Intervista ad Antonio Marras. “Essere sardo: per me una condanna sublime”, di Marcello Fois

Intervistare Antonio Marras, da Alghero, è come esplorare una delle realtà più localmente internazionali che la nostra isola sia riuscita a produrre. Sarto, cresciuto in un negozio di stoffe, e padre di sarto. Uno di quegli stilisti, che sanno usare perfettamente ago e filo e che sono entrati nel mercato planetario della moda attraverso una concezione del fare abiti che assomiglia parecchio alla passione artistica. Antonio Marras dunque non è semplicemente un creatore di moda, un inventore di linee, uno straordinario artigiano, ma un artista. Uno cioè che ha fatto quel salto di qualità che trasforma un’eredità genetica, una predisposizione, in un talento assoluto e conclamato. Oggi lo Stile Marras è un dato di fatto e non si limita certo al confezionamento degli abiti, quanto all’imposizione di un punto di vista creativo che spazia dal design agli allestimenti, dalle arti figurative alle performances, dalla scrittura al teatro.

Qualche tempo fa ho visitato la Mostra Antologica Antonio Marras: Nulla die sine Linea, che ti è stata dedicata alla Triennale di Milano. L’idea che balza alla mente considerando i materiali esposti è che tu abbia ricreato un mondo parallelo in cui la moda rappresenta semplicemente una porzione, o, per meglio dire, un primo motore attraverso il quale tutto è stato possibile. Chi è nato prima? Il sarto, lo stilista o l’artista a tutto tondo?

”Sai, io vado per istinto. Sono un ‘animale’, fiuto e mi lancio. Limitare l’esperienza a un solo ambito non fa parte del mio carattere. Amo cimentarmi in mondi sconosciuti. Non riesco a scindere il lavoro in settori come arte, moda, spettacolo e lavori manuali. Mi piace esplorare più superfici, pronto a captare per poi tradurre e rilanciare tutto ciò che vive nel mio immaginario. Amo la sperimentazione, che mi permette di proporre nuove configurazioni e riformulazioni al di fuori delle esigenze progettuali del fare moda. Da ciò nascono le mie incursioni nell’arte, nella letteratura, nella poesia, nel teatro, nella ceramica e nel design. Quello che mi appassiona è fare, fare e fare. L’idea, il progetto vengono in corso d’opera. Sono arrivato alla moda per caso e la fortuna ha voluto che la moda riassumesse tutto quello che avrei voluto fare. La moda è story telling, è storia del costume, è design, è teatro, è cinema, letteratura, poesia, musica e danza. Non si tratta quindi solo di abiti, di colori, di linee e volumi ma un’interpretazione personale del modo di vivere nel mondo. Il concetto di eleganza, il senso del bello, i valori della vita, la concezione di diversità, l’importanza della cultura e l’intersecazione fra le arti sono degli elementi che stanno nelle fondamenta del mio lavoro e che racconto attraverso gli abiti”.

 

Tu spesso hai detto che il lavoro di tuo padre è stato un’ispirazione fondamentale per ogni tua scelta. In che cosa consiste questa ispirazione? Ho letto da qualche parte che non sei affatto certo di aver superato, o raggiunto il suo gusto formidabile…

“Si, mio padre è stato fondamentale e sebbene mi volesse ragioniere (titolo conseguito all’Istituto Roth di Alghero) e per me sognasse un lavoro in banca io ho seguito il suo percorso senza mai però raggiungere il suo intuito straordinario e la sua capacità comunicativa. Mio padre aveva prima un negozio di stoffe, dove io sono cresciuto, poi convertito in boutique. Io ho iniziato come vetrinista (come Armani, giusto per fare un nome con tutt’altri successi commerciali rispetto ai miei) e poi ho preso le redini del negozio dopo la scomparsa prematura di mio padre. Di mio padre mi rimane la sua curiosità, con lui ho conosciuto Fiorucci e il suo bazaar enorme alle porte di Milano, dove tutto era in vendita. Tutto arrivava dai quattro angoli della terra, dai paesi più reconditi. Potevi trovare e parliamo di 40 anni fa, gioielli swahili, kilt originali scozzesi, maglioni andini, zoccoli olandesi, scialli russi, thermos cinesi per il tè, gonne messicane e cappelli da torero. Ovviamente io sono impazzito e da allora sono stato un grande fan di Elio Fiorucci. Mio padre è stato il primo in Sardegna a portare i famosi camperos e i jeans Fiorucci. Venivano persino da Cagliari per acquistare da “Efisio Marras”. A me rimane il rimpianto di averlo contestato, come succede a ogni figlio che si rispetti, e non aver avuto il tempo di dirgli grazie, perché se ora sono come sono lo devo a lui”.

 

Di padre in figlio: anche Efisio, il tuo primogenito, è entrato nel mondo della moda. Lui racconta che sei un padre multitasking e difficilmente imitabile; che non ami mischiare i rapporti personali con le questioni professionali; che, sotto certi aspetti, non sei stato troppo incoraggiante. L’hai fatto perché non si sentisse troppo garantito?

