Laboratorio Italia. Così Berlusconi anticipò Trump, di Antonio Carioti

Conversazione con CATHERINE BRICE e DAVID FORGACS.

Gli interlocutori Nata nel 1957, Catherine Brice (in alto) è docente di Storia contemporanea presso l’Università Paris-Est Créteil. Traduttrice in Francia di Renzo De Felice e specialista di vicende italiane, è stata direttrice di ricerca in storia moderna e contemporanea dal 1994 al 2000 presso l’École française di Roma. Ha pubblicato nel 2009 il saggio Storia di Roma e dei romani. Da Napoleone ai nostri giorni (traduzione di Alessandro Serio, Viella).

David Forgacs, nato nel 1952 in Gran Bretagna, insegna negli Stati Uniti presso il dipartimento di Studi italiani della New York University. Tra le sue pubblicazioni: Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi (traduzione di Laura Schettini, Laterza, 2015); L’industrializzazione della cultura italiana 1880-1990 (traduzione di Emanuela Alessandrini, il Mulino, 1992). Ha pubblicato inoltre con Stephen Gundle il saggio Cultura di massa e società italiana 1936-1954 (traduzione di Maria Luisa Bassi, il Mulino, 2007) Il convegno A causa della sospensione delle attività culturali per la crisi epidemica provocata dal coronavirus, si terrà all’Università di Bologna tra un anno, dal 24 al 27 marzo 2021, l’incontro sul tema Sguardi dal mondo. L’Italia contemporanea nella storiografia internazionale, promosso da Fulvio Cammarano e organizzato dal dipartimento delle Arti e da quello di Storia, Culture, Civiltà con la partecipazione di studiosi provenienti da tutto il mondo, tra i quali Brice e Forgacs. Il convegno si doveva tenere nella città emiliana dal 18 al 21 marzo. Il programma prevede discussioni dedicate a Risorgimento e Italia liberale, fascismo e Italia repubblicana, ma anche alla cultura di massa, all’emigrazione e alla violenza politica

 

Noi e gli altri «La Lettura» a confronto con due studiosi stranieri, la francese Catherine Brice e il britannico David Forgacs, sulle peculiarità del nostro Paese. Il mito dell’arretratezza, il dualismo Nord/Sud, l’effetto di fenomeni come fascismo, eurocomunismo, populismo

Com’è l’Italia vista da fuori? Forse esageriamo nel sottolinearne i difetti? Ne abbiamo parlato con due storici che si sono occupati a fondo del nostro Paese: il britannico David Forgacs e la francese Catherine Brice.

 

Molti italiani sono convinti che il nostro sia un Paese arretrato, refrattario alla modernità. Al di là di quello che sta succedendo con l’emergenza legata al coronavirus, che cosa ne pensate?

DAVID FORGACS — Quella convinzione sarà diffusa, ma i concetti su cui si basa sono molto discutibili. Da tempo la maggior parte degli studiosi ha scartato termini come arretratezza e modernizzazione, che implicavano una via unica di crescita virtuosa di tutti i Paesi verso lo stesso modello di capitalismo avanzato e democrazia liberale, escludendo altre vie, come la pianificazione socialista o l’economia basata sulle piccole imprese familiari. In termini strettamente economici, nonostante un marcato declino nell’ultimo ventennio, l’Italia rimane tra le più forti potenze del mondo e ha raggiunto questa posizione grazie a un modello misto di grandi aziende private, partecipazioni statali e tantissime piccole imprese, e con un passaggio negli ultimi 150 anni da un regime liberale, attraverso il fascismo, al pluralismo democratico. È vero che in Italia esistono tuttora zone depresse e interi strati della popolazione sfruttati e sottopagati, ma questi squilibri si trovano anche negli altri Paesi ricchi.

CATHERINE BRICE — La nozione di modernità è ambigua (moderno rispetto a che cosa?) e quella di arretratezza strumentale. Si tratta di un’argomentazione che ha, alla fine, il grande pregio per i suoi sostenitori d’impedire di pensare l’azione politica, richiudendola in una specie di destino inesorabile. Insomma, chi parla di arretratezza? Da parte degli italiani è un discorso di rassegnazione,

oppure una generica richiesta di cambiamento. Dall’esterno vedo un Paese con problemi in parte diversi, ma perlopiù simili a quelli di altre nazioni ed estranei all’arretratezza. L’inquietante demografia italiana, per esempio, ha poco a che fare con l’arretratezza, semmai è il contrario. Eppure è un problema gravissimo.

Tuttavia si sente spesso sottolineare l’esistenza di un divario culturale con il resto d’Europa.

