QUALI RAPPORTI FRA LE EMERGENZE SANITARIE E QUELLE AMBIENTALI? di Federico Francioni

Premessa – Connessioni – Altri dati su cui riflettere – Il paradigma dei tagli implacabili alla sanità pubblica – Apocalisse dell’ambiente – Il principio di responsabilità personale e collettiva – Invertire la rotta: conclusioni – Per approfondire.


Premessa. In un precedente articolo ci siamo soffermati su Emergenze sanitarie ed epidemiche nella Sardegna del passato. Qui vogliamo proporre alcune considerazioni sul rischio che la pandemia in corso spinga alla rimozione di altri problemi cruciali: gli squilibri sociali, geopolitici, territoriali e soprattutto il degrado della natura. Forse tutti questi elementi sono più legati fra loro di quanto si possa credere. Un’espressione – che riguarda sia il campo sanitario, sia la tutela e la valorizzazione della natura, nonché dei singoli luoghi – è “cambio di paradigma”, decisivo per affrontare il presente ed il futuro di entrambe le dimensioni. Si rende infatti indispensabile una svolta, una netta inversione, contro i tagli indiscriminati alla sanità pubblica, all’Università ed alla ricerca. Bisogna richiamare alle loro pesanti responsabilità tutti quei gruppi di potere, esponenti politici, economisti e giornalisti che si sono scoperti, di fronte alla crisi attuale, più keynesiani del grande John Maynard Keynes, pronti ad applaudire massicce spese finanziate col deficit pubblico, dopo aver a lungo sostenuto la logica del pareggio di bilancio. Ma non era forse quest’ultimo l’obiettivo centrale della Destra storica conservatrice, di ascendenza cavourriana, tenacemente avversata, dentro e fuori della Camera, da un leader come il nostro Giorgio Asproni? Proprio così: ci riferiamo, più precisamente, a quel Marco Minghetti, presidente del Consiglio che, dopo aver conseguito il traguardo del pareggio, fu sostituito in seguito alla “rivoluzione parlamentare” del 1876. Vogliamo dunque tornare indietro, ad una data antecedente?

 

Connessioni. Si è parlato di Covid-19 in relazione a cambiamenti climatici e all’inquinamento atmosferico. Ebbene, nell’ambito di una globalizzazione caratterizzata da intensa mobilità, è possibile esaminare con rigore scientifico i nessi fra i seguenti fattori: da un lato, malattie ed epidemie. Dall’altro lato, la sempre più estesa deforestazione (pensiamo al caso dell’Amazzonia, ma non solo); le conseguenze dello spostamento di popolazioni che abbandonano le campagne per inurbarsi; la produzione del cibo tramite l’agricoltura industriale (che fa ricorso ai pesticidi); allevamenti intensivi di bestiame: su quest’ultimo nodo si era soffermato l’economista Jeremy Rifkin nel suo libro Ecocidio: ascesa e caduta della cultura della carne, pubblicato nel 1992, comparso in Italia nel 2001 (che può richiamare, fra l’altro, la straordinaria Santa Giovanna dei macelli, nella Chicago evocata da Bertolt Brecht).

Le più recenti epidemie/pandemie – Sars ed Ebola, per esempio – sono state trasmesse in particolare da animali selvatici. La forsennata aggressione umana verso gli habitat naturali ha favorito i rischi derivanti dalla vicinanza di certe specie. Al riguardo, un’epique di ricerca dell’Università “La Sapienza” di Roma ha pubblicato Sustainable development must account for pandemik risk, apparso su una rivista americana (si veda quanto ha scritto la sociologa Antonietta Mazzette, dell’Università di Sassari, su “La Nuova Sardegna” del 25 marzo 2020).

Al riscaldamento globale è legata la diffusione della zanzara-tigre e l’estendersi della “febbre del Nilo”.

