ogni pastore di creare proprio sul momento. Svaghi malinconici di uomini soli, raramente distratti dalla presenza di solitarie compagnie che talvolta si alternavano negli ovili sperduti di terre lontane. Segnali dello spirito, luoghi del tempo umano che solo la visita di qualche commerciante ambulante o di qualche altro pastore alla ricerca di bestiame smarrito aiutava a segnare il legame tra l’abitante dell’ovile e il resto dell’umanità.

Una custodia molto accurata del documento poetico la facevano anche gli ambulanti, sebbene il loro infinito peregrinare li mettesse più a contatto con altre culture, con altre poesie, specialmente quando, con la sola compagnia di un cavallo del Gennargentu, si inoltravano nelle dolci e fertili terre del Logudoro, simbolo storico di cultura sarda impegnata e di poesia di valore.

In qualsiasi modo fosse custodita, la poesia de Sa Cufessione diventava tuttavia per ogni desulese un segno distintivo di appartenenza, un quaderno prezioso di appunti di dottrina religiosa, una condivisa pedagogia della memoria alla quale in qualsiasi momento bisognava riferirsi o nella quale comunque poteva riconoscersi; soprattutto un aiuto temporaneo al quale ricorrere nei momenti del bisogno, principalmente quando, in una discussione, il confronto diventava difficile e qualche verso de Sa Cufessione serviva per rinforzare una tesi, sostenerne un’altra o semplicemente ostentare segni di conoscenza superiore. Contro ogni ragionevole dubbio Sa Cancione era divenuta nel tempo l’unico riconosciuto santuario di cultura popolare al quale il montanaro del Gennargentu si rivolgeva in ogni momento della sua difficile esistenza.

La struttura e la storia

Testo poetico di sessanta ottave, Sa Cancione de is Frades Barraccas, fino agli anni ‘20 del secolo passato, il periodo della storia in cui è stata pubblicata con un foglio stampato in cento esemplari -  secondo quello che scrive Antonangelo Liori che, con raffinata e colta introduzione e ricco glossario, nel 1993 ha curato la pubblicazione dell’opera per le Edizioni della Torre -  ha fatto parte di quella letteratura alla macchia dove hanno trovato importante compagnia tantissime testimonianze letterarie di valore, molte desulesi, quelle che si tramandavano di padre in figlio e di generazione in generazione nella memoria popolare.

Alla stessa memoria bisogna ricorrere anche per capire chi ha scritto e in quale tempo della storia ha trovato origine Sa Cancione, un’opera che sostanzialmente propone un argomentare poetico che anticipa il modus operandi dei poeti sardi estemporanei. Gli stessi che, a partire dal 20 settembre 1896 ad Ozieri, in occasione della festa della Santa Vergine del Rimedio, continuano a dilettarsi ancora oggi nei palchi delle feste paesane  a dibattere un tema in cui ognuno interpreta un ruolo, sviluppando l’argomento assegnatogli dalla giuria e senza rinunciare ad un impegnativo gioco teatrale in cui si abbandona ad attaccare o a difendersi in ottava rima.

La stessa tecnica usata dai due fratelli pastori, Loisu e Gioassantos, che, secondo la memoria popolare, al ritorno dai pascoli nelle pianure, mentre facevano il formaggio nel loro ovile di montagna, in una delle tante tenzoni poetiche in uso presso i pastori durante i momenti del lavoro, in onore del sacramento della confessione si erano improvvisati cufessore e penitente, col risultato che, toccando argomenti così delicati, il latte si era trasformato in sangue.

Il tema del contendere riguardava il peccato, che per il cristiano di ogni tempo è la trasgressione della legge del Decalogo, la grave colpa che solo il sacramento della confessione può permettere ai peccatori di liberarsi dal pesante fardello che grava sulla loro coscienza e di riconciliarsi con Dio e con la Chiesa.

Nessuno sa se Loisu e Gioassantos conoscessero il passo di Giovanni: ‘Ricevete lo Spirito Santo. Se perdonerete a qualcuno i suoi peccati, questi saranno perdonati; se rimetterete a qualcuno i suoi peccati, questi saranno rimessi”, ma tutti sanno che nella Cancione tutti i comandamenti sono stati richiamati per capire in profondità se il penitente sia stato un fedele osservante della dottrina della Chiesa.

