E visse felice e contento (con mamma), di Pierdomenico Baccalario

Tornano in un volume-strenna, «Le fiabe italiane» di Italo Calvino illustrate da Emanuele Luzzati Un’opera fondamentale che dice molto del nostro carattere. Ma ha ancora senso oggi la sezione «per le bambine»?

A Celle Ligure, proprio in fondo alla passeggiata, c’è una bottega di ceramica che si chiama il Tondo. Se ci entrate e chiedete di sbirciare nel laboratorio dove sta accucciato il forno, scoprirete che è dove per anni Emanuele Luzzati ha disegnato le sue ceramiche, schivo e tranquillo. Italo Calvino amava fornire, a chi glielo chiedesse, dati biografici falsi o inventati: condivideva con Luzzati un’eredità ligure riservata e internazionale al tempo stesso, amante dello scherzo ma non complice, che aveva ricevuto nella sua fanciullezza a Sanremo.

Fu la sua imperturbabilità a far sì che accettasse, a metà degli anni Cinquanta, la proposta di Einaudi di fare come i fratelli Grimm con la Germania, Yeats con l’Irlanda, Perrault con la Francia, Afanasjev con la Russia e Andrew Lang, da buon imperialista, con le fiabe di tutto il mondo, e cioè raccogliere in un unico volume le più belle favole italiane, in modo da ottenerne un «libro piacevole da leggere, popolare per destinazione». Rispose: «Stando così le cose, si venne nell’idea che lo dovessi fare io». E lo fece, per i due anni successivi, immergendosi come un sottomarino senza fiocine nel mare del fantastico italiano, che scoprì essere tutt’altro che povero di pesci, « tutt’altro! E il merito va tutto al popolo italiano che ha (…) un’arte di raccontare fiabe (…) piena di felicità, d’inventiva fantastica, di spunti realistici, di gusto e di saggezza».

Da allora quest’inventiva saggia e felice non lo abbandonerà. Lui, che aveva scoperto il piacere della lettura dal primo e soprattutto dal secondo dei libri della giungla di Kipling, fu forse proprio al grande scrittore che pensò per dare corpo al progetto. Come lui era sospeso tra due mondi (Kipling tra Inghilterra e India, Calvino tra Cuba e Italia) e come lui sapeva maneggiare lingua, ritmo, grandezza di visuale e dettagli preziosi della realtà. Si mise dunque al lavoro con Giuseppe Cocchiara e con i preziosi consigli, tra gli altri, di Natalia Ginzburg (giustamente ricordata nella bella introduzione di Nadia Terranova alla nuova edizione).

L’Italia di allora non aveva elaborato un compendio di favole degno di tal nome, né attirato sulla favolistica e sul fantastico, tantomeno sui bambini (orrore!) l’interesse dei suoi studiosi, come invece era avvenuto altrove. E questo benché esistesse una poderosa tradizione di racconti orali e regionali. Le raccolte erano frutto di appassionati, dirette o a nobili raffinati (come il Cunto de li Cunti di Basile) o pensate per ammuffire in prestigiose biblioteche. Il grande pubblico, invece, perché mai? Chi aveva letto il Pitré? E chi Domenico Comparetti?

