Assad perde, Assad vince Il lungo inverno siriano, di Lorenzo Cremonese

2011-2020 Il 15 marzo di nove anni fa il vento delle «primavere arabe» investì anche Damasco Il regime reagì con durezza scatenando un conflitto che, nei successivi scenari, non è ancora finito.

L’inizio delle rivolte — esattamente il 15 marzo 2011 — non fu molto diverso da altre rivolte già osservate in passato. Le folle scesero nelle strade di Damasco e dintorni a metà marzo. Il regime, come al solito, reagì con il pugno di ferro. Bombe, cecchini, torture. La repressione durissima apparve sproporzionata rispetto agli slogan delle piazze, composte in maggioranza da studenti e giovani, che chiedevano per lo più democrazia e la fine della dittatura e del nepotismo. Non molto diverso da ciò che era accaduto per esempio ad Hama nel gennaiofebbraio 1982, quando i carri armati inviati da Damasco spararono sulla popolazione, i caccia bombardarono e interi quartieri vennero rasi al suolo. Ancora oggi resta sconosciuto il numero preciso dei morti tra le organizzazioni legate ai Fratelli musulmani e tra i civili, sebbene la cifra più accettata si aggiri intorno ai 20 mila in poche settimane.

La differenza questa volta fu che le manifestazioni continuarono. Anzi, all’inizio dell’estate cominciarono a organizzarsi militarmente. Che cos’era cambiato nel frattempo? La diffusione dei social media aveva permesso di fare conoscere al mondo i fatti e coordinare le piazze tra gli attivisti; la corruzione e le ingiustizie elette a sistema tra i ranghi del governo baathista avevano raggiunto soglie insopportabili; la speranza di poter replicare i successi delle rivolte in Tunisia e in Egitto, con le defenestrazioni di Zine El-Abidine Ben Ali e di Hosni Mubarak, aveva aumentato l’eccitazione. La novità insomma — in quei mesi carichi di sogni per «primavere» mediorientali e nordafricane che si annunciavano epocali — era che forse finalmente si potevano davvero cambiare le cose e i popoli conquistavano consapevolezza.

Era il vento impetuoso delle «primavere arabe»: più tardi tanto vituperate, ma in quel momento cariche di promesse e ottimismo.

Bashar Assad aveva ereditato undici anni prima da suo padre Hafez il sistema della dittatura, con il suo esercito e soprattutto il potentissimo servizio segreto interno dominato dalla minoranza alawita, la stessa della famiglia presidenziale, che aveva cooptato come fedeli alleati i maggiorenti della comunità cristiana. Durante le prime settimane la maggior parte degli attivisti delle rivolte non pretendeva il cambio di regime. Nonostante la nomenklatura siriana li abbia accusati di essere «agenti stranieri corrotti», chiedevano sostanzialmente graduali riforme politiche, il cambiamento democratico della Costituzione, libere elezioni monitorate da osservatori internazionali.

Eppure, già il 6 marzo il braccio armato della polizia aveva colpito senza pietà lasciando capire nei fatti quanto fosse ostile a qualsiasi compromesso sostanziale. Una quindicina di allievi del liceo di Daraa, nel sud-ovest del Paese presso il confine con la Giordania, avevano scritto sui muri slogan in favore delle sommosse. Catturati e identificati, erano stati torturati in cella. Il cadavere di uno di loro, il quattordicenne Hamza al Khataeb, era stato consegnato alla famiglia con i genitali strappati. C’era in realtà poco di nuovo. Gli abusi sessuali sono sempre stati una «specialità» dei carcerieri siriani. Ma ora la foto del cadavere sfigurato venne postata su internet, diventando un motivo ulteriore di rabbia popolare.

Tra la fine dell’estate e l’inizio del 2012 lo scontro si fece ancora più violento. Cuore delle sommosse erano Homs, Hama, i villaggi sulla dorsale montuosa che corre parallela alla costa, le periferie di Damasco, le regioni di Idlib e Aleppo. Cresceva però anche l’elemento settario religioso: tanti sunniti (che rappresentano la maggioranza della popolazione) si unirono alle rivolte contro la minoranza alawita, setta sciita tradizionalmente legata all’Iran e alle milizie libanesi dell’Hezbollah. Già a metà del 2012 le unità di Hezbollah si posero a fianco dei soldati di Bashar praticamente su ogni fronte. Crebbe il numero di effettivi dell’esercito regolare pronti a disertare pur di non dover sparare nelle piazze. Alcuni scapparono con le armi in mano. Nacque allora il cosiddetto «Free Syrian Army», una sorta di forza armata dell’opposizione che cercava di proporsi come alternativa radicale alla violenza del regime con una catena di comando gerarchica e unificata. Il progetto per qualche mese parve reggere. Tuttavia, ben presto si vanificò nella miriade di contrasti interni e nel carattere localistico dei conflitti. Era ormai guerra civile aperta, complicata dalla presenza di guerriglieri stranieri e interferenze di altri Paesi.