Con un testo poetico che si fonda su questi postulati teologici, non pare molto agevole conoscere a fondo la linea di sviluppo della poesia senza tentare di capire se i Frades Barraccas siano veramente esistiti e in quale periodo della storia abbiano vissuto, sebbene alcune spie di lettura possano aiutarci a comprendere il tempo storico in cui la poesia è stata scritta.

Sul loro concreto passaggio in questo mondo sono diffuse, intanto, diverse opinioni, come quella che li accosta alla tradizione desulese che li ha sempre chiamati Is Aulles. Chissà perché poi Melchiorre Murenu, nella famosa tenzone con Maloccu de Fonne, citi Sos Aulles:

Pro superare sa forza malocca

torrados sun a bida sos Saulles:

Sos Saulles torrados sun a bida

pro dare a Maloccu paga vida.

A parte le opinioni e le possibili tracce storiche, il problema più importante resta da comprendere se la poesia, per i temi che ha toccato, per la sua consistenza teologica, per lo spessore culturale dell’approfondimento, sia stata veramente scritta da due semplici pastori di un paese in un ovile sperduto tra le alte montagne del Gennargentu o – come in molti propendono – da qualche persona più istruita, che sapesse più in profondità di cultura religiosa e più di ogni altra cosa di dottrina cristiana. In questo ragionamento, l’unica persona che era in grado di farlo non poteva essere che un prete. Un prete desulese, certamente, uno che conosceva bene la lingua, la cultura e il carattere dei desulesi.

 

Il Settecento montanaro

Di fronte alle difficoltà di conoscere i veri autori, una delle uniche e possibili certezze è che la poesia sia stata scritta quasi sicuramente nel Settecento, quel secolo della storia in cui in Sardegna la giustizia era ancora amministrata per conto di un feudatario o da un suo fidato rappresentante.

Gioassantos chiama maggiore il rappresentante della giustizia in un’ottava in cui l’uomo si rifiuta di giurare il falso, in un periodo in cui si giurava in nome di Dio. Il rifiuto è così sentito, però, che questo sentimento risale non solo al suo essere cristiano, ma più di qualsiasi altra cosa al suo essere uomo sardo e di Barbagia, uomo di una sola parola. Cosi al richiamo di Loisu, il confessore, che severamente gli dice:

narami ci asa giurau cun malicia,

in libros o in manosa de giusticia.

il penitente, infastidito e quasi offeso, risponde:

Deo padre non seo giuradore

e a giurare non seo avesau.

Custu si d’asseguro, sissennore,

giura deo non n’hapo ispreurau

in libru, né in manos de maggiore

mai cun manu mia happo toccau …

Un secolo particolare, il Settecento, per la Sardegna e soprattutto per i paesi della montagna sarda, con il villaggio dei Frades Barraccas considerato uno dei più popolosi nell’Incontrada del Mandrolisai. Un paese e un territorio, Desulo e il Mandrolisai, in cui, però, non era molto facile amministrare la cosa pubblica, tanto meno la giustizia, perché l’isolamento condizionava qualsiasi presenza o vicinanza dello Stato con tutte le sue leggi. Un isolamento atavico, se si pensa che la ferrovia doveva arrivare solo alla fine dell’Ottocento. Così, quei territori, ai quali era difficile accedervi perfino per i militari dell’ordine pubblico, diventavano gli unici luoghi di libertà civile diffusa, dove l’autogoverno, con le sue leggi e i suoi riti, alimentava il modello ordinario di vita.

Quello era lo stesso territorio che costituiva la parte più interna di un’isola che era stata quasi sottratta alle correnti d’influsso che percorrevano il continente in tutto il Medio Evo, preservandosi come una regione quasi risparmiata dai modelli sociali di quel periodo storico lungo e importante, come affermava Marc Bloch.