DAVID FORGACS — È una percezione vecchia, che risale almeno al Seicento, quando l’Italia perse la sua posizione dominante in Europa e molti intellettuali presero a lamentarsi del fatto che altri Paesi — Spagna, Paesi Bassi, Francia, Germania, Inghilterra — la stavano sorpassando nella produzione culturale, specie nella letteratura, ma anche nella ricerca scientifica. Anche qui, però, si tratta di una percezione difficile da giustificare con i fatti. Se ci limitiamo all’ultimo secolo, sarebbe difficile identificare un campo culturale — letteratura, musica, arti visive, tecnologia, scienza — in cui l’Italia non abbia retto il confronto. Ciò non vuole dire escludere declini o ricadute. La qualità dell’offerta televisiva in Italia si è molto abbassata negli ultimi 40 anni. Ma non è un indice di «arretratezza». È il risultato di investimenti insufficienti, scarsa immaginazione, scelte sbagliate dovute all’ansia di guadagnare audience con un minimo di spesa e inventiva.

Per altri versi l’Italia è stata un laboratorio politico, con il nazionalismo romantico mazziniano, il fascismo, l’eurocomunismo. E oggi la leadership di Trump ricorda quella di Berlusconi. Per una volta l’Italia ha preceduto gli Stati Uniti, invece di imitarli?

CATHERINE BRICE — Chi dice laboratorio dice sperimentazione, invenzione, ma non sempre risultati. Il mazzinianesimo, alla fine, fu sconfitto dalla soluzione monarchica sabauda, il fascismo riuscì a

imporsi per vent’anni con i risultati che conosciamo e l’eurocomunismo fu una speranza che non resistette. Nel laboratorio italiano recente vedo almeno tre elementi interessanti. Con Berlusconi, la conquista della politica da parte di outsider (o presunti tali) provenienti dal mondo degli affari, come Trump oggi. Nella Lega c’è lo sviluppo di un discorso «nazionalista/regionalista» senza complessi, che usa modi di comunicazione moderni per radicarsi nelle credenze più arcaiche della «stirpe», nordista o nazionale. Anche questo somiglia alla presidenza trumpiana. Infine i Cinque Stelle, con la democrazia dei clic e un partito virtuale di gente « normale» estranea alla vecchia partitocrazia, in parte richiamano le campagne elettorale di O ba ma e po idi Trump, ma anche la République en Marche di Emmanuel Macron.

DAVID FORGACS — Anziché di influenze e imitazioni, preferisco parlare di comuni tendenze emerse in più Paesi, spesso con idee e valori di fondo analoghi. Il nazionalismo romantico era presente nella prima metà dell’Ottocento in Germania, Francia e Ungheria, non solo in Italia nella versione mazziniana. Il fascismo italiano nacque insieme al movimento degli ex combattenti in Germania. Il cosiddetto eurocomunismo degli anni Settanta era parte di un lungo processo di distacco dal modello sovietico dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, di cui quello italiano era il più forte. Lo stesso può dirsi di Berlusconi e Trump, che rappresentano un comune stile di gestione della cosa politica — Stato-azienda invece di Stato sociale, disprezzo della legalità e degli intralci costituzionali, antipolitica populista — che ha riscontri ormai in molti altri Paesi.

 

Non esiste dunque un caso italiano?

CATHERINE BRICE — Credo che semmai si possa parlare di una risposta italiana a due grandi questioni: il problema della nazione e quello della rappresentanza politica. È interessante che la costruzione ideologica della Lega Nord sia partita da un’identità regionale in gran parte inventata, ma poi servita, strumentalmente, a costruire i punti forti di un nuovo nazionalismo italiano, rivendicato oggi con successo da Matteo Salvini. Il tema della rappresentanza, di cui la lunga lista delle riforme elettorali dimostra la perennità, è stato affrontato dai Cinque Stelle con una promessa di cortocircuito delle vecchie strutture grazie alla democrazia virtuale, supposta essere più fedele alla volontà del «popolo vero». La promessa è stata largamente disattesa, ma, nello stesso tempo, ripresa altrove. Che l’Italia sia un laboratorio politico, è chiaro, ma è strano che i risultati delle sue esperienze non siano presi sul serio.

 

L’Italia presenta una frattura allarmante tra Nord e Sud, anche se la Lega ha dismesso il secessionismo. Forse la nostra è un’identità incompiuta?