Non deve sicuramente essere sottovalutata – anzi! – la maggiore esposizione alle malattie dei lavoratori sardi dei territori industriali o ex-industriali, altamente inquinati ed inquinanti, dove più alta si avverte l’incidenza dei tumori (si veda al riguardo il Registro tumori, compilato dal 1992 per la Provincia di Sassari dall’epidemiologo Mario Budroni e da Francesco Tanda, ordinario di Anatomia patologica nell’Ateneo turritano).

Da Porto Torres ad Ottana, dalle aree minerarie dismesse del Sulcis-Iglesiente all’hinterland cagliaritano: sulla geografia di una salute isolana sempre più minacciata ci ragguagliava minutamente, con passione e competenza, il caro e compianto Vincenzo Migaleddu, responsabile sardo di Isde (International society doctors for environment). Di recente, l’avvocata Sabina Contu, segretaria  dell’Aiea (Associazione italiana esposti amianto) ha comunicato che i lavoratori colpiti da asbestosi e da placche pleuriche presentano problematiche polmonari che accentuano il rischio di mortalità nel caso di contatto con Covid-19. Sono circa 3.000 gli ex-operai delle industrie chimiche sarde iscritti al Registro esposti amianto (Esposti amianto, subito il tampone, su “La Nuova” del 26 marzo 2020). Sicuramente non vanno trascurate le gravi problematiche dei centri situati presso le zone sottoposte a servitù militari, dal Salto di Quirra a Capo Frasca a Teulada (in proposito si rinvia al libro dell’antropologa e documentarista Luisa Camillo, Una ferita italiana, Ponte alle grazie-Salani, Milano, 2019).

 

Altri dati su cui riflettere. Secondo cifre dell’Organizzazione mondiale della sanità, riferite al 2016, l’inquinamento atmosferico ha causato 7 milioni di morti in 4.300 città campionate in 100 paesi diversi. In Europa si arriva a 500.000 decessi annui; l’Italia, con circa 82.000, può vantare un triste primato nel Vecchio Continente. La Pianura padana è una delle aree più inquinate, ma non stanno molto meglio l’area metropolitana di Roma ed inoltre Frosinone, Napoli, la Puglia (da Bari a Taranto), la costa sud-est della Sicilia; infine, come si è visto, sa Sardigna puru est posta male meda!

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo dovrebbe rinviare ad una nuova cultura della prevenzione, della precauzione e del rischio, da includere in una progettazione attenta all’agricolura, all’urbanistica, alla salvaguardia di foreste, monti e fiumi, mari e laghi; si veda quanto ha scritto in proposito Paolo Vineis, docente nell’Imperial College di Londra (citato da Salvatore Settis, in La miglior cura di oggi: essere pronti in futuro, su “Il Fatto quotidiano” del 25 marzo 2020). Progetto e progettazione, però, sono termini abborriti dalle odierne oligarchie autoreferenziali dominanti che hanno come unico obiettivo l’autoperpetuazione e quindi sono pronti a soffocare ogni dibattito, a girare le spalle di fronte ad ogni emergenza ambientale, a nodi che possono far crescere nuove domande, nuove proposte, nuove soggettività. Una radicale conversione produttiva in chiave ecocompatibile dovrà essere stimolata innanzitutto dalla pressione dei movimenti di base.

 

Il paradigma dei tagli implacabili alla sanità pubblica Da decenni, governi dello Stato italiano di indirizzo politico-partitico diverso procedono per alcuni aspetti con modalità convergenti. Nell’ultimo decennio, al Servizio sanitario nazionale sono stati sottratti 37 miliardi di euro, di cui ben 25 nel 2010-2015, mentre è aumentata la spesa per la sanità privata che punta evidentemente alle prestazioni più remunerative e non può che mostrare tutti i suoi limiti “strutturali” in caso di emergenza epidemica (stime e dati della Fondazione “Gimbe”). Si è passati da 530.000 posti letto, disponibili complessivamente nel 1981, ai 365.000 del 1992, dai 245.000 del 2010 fino ai 191.000 del 2017 (cifre di un rapporto del Centro Studi Nebo). Nel 2010, gli istituti di cura erano 1.165, di cui il 54% pubblici e il 46% privati. Oggi il numero è sceso a 1.000 unità circa, ma a diminuire sono state le strutture pubbliche (51,8%) rispetto alle cliniche private accreditate (48,2%) I tagli più consistenti, sciagurati, in nome dell’austerity, sono state effettuate dai governi di Mario Monti e Matteo Renzi. La spesa sanitaria è inferiore a quella dei più importanti paesi europei.