In quella situazione, la montagna con i suoi villaggi, ermeticamente protetta dal suo ancestrale isolamento, restava l’unica terra in Sardegna quasi interamente risparmiata dai vincoli di una giustizia statale, tanto che il diritto consuetudinario, con la vendetta e i suoi annessi, poteva conservarsi intatto, più di ogni altro luogo, principalmente in quei territori.

Se il grande storico francese arrivava a considerare che l’insularità della Sardegna aveva limitato l’influsso delle grandi correnti della storia continentale nell’isola, mantenendola per lungo tempo nella condizione di un territorio antropico arcaico, non solo al valente studioso, ma anche a qualsiasi semplice osservatore, non poteva sfuggire che più che il mare, la montagna era stata la responsabile dell’isolamento di tante popolazioni dell’interno. Con una riflessione supplementare, però: quella che induce a considerare che, se la montagna è la montagna, sorgente naturale di isolamento storico, essa però non è stata solo un ostacolo al facile accesso di tutti, perfino di coloro che avevano in animo ignobili aggressioni per la sua conquista, ma anche un rifugio, forse l’ultimo rifugio di libertà e di democrazia.

Isolamento e libertà si erano conservati a lungo e in forme molto evidenti soprattutto a Desulo – certamente oltre il Settecento – elementi di vita non limitati solo alla particolare situazione sociale, ma allargati al carattere morale degli abitanti del paese così tanto marcato che, nella compilazione del suo famoso Dizionario, l’abate cagliaritano Vittorio Angius poteva scrivere con secca convinzione: “Quasi qui si verifica che il luogo simili a sé gli abitator produce. Proni all’ira non si dimenticano che hanno un arcobugio e un coltello. L’odio contro uno involge tutti i suoi prossimi, e si eccita da una sola imprudenza un grandissimo fuoco di inimicizie; qualche volta caddero gli innocenti e teneri. Quindi disse chi sapevasi bene di ciò che dicea esser valle o poggio che non gridasse vendetta del sangue di cui erano tinte. I carabinieri reali avean cominciato a educarli a sentimenti più miti … Sono pertanto non pochi i debitori alla legge, e la necessità di rinforzi e difese li fa congiurare!”.

Così, se Sa Cancione, come con lessico raffinato scrive Antonangelo Liori, “è una poesia desulese solo nella misura in cui è stata cantata in desulese. Ma per il resto è un poema del mondo, è una storia senza confini etnici o territoriali, è il testamento spirituale di due aedi di un villaggio che ha le sue radici nell’universo”, emerge in tutto il canto anche il confronto, spesso aspro, a tratti quasi inconciliabile, tra società e mondi diversi, che solo all’interno della composizione poetica trovano quella sintesi ed unità in cui si ricomprende la complessità di una comunità che solo apparentemente sembrava un monolite sociale.

Se così stanno le cose, Sa Cufessione, non è solo la seria, a tratti sofferta, rappresentazione poetica di un sacramento, ma diventa lo specchio inconfondibile di un confronto, talvolta perfino duro e spigoloso, di storie umane, di sistemi giuridici, morali e formativi distanti e distinti.

In quest’ottica, se la figura di Loisu rappresenta la Chiesa cattolica ufficiale, con tutto il suo universale carico morale di carità e di perdono, di grazia e di santità, interamente ricompreso nelle note del Decalogo che sono alla base della scrittura del poema, la figura di Gioassantos non può essere solo il contraltare de Su cufessore, ma anche e soprattutto il simbolo di un esito pedagogico e di una realtà umana che neanche la Chiesa cattolica, arrivata in Barbagia dodici secoli prima, è riuscita a incidere in netta profondità. Per non parlare della presenza dello Stato che, nelle dense penombre di una montagna disincantata, appare distante e lontano, quasi invisibile, per non dire quasi inavvicinabile. Una presenza, quella dell’istituzione ufficiale dell’amministrazione della cosa pubblica, che il cittadino montanaro ha sempre guardato e continua ancora oggi a guardare con diffidenza e freddo distacco.

