Nei computer dell’Olivetti s’intrufolò un baco: la Cia, di Costanza Rizzacasa d’Orsogna

Misteri La morte di Adriano nel 1960 e nel ’61 quella dell’ingegnere Mario Tchou hanno sempre alimentato sospetti Ora l’americana Meryle Secrest rilancia la tesi che gli Usa non siano estranei alla fine di una geniale stagione italiana.

Che cos’accadde davvero quel 27 febbraio 1960, su un treno dalle parti di Aigle (Svizzera), e poi di nuovo un anno dopo, sul cavalcavia della Milano-Torino, poco prima del casello autostradale di Santhià? Le morti di Adriano Olivetti, 58 anni, ufficialmente per infarto, e Mario Tchou, il suo trentasettenne ingegnere informatico di famiglia cinese. La fine del progetto Elea, la vendita della divisione elettronica a General Electric, il tramonto delle speranze italiane. Il libro americano sui misteri della Olivetti l’ha scritto Meryle Secrest, 89 anni, biografa di Frank Lloyd Wright e altri grandi visionari ( Modigliani. L’uomo e il mito, Mondadori, 2012) e vedova di David, che fu consulente di J. F. Kennedy. S’intitola The Mysterious Affair at Olivetti. Ibm, the Cia, and the Cold War Conspiracy to Shut Down Production of the World’s First Desktop Computer (Knopf), sarà pubblicato in Italia da Rizzoli e si legge come un thriller. Solo che potrebbe non esserlo.

Cosa l’ha spinta a scrivere il libro?

«Un weekend di novembre, nei primi anni Sessanta, conobbi Roberto Olivetti (primogenito di Adriano, ndr). Ero appena stata assunta al “Washington Post”, lui era fidanzato con una mia amica. Era il giorno di Ognissanti o quello dei Morti. Volle che lo portassi a un cimitero, andammo ad Arlington. Accadde tutto quel weekend, e poi non lo rividi più. Scrissi un racconto su quell’episodio, che non pubblicai mai, e quando lo ritrovai, molti anni dopo, divenne improvvisamente importante, per me, scoprire cosa ne era stato di Roberto. Recuperai il suo necrologio: era morto di cancro nel 1985. Entrai in contatto con la figlia, Desire, e in seguito con i parenti americani, Philip e David, figli di Dino, il fratello più piccolo di Adriano. Fu Philip a dirmi, quasi en passant, che suo padre era convinto, e lo ripeteva spesso, che Adriano fosse stato assassinato, e che la morte di Mario Tchou aveva sollevato molti sospetti anche negli Stati Uniti. Ma il mio scopo, con questo libro, era soprattutto capire come, 15 anni prima dell’Apple 1, prima di Intel, di Microsoft, di tutto, come l’Olivetti fosse stata cancellata dalla storia del computer. Pochi in America sanno che il primo computer da tavolo non l’abbiamo costruito noi ma gli italiani. Improvvisamente, avevo davanti un’incredibile storia di spionaggio internazionale. E che la Olivetti fosse spiata, del resto, era risaputo. Non potevo non occuparmene. E più indagavo, più trovavo che le coincidenze fossero eccezionali, e mi meravigliavo che nessuno ne avesse mai scritto in questo modo. Quando Olivetti si decise a entrare nella corsa per l’elettronica, in 18 mesi aveva raggiunto e superato Ibm. Il P101 vendette oltre 40 mila esemplari, una decina anche alla Nasa, che lo usò per progettare l’allunaggio dell’Apollo 11. Poi tutto crollò».

Come si è accostata al progetto?

«Ho iniziato a lavorare al libro nel 2015. Mi sono occupata prima del fronte americano, poi sono partita per l’Italia, due volte. Ho intervistato moltissime persone, ex dirigenti e dipendenti, familiari, storici, esperti del settore. E mentre parlavo con alcuni di loro, ho capito che alla vostra comprensione dei fatti mancava un tassello fondamentale. Perché metà della storia è qui, negli Stati Uniti».

Quali sono i momenti cruciali?

