La figliastra di dio, di Donata Francescato

Un’artista originaria di Villamassargia, Amelia Camboni (nella foto), ha racconta in un libro autobiografico (Figliastri di Dio), uscito quarant’anni orsono, vicende e difficoltà vissute da una donna in un’arcaica e patriarcale comunità sarda. Da ‘effe’, archivio storico femminista, marzo 1982

 

Ci sono tre aspetti particolari che mi hanno colpita nel libro autobiografico (Figliastri di Dio) di Amelia Camboni, scultrice, che io non ho mai incontrato, ma che dopo la lettura del suo libro sento quasi di riconoscere. Riconoscere, perché pur nelle differenze di origine geografica e sociale, nei diversi ideali che ci ispirano, nel percorso differente preso dalla sua vita, io rivedo in lei un’altra donna che ha dovuto lottare e sprecare molta della sua possente vitalità solo per poter realizzare parte delle sue aspirazioni.
Il primo aspetto particolare di questo libro è appunto che esso è la storia d’una vita di donna e come tale vita d’una emarginata. Fin dall’infanzia Amelia ha dovuto lottare contro la discriminazione di sesso, dapprima in famiglia contro un padre che non poteva accettare che una figlia scegliesse un’arte “maschile” come la scultura, più tardi a Roma contro autorità civili e religiose che pur apprezzando a volte pubblicamente il suo talento non le davano lavoro, perché come un giorno le spiegò un cardinale “starebbe male far dipingere un ritratto di Cardinale da una donna”, oppure “l’arte sacra non si confà a una donna”. Discriminata perché anche lei, come troppe altre donne giovani e avvenenti, avrebbe potuto avere incarichi e studi per formare le sue sculture solo “vendendo il suo corpo”, a chi con le chiavi d’uno studio le imponeva contemporaneamente quelle della sua garçonniere.
La seconda caratteristica di questo lavoro che ne fa un documento quasi “storicamente” interessante è che Amelia descrive la vita del suo paese sardo, da un occhio femminile e dunque particolarmente attento e solidale con i suoi compaesani, specie quelli poveri, disoccupati, diseredati che lei chiama i “figliastri di Dio” contrapponendoli ai benestanti che sono appunto i figli di Dio. Particolarmente truce emerge il destino, sottolineato solo a tratti dalla Camboni delle “figliastre diDio”. Donne spesso battute dai loro mariti giorno dopo giorno, lasciate solo ad allevare figli mentre i mariti disoccupati o non s’ubriacavano all’osteria ma imprigionate da una morale pubblica che decretava “una volta sposata in casa devi rimanere”. Quanto questa morale “pubblica” fosse determinante nell’imporre comportamenti conformisti traspare da un allucinante episodio raccontato nel libro. Una donna giovane e bella, per anni si trovò a vivere con un bruto di marito che la percuoteva duramente ogni giorno. Tutto il paese sapeva, ma tutti tolleravano, perché, si sa. battere la propria moglie in alcuni contesti sociali è un normale diritto del marito. Il vicino di casa di questa donna, un uomo mite e gentile s’innamorò ricambiato di questa giovane donna, la quale osò, con incredibile coraggio, rompendo tutte le regole, lasciare il marito e andare a vivere con il suo amante. Appena la cosa venne risaputa in paese, un’intera folla di uomini e donne si radunò davanti alla casa degli amanti, lanciando insulti nella direzione della donna e imponendole di tornare a casa. Tre giorni e tre notti durò la macabra violenta veglia, finché la donna spossata rinunciò al suo amore, si piegò a tornò a pigliarsi il suo pane quotidiano di calci. Solo vedendola rientrare nella sua gabbia di vittima, la folla finalmente quietata se ne andò lasciandola sola a sopportare l’ulteriore dose di botte che il suo gesto di ribellione aveva “autorizzato” il marito ad infliggerle.
La terza cosa che più mi ha colpito nel libro di Amelia è l’atteggiamento delle gerarchie ecclesiastiche sia nel suo paesino sardo, sia più tardi a Roma. Nel paesino usavano allora i funerali di prima seconda e terza classe, come d’altronde in tutta Italia. Ma usava anche comprarsi le assoluzioni per i defunti al cimitero. Una famiglia ricca poteva pagarsi fino a venti assoluzioni, scrupolosamente contate, e così, accorciare i giorni di purgatorio del caro estinto, mentre invece i “figliastri di Dio” dovevano dopo aver trascinato una vita grama, anche avere il “rimorso” di non poter aiutare i loro defunti. Amelia ragazza ha il coraggio di ribellarsi a questa tradizione mercenaria e dona un giorno il denaro per l’assoluzione a una vedova povera, la quale però invece di comprare viveri per sé e le sue figlie, spende felice quel denaro per comprare finalmente anche lei almeno “due” assoluzioni a suo marito. Nel suo libro Amelia denuncia in vari modi come le gerarchie ecclesiastiche contribuissero a tenere i poveri soggiogati, spaventandoli con i castighi dell’ai di là e accettando le divisioni e le ingiustizie sociali come un “dato naturale” voluto misteriosamente da Dio. Anche nella Roma più moderna ed evoluta le autorità ecclesiastiche non danno mai un aiuto concreto alla giovane scultrice bisognosa, praticando sempre solo a parole quella carità cristiana che esortano gli altri a seguire dai loro pulpiti.
Infine da questa autobiografia emerge il coraggio e la vitalità di questa donna, che non si è lasciata piegare e ha tentato ed in parte è riuscita ad esprimere il suo talento di scultrice. Ma s’intravede anche, chiaramente, il prezzo di fatica, di salute, di energia pagato, per questa faticosa ribellione.
E proprio questa fatica di vivere da donna, di diventare persona — in questo caso persona-artista — al di là del sesso, che la storia d’Amelia s’identifica con la storia di metà dell’umanità.

 

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    1 Comment to “La figliastra di dio, di Donata Francescato”

    1. By Mario Pudhu, 9 luglio 2020 @ 08:28

      Pro èssere pagu, sa bidha de Villamassàrgia a custa cristiana (cristiana!!!) li tiat fàghere unu monumentu.