A proposito del Confessore, seguendo la linea della propria figura, Loisu interpreta il suo ruolo impeccabilmente, sistemandosi su un piedistallo di autorità dispensatrice di avvertimenti sull’importanza del sacramento della confessione, a partire dall’inizio del canto, quasi ad invitare il penitente ad abbandonare il campo in cui fino a quel momento ha coltivato quello che ha voluto, a segnare perfino nella postura del corpo una resa senza condizioni:

Unu ci annat prepostu a cufessare

distintu devet narre su peccau

e cun coro cuntritu hat a istare

a conca nuda e ingenugau  ….

Ma si non portat sa preposicione

est nulla e falsa sa cufessione.

 

Questo severo avvertimento avrebbe creato uno stato diffidente e dispettoso in qualunque persona, soprattutto in quelle abituate a vivere il tempo della storia come la tradizione, l’educazione ricevuta, il cosiddetto carattere morale le ha forgiate. Tutto il contrario dell’atteggiamento di Gioassantos, che per poter essere assortu (assolto) si mostra disponibile, sincero, leale e collaborativo,

Ca de non faet male hapo resortu

e de non torrare prusu a male impreu …

olia de dolore a essere mortu

po non torrae a offennere a Deu

perfino quando Loisu, con stringente sollecitudine lo invita a fare il proprio dovere, soprattutto alla luce della benefica presenza del Creatore, sempre in soccorso di chi sbaglia, più ogni altro, di colui che ha più e sentito bisogno della sua divina assistenza,

Cufessami is peccaos in presencia

non ne lasses né mannu e nen pitiu,

ca Deus t’hat a giare s’assistencia

arreppentidi ci d’has offenniu.

Non ne lasses ne pitiu, ne mannu,

cufessa interamente cena ingannu.

Il fatto che colpisce di più, però, è quando l’evoluzione del canto arriva all’analisi del mancato rispetto dei comandamenti, che sono esaminati con rigore, uno per uno.

Quello appare il punto che per il cristiano della dottrina è il simbolo del grave peccato mortale, ma per Gioassantos, che comunque conosce la dottrina e i suoi profondi significati, diventa il tempo e la vita di tutti i giorni, il modo di vivere di coloro che per sopravvivere fanno quello che hanno sempre fatto, trasgredendo il Decalogo, la Chiesa e il sacro messaggio del Creatore del mondo. Con una distinzione neanche troppo sottile, però: quella avvertita dal penitente quando evidenzia che ogni trasgressione non è stata mai compiuta per malizia o per cattiveria, ma solamente per assolvere ai doveri naturali della vita, quasi sempre dettati dal bisogno e dalle quotidiane necessità:

Istau seo un’iddarrespettau

pappanno peccia in die fedada

de precettu non n’happo guardau

annanno a missa in bagancia obbligada

in die de festa happo trabagiau

fatt’happo una vida disastrada.

In is dies de festa fittianu

trabagianno che unu giorrordanu.

Questo è il momento cruciale del canto, il tempo poetico in cui il sacramento della confessione – che nella teologia cristiana è il momento più alto della liberazione dal peccato, della più sentita misericordia, l’incrocio della vita che permette la più sentita riconciliazione con Nostro Signore – si accompagna con i tempi storici del montanaro, quelli del vivere terreno, gli istanti del tempo in cui Gioassantos trasgredisce solo per bisogno e per un altro e importante senso del dovere, quello che discende dalle necessità e dagli obblighi della vita di tutti i giorni.

 

Morale cristiana e diritto consuetudinario

Uno dei momenti più alti, Sa Cancione, però, lo raggiunge nei versi della trattazione del tema del settimo comandamento, il tema che, a parere di molti, soprattutto nella Barbagia profonda, è stata una costante di vita, l’origine di tutti i misteri terreni, delle faide e delle contrapposizioni familiari, delle offese e delle ingiustizie personali e comunitarie, del famoso codice della vendetta. Il tema, quello della vendetta, che nelle sue varie manifestazioni e in diversi periodi della storia, ha sconvolto perfino l’assetto più conosciuto del diritto consuetudinario, contribuendo a definirlo in modo tale da porre la medesima in tutte le sue forme a fondamento giuridico della sua stessa essenza storica.

