La pacifista Lisistrata tra ateniesi guerrafondai, di Luciano Canfora

Nell’Atene espansionista dell’epoca di Pericle le commedie di Aristofane documentano il netto rifiuto femminile (a quel tempo nascosto) verso i conflitti armati. In questo modo scalfisce un tabù, come farà più tardi Lucrezio contestando la vocazione imperiale di Roma.

Aristofane è davvero un anticorpo nella macchina della democrazia ateniese, imperialistica e guerrafondaia. La sua testimonianza è preziosa — e purtroppo isolata — perché documenta l’esistenza di un sentire collettivo (femminile e perciò nascosto) di rifiuto, non più solo individuale, della guerra. È giusto mettere in luce la centralità della commedia di Aristofane del 421 ( Pace) nella non grande galassia pacifista dell’Atene del V secolo avanti Cristo; ma certamente è Lisistrata il documento programmatico e dirompente.

Aristofane è un comico, forse il più grande comico mai nato, può dire indisturbato quello che vuole: tanto siamo in commedia! Ma nel pubblico a teatro ci sono anche le donne, che invece dall’assemblea popolare sono escluse. E quindi le sue trovate, le parole di Lisistrata (o più tardi quelle di Prassagora nelle Donne all’assemblea popolare) non cadono nel vuoto, non servono unicamente a fare ridere il pubblico maschile, servono anche a mettere in discussione il problema dei problemi al cospetto delle interessate (che non erano soltanto incolte popolane).

Sappiamo poco dell’efficacia di tutto ciò: ma ci limitiamo a osservare che, in alcune scuole filosofiche dei decenni successivi (sia nell’accademia platonica che, più tardi, nel giardino di Epicuro) erano presenti, e partecipavano, e pensavano, anche delle donne. Scalfire un tabù è un processo lunghissimo: «Eppur si muove!». Ma «si muove» molto lentamente, se solo si pensa che, quasi un secolo dopo la Lisistrata incentrata sulla superiorità intellettuale e politica delle donne sugli uomini, un autorevole sistematore del pensiero filosofico e scientifico come Aristotele teorizzava che lo Stato «si deve considerare diviso in due gruppi separati, quello degli uomini e quello delle donne», le quali — sosteneva — appartengono al corporeo e all’irrazionale laddove il principio creativo è maschile essendo l’uomo «forma e spirito».

Tutto diventa più complicato sulla scena tragica. È assai pertinente, a tal proposito, il rinvio ad alcuni luoghi euripidei: il frammento del Cresfonte, appassionata invocazione alla pace «la più bella di tutte le dee», nonché il ben noto attacco — nelle Supplici — alla leggerezza con cui le assemblee decisionali procedono ad approvare dichiarazioni di guerra (versi 481-490). Ma quando si tratta di testi tragici è d’obbligo la cautela.

Chi pronuncia quella pertinentissima ed efficace tirata contro la leggerezza assembleare («Se la morte balenasse davanti agli occhi al momento del voto, la Grecia frenetica di guerra non avrebbe mai rischiato la propria rovina!») è, a rigore, un personaggio «negativo», cioè l’araldo tebano che ingiunge a Teseo, re «democratico» di Atene, di non impicciarsi nella disputa con i congiunti degli aggressori caduti davanti alle mura di Tebe. Nell’episodio messo in scena nelle Supplici è Teseo l’eroe «positivo» e l’arroganza del tebano viene sconfitta.

Eppure il tebano formula concetti che paiono rispecchiare l’autentico pensiero dell’autore, il quale comunque resta sempre ben celato dietro gli scontri dialettici dei suoi personaggi. Ma la finzione di «neutralità» sembra infrangersi quando alcuni importanti addebiti

espressi da un personaggio «negativo» (l’araldo) rimangono senza replica. E si tratta, sempre nelle Supplici, della denuncia di alcuni gravi difetti strutturali della democrazia assembleare: l’incompetenza del corpo decisionale e il predominio dei demagoghi.

Colpisce perciò l’abilità con cui Euripide fa comunque profferire, davanti al pubblico, quella vibrante ed efficace critica dell’incoscienza con cui gli Stati scivolano nella guerra, ma la fa pronunciare dall’aborrito tebano, della cui sconfitta il pubblico si compiacerà alla fine della rappresentazione. Sa bene come far filtrare i concetti evitando però di ferire «il comune sentire».

Neanche il mondo delle città greche fu un universo immobile. Vi è un abisso tra il Pericle tucidideo (tanto amato dai retori novecenteschi) il quale esalta «i monumenti di male e di bene» che Atene ha disseminato nel mondo (epitafio, paragrafo 44) e le filosofie post-aristoteliche che predicano l’unità del genere umano: un vero anticorpo in quel «mondo di ferro»; che diventò ancora più ferreo con la dominazione romana dell’intero Mediterraneo e con il genocidio cesariano del mondo celtico.

Eppure anche in quel «mondo di ferro», dominato in ogni suo aspetto dalla mentalità e dalla logica della guerra, si levò la voce del grande Lucrezio che seppe scrivere i versi più anti-imperialistici di tutta la letteratura latina, che avrebbero fatto inorridire Virgilio, divenuto fervente augusteo: «Meglio essere sottomessi e tranquilli (parere quietum) piuttosto che comandare con la forza ( quam regere imperio) e sottomettere il mondo ( regna tenere) »( De rerum natura, V ,1129-1130). Virgilio risponderà puntigliosamente :« Tu rege re imperio populos, Romane, memento !» ( Eneide, VI, 851): Romani, ricordatevi che il vostro compito è dominare i popoli.

LA LETTURA 13  ottobre 2019

 

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