Nico Motzo soldato e partigiano in Grecia (1939-1944), di Luciano Carta (5. fine).

Luciano Carta, “Andartes”. Pro chi non morzat sa memoria. Ammentandhe sos “eroes”mannos e minores de domo nostra. Le precedenti quattro puntate della presentazione del libro qui proposta da Luciano Carta sono state pubblicate in questo sito nei giorni: 18 dicembre 2019, 8, 15, 22 gennaio 2020,

QUINTA PUNTATA

7. Il ritorno in Italia e gli ultimi mesi di vita militare (novembre 1944 – novembre 1945).

Ai primi di novembre 1944 il Comando partigiano si spostò ad Agrigno, cittadina dell’Etolia-Acarnaia, vicino alla costa occidentale della Grecia: «Arrivammo ad Agrigno il giorno 4 novembre 1944. Sembrava un sogno, dopo tanto pellegrinare in quelle montagne come uccelli di bosco, poter finalmente stare in mezzo a gente civile. La Grecia era ormai completamente libera»[1].

Il 24 novembre arrivò il sospirato ordine di rimpatrio degli italiani. Giunto a Patrasso il 26 novembre, Nico Motzo s’imbarcò alla volta di Taranto, dove la nave giunse il 27. Aveva trascorso in Albania e in Grecia circa tre anni.

Purtroppo anche a Taranto il ritorno a casa gli apparve come un miraggio. Tutti i reduci pensavano, dopo diversi anni di campagna greco-albanese, che avrebbero ottenuto il congedo. La prima sorpresa per l’Autore fu di vedersi accompagnato presso il campo contumaciale “S. Andrea” di Taranto da soldati dell’esercito anglo-americano di pelle nera, “Zulù” come egli li chiama, nei confronti dei quali manifesta un’istintiva avversione. A Taranto incontra il compaesano e parente Antonio Dedola, che gli fornisce, durante il periodo d’internamento, qualche genere di conforto che può acquistare grazie alla liquidazione degli arretrati dello stipendio di Caporal Maggiore dall’8 settembre 1943 in poi. Ma la sorpresa maggiore arrivò dopo una settimana, quando alcuni alti ufficiali italiani fecero capire ai reduci che potevano lasciare il campo solo a condizione che si fossero prestati, come essi si espressero in modo eufemistico, «a fare i conducenti con gli anglo-americani, come volontari»[2]. In pratica si chiedeva loro di arruolarsi nell’esercito alleato per riprendere i combattimenti in Italia. Fu una ribellione generale. L’ira dei reduci era giustificata: «volevano servirsi di noi – commenta l’Autore – come carne da cannone»[3]. Nico Motzo decise in cuor suo che non avrebbe mai combattuto con gli anglo-americani. A quanto ricordano i familiari, egli nutriva verso gli inglesi una fortissima ripugnanza, superiore anche a quella che egli provava per i “cani” tedeschi. La sua decisione però non era frutto di pura avversione verso gli inglesi o di semplice stanchezza dopo l’esperienza greco-albanese. Vi era un’altra ragione da lui espressa con grande chiarezza. Considerata la situazione dell’Italia, divisa in due tra il governo del re a Sud e il governo fascista della Repubblica di Salò a Nord, egli era convinto che non si trattava solo di combattere contro i tedeschi, ma anche contro gli stessi italiani, e questo gli ripugnava. «Se si fosse trattato – egli scrive – di combattere contro i soli tedeschi per mandarli fuori dalla nostra patria, nessuno avrebbe esitato, ma dato che con i tedeschi c’erano ancora gli italiani, era come combattere contro i nostri fratelli».[4]