Se la vendetta è stata il filo conduttore della ventesima ottava, quando Giossantos risponde alla sollecitazione di Loisu in modo chiaro e netto, con un’affermazione che va al di là della vendetta stessa, perfino personificandola nella sua presenza umana, e lo fa con lessico secco, freddo e duro, come secca, fredda e dura è sa fangancia montanara,

De fangancia seo istau prenu

contra a is ci m’hanta aggraviau

gianno a tottus latte cun ferenu

hap’a medas sa morte disigiau

cun d’unu coro duru e non sulenu

sempere fangativu seo istau …

 

l’esame del settimo comandamento porta direttamente al furto di un bue domato, che in una società agropastorale è il più odioso di tutti i furti, perché priva il padrone del mezzo da cui trae sostentamento l’intera famiglia, sia quando l’animale serva per arare, sia per il trasporto, o per tutti e due i servizi. Un vero peccato mortale, che sicuramente è più facile perdonare dall’infinita misericordia di Dio, che da quella di tutti gli uomini della Barbagia, la terra più difficile. Perfino da quella dei barbaricini più misericordiosi.

L’esame del tema del settimo comandamento arriva dopo che in una delle ottave precedenti, forse una delle più brillanti, Gioassantos, su penitente, si libera da qualsiasi pregiudizio terreno e si mostra in tutta la sua più umile trasparenza, riconoscendo che tutto il suo modo di fare, tutto il suo modo di vivere, tutto il suo essere in questo mondo, è molto distante dallo stile di vita del credente cristiano, distante più di tutto dai fini spirituali dei generosi consigli che Dio ha dato agli uomini della terra:

Fattu happo una vida ‘e paganu

sempere seo istau un giudeu…

seo istau unu malu cristianu

trattanno male a su munnu e a Deu …

La liberazione dell’anima da ogni dubbio o ambiguità del suo comportamento poco cristiano non significa però che, Gioassantos, posto di fronte al furto del bue domato, non rivendichi alibi, giustificazioni o, comunque, un riscontro di comprensione umana, elementi di difesa che riconducono al suo essere sardo e barbaricino, con un codice morale e giuridico molto diverso dal codice morale della dottrina cristiana. Un comportamento, quello di Gioassantos, che in ogni modo l’interessato tenta di minimizzare o di riportarlo ad un fatto che non abbia i connotati della gravità assoluta, pervenendo a provare quasi una delicata sensazione di vergogna:

 

Una orta ladrone seo istau

ancora ci est bregugna narrereddu

In cosa agnena mi seo agatau

seo in parte de unu magioleddu.

Atera cosa no happo toccau

nen bacca, nen crabittu, nen porcedddu …

Un tentativo di giustificazione che si fa strada in una ricerca di difesa ad oltranza, perfino con la citazione di persone che possano contribuire a limitare il suo reale stato di colpevolezza:

Su magiolu un amigu midd’hat giau

e happo cumenciau a ddu pagare,

ma ci essere suo o furau

padre non si ddu poccio asegurare ….

Solo alla fine, schiacciato dal peso della responsabilità, Gioassantos confessa la vera consistenza del furto, un bue di undici anni, il reato peggiore del diritto consuetudinario, che lo punisce con la morte del responsabile:

Custu est de is paccaos mannos,

su magiolu teniat unnnig’annos

Forse questo è il punto in cui diritto consuetudinario, dottrina morale cristiana, diritto e dovere di tutti gli uomini del mondo, si incontrano, e la verità universale si leva con tutta la sua forza, il tempo in cui si ammette la gravità dei fatti che in una società della sopravvivenza non permette nessuna ambiguità, ripensamento o sotterfugio, anche perché, tutto può essere permesso a chiunque, ma non di arrecare un danno assoluto a sopravvivere a chi ha giusto diritto di vivere.