DAVID FORGACS — L’idea dell’identità italiana mancante o incompiuta mi sembra un altro luogo comune senza una solida base. Nonostante le formule che si sentono ripetere — divario tra Paese reale e Paese legale, difficoltà di «fare gli italiani», campanilismo — mi sembra che da tempo in Italia si sia formato un senso solido di appartenenza nazionale. Lo si riscontra in molti aspetti: la diffusione della lingua nazionale e la progressiva scomparsa o contaminazione con l’italiano dei dialetti, il tifo diffuso ovunque per certe squadre, il riconoscimento di prodotti e personaggi di rilievo nazionale in ogni campo. Il distacco tra Nord e Sud è reale e si riscontra nei dati sul reddito, sul livello di istruzione e sulla disoccupazione, ma anche qui non si tratta di una peculiarità italiana. Tutte le economie capitalistiche hanno zone ricche e povere, alcune comparabili al Mezzogiorno italiano. Se la Lega si è staccata dalle posizioni secessioniste, non è perché ha scoperto il senso di appartenenza nazionale o trovato un leadership responsabile, ma perché si è spostata, sotto Salvini, sempre più verso la destra europea fascisteggiante con una politica ipernazionalista e di lotta all’immigrazione.

CATHERINE BRICE — Io non so che cosa sia un’identità compiuta. Anche qui, è una specie di mantra che impedisce di pensare la realtà di un Paese per forza diversificato, di considerare le mobilità contemporanee. Far risalire al Risorgimento incompiuto i problemi di oggi non ha senso: sono passati piu di 150 anni. La frattura Nord/Sud è una realtà economica pesante, con tassi di disoccupazione elevatissimi nel Mezzogiorno. Ma è un dato sociale ed economico, non culturale. Troviamo lo stesso divario in Francia tra le banlieue, con il 35,8% dei giovani disoccupati, e il resto del Paese. Ma non si pensa che sia legato a problemi di identità o cultura; piuttosto a questioni di formazione, di offerta di lavoro, prevalentemente socio-economici. Un altro punto riguarda il trattamento diverso che il Sud ha avuto con la Cassa del Mezzogiorno e la politica europea. Allora bisogna capire come e perché il Sud ha stentato a sfruttare queste potenzialità. Ma le spiegazioni culturali non bastano: non si possono ignorare il lavoro nero, le mafie, la corruzione.

Parte integrante dell’identità italiana è sempre stata la tradizione cattolica. Pensate che abbia ancora un peso rilevante, nonostante la secolarizzazione e tre pontefici stranieri?

CATHERINE BRICE — Non credo che per gli italiani un Papa straniero sia un problema: la popolarità di Giovanni Paolo II lo dimostra. La secolarizzazione dell’Italia è un dato importante, ma bisogna capire come si valuta. La frequenza alla messa è in calo vertiginoso. Ma sulla religiosità, che è un dato ben più vago, vedo piuttosto una rottura generazionale. Buona parte degli anziani rimane legata alla tradizione cattolica, i giovani molto meno, anche se sono disposti ad ascoltare un discorso rinnovato della Chiesa e del Papa sulle questioni sociali. Con due avvertenze: il discorso è più credibile se la Chiesa non interferisce in politica e, secondo punto, ascoltarlo non vuol dire accettarlo, ma prenderlo sul serio nel dibattito pubblico. Oggi tra i giovani in Italia c’è grande indifferenza verso la politica. Rimane però una fascia di persone non politicizzate per le quali il discorso sociale della Chiesa può ancora avere rilievo più che in altri Paesi. Ma non in campo politico, come ai tempi della Dc.

DAVID FORGACS — La Chiesa ha un peso rilevante, anche se minore che in passato. La frequentazione dei luoghi di culto e la partecipazione ai riti, compresi i matrimoni religiosi, è decisamente calata. La legge sul divorzio nel 1970, confermata dal referendum del 1974, è stata un primo esempio di secolarizzazione. Più di recente il riconoscimento legale delle coppie gay è stato per la Chiesa un’altra sconfitta. Nonostante questo, anzi in parte come reazione a questo (penso al Family Day), regge ancora una forte subcultura cattolica, che si esprime non solo tramite formazioni di destra come Comunione e Liberazione e il Movimento per la Vita, ma anche tramite quelle progressiste come la Comunità di Sant’Egidio o figure come don Ciotti. Non credo che l’elezione di Papi stranieri abbia avuto molta importanza: la Chiesa è sempre stata cosmopolita. Ma che l’identità religiosa dell’Italia stia cambiando in modo irreversibile è indubbio, non solo per il calo di praticanti cattolici e la diffusione dell’ateismo, ma anche per la crescita dell’islam e di altre fedi.

La lettura, 15 marzo 2020

 

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