Decise di sottrarsi ad ogni costo all’arruolamento forzato imposto dagli anglo-americani: «Eravamo nuovamente reclute. Alla sera ci inquadrarono e ci portarono alla stazione, sempre scortati dai Zulù – un elemento etnico che egli sottolinea sempre – che ci dovevano accompagnare al fronte»[5]. Nel vagone in partenza, che ospitava soprattutto reduci originari della provincia di Nuoro, vi era anche un campidanese di Monserrato, presso Cagliari, Gino Manca, che dichiarò di volersi unire a lui nell’impresa della fuga. Durante una fermata notturna del convoglio alla stazione di Maddaloni, presso Caserta, sgattaiolarono giù dal treno e con buona dose di fortuna riuscirono a farla franca. Poiché nelle vicinanze era ubicato un campo di smistamento di materiali per il fronte, ottennero di essere inseriti nei ranghi di esso. Il lavoro nel campo per i due fuggitivi era funzionale alla ricerca di un’occasione d’imbarco clandestino per la Sardegna dal porto di Napoli. Sempre ricorrendo a qualche astuzia e raccontando qualche bugia di troppo, riescono, dopo lunghe trattative, a persuadere alcuni marinai a favorire il loro imbarco nell’incrociatore “Montecuccoli”, che faceva servizio tra Napoli e Cagliari. Il Motzo, liberatosi dell’ultimo segno tangibile della esperienza di andartes, una lunga barba da brigante che lo faceva assomigliare a un “delinquente”, secondo la definizione di un capitano del campo di smistamento, i due clandestini riuscirono finalmente, tra mille peripezie, a raggiungere Cagliari e la famiglia del compagno di fuga a Monserrato. Nello stesso giorno, con un ultimo gesto di astuzia, Nico Motzo riesce a ottenere un biglietto ferroviario per Solarussa, piccolo centro presso Oristano, e di lì raggiunge Macomer, dove incontra le sorelle Cisa e Peppina e i cognati Paolo e Giovannino Becciu. Abbiamo costantemente posto in evidenza quanto l’astuzia sia stata importante per Nico Motzo nel superare le innumerevoli situazioni di difficoltà e i pericoli in cui si era venuto a trovare nel corso della sua lunga avventura. Non a caso egli era figlio di Stefano Motzo, che i bolotanesi hanno sempre chiamato “Mazzòne”, ossia “l’astuto”. Occorre riconoscere, come dice il proverbio, che “buon sangue non mente”! Nico Motzo rientrò a Bolotana in seno alla famiglia in coincidenza delle feste natalizie del 1944: «la realtà sembrava sogno. Poter riabbracciare i cari genitori dopo tanto tempo e tanto soffrire, con tutto quel pellegrinare sopra quelle montagne greche, dove la morte era in agguato ad ogni passo e ad ogni minuto»[6].

La ferma militare non era però ancora conclusa. Nel mese di maggio 1945 fu destinato al 236° Reggimento Fanteria “Calabria” di stanza a Tempio e prese servizio presso la postazione di Guardia Vecchia, nell’isola della Maddalena.  Il congedo illimitato provvisorio gli venne accordato il 23 novembre 1945 «dopo 7 anni e sette mesi e un giorno di vita miliare – egli scrive – dando il fior fiore della mia gioventù alla Patria e per il sacrosanto dovere di Italiano»[7]. In data 15 settembre 1945 il generale Adolfo Infante, Primo Aiutante di campo del Luogotenente Generale Umberto di Savoia, gli preannunciava il riconoscimento dell’onorificenza della Medaglia d’Argento al Valor Militare; il Comando dell’E.L.A.S. gli faceva pervenire la certificazione che lo riconosceva come “Partigiano Combattente”. La comunicazione ufficiale della Medaglia al Valor Militare gli sarebbe pervenuta dal Ministero della Guerra nel corso del 1946, con una motivazione che ne evidenziava gli atti di valore e il contributo dato alla liberazione della Grecia.

 

Decorato di Medaglia d’Argento al Valor Militare perché: in occasione dell’armistizio si sottraeva tra rischi gravissimi alla prigionia dei tedeschi che avevano disarmato il proprio reparto e si aggregava ad una formazione di partigiani allo scopo di battersi contro le armi germaniche. In ripetuti combattimenti dava luminose prove di iniziativa, di sangue freddo e di coraggio personale, finché nel generoso tentativo di portare in salvo, sotto il fuoco nemico, un compagno colpito a morte, veniva gravemente ferito in più parti del corpo. Usciva di sua volontà dal luogo di cura quando ancora non era completamente ristabilito e – animato dalla volontà di battersi contro l’odiato nemico – partecipava ad azioni di guerra contro i tedeschi fino alla liberazione totale del paese, facendo brillare in terra straniera le sue fulgide virtù militari e destando nei compagni partigiani la più profonda ammirazione. Bello esempio di elevate qualità militari, di coraggio personale, di spirito di sacrificio e di profondo attaccamento al dovere. Grecia settembre 1943 – ottobre 1944[8].