Se il bue domato era il solo mezzo necessario alla sopravvivenza, allora tutto si spiega, compreso l’insistenza del confessore di mortificare qualsiasi tentativo di minimizzare o perfino di nascondere il peccato o di inutile difesa dell’imputato. Il tutto si spiega col fatto di capire che l’infinita forza della misericordia di Dio non significa, però, l’esistenza di un Creatore indifferente alle miserie e agli errori dell’uomo. Dio sa tutto di tutti e a ben poco serviranno le piccole e fastidiose furbizie della volpe, di fronte alla necessità morale di una confessione chiara e netta, atto dovuto per avviare la pulizia dell’anima:

Figiu meu, cufessa cun abarru,

mira ci non t’ingannet su nemigu.

A duncas su magiolu tirat carru

a duncas su magiolu ‘ettat trigu

Mancari d’happas giau su capparru

tue ddu eppes coment’ ei s’amigu.

A duncas su magiolu faet pane,

non cufesses iscusas de margiane

La parte finale de Sa Cancione, che peraltro si distende lungo una fila di numerose ottave, fa i conti con la richiesta che Su cufessore fa al penitente di un pentimento puntuale, preciso, convinto, una scelta che non può lasciare dubbi di sorta, fraintendimenti di nessun tipo, una scelta peraltro accompagnata dalla meditata consapevolezza e determinazione di non cadere più nella condizione di poter ripetere errori passati, ma al contrario, se è possibile, di porre rimedio alle offese e agli abusi consumati a danno degli altri. Solo questa scelta può evitare strascichi da scontare nell’altro mondo:

M’has a giare peraula secura

ca mai prus non torras a peccare

e arrevellas in cosas de fura

e ddas pagas a su pobiddare

mancari ci tinn’essat congiuntura

sa cosa agnena lassadda passare

Lass’istare, non torres a su viciu

po non giare contos in giudiciu.

 

Tra una rinnovata promessa di pentimento che Gioassantos continua a dichiarare con convinta consapevolezza di essersi assunto ogni responsabilità, soprattutto negli obblighi che gli derivano dalle offese e dai danni arrecati agli altri nella sua discutibile vicenda umana:

Peraula segura bosi hao

sa cos’agnena d’avvero luego …

e un ripetuto e minaccioso nuovo avvertimento del confessore, che intima al penitente di assolvere per intero ai doveri che gli competono per tutti i fatti contestatigli, pena la nullità della confessione stessa:

Ci no obbidis a su ci happo nau

est comente no happas cufessau …

il momento topico si vive, però, quando, Gioassantos, non sapendo più cosa pensare, promettere o dire, ritorna alla morale giornaliera del diritto di montagna, che altro non è che una parte importante del proprio universo morale, quello che regola i passaggi della vita scaricando sugli altri il peso della responsabilità, dopo aver fatto di tutto per assumerselo in proprio.

Sembra un passaggio di una leggerezza quasi ironica, di un modo leggero di trattare le cose quotidiane, per paradosso in un tratto di vita cristiana in cui la discriminante è tra il bene e il male, tra la terra e il cielo, tra il mistero dell’ultimo destino e la certezza del tempo di ogni giorno, ma, proprio in quel delicato percorso, Gioassantos ripropone la necessità che ognuno si assuma le proprie responsabilità, compreso la liberazione da ogni pena per chi ha fatto interamente il proprio dovere:

Ci mi ‘olet faede sa caridade

como est s’ora de mi aggiudare

po more ‘e Deus assolliemi prade

e non lassedas a mi cunnennare

Ca ci nono ddu lasso a contu suo

ca ci morgio in pena non orruo.

Il duro confronto tra le responsabilità del cristiano che il confessore ricorda fino all’ultimo istante della confessione e la convinta dichiarazione del penitente, che offre il proprio pentimento come dono personale per la riconciliazione col Dio misericordioso, prosegue fino alla fine de Sa Cancione, quando finalmente Loisu scioglie Gioassantos dal vincolo di sudditanza dal peccato, ricordandogli, però, di chiedere umilmente a Dio compassione e perdono per la sua vita di peccatore. Al richiamo interamente raccolto dal penitente:

Gesù Cristu omine e veru Deu

bosi prego a mi perdonare ….