Einaudi ben se ne accorse. Serviva un maestro della lingua, un intellettuale che non si spaventasse di andar per mare. Uno che facesse per la favola quello che Manzoni aveva fatto per il romanzo: che ne inventasse la lingua. E questo fu il suo lavoro. Invece di intervistare i novellatori, coloro che per anni avevano ripetuto le favole, a volte nascondendosi al loro interno come protagonisti anonimi, distanti dai letterati e dagli studiosi, si concentrò nel tradurre le fiabe in una lingua comune ricca e meravigliosa, italiana nel senso di insieme, e regionale nel senso del gusto. Una lingua capace di restituirci quel modo di affratellarsi unico cha abbiamo, sempre colorato da una radice locale, da un senso di appartenenza particolare, da una parola, una ricetta e uno sguardo del tutto individuale. Peraltro, anche i Grimm avevano fatto così, e quindi, convinto da questo tipo di approccio, Calvino ricevette le favole, le classificò e trovò il loro italiano pensando a chi le avrebbe lette (e non a chi le stava scrivendo): bambini a casa, in classe, bambini in attesa di addormentarsi, bambini che amavano giocare, spaventarsi e poi correre via, leggeri, a fare tutt’altro. Occorreva che tutti i lettori ci si trovassero, anzi: che ci si riconoscessero. Doveva essere, come è, un’antologia senza troppi scrupoli accademici, armoniosa, di facile lettura e dal ritmo poetico elegante. E così eccole, duecento fiabe, raccolte in un unico volume, superbamente illustrate da quell’altro genio, Luzzati: pastelli e carboncini sporchi, regine e re che paiono appena usciti da un mazzo di carte, perché alla fine tutto il mondo dei bambini gira attorno al gioco. Un libro magnifico e vicino, tanto da sembrare, nel linguaggio e nel disegno quasi fatto dai bambini. E questa è la sua più grande conquista, la sua vera potenza. Il desiderio di imitazione è qualcosa che lo stesso Calvino auspicò di aver suscitato, quando scrisse «m’auguro che il mio libro risvegli la passione per le ricerche di novellistica popolare, da tempo trascurata». Solo così, facendole proprie, le nostre favole possono trasmettere a chi verrà le nostre conoscenze intuitive.

Mi è bastato sfogliarlo per farmi tornare alla mente quella con cui mia nonna era solita terrorizzarmi: Naso d’Argento, la classica favola alla Barbablù con un nobile malvagio che rapisce con l’inganno le due sorelle della brava lavandaia, e che poi la terza, intelligente e coraggiosa, libera tutte. Oggi ne riesco a riconoscere la provenienza piemontese e popolare, una favola di donne per mettere all’erta altre donne sui pericoli del matrimonio. E poi L’anello magico che pare raccogliere quasi tutti i temi della tradizione italiana: ne è protagonista un bravo giovane stufo del suo paesello, che si incammina per il mondo, soccorre una vecchina e ne riceve un anello magico, in grado di esaudire qualunque suo desiderio.

È un anello del potere molto diverso da quello ben più famoso di Frodo, che invece, forse assecondando il carattere di Tolkien, permette di scomparire ed evitare ogni imbarazzo. Il giovane, invece di usarlo, preferisce ogni volta accontentarsi di quello che ha, tranne quando incontra una fanciulla bellissima. Chiede all’anello un castello per certificare la sua purezza di spirito e, così facendo, la sposa. Ma lei, ovviamente, lo tradisce, gli ruba l’anello e lo spedisce in cima a una montagna. Lo salvano i suoi due servitori, un cane e un gatto (i sottoposti litigiosi), che sono amici quando devono andare a recuperare l’anello, ma litigano una volta che ci riescono, pensando così di ricevere ricompense diverse. Il giovane non fa preferenze, scaccia la sposa traditrice, rimette a posto il castello e a quel punto cosa fa? Invita la mamma ad andare a vivere con lui. Ovvero la nostra personalissima versione di cosa significhi vivere felice e contenti.

Ce ne sono altre 198, una per ogni carattere e personalità, per ogni sogno e spavento, per ogni occasione e discussione. È uno dei pochi libri davvero fondamentali, tornato in un’edizione prestigiosa, capace di mostrare splendori e limiti della nostra immaginazione, il divertimento e l’umanità che ci contraddistinguono nel mondo. Una sola nota, come papà di due bambine: mi sarebbe piaciuto che nella nuova edizione si fosse trovato il coraggio di eliminare la sezione delle «fiabe per le bambine», che forse aveva un senso negli anni Cinquanta, o quando in seguito fu approvata da Chichita Calvino e dal professor Baranelli, curatore delle opere, ma che oggi, qui, non fa che riproporre la bugia culturale che le si debba trattare in modo diverso dai bambini. La lettura, 1 dicembre 2019

 

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