 

8. Dopo la guerra. Una vita normale.

Al rientro in famiglia nel dicembre 1944 Nico Motzo dovette affrontare una situazione non facile prima di essere destinato alla Maddalena, dove si sarebbe conclusa la sua esperienza di soldato. Al di là delle motivazioni da lui addotte nelle Memorie, che lo avevano spinto, insieme a gran parte dei reduci internati nel campo contumaciale di Taranto, a rifiutare di prendere le armi a fianco degli Alleati, egli si era di fatto allontanato sia da quel campo sia anche da quello di smistamento nei pressi di Maddaloni, cui si era fortunosamente aggregato insieme con il compagno di Monserrato Gino Manca. In effetti, per le autorità militari, pur nella confusione e nella disgregazione dell’Esercito seguita all’armistizio dell’8 settembre, egli appariva come un “disertore”. Questo aspetto molto problematico della sua posizione, nei mesi che precedettero la sua presentazione al Distretto di Oristano nel maggio 1945, gli fu rudemente fatto rilevare dallo zio, colonnello Leonardo Motzo, che in quel periodo operava in Sardegna. Come si evince dalla lunga intervista da lui rilasciata a Marina Moncelsi e ad Aldo Borghesi nella sua casa nel 2012, e come rivelò a chi scrive in un colloquio avvenuto nel dicembre 2011, tale “qualifica”, che egli visse come un affronto alla sua onorabilità, venne da lui orgogliosamente ed energicamente respinta. Sotto il profilo morale e il senso dell’onore personale, in lui particolarmente accentuato, egli aveva tutte le ragioni per respingere quell’epiteto e, soprattutto, quella condizione. La guerra tuttavia non era ancora conclusa, ed egli non era ancora in possesso del congedo illimitato provvisorio; in ogni caso la sua posizione andava regolarizzata. Nico Motzo, dopo la parentesi intercorsa tra l’arrivo a Taranto e il rientro a Bolotana, doveva essere nuovamente inquadrato tra gli effettivi dell’Esercito fino al congedo definitivo, sanando la situazione problematica in cui egli si era oggettivamente posto dopo il suo allontanamento volontario da Taranto. Come racconta egli stesso, quattro mesi dopo il suo rientro a Bolotana, nell’aprile 1945 si presentò al Distretto Militare di Oristano e qui venne “regolarizzata” la sua posizione. Tuttavia il Maggiore comandante, al quale egli aveva raccontato «tutta la sua passione» dall’8 settembre 1943 al rientro in Sardegna, non aveva volto rinunciare a porre in evidenza la sua effettiva posizione in qualità di membro delle Forze Armate, pur avendola, per così dire, derubricata da “disertore” a eterno “fuggitivo”.

 

Erano ad ascoltarmi – egli racconta – un maggiore ed un capitano. Quando ebbi finito il mio lungo racconto, il maggiore si mise a ridere e disse al capitano: «Questo è scappato per non esser fatto prigioniero dai tedeschi, poi è scappato dalla Grecia per venire in Italia, poi scappò nuovamente per venire in Sardegna, ovunque noi lo mandiamo scapperà ugualmente!».

Anche se occorre riconoscere che gli stessi superiori militari non poterono non riconoscere e ammirare l’ardimento e la freddezza con cui aveva saputo affrontare le difficili situazioni in cui si era venuto a trovare.

Fu così che il 7 maggio 1945 l’ex “fuggitivo” venne reimmesso ufficialmente nei ranghi delle forze regolari dell’Esercito, con destinazione il 236° Reggimento Fanteria, Divisione “Calabria”, di stanza a Tempio, con servizio effettivo da prestare nell’isola della Maddalena. Fu quasi una formalità. Dopo appena un mese di servizio attivo nel reparto di destinazione, Nico Motzo rientrava a casa in licenza agricola alla fine di giugno e in seguito non riprese più il servizio. Il congedo definitivo lo ottenne, insieme ad altri Bolotanesi che avevano preso parte alla guerra sul fronte greco-albanese, e che dopo l’8 settembre avevano sperimentato la durezza dei campi di concentramento nazisti, il 23 novembre 1945. Intanto, come si è detto, in data 15 settembre dello stesso anno il generale Adolfo Infante gli annunciava il motu proprio del Luogotenente del Regno Umberto di Savoia, che gli conferiva la Medaglia d’Argento al Valor Militare, poi ufficialmente ratificata dal Ministero della Guerra nel corso del 1946.

Di questa alta onorificenza militare furono in pochi ad essere al corrente e a conoscerne la motivazione. Della vicenda partigiana in suolo greco che lo aveva visto protagonista, e che solo con la stampa delle Memorie è diventata di dominio pubblico, Nico Motzo parlava solo in ambiente familiare e presso amici fidati. Era tuttavia in contatto con l’associazionismo di ex combattenti. Secondo la testimonianza dei familiari, infatti, egli era iscritto all’Istituto Nastro Azzurro, associazione fra Combattenti Decorati al Valor Militare, per la quale rinnovò l’iscrizione fino al 2014. Inoltre «il 29 luglio 2003 inviò una lettera al generale Cesare Simula a Roma […] raccontando a grandi linee le vicende di guerra che lo hanno visto protagonista e motivando la sua avversione verso gli inglesi»[9]; allegava inoltre alla lettera copia della certificazione dell’E.L.A.S., la sua foto al rientro dalla Grecia e foto di partigiani. Reinseritosi nella vita familiare e comunitaria, una delle caratteristiche distintive di lui nel dopoguerra fu un atteggiamento di riserbo assoluto. Riserbo che non venne del tutto meno neppure quando, circa 70 anni dopo, accettò di parlare in pubblico della sua esperienza militare e partigiana insieme con altri compaesani reduci dai lager nazisti. Collaboratore attento nel governo della piccola azienda di famiglia, egli fu solerte gestore del gregge che il padre aveva in società con Peppino Cappai e che pascolava nei terreni di proprietà in altura a Serra ‘e Mesu nelle falde di monte Palai e in pianura a Orulatu, oltre che in altri terreni di proprietà o presi in affitto.

Così lo ricorda Zuanne Congiu (classe 1932), il cui genitore Michele nell’immediato dopoguerra fungeva da “pastore”, insieme con tiu Pietrinu Dedola e tiu Costantinu Pisanu “Su Lodde”, del gregge dei due soci proprietari del bestiame, secondo un tipico contratto di soccida locale. Tali contratti di soccida prevedevano che la parte padronale (nel nostro caso i due padroni, ossia il padre di Nico e Peppino Cappai) fornissero il bestiame e il pascolo; ai “pastori” competeva la conduzione del gregge con la divisione degli utili.[10] Di Peppino Cappai, uno dei due piccoli proprietari, il 31 ottobre 1949 Nico Motzo avrebbe sposato la figlia, signora Giuseppina. Anche Zuanne Luisi Pireddu (classe 1932) ricorda bene che l’attività prevalente di Nicheddu era di occuparsi del bestiame di famiglia, affidato a un “pastore” (tra essi Carmelinu Saba “Marredda”), che seguiva assiduamente, recandosi all’ovile a cavallo, con quel suo caratteristico modo di cavalcare che abbiamo delineato all’inizio di questo lavoro, percorrendo quasi quotidianamente la strada Badu – Badaddu – Cucculìa – Riu Carbone – Serra ‘e mesu, dov’era l’ovile.

Ciò accadeva fino al 1953, quando fu assunto come impiegato presso la Facoltà di Geologia dell’Università degli Studi di Cagliari. Nel 1958 si traferì nel capoluogo dell’isola anche la famiglia, costituita già di quattro figli, cui si aggiunse l’ultima figlia Sandra. Nei primi anni di residenza a Cagliari, dove poteva disporre di maggior tempo libero, cedendo anche all’invito che gli proveniva dallo zio Bacchisio Raimondo Motzo, allora preside della facoltà di Lettere e Filosofia, che aveva ben compreso l’eccezionalità dell’esperienza vissuta dal nipote in Grecia, Nico Motzo scrisse le sue Memorie di guerra, che recano la data “Cagliari 1954” e che furono revisionate dal noto storico dell’antichità, il quale ne rispettò, con grande tatto e delicatezza, la narrazione e il lessico, limitandosi alla correzione di qualche vistosa imperfezione formale. Le Memorie, scritte a dieci anni di distanza dall’epilogo della vicenda, furono gelosamente custodite dall’Autore. Pur vivendo in un ambiente come quello universitario, sicuramente sensibile ai valori della Resistenza, in una città come Cagliari dove l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia ha sempre avuto una visibilità costante, l’Autore ha preferito non divulgare la sua esperienza. Tale atteggiamento, comune a Nico Motzo come a numerosi altri reduci del Secondo Conflitto Mondiale, costituisce un problema storiografico che sarà compito degli storici cercare di dipanare.

Nel 1978 Nico Motzo, raggiunta l’età della pensione, rientrava a Bolotana con la moglie, mentre i figli preferirono rimanere a Cagliari e nell’hinterland, dove vivono tuttora. Nel paese natale, dopo la parentesi ventennale, egli riprendeva la gestione del suo patrimonio terriero, che coltivava da conduttore “moderno”, recandosi in campagna alla guida di una jeep. Negli anni Settanta, inoltre, egli aveva contribuito, insieme con altri piccoli e medi proprietari, alla modernizzazione degli strumenti produttivi. Egli fu, infatti, nel maggio 1978, tra i soci fondatori della Cooperativa Olearia Sardegna Centrale, di cui fu a lungo Vice-Presidente e membro del Consiglio di Amministrazione, che impiantò il moderno frantoio per la macinazione delle olive nella pianura de Sa Tanca ’e sa Idda, a sud dell’abitato di Bolotana, all’interno del Piano Comunale per gli Insediamenti Produttivi[11]. Secondo la testimonianza dei familiari, egli continuò ad occuparsi personalmente della conduzione dei suoi poderi fino all’età di 94 anni.

In tutti gli anni da lui trascorsi a Bolotana Nico Motzo non mise mai da parte una delle sue grandi passioni: la caccia. Fu uno dei soci fondatori dell’Associazione Cacciatori e uno dei promotori della Riserva autogestita “Sas Costas”. Soprattutto, dai primi anni Sessanta al 1994, egli fu il capo-caccia indiscusso, ammirato e universalmente rispettato. Autorevole, esperto, prudente lo ricorda Vittorio Fiori, suo successore in tale carica[12]. Di una meticolosità ammirevole, redigeva un diario delle battute di caccia, in particolare di quelle di caccia grossa. Abile maestro e fine conoscitore del carattere di ciascun collega e dotato di grande autorevolezza e capacità, lo ricorda il suo vice Ottavio Nieddu. Viene tratteggiata, nei ricordi dei colleghi dell’Associazione Cacciatori di Bolotana, la particolare fisionomia del personaggio: il carattere ardimentoso, prudente e ragionatore, che aveva fatto di lui, nell’esperienza di vita militare e partigiana in Grecia, un leader naturale, molto cosciente delle sue capacità. Questi talenti, tuttavia, egli ha sempre saputo usare con discrezione nella sua vita trascorsa nella piccola comunità locale, nella quale egli s’immedesimava, riconoscendosi nelle regole e nella semplicità di una vita normale. Appunto un uomo insieme particolare e normale. (5. Continua)


[1] Ibidem.

[2] Ivi, p. 179.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p.

[5] Ivi, p. 180.

[6] Ivi, p. 187.

[7] Ivi, p. 189.

[8] Ibidem.

[9] Comunicazione della figlia Brunella Motzo allo scrivente in data 3 agosto 2015. Il generale di origine sassarese Cesare Simula fu per quindici anni dirigente dell’Istituto del Nastro Azzurro, fondato a Roma nel 1952, e per sette anni, dal 2000 al 20007, direttore del periodico “Il Nastro Azzurro”.

[10] Negli usi agro-pastorali locali la figura del “pastore” (su pastore) non è da confondere con il “servo pastore” (su teraccu), che è persona a totale dipendenza del proprietario del gregge, presso il quale aveva lo status del “servo”, come prestatore d’opera, che doveva stare sempre presso il gregge, senza alcuna compartecipazione agli utili. Il “pastore”, invece, oltre a contribuire alla conduzione del gregge con strumenti propri, si alternava in esso “a chida”, come si dice nel linguaggio pastorale locale, ossia si alternava con altro collega “pastore” nell’arco delle settimane, dedicandosi nelle settimane libere alla cura della piccola azienda domestica. Ciò spiega perché i “pastori” con contratto di “Mezzadria” con i proprietari del gregge fossero in genere due.

[11] Gli altri soci fondatori della Cooperativa Olearia furono i signori Pietrino Salvietti (Presidente), Italo Bussa, Bachisio Delitala, Bachisio Giuseppe Scarpa, Franco Corrias, Salvatore Ninniri, Mariano Scarpa, Bachisio Pireddu, Giovanni Andrea Sanna, Francesco Latte, Bachisio Mulas.

[12] Le notizie e le interviste dei cacciatori qui riportate sono dovute a Beniamino Piras, che ancora una volta ringraziamo.

 

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