In Lombardia, dai tempi della ferrea alleanza tra Roberto Formigoni e Roberto Maroni, ad incassare sempre di più sono i privati, fra cui i colossi del San Raffaele (gruppo San Donato della famiglia Rotelli) e Humanitas  (gruppo Rocca). I ricoveri negli ospedali privati costituiscono il 35% del totale, ma il privato incassa 2,153 miliardi di euro contro i 3,271 del settore pubblico: cioè il 35% dei ricoveri incassa il 40% delle risorse impegnate dalla Regione. Si tenga presente che in Emilia Romagna, con governi retti da un diverso schieramento politico, le sforbiciate all’apparato sanitario sono state ugualmente energiche: dal 2000 al 2016, i posti letto sono calati di ben 5.000 unità. Anche in Sicilia l’estensione della sanità privata con soldi pubblici è stata notevole.

In Sardegna, le sovvenzioni che sono andata alla holding facente capo ad Al-Thani, emiro del Qatar, per il Mater Olbia, sono stati evidentemente sottratti alle istituzioni ospedialiere pubbliche (cfr. Patrizia de Rubertis, Il tracollo del Ssn: meno ospedali, posti letto dimezzati in trent’anni, in “Il Fatto quotidiano” del 25 marzo 2020, con l’annesso quadro di percentuali e dati delle varie Regioni).

Gravissime sono state le responsabilità di trasmissioni televisive ed in genere dei mass-media che, con le debite eccezioni, poco o nulla hanno fatto per rendere i cittadini consapevoli di danni e responsabilità legate al drastico ridimensionamento della sanità pubblica. Si rende allora indispensabile un deciso “cambio di paradigma” che ponga fine al dogma del pareggio di bilancio, del contenimento del deficit a tutti i costi, imperante in tutti i paesi dell’Unione europea fino all’emergenza attuale: una logica che ha fatto cadere l’Ue in una china conservatrice, lontanissima dagli ideali originari dei principali europeisti, da Carlo Cattaneo (che sosteneva gli Stati Uniti d’Italia negli Stati Uniti d’Europa) ad Altiero Spinelli (che trascurava invece il federalismo c. d. “interno”).

 

Apocalisse dell’ambiente. Non è assolutamente esagerato affermare che, per alterazioni del clima, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, collassi di ecosostemi, desertificazioni, sul piano globale e territoriale, siamo sull’orlo dell’Apocalisse: non è catastrofismo sostenerlo.

Neanche il negazionismo climatico potrebbe o dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) eludere l’esigenza, insopprimibile, di un rinvio al principio di responsabilità: quella personale, individuale – cui nessuno di noi può pensare di sottrarsi – e quella collettiva.

D’altra parte, il recente appello (si veda “Le Monde” del 19 febbraio di quest’anno) lanciato dagli scienziati sulle emergenze ambientali costituisce un segnale di una presa di coscienza del mondo scientifico che sta diventando massiccia: ciò può essere documentato con nomi di scienziati, dati, cifre, acronimi di organismi, internazionali e non: dall’Ipcc (Intergovernmental panel of climate change) ad altri (si vedano, in particolare, gli articoli pubblicati sulle riviste “Nuova ecologia” e “Terra nuova”).