«Il primo è l’acquisizione di Underwood da parte di Olivetti, nel 1959. Fondata nel 1895 ad Hartford, Connecticut, Underwood era stato il primo produttore mondiale di macchine da scrivere. In questo modo Olivetti, quindi l’Italia cioè un ex nemico, entrava nel mercato americano, in un settore molto delicato e ad altissimo tasso di sviluppo. Un ramo di Olivetti sarebbe stato americano, con sede negli Stati Uniti. Era la prima volta. Entro una settimana dall’annuncio, il governo americano depositò una causa antitrust per bloccare la vendita di Underwood. Poi, improvvisamente, dopo la morte di Adriano, che di lì a poco avrebbe dovuto recarsi proprio ad Hartford, la causa venne ritirata. Ho controllato all’Archivio Nazionale, qui a Washington. Non venne fornita alcuna motivazione. La causa venne ritirata e basta».

Ma la morte di Olivetti non fu sufficiente.

«Non lo fu perché la divisione elettronica era già avviata, e Mario Tchou e Roberto, che aveva sostituito il padre, lavoravano alacremente. Guardavano alla Cina, e quando ho chiesto a Elisa Montessori, moglie di Tchou, se suo marito fosse consapevole di trovarsi nella posizione unica di acquisire segreti militari Usa e rivenderli ai cinesi, mi ha detto sì, che ne era perfettamente consapevole. E fu quello, quei timori, uniti alle ambizioni americane, a decretarne la fine. Occorre sempre inquadrare gli eventi nella loro collocazione storica, e cioè la guerra fredda e i blocchi Usa-Urss. La Cia, il ruolo di Ibm durante la Seconda guerra mondiale, essenzialmente un braccio armato del governo. Anche per le sue idee politiche, il progressista Olivetti costituiva una minaccia. Il suo ufficio messo a soqquadro durante il funerale, il prototipo rubato, la descrizione palesemente falsa dell’autista del furgone nell’incidente di Tchou… Gli elementi sospetti sono moltissimi. D’altronde, non era solo l’elettronica. Il petrolio, la farmaceutica, il nucleare: gli Usa, in quegli anni, interferivano su tutto».

Quindi non sarebbe, come si obietta spesso quando certe teorie riaffiorano, un complottismo «vittimista» italiano.

«Alla luce delle ambizioni e dei timori americani di quegli anni, tutto assume plausibilità. Giorni fa, a una lezione che tenevo sull’argomento, è intervenuto un ex alto funzionario della Cia, R. James Woolsey. Gli ho chiesto se avesse mai avuto a che fare con Olivetti. Ha risposto di no, ma mi ha lasciato con una frase: “Erano (la Cia, ndr) molto brutali, a quell’epoca”. È la prima volta che qualcuno dell’intelligence commenta apertamente la questione. Avevo cercato più volte di parlare con loro, sono una giornalista relativamente famosa. Non hanno mai voluto incontrarmi».

Lei non ha prove. Certe sue ricostruzioni potrebbero apparire fantasiose.

«Ho raccontato una storia e collegato i puntini. Le coincidenze sono semplicemente ridicole. Ho fatto delle ipotesi, non sarebbe la prima volta che succede. Non avrei mai scritto questo libro all’inizio della mia carriera, immaginavo di scoperchiare un vaso di Pandora. Mettiamola così: le morti sospette di Adriano Olivetti e Mario Tchou crearono le condizioni per quello che oggi chiameremmo un takeover ostile, che segnò la fine della leadership di Olivetti, e italiana, nell’elettronica. Tragga lei le conclusioni».

Ha visto la fiction «Adriano Olivetti. La forza di un sogno», del regista Michele Soavi, nipote dell’industriale?

«Sì, e trovo che Luca Zingaretti non fosse adatto al ruolo. Nel film il personaggio di Adriano è molto romanzato. A detta di tutti quelli che l’hanno conosciuto, Olivetti non era particolarmente affascinante, non soccorreva ragazze e mangiava troppi zuccheri. Era un uomo pensieroso e silenzioso, che amava l’oroscopo e farsi leggere la mano, sceglieva persone dalle mani grandi e forti e non era sempre così bravo a capirle. Ma era un personaggio unico. Un utopista dall’approccio pragmatico, un anarchico, un grande umanista».

È soddisfatta del libro? Rimpianti?

«L’ultima volta che le ho parlato, Desire era ancora convinta che la débâcle di Olivetti fosse colpa di suo padre, non si rendeva conto di quali forze fossero in gioco. Forse adesso finalmente cambierà idea. Non è quello il Roberto che ho conosciuto»..

LA LETTURA 26 GENNAIO 2020

 

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