”L’ho fatto perché non auguro di fare lo stilista neanche al mio peggior nemico. Scherzo. L’ho fatto perché volevo che facesse le sue scelte a prescindere da me e dal mio lavoro. Lui ha avuto la fortuna di frequentare la Parson school a Parigi, una scuola americana bellissima che io avrei amato tantissimo seguire. Una scuola dove si studia belle arti, fotografia, design, filosofia, scrittura, cinema e comunicazione, che sogno! Io ho sempre desiderato frequentare una scuola alla “Fame”, ricordi quel musical? E la Parson è un po’ così. Quando sono andato al suo diploma ero estasiato. Efisio si è meritato quella scuola e poi ha deciso autonomamente di lavorare con noi occupandosi direttamente di Isola Marras. Efisio ha una cifra molto personale e una sua visione particolare dettata dal fatto che da sempre ha viaggiato in tutto il mondo sin da quando era piccolo. Ha amici cari a Taiwan, in Nuova Zelanda, in Tailandia, a Londra, a Hong Kong, a NewYork e a San Sperate e a Tinnura. Viaggiare, vedere, conoscere è come leggere: ti apre la mente. Io, specialmente nel dopo Covid non credo più nel mestiere dello stilista in senso stretto. Del resto ho un sogno, Efisio ne fa parte, che vorrei realizzare proprio qui in Sardegna: un’academy, una factory, dove riunire tutte le persone munite di un sapere e una conoscenza, una tecnica, un mestiere che abbia una connessione con il mio operato e con la Sardegna, con il territorio e cementarlo insieme, crearlo e veicolarlo verso l’esterno. L’obbiettivo sarebbe riconoscere, interpretare, ravvivare e riportare alla luce ciò che, stratificato nel tempo, e che costituisce l’essenza dell’isola, la sardità, una e molteplice, vitale e creativa, chiusa e aperta, forte della sua tradizione”.

 

Voglio pensarti per la prima volta alle prese con ago e filo: quando hai incontrato quella vocazione?

”Ho iniziato nel 90 con l’Alta Moda. Ovviamente sempre al contrario (di solito l’Alta moda è un traguardo) come mia consuetudine. L’Alta Moda ti permette una conduzione artigianale e ho iniziato con la mamma di Patrizia, sarta e ricamatrice raffinata, a cucire. Io in maniera anarchica e lei rigorosa. Poi abbiamo lavorato con le donne di Ittiri, grazie a Rita, una cara amica eccelsa al lavoro ricamare, all’uncinetto e al telaio. Abbiamo creato un piccolo universo di donne che lavoravano a casa realizzando vere e proprie opere d’arte. Ho insegnato loro a sbagliare, loro erano perfettissime, ho insegnato quello che loro hanno chiamato il “punto bimbo” perché ingenuo, facile, elementare e spesso infarcito di errori. Per loro era inammissibile. Poi la produzione seriale ha un po’ limitato queste dinamiche. Devo dire che in tempo di Covid, Fase 1, ho riscoperto il ricamo e il cucito. La macchina impazzita e il ricamo rinominato “punto Rebibbia”. Sì, il post Covid richiede un ritorno a tempi più umani e a processi manuali”.

 

La tua prima collezione?

“Ci sono due inizi, anzi tre. Anzi di più, ma sintetizziamo. La primissima collezione di PAP del 1987 quando Patrizia mi ha convinto a cedere alle insistenze di un produttore romano e abbiamo creato una collezione chiamata in onore a Bette Davis “Piano Piano dolce Carlotta”. Il ricordo di quell’esperienza è stato il viaggio di notte in autostrada da Roma a Milano. Trasportavamo tutta la collezione da esporre il giorno dopo. Surreale. L’altro inizio nel 90 con collezioni di alta moda, dove siamo arrivati a Roma come marziani con legnetti fra i capelli e campanacci e coralli per atterrare in un mondo di bottoni gioiello e messe in piega. Il 1999-2000 è invece l’anno della collezione antoniomarras prêt à porter presentata a Milano con una sfilata. Era dedicata a Annmarie Swarzenbach, scrittrice, viaggiatrice, fotografa amica dei figli di Tomas Mann, eroinomane e lesbica. Bellissima e speciale”.

 

Un pregio dei tuoi abiti è che non sembrano costruiti per uomini o donne “impossibili”, nelle tue sfilate si coniugano vari tipi fisici e varie età. Forse sei stato uno dei primi a fare della sfilata una specie di concept album, uno spettacolo nello spettacolo.

“La sfilata riassume tutto il lavoro di sei mesi, che a sua volta è il risultato di anni e anni di esperienza. La sfilata è il culmine, il momento topico che attraverso uno spettacolo di 15 minuti esprime la tua visione, il tuo universo. Attraverso la scelta della colonna sonora, della coreografia, dello styling e della scelta caratteriale delle modelle manifesti la tua concezione del mondo, il tuo style of life. Ora in era post Covid la sfilata sarà da reinventare e veramente non saprei come. La mia moda è semplice e vestibile solo che la rappresento come se fosse un romanzo, un film. Ho bisogno di stimoli, di spunti, di amore per poter lavorare e fare solo abiti non mi basta più”.