Di tutto questo dobbiamo tenere conto, senza dimenticare, beninteso, le analisi, le considerazioni e le esortazioni contenute negli accorati appelli di papa Francesco, dall’enciclica Laudato si’ in poi. Un testo capace di fare i conti anche con quel “crescete, moltiplicatevi ed assoggettate la terra”, utilizzato da quel forsennato prometeismo che unisce culture religiose e laiche di segno e orientamento fra i più disparati. Con la Madre Terra dobbiamo stabilire un ben diverso rapporto: da figli, sorelle e fratelli. Marcello Veneziani, in un articolo riportato di recente nel sito della Fondazione Sardinia, ha fatto riferimento alle chiese, oggi rigorosamente serrate, che non sembrano in grado di rispondere ad un bisogno di rifugio e di spiritualità; il suo articolo è interessante per quanto non dice, anzi, si guarda bene dal dire: il silenzio di un giornalista di destra sulle parole di papa Francesco peraltro non ci sorprende.

 

Il principio di responsabilità personale e collettiva. Chi sostiene il negazionismo climatico, in ogni caso, non può esimersi dal rispondere alla domanda: che cosa posso fare? Come agire dopo i disastri immani provocati, per esempio, da Katrina, uno dei cinque uragani più gravi nella storia degli Usa, che ha sconvolto New Orleans, la Louisiana ed altri Stati? Che fare di fronte all’inquinamento che martirizza, letteralmente, le popolazioni del Delta del Niger, uno dei luoghi più inquinati del Pianeta? Dissentire sulle cause di determinati fenomeni può esimere dal relazionarsi alle conseguenze? Posso condividere la logica dei negazionisti che si manifesta, concretamente, nell’abbandonare quei territori al loro destino? Una scelta che costituisce apertamente, platealmente, il risvolto pratico delle scelte negazioniste ispirate a quel laissez-faire, in effetti a quel liberismo selvaggio che, dagli anni Ottanta del secolo scorso, è stato apportatore di tanti danni all’economia, alla società, alla cultura.

Con altre popolazioni, più o meno lontane, posso più o meno genericamente solidarizzare oppure, più concretamente e giustamente, posso scendere in piazza seguendo le indicazioni di Greta Thunberg ma, soprattutto, devo rispondere al quesito: come potrò più efficacemente giovare a determinate terre ed ai loro sfortunati abitanti? La risposta, per passare dal globale al locale, per instaurare una dialettica virtuosa fra queste due dimensioni, può essere la seguente: cercando di salvare la mia terra, posso dare un contributo importante alla salvezza del Pianeta (si veda la rivista “Camineras”, n. 7, 2020, di prossima pubblicazione, incentrata sul tema Sarvamus sa Sardigna pro sarvare sa Terra dae s’Apocalisse de s’ambiente).

A questo punto subentra il tema della singolarità e dell’unicità dei luoghi che non vanno mercificati, non sono interscambiabili, ma sono irripetibili per natura, storia, lingua, cultura e, in questo senso, hanno una loro sacralità: non è essenzialismo o fondamentalismo affermarlo; si pensi a quanto hanno scritto in proposito umanisti e scienziati come, per esempio, Ignazio Camarda, dell’Università di Sassari, a proposito di sacralità delle piante.

Parliamo di problemi epocali e nodi che possono subire l’approccio di una pressoché totale cecità dei gruppi dirigenti, oppure di enormi interessi legati ad un’economia prometeica, quella dei combustibili fossili, delle grandi opere, che distruggono, innanzitutto, la biodiversità: ebbene, nessuno di noi può fare spallucce, invocando ostacoli evidenti, colossali, la cui portata può farci avvertire un senso di inutilità e di inadeguatezza. Ad un’economia “lineare”, che tutto sottrae alla Terra, violentandola, stuprandola, si deve opporre un’economia “circolare”, in grado di restituire al Pianeta quanto ci concede: si pensi alle battaglie della scienziata e femminista indiana Vandana Shiva, per due volte ospite graditissima della Sardegna (invitata una prima volta da Camarda, la seconda da Migaleddu).