Gesu, omine unicu e verdaderu,

assolviemi ca du nao aberu.

il confessore, finalmente, può dare gli ultimi consigli della confessione, chiedendo a Gioassantos di rivolgersi a tutti i santi, alla Madonna e, in ultima istanza, al Dio degli umili, infinito dispensatore di misericordia:

e ci t’accanciat sa pregadoria

ci Deus siat po ti perdonare.

Prega ci ti perdone tottu cantu,

babbu, figiu e ispiritu santu.

Il messaggio pedagogico

Se l’esito della poesia non può non essere che in totale sintonia con il credo religioso del Cristianesimo, la domanda che ci dobbiamo porre, però, è legata alla considerazione di capire se Sa Cancione sia stata scritta da due pastori del Settecento desulese solamente per trascorrere una parte del loro tempo di lavoro accompagnandolo da una raffinata tenzone poetica o, se dietro alla storia poetica ci sia qualcuno o qualcosa di più, qualcuno o qualcosa che nasconda un’intenzione più meritoria e ragionata.

Ora, a tutti risulta che nel Settecento desulese fossero di dominio pubblico parti importanti di dottrina che la Chiesa cercava di diffondere con tutti i canali di cui poteva disporre, intendendo per canali  non solo tutte le manifestazioni religiose in cui i suoi rappresentanti comunicavano il messaggio evangelico, ma anche tutte le associazioni legate alla struttura ecclesiastica che capillarmente contribuivano a far conoscere la dottrina; come a tutti risulta quasi impossibile, per gente che non fosse di chiesa, scrivere Sa Cancione, la quale al suo interno contiene elementi di profonde conoscenze dottrinali di gente colta.

Queste osservazioni non impediscono ad alcuno di considerare, tuttavia, che chiunque l’abbia elaborata, o semplici pastori, o colti uomini di chiesa, la poesia de Sa Cufessione non assolva dalla prima all’ultima ottava ad un servizio pedagogico importante per la comunità desulese di quel tempo.

A maggior ragione, se l’opera è stata elaborata da uomini di chiesa, essa assolve ad una ragionata strategia di educazione, non solo rivolta alla formazione della persona cristiana, ma ad una vera e propria finalità pedagogica indirizzata al cambiamento del modo di pensare del cittadino desulese di quel tempo; ancor più, se dovesse corrispondere a verità tutto quello che ha scritto sul carattere morale dei desulesi l’abate Angius nel suo famoso Dizionario, quando scriveva che in quel tempo cadevano anche gli innocenti e i teneri, o  I carabinieri reali avean cominciato a educarli a sentimenti più miti.

Ora, il fatto che nelle rancorose dispute umane della Barbagia montanara del Settecento si potessero uccidere anche gli indifesi e i bambini non è contemplato neanche nelle parti più discutibili del diritto consuetudinario, come che i militari si dovessero adibire a educare la gente a più miti consigli significa che il comportamento della comunità desulese del tempo aveva raggiunto livelli di inumanità indefinibile. Segni gravissimi di un’umanità dolente e smarrita, che non potevano inquietare solamente l’animo delicato di un abate cagliaritano, ma qualunque persona che avesse a cuore il rispetto della dignità umana.

Solo tenendo conto di queste conoscenze si potrebbe spiegare la scelta di un esponente della chiesa ufficiale a operare una scelta culturale che servisse a comporre o a ricomporre un nuovo universo morale che potesse ricomprendere le parti più nobili dell’eredità umana sedimentata nel diritto comunitario e gli elementi fondanti del verbo cristiano.

Solo questa scelta può profondamente spiegare l’importanza di una poesia di valore, non solo sul versante letterario, ma anche sulla rilevanza storica – antropologica di un testo poetico come quello de Sa Cancione de is Frades Barraca. Come nessuno può negare che chiunque l’abbia ideata o cantata, Sa Cufessione abbia rappresentato l’identità della parte più pura della Barbagia montanara, il simbolo di una umanità nuova che ha sempre sostenuto un credo morale e pedagogico con al centro la persona umana innervata di principi sani di solidarietà e di rispetto per il prossimo. L’universo morale in cui si sono sempre riconosciuti i desulesi che hanno creduto ai valori più nobili della loro storia comunitaria.

Salvatore Liori

 

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