Sul vento genuino della lotta di liberazione contro la dittatura si innestò quello fanatico e intollerante della guerra di religione. Dal confine turco nord-occidentale cominciarono ad arrivare i volontari stranieri jihadisti, molti si accamparono sotto la bandiera nera di Al Qaeda: presto sarebbero diventati i ranghi fondatori dell’Isis siriano grazie agli aiuti di qualche principe saudita e del Golfo. Tra questi: talebani afghani e pakistani, estremisti del Fis algerino, palestinesi di Hamas, miliziani ceceni, rivoltosi tunisini e marocchini. Avevano armi e soldi: l’internazionale islamica irruppe sulla scena. La sfida si fece spietata. Tutto fu permesso, dal ricorso alle armi chimiche agli attacchi deliberati contro ambulanze, medici, cliniche, scuole e ospedali. Gli agenti del regime trattarono allora con i capi dei gruppi islamici, compresi elementi di Al Qaeda, rinchiusi nel grande carcere di Sadnaya, non distante dalla capitale. L’accordo fu presto

concluso: sarebbero stati liberati. In cambio avrebbero eliminato gli elementi moderati dalla rivoluzione. In questo modo le opposizioni vennero criminalizzate e gli Stati Uniti, assieme agli alleati della Nato, persero i loro interlocutori e la motivazione stessa per intervenire in difesa della rivoluzione. «Se mi cacciate, il mio posto verrà preso da Al Qaeda», ripetè Assad ai pochi giornalisti occidentali che accettò d’incontrare. Il suo piano era coadiuvato dagli uomini della famigerata Shabiha, la forza paramilitare fedele al regime incaricata dei «lavori sporchi»: rapiva, assassinava, violentava. A documentare la gravità delle violenze arrivarono nell’agosto del 2013 le 53.275 foto diffuse da Caesar, fotografo siriano impiegato dai servizi segreti interni. A detta di Human Rights Watch, le immagini dei corpi straziati, deceduti per fame, castrati, gli occhi strappati, erano quelle di almeno 6.876 desaparecidos, in maggioranza giovani uomini, finiti nelle mani della polizia segreta.

Presto l’attenzione e l’orrore della comunità internazionale furono però distolti dalle riprese dei prigionieri decapitati in piazza dai fanatici dell’Isis, prima nella regione di Raqqa e poi a Mosul, quando nel giugno 2014 la guerriglia islamista irruppe dalla Siria nell’Iraq settentrionale. Fallirono così i tentativi di mediazione dell’Onu. La comunità internazionale rimase perlopiù a guardare. L’Europa non si mosse. Il precedente fallimentare della guerra in Iraq e soprattutto in Libia paralizzava qualsiasi progetto di intervento della Nato. I moniti delle «linee rosse», annunciate da Barak Obama per l’azione Usa nel caso Bashar avesse utilizzato le armi chimiche contro la sua gente, vennero presto rinnegati. Tuttavia, nell’autunno 2014 gli Stati Uniti scelsero per la prima volta di operare militarmente con le forze curde accerchiate nella cittadina frontaliera di Kobane. Fu l’inizio della fine di Isis: tra ottobre e dicembre 2014 perse oltre 10 mila uomini, il fior fiore dei suoi volontari (allora circa 50 mila), per lo più bombardati dai droni Usa sui cento chilometri di strada tra Raqqa e Kobane.

Fu allora che la Turchia di Erdogan scese in campo per evitare la nascita di un’entità autonoma curda in Siria che potesse fare da puntello ai curdi autonomisti in Turchia, ma anche per evitare la ripresa del flusso di profughi sunniti siriani verso nord. In quel contesto Vladimir Putin, in piena coerenza con la tradizione russa di appoggio a Damasco per garantirsi le basi della marina tra Latakia e Tartus, decise di accrescere il sostegno a Bashar. La svolta fu nel 2015: grazie agli aiuti iraniani e alla copertura dei Mig di Mosca, l’esercito siriano, che solo l’anno prima pareva destinato alla sconfitta, riguadagnò terreno, si consolidò a Damasco, Homs, Hama, Palmira, mirò a riprendere Aleppo. Il Paese era ridotto in rovina, l’economia al collasso. I morti superavano il mezzo milione; i profughi all’estero, perlopiù in Turchia (alla volta dell’Europa), Giordania e Libano, erano oltre sei milioni, altrettanti gli sfollati interni.

I tragici sviluppi della crisi nelle ultime settimane sono oggi la diretta conseguenza dello scenario definito tra il 2017 e la sconfitta di Isis nel 2019 nelle sue ultime roccaforti lungo la valle dell’Eufrate. A fronte della marginalità delle forze Nato, e con circa 600 soldati americani attestati nelle aree petrolifere della provincia curda del Nord-Est, Assad appare determinato a riprendere il controllo del Paese grazie al contributo iraniano e soprattutto russo. I curdi stanno trattando la resa a Bashar. A contrastarlo c’è soltanto l’esercito turco, attestato nella regione di Idlib assieme alle milizie jihadiste sunnite figlie della rivoluzione del 2011 e radicalizzate da nove anni di guerre. I recenti accordi tra Erdogan e Putin per garantire nuove regole sul cessate il fuoco appaiono però estremamente fragili. L’ultimo tragico capitolo del lungo inverno siriano — anche la violenza del clima ha contribuito nei mesi scorsi al disastro umanitario — sarà scritto nelle prossime settimane.

LA LETTURA, 15 MARZO 2020

 

 

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