Si possono, si devono inoltre tenere presenti le obiezioni di chi è mosso dalla preoccupazione di non cadere in posizioni ambientaliste, o green, più o meno di facciata, oppure troppo specialistiche o troppo radicali; la risposta che va data ad un’esigenza di chiarimento – che viene, fra l’altro, dal mondo sardista-indipendentista – può essere: non si tratta di assumere posizioni più o meno verdi. Il punto cruciale è: l’umanità, il pianeta sono in pericolo; in gioco è la sopravvivenza nostra, dei nostri figli, dei nostri nipoti, delle generazioni avvenire, cui stiamo per consegnare una Sardegna e un globo terracqueo sul punto di diventare invivibili.

Invertire la rotta: conclusioni. Le connessioni fra malattie, pandemie, degrado e collasso del clima o degli habitat naturali può essere posta in evidenza da fonti scientifiche, da una ricerca che peraltro è in continuo sviluppo. Occorre prenderne atto e situarsi comunque in una posizione di radicale rigetto delle politiche del liberismo selvaggio. Dopo le lotte dei movimenti degli anni Settanta – la cui pressione aveva vincolato i governi a provvedimenti riformatori – ha avuto inizio negli anni Ottanta una vera e propria controrivoluzione globale. Antonio Gramsci parlava a suo tempo di rivoluzione passiva, riferendosi ad un’offensiva dei gruppi dirigenti, dalle ricadute anche culturali, che trova le masse passive ed impreparate.

Sulla base delle teorie sostenute dall’economista americano Milton Friedman, Premio Nobel per l’economia, i governi presieduti da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher hanno dato inizio a politiche che prevedevano ed attuavano, fra l’altro, una sfrontata detassazione dei ricchi, in base alla convinzione che in tal modo essi avrebbero investito di più. Il cardine di questa logica era l’idea di un mercato, completamente privo di lacci e lacciuoli, che si sarebbe tranquillamente autoregolato: una durissima critica a tali posizioni si trova nel libro di Naomi Klein, Shock economy (l’edizione originale in inglese è del 2007).

Il crollo del comunismo ufficiale, in seguito alla caduta del Muro di Berlino, ha trovato le socialdemocrazie in una condizione di afasia ed in una crescente incapacità – o non volontà – di elaborare valide strategie alternative alla follia neoliberista. Nel Regno Unito, il premier laburista Tony Blair si lanciava, fra l’altro, in un’acritica esaltazione della conservatrice Thatcher.

Questa deriva politica ci ha lasciato indifesi di fronte alle politiche dei tagli massicci alla spesa verso la sanità pubblica; oggi ne vediamo le conseguenze. L’emergenza attuale deve condurci ad un deciso cambio di paradigma. Responsabilità, speranza, nuove capacità progettuali vanno adottate e sostenute per un’improrogabile inversione di tendenza verso i problemi della sanità e dell’ambiente. Ognuno di noi e tutti insieme, come si è detto, dobbiamo impegnarci per una rivoluzione culturale, per un New Deal sardo legato ad uno globale, entrambi incardinati su una riconversione produttiva in chiave ecocompatibile.

 

Per approfondire. Il tema della sacralità delle piante è nel contributo di Ignazio Camarda, dell’Università di Sassari, dal titolo, Cultural Heritage of Ethnobotany, nella raccolta di saggi, Environment, Social Justice, and the Media in the Age of the Anthropocene, a cura di Elizabeth Dobbins, Maria Lucia Piga e Luigi Manca, Lexington Books, London and New York, 2020, pp. 354-370; mi permetto di rinviare anche a F. Francioni, From Global History to the Singleness and Uniqueness of the Lands, nello stesso volume, pp. 371-402 (il saggio è dedicato alla sempre viva e cara memoria di Vincenzo Migaleddu); Id., Oltre il prometeismo per una riconversione agroindustriale ecocompatibile, in “Mathesis-Dialogo tra saperi”, n. 20, giugno 2013, pp.17-28).