 

Dopo l’esperienza di direttore creativo della casa Kenzo, hai deciso di rifiutare varie e importanti proposte analoghe, per un certo periodo si ventilava una proposta da parte della Maison Dior, eppure tu hai optato per il tuo marchio senza compromessi. Oggi sei soddisfatto di quella scelta?

«Je ne regrette rien», ma ho pagato a caro prezzo le mie scelte. Col senno di poi non so se mi sarei comportato così. Ora il mondo della moda è cambiato, è molto difficile e per i piccoli marchi indipendenti come il mio è arduo. Siamo stritolati fra colossi dei grossissimi brand e i lowcost Zara e H&M. Competizioni impossibili. È cambiato il mondo, il modo di comunicare, di pensare e di agire. Solo gli abiti sono sempre uguali a sé stessi ogni sei mesi: non ha più senso tutto questo. Perciò c’è bisogno di nuovi progetti, nuova linfa, nuove idee e nuove dinamiche”.

 

Tu hai la tendenza a creare luoghi in cui le discipline si incontrano o si scontrano. Spazi dove i confini tra il pop e quella che viene definita cultura alta non sono mai troppo netti. Il tuo spazio milanese NONOSTANTEMARRAS, la tua pièce teatrale “Mio cuore io sto soffrendo, cosa posso fare per te?, ne sono la prova. Ma tu sei un dispersivo, un anarchico, un insoddisfatto, un affamato?

“Mia mamma, originaria di Laerru denominata ‘la sarda’ da mio padre algherese doc, mi chiamava “Mai cuntentu” e questo mi rappresenta. Poi diceva «Sembra che tu abbia fatto la guerra, non ti basta mai niente». Aveva ragione”.

 

Non ti chiedo una tua classifica personale dei tuoi colleghi stilisti, ma ce n’è uno che ammiri particolarmente? Che magari, di tanto in tanto, hai persino invidiato?

”Rei Kawakubo per Comme des Garcons, una per tutti. E tutti i miei colleghi hanno sicuramente lei come punto di riferimento. Rei, con la sua moda rappresenta la ricerca, l’innovazione, la libertà, l’anticonformismo, il senso del tempo e la sperimentazione. Lei ha realizzato dei concept store a Tokyo, a Parigi a Londra e a Newyork dove vende, oltre alle sue linee, una selezione di brand e oggetti selezionati e in linea con la sua filosofia, più caffetteria annessa. Bellissimi spazi per la gioia degli occhi e del cuore”.

 

Tu sei stato uno dei rari “stilisti” che vengono invitati in strutture come gallerie e musei. Sei cioè decisamente percepito come un creativo a tutto tondo. Eppure sei anche uno di quegli “irraggiungibili” che partecipano ad azioni collettive o collaborazioni con artisti e intellettuali. Un nome per tutti: Maria Lai.

“Maria Lai mi ha dato le chiavi per entrare in un mondo al quale neanche avrei mai immaginato di poter accedere. Maria è stata per me una vera Jana. Nel 2003 è stata un po’ a casa mia nella piccola dependance, ex pollaio, da allora chiamata “la casetta di Maria”, e quell’incontro mi ha cambiato la vita. Mi ha insegnato ad attendere, mi ha insegnato il silenzio e il rispetto per le cose. Tutte le cose hanno un’anima. Maria è stata molto generosa, mi ha regalato un mondo, un modo di vedere altro, diverso da quello comune. Mi ha regalato fiducia in me stesso e ha allontanato vergogna e pregiudizi”.

 

Credo che tu rappresenti la figura di sardo di cui abbiamo decisamente bisogno: un grande poeta come Alberto Masala ha coniato una sintesi perfetta in questo senso: “contemporaneo con radici”. Ti riconosci in questa definizione? Quali sono i tuoi rapporti con la Terra Madre?

“Sono riconoscente alla Terra Madre, sono suo figlio e a lei devo tutto. In tempi non sospetti ho sempre cercato di renderle onore e anche quando non era mia intenzione, inconsciamente, le mie origini sono sempre venute fuori. Io mi nutro di Sardegna, io ne ho approfittato. L’ho scelta per viverci e per lavorarci perché è il posto più bello del mondo ed è fonte di ispirazione di storie perché la Sardegna ha storie più dell’Iliade e dell’Odissea, più delle Mille e una Notte, più delle Metamorfosi, della Divina commedia, della Bibbia e del Corano e dell’Antologia di Spoon River messe insieme”.

Essere sardi è, in partenza, un benefit o uno svantaggio?

“Essere sardi è un ‘ossimoro’: una sublime condanna”.

LA NUOVA SARDEGNA, 22 giugno

 

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