Si fa presente che il succitato volume della Lexington Books raccoglie gli atti di un seminario interdisciplinare internazionale su “Ambiente, giustizia sociale e ruolo dei mass-media nell’età dell’Antropocene”, tenutosi a Sassari il 15-16 giugno 2017 in locali dell’Ateneo turritano. L’evento è stato organizzato da: “One Humanity-One Planet Research Interest Group” (un Collettivo di ricerca che riunisce studiosi americani, italiani e sardi); dall’Università di Sassari, Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali; hanno collaborato alla promozione ed alla realizzazione dell’incontro: la Benedictine University di Lisle (Chicago, Illinois), l’Associazione italiana di sociologia, il Nucleo di ricerca sulla desertificazione dell’Uniss, la Fondazione Sardinia, l’Associazione sassarese di filosofia e scienza. Nel volume della Lexington, oltre ai saggi dei già citati Camarda, Francioni e Piga, figurano importanti contributi di altri studiosi sardi: Domenico Branca, Giuliana Mannu, Aide Esu e Simone Maddanu. Col termine Antropocene il Premio Nobel Paul Crutzen ha inteso riferirsi ad un’età caratterizzata da un sempre crescente dominio dell’uomo sulla natura. L’Antropocene – termine anticipato dall’espressione Era antropozoica di cui aveva parlato nell’Ottocento Antonio Stoppani – viene dopo l’Olocene, caratterizzato peraltro da un continuo aumento delle temperature.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Condividi su:

    1 Comment to “QUALI RAPPORTI FRA LE EMERGENZE SANITARIE E QUELLE AMBIENTALI? di Federico Francioni”

    1. By Mario Pudhu, 13 aprile 2020 @ 08:17

      Bene meda, su chi as iscritu, Federico!
      Ma una dimandha: De inue comintzamus (custu no est pretzisu, ca fintzas chie no faghet nudha est solu sighindhe, e gai etotu chie faghet e in cale sensu), ma ponímula gai, de inue comintzamus? De sa “cabertura”, de su “pianu de mesu” o de sos “fundhamentos”?
      Mili bortas zustu, comente naras, a chircare su printzípiu de sa responsabbilidade personale e colletiva, ca si deo isco e cumprendho depo tandho fàghere, cambiare (sinono so pistendhe abba, cosa solu pro mi asseliare un’iscrúpulu de cusséntzia chi fossis no càmbiat própriu nudha). Su “puntu de fortza” de sa “leva” chi ndhe podet artziare “su pesu” (e pesu grae!) e fàghere su cambiamentu est in su “tretu prus acurtzu” a donzunu de nois: est donzunu de nois. Ca pro su chi donzunu podet – e sa libbertade e responsabbilidade est a fàghere su chi podimus – unu no depet pedire nudha a neune e faghet sa parte sua! No tenet de istare ispetendhe nudha e a neune!
      Sa responsabbilidade colletiva est prus “atesu”. Ma custa puru podet èssere prus “acurtzu” o prus “atesu”, segundhu cale est sa “colletividade”. Podimus pessare a su chi est sa domo e sa famíllia, a su chi est sa bidha, a su chi est s’istadu, fintzas a chircare sa zente e istitutziones chi pertocant totu su Pianeta. E si depimus prima chircare sa libbertade e responsabbilidade personale est ateretantu seguru chi depimus chircare cussa colletiva a donzi “livellu”, prus acurtzu o prus atesu chi siat; depimus chircare sa nostra e sa prus acurtzu colletiva puru e cussa de sos àteros e colletiva prus atesu. Ma su puntu de fortza est sempre su prus acurtzu, ca a mie, inoghe, poto cumandhare ma a tie e in cudhane nono o meda prus pagu; sa colletividade prus acurtzu si podet e depet guvernare innantis de guvernare cussa prus atesu.
      Si pessamus a cantu nois Sardos amus “morigadu” dae sos annos, tra su 1970 e 1980, de su “neosardismu”, sos tempos de Città-Campagna, Natzione Sarda e àteros mensiles anticolonialistas, su Movimentu de su Populu Sardu e mensile tio fintzas nàrrere chi in Sardigna est créschida e mancu pagu sa, namus gai, “cusséntzia” natzionale, indipendhentista, ambientalista (sa bonànima de Vincenzo Migaleddu, tantu pro istare a sa chistione “ambientale”, fit in su Movimentu de su Pópulu Sardu!) e pessamus fintzas a totu sas initziativas tantu pro ndhe nàrrere una su Referendum contr’a s’ipotesi maca e vile fintzas solu coment’e ipótesi de nos pònnere centrale nucleare o fàghere a depósitu de sa iscórias nucleares de s’Itàlia.
      Ma sos Sardos semus, no intro de una gàbbia de macos, ma intro de una gàbbia de domíniu, no solu s’Istadu italianu/Repúbblica italiana, ma de totu sos partidos italianos dae su prus niedhu a su prus ruju chi faghent sa divisione e ispimpirallamentu de nois Sardos, e fintzas cun “Pastores” chi tiant pàrrere prus preíderos de s’Istadu italianu/Repúbblica italiana chi no de sas “berbeghes” de sa Crésia universale de Cristos chi riconnoschet totu sos pópulos pro s’identidade istórica e diritos/doveres chi tenent de limba de cultura de logu de economia, gai bene distinta, sa nostra de Sardos, chi bi cheret solu sa cunfusione ignorante e presumida coltivada a ispompia manna in s’iscola italiana (púbbrica e privada) a nos iscazare a regione de s’Itàlia e italianos a ammachiadura.
      E no niemus nudha de unu partidu in manera fartza sardu, ma regionalista italianu votadu a totu sas dipendhéntzias e pedulianésimu, fizu de unu rivendicatzionismu chi faedhat a sos surdos e de sa “natzione fallita” de duos de sos fundhadores mannos pro andhare ifatu a sa ‘política’ de s’aurtinzu.
      E si faghimus s’elencu de su “bonu” chi est créschidu in sa cusséntzia de medas Sardos dae su 1970 in goi, fintzas solu s’elencu, est unu muntone de siglas e de grupos cun s’idea iscabilada de sa divisione e de no chircare e prus pagu fàghere unidade natzionale, nos tiat dare s’idea de cantu sos Sardos seus iscallaus, ispimpirallaus e prenos de presumu, ‘politicamente’ iscaminados a “immagine e somiglianza” de sos partidos italianos a ‘política’ de “vita tua mors mea”, “vita mea mors tua” cun cudhu “fortza paris” bastu chi tue benzas cun negus.
      Tandho, si ndhe bogamus su “livellu” de sa libbertade e responsabbilidade personale, chi si est sa prima de dovere, de diritu e de podere e prus possíbbile e immediata, s’àtera, sa colletiva, est unu manincómiu de dipendhéntzia in totu sos sensos, digna solu de zente irresponsàbbile, prus impitzada a murrunzare, protestare e prànghere chi no a fàghere su dovere e podere colletivu chi, namus a “piano de mesu”, podet èssere solu sa Sardigna.
      Ma cantu e comente semus pessendhe a s’unidade natzionale nostra? E lassemus totu sos aprofitadores ifatu de sa dipendhéntzia ca apitant e ispetant sempre afàrios mannos, lassemus totus sos Sen. e On. in pectore apilliados a fàghere “carriera” in sa dipendhéntzia, ma sa parte assolutamente prus manna de sos Sardos est disastrada, iscaminada, e no b’at rimédiu de mezorare e cambiare si sos Sardos no pessamus a nos guvernare e a èssere bonos a nos guvernare de manus nostra e nois, ispetendhe a chie est pessendhe a tot’àteru oltretirreno afariadu in tot’àteru, amus a sighire solu pistendhe abba e andhendhe de male in peus.
      Candho est chi comintzamus seriamente, invetze de nos pèrdere in chentu e una chistione, a coltivare unidade e prus fortza pro pòdere pessare e fàghere sos cambiamentos mannos chi nos serbint in sa cultura, in sa preparatzione professionale, in s’economia, in su contivizu de su logu, in sos cumportamentos personales